Appalti e sicurezza una bussola fra le regole

Conoscere il perimetro normativo per operare secondo la legge

Coordinamento, cooperazione, oneri, responsabilità sociale non sono più solo citazioni, bensì un apparato complesso, di cui le parti contrattualmente coinvolte devono tenere in considerazione. Obiettivo? Eseguire quanto sancito dagli accordi. Con l’attenzione puntata su organizzazione e prevenzione infortuni

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio), occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.

Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).

In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».

La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.
Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;

b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;

d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;

e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;

f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;

g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;

b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse -.
Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).

Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici deilavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.

Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.

Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio),
occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.
Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).
In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 8).

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».
La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.

Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;
b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;
d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;
e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;
f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;
g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;
b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse –

Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).
Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici dei lavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto – rif. punto 4.1.2. – secondo le indicazioni dell’allegato XV punto 4. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.
Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.
Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Conclusioni

Nella quotidianità degli operatori della sanità pubblica i contratti di appalto determinano oggi una interazione sempre più ingente e costante con i lavoratori di imprese che erogano forniture, servizi e lavori, spesso in modo integrato. All’interno delle procedure sulle quali si fonda l’organizzazione sanitaria, molteplici sono le regole finalizzate alla gestione dei compiti in materia di salute e sicurezza connessi ai contratti d’appalto, d’opera e di somministrazione negli ospedali. Coordinamento, cooperazione, oneri della sicurezza, responsabilità sociale non sono più solo citazioni bensì complesso sostrato dei dirigenti delle varie parti contrattualmente coinvolte che si incontrano per conoscersi, valutarsi ed eseguire quanto sancito dagli accordi contrattuali. In tal senso gli ospedali pubblici, complici le amministrazioni regionali che li accreditano e finanziano, stanno comprendendo l’opportunità irrinunciabile di creare, per i singoli procedimenti di affidamento delle forniture al mercato economico, sinergie fra i soggetti a vario titolo obbligati. È così che il dirigente che gestisce il contratto dal punto di vista amministrativo e il responsabile del servizio prevenzione e protezione dialogano – e devono dialogare assieme – con gli altri ruoli della sicurezza ospedalieri e delle imprese, contribuendo con le rispettive professionalità a determinare nei luoghi di lavoro ospedalieri livelli di sicurezza altrimenti non raggiungibili.

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Formazione alla sicurezza si può fare di meglio

Una proposta che parte dal Documento di Valutazione dei Rischi per essere più vicini alle esigenze dei lavoratori

 

Una legislazione divenuta corposa con l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 stabilisce una regola poco consona alla moltitudine di diversità organizzative esistenti, attraverso la sommaria suddivisione delle aziende in tre gruppi di rischio. E divenendo inefficace anche ai fini della gestione di quanto definito nel documento di valutazione

 

La sicurezza sul lavoro, relativamente all’obbligo di informazione, formazione e addestramento, fin dal 1955, con il punto b. dell’unico comma dell’articolo 4 del D.P.R. 547 del 27 aprile 1955 ha posto, fra gli obblighi del datore di lavoro (nonché dei dirigenti e dei preposti, forse troppo genericamente) l’obbligo di “rendere edotti i lavoratori”.
La locuzione “rendere edotti” è stata posta, pertanto, fra i tre capisaldi del comportamento virtuoso per la gestione della sicurezza di un datore di lavoro. Con l’approvazione del D.Lgs. 626 del 19 settembre 1994, questo approccio è stato confermato e sono stati introdotti due articoli, che specificavano le modalità di gestione della informazione (art. 21) e della formazione (art. 22). Inoltre, il D.Lgs. n .626/1994 conteneva specifici articoli, che richiedevano l’obbligo della formazione e informazione per quasi ognuna (mancava quella relativa ai Dpi e ai campi elettromagnetici) delle tipologie di rischi trattati:

  • art. 37 – Informazione (per uso delle attrezzature di lavoro);
  • art. 38 – Formazione ed addestramento (per uso delle attrezzature di lavoro);
  • art. 49 – Informazione e formazione (per movimentazione manuale dei carichi);
  • art. 49-nonies – Informazione e formazione dei lavoratori (per protezione da agenti fisici);
  • art. 56 – Informazione e formazione (per uso di attrezzature munite di videoterminali);
  • art. 59-terdecies. – Informazione dei lavoratori (per protezione da esposizione ad amianto);
  • art. 59-quaterdecies. – Formazione dei lavoratori (per protezione da esposizione ad amianto);
  • art. 66 – Informazione e formazione (per protezione da agenti cancerogeni);
  • art. 60-octies – Informazione e formazione (per protezione da agenti chimici);
  • art. 85 – Informazione e formazione (per protezione da agenti biologici).

Tuttavia, nelle aule di formazione sulla sicurezza dell’epoca, si soleva definire “informazione” un’attività di comunicazione “monodirezionale” finalizzata a trasmettere un contenuto (ad esempio, opuscoli informativi, poster, video, manuali di istruzione ecc.), mentre la “formazione” una attività di comunicazione “bidirezionale” ovvero finalizzata a ottenere un comunicazione di ritorno da parte del ricevente pressoché contemporanea (riunioni, conferenze ecc.).
Con il D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008, finalmente, sono state introdotte, all’articolo 2 commi aa), bb), cc), le definizioni di:

  • aa) «formazione»: processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi;
  • bb) «informazione»: complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili all’identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro;
  • cc) «addestramento»: complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro.

Inoltre, nel D.Lgs. 81/2008, all’articolo 33 è stata introdotta, fra i compiti del servizio di prevenzione e protezione, la necessità di specificare una proposta di informazione e formazione dei lavoratori, presumibilmente in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione di cui all’articolo 17 dello stesso decreto, nonché di fornire (inteso come “elaborare”) le informazioni di cui all’articolo 36 dello stesso decreto, sempre presumibilmente in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione di cui all’articolo 17. Fortemente innovativi sono stati i due articoli 36 e 37, con i quali sono state introdotte specifiche modalità per rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici, suddividendo la previsione di questo obbligo nelle due fattispecie della “informazione” (art. 36) e della “formazione” (art. 37).
Per quanto riguarda l’obbligo di informazione, nell’articolo 36, era stato esplicitato dettagliatamente che l’informazione ai lavoratori dovesse riguardare alcuni contenuti minimi “formali” (rischi per la salute e sicurezza connessi all’attività dell’impresa, procedure di emergenza, nominativi degli addetti alle emergenze, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente). Successivamente, al comma 2 dello stesso articolo 36, sono stati esplicitati meglio alcuni contenuti minimi legati all’attività svolta (rischi specifici, normative di sicurezza e disposizioni aziendali in materia, pericoli connessi all’uso delle sostanze e delle miscele pericolose, misure di protezione e prevenzione adottate). Mentre, per quanto riguarda la formazione, all’articolo 37, era stato esplicitato genericamente che la formazione ai lavoratori dovesse essere “sufficiente e adeguata” alle necessità aziendali, sulla gestione della sicurezza e salute (in termini di organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) e sui rischi e sulle misure di prevenzione e protezione conseguenti, rinviando a un successivo provvedimento legislativo la definizione di durata e contenuti minimi e di modalità di erogazione della formazione.

Dal comma 3 dell’articolo 37 in poi vengono “snocciolate” (in una maniera fin troppo caotica) tutta una serie di disposizioni su:

  • introduzione del concetto di addestramento;
  • occasione in cui deve avvenire la formazione e l’addestramento;
  • ripetizione della formazione;
  • criteri di formazione di dirigenti e preposti (ex lett. d) ed e) dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2008;
  • obbligo di formazione e (generico) aggiornamento degli addetti alle emergenze;
  • formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;
  • collaborazione degli organismi paritetici;
  • comprensibilità dei contenuti della formazione;
  • libretto formativo del cittadino.

Inoltre, ancora il D.Lgs. 81/2008 ha ampliato il numero degli specifici articoli che richiedono l’obbligo della formazione e informazione per quasi ognuna delle fattispecie di rischio:

  • art. 73 – Informazione, formazione e addestramento (contro i rischi da uso di attrezzature di lavoro);
  • art. 77 comma 4 e 5 – Obblighi del datore di lavoro (sulla formazione e l’addestramento all’uso dei Dpi);
  • art. 136 comma 6, 7 e 8 – (formazione e addestramento per il montaggio e smontaggio di ponteggi sulla base dell’allegato XXI);
  • art. 145 comma 1 – (formazione per il disarmo delle armature);
  • art. 164 – Informazione e formazione (sulla segnaletica di sicurezza);
  • art. 169 – Informazione, formazione e addestramento (sulla movimentazione manuale dei carichi);
  • art. 177 – Informazione e formazione (per uso di videoterminali);
  • art. 184 – Informazione e formazione dei lavoratori (per esposizione ad agenti fisici – rumore e vibrazioni);
  • art. 195 – Informazione e formazione dei lavoratori (su rischi da esposizione a rumore);
  • art. 203 comma 1 lettera f) – Misure di prevenzione e protezione (su rischi da esposizione a vibrazioni);
  • art. 227 – Informazione e formazione per i lavoratori (per esposizione ad agenti chimici);
  • art. 239 – Informazione e formazione (per esposizione ad agenti cancerogeni);
  • art. 258 – Formazione dei lavoratori (per esposizione ad amianto);
  • art. 278 – Informazioni e formazione (per esposizione ad agenti biologici);
  • art. 286-sexies comma 1 – Misure di prevenzione specifiche (formazione sull’uso dei dispositivi medici taglienti);
  • art. 294-bis – Informazione e formazione dei lavoratori (sul rischio esplosione).La situazione attuale

Solo il 21 dicembre 2011, dopo lunghe operazioni preparatorie, ha visto la luce l’accordo tra i ministri del Lavoro e della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la formazione dei lavoratori, annunciato dal comma 2 dell’articolo 37 del D.Lgs. 81/2008. Questo accordo ha decliato l’argomento nei seguenti capitoli:

  • requisiti dei docenti;
  • organizzazione della formazione;
  • metodologia di insegnamento/apprendimento;
  • articolazione del percorso formativo dei lavoratori e dei soggetti di cui all’art. 21, comma 1 del D.Lgs. 81/2008;
  • formazione particolare aggiuntiva per il preposto;
  • formazione dei dirigenti;
  • attestati;
  • crediti formativi;
  • aggiornamento;
  • disposizioni transitorie;
  • riconoscimento della formazione pregressa;
  • aggiornamento dell’accordo.

Il problema su cui è interessante soffermare l’attenzione è al punto 4 dell’accordo, nel quale, prendendo a riferimento i settori Ateco viene introdotta una classificazione delle attività in tre macroaree, in relazione a tre classi di rischio (appositamente coniate: basso, medio alto) e viene stabilito un numero di ore di formazione minimo, costituito da una “formazione generica” di quattro ore, comune per tutte le classi di rischio e una “formazione specifica” di quattro ore oppure otto oppure 16 ore, secondo l’appartenenza della attività a una classe di rischio bassa o media o alta, «in funzione dei rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda» di cui ai titoli del D.Lgs. 81/2008. Da qui la “bagarre” fra gli interpreti circa l’applicazione in quanto nell’accordo, non essendo stati posti i contenuti e le durate della formazione strettamente posti in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione, di cui all’art. 17 del D.Lgs. 81/2008, il modello di gestione della formazione “minima” da erogare ai lavoratori appare di genericità estrema e largamente carente a perseguire l’obiettivo primario: la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, soprattutto in quelle aziende con una numerosità e gravità dei singoli rischi particolarmente importante. Infatti, la maggior parte dei documenti di valutazione nemmeno contiene il capitolo riguardante l’indicazione della informazione e formazione dei lavoratori (la cui proposta, peraltro, risulta essere un obbligo per il Rspp, ai sensi dell’articolo 33 comma 1 lettera d) oppure vengono previsti generici contenuti slegati dai rischi individuati nello stesso documento e dalla loro gravità. È appena il caso di ricordare, ma non commentare, che successivamente si assistette a un fiorire di ulteriori provvedimenti e interventi riguardanti la formazione sulla sicurezza sul lavoro, contribuendo a chiarire o forse a complicare:

  • circolare 13/2012 del 05/06/2012 – Nozione organismi paritetici nel settore edile – Soggetti legittimati all’attività formativa;
  • decreto interministeriale 6 marzo 2013 – Criteri di qualificazione della figura del formatore per la salute e sicurezza sul lavoro;
  • decreto interministeriale 27 marzo 2013
    – Semplificazione in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo;
  • interpello n. 10/2013 del 24 ottobre 2013
    – Formazione addetti emergenze;
  • interpello n. 11/2013 del 24 ottobre 2013
    – Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011;
  • interpello n. 13/2013 del 24 ottobre 2013
    – Lavoro a domicilio;
  • circolare del 27 novembre 2013 prot. 37/0020791/MA008.A001 – Nozione di “trasferimento” ex art. 37, comma 4, lett. b), D.Lgs. 81/2008;
  • interpello n. 18/2013 del 20 dicembre 2013 – Obbligo di formazione, ai sensi dell’art. 37, dei lavoratori che svolgono funzioni di Rspp;
  • interpello n. 12/2014 del 11 luglio 2014
    – Formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, verifica finale dei corsi erogati in modalità e-learning;
  • interpello n. 4/2015 del 24 giugno 2015
    – Formazione e valutazione dei rischi per singole mansioni ricomprese tra le attività di una medesima figura professionale; 
  • interpello n. 13/2015 del 29 dicembre 2015 – Esonero del medico competente dalla partecipazione ai corsi di formazione per i lavoratori;
  • interpello n. 4/2016 del 21 marzo 2016
    – Formazione specifica dei lavoratori;
  • interpello n. 19/2016 del 25 ottobre 2016
    – Obbligo di designazione e relativa informazione e formazione degli addetti al primo soccorso.

La proposta

È necessario un caposaldo irrinunciabile: il fabbisogno formativo per la sicurezza dei lavoratori dovrebbe derivare dalla tipologia dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro cui vanno incontro nello svolgimento della loro attività lavorativa. Questi rischi non possono che essere individuati e descritti nel documento di valutazione di cui all’art. 17 del D.Lgs. 81/2008. Conseguentemente, fra le misure di prevenzione e protezione (o in un capitolo apposito) in esso contenute, dovrebbe essere definiti sia il tipo di informazione da praticare che il tipo e il quantitativo di formazione da erogare per ogni tipologia di rischio individuata e valutata per le varie fattispecie di attività lavorativa o le varie mansioni individuate. L’esempio di questa procedura potrebbe prevedere le seguenti fasi:

  • fase 1: individuazione dei rischi generici e dei rischi specifici per le varie mansioni;
  • fase 2: per ogni tipologia di rischio individuato, definizione della specifica formazione e della sua durata

Ovviamente la quantità delle ore risulta essere funzione del grado di rischio individuato (in precedenti fasi della valutazione).
Nel caso dei rischi organizzativi dei dirigenti e preposti, si è voluto rimanere conformi al dettato dell’accordo Stato-Regioni.
Mentre nel caso dell’aggiornamento obbligatorio, si è rimodulata la periodicità senza definire di più, ma è possibile definire un quantitativo di aggiornamento per ogni specifica fattispecie di rischio individuato. Il tutto a totale discrezione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale dovrebbe istituzionalmente possedere la competenza e la conoscenza idonee a potere definire il piano di gestione della formazione per la specifica azienda. Analogamente, si potrebbe procedere per la gestione dell’informazione, per la quale il Rspp, come recita la lettera f) del comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. 81/2008, avrebbe addirittura l’obbligo fornire le informazioni necessarie.
Per completezza dovrebbe essere pianificato anche il tipo di addestramento a cui dovrebbe essere sottoposto il personale.

Conclusioni
La proposta nasce dalla constatazione della necessità di una più coerente modalità di organizzazione della informazione e formazione per la sicurezza e salute sul lavoro, in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione, di cui all’art.17 del D.Lgs. 81/2008 aziendale.
Infatti, normalmente, l’attuale modalità viene improntata sul modello fornito dall’accordo Stato- Regioni del 21 dicembre 2011, che definisce la formazione per la sicurezza e salute sul lavoro in relazione semplicemente a una generica classe di appartenenza dell’azienda, limitandone l’estensione della durata al massimo a 12 ore, anche nei casi in cui i rischi presenti consiglierebbero maggiore approfondimento. Nulla impedisce che ogni Rspp, all’interno del documento di valutazione possa estendere la “proposta” di informazione e formazione (obbligatoria in base alla lettera d del comma 1 dell’art.1 del D.Lgs. 81/2008), rendendola più correlata con i rischi che ha individuato nella specifica azienda, ottenendo così una maggiore “copertura” sia delle esigenze di sicurezza del lavoratore nello svolgimento delle sue attività lavorative sia delle garanzie di sicurezza del datore di lavoro verso i lavoratori impiegati nelle proprie attività.

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Rappresentante sicurezza l’accesso al Documento di Valutazione dei Rischi (DVR)

Analisi dei profili responsabilità tra legislazione e giurisprudenza

L’articolo 18, lettera o) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 stabilisce espressamente che le informazioni debbano essere consultate esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali

In materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro una funzione fondamentale, seppur meramente di carattere consultivo-propositivo, è svolta dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls).

Questa figura di rappresentanza, istituita con il D.Lgs. n. 626/1994 e confermata con il successivo D.Lgs. n. 81/2008, è manifestazione della logica partecipativa introdotta con queste normative, che vede i lavoratori e i loro rappresentanti quali figure attive nell’elaborazione della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Di seguito è analizzato un diritto riconosciuto in capo al Rls per l’esercizio delle sue funzioni, ossia quello di ricevere copia del documento di valutazione dei rischi (Dvr); in particolare, viene affrontato il tema non solo in riferimento al settore privato, ma anche, punto forse ancor più controverso, al settore del pubblico impiego.

Nel corso degli anni vi sono stati sostanzialmente due interventi legislativi di particolare rilevanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il D.Lgs. n. 626/1994, prima, e il D. Lgs. n. 81/2008, poi, ai quali sono state apportate delle modifiche2 che hanno interessato proprio il diritto in questione, con un susseguirsi di relative interpretazioni.

Questioni applicative
Dal D.Lgs. n. 626/1994 alla legge n. 123/2007

Problemi interpretativi e applicativi sono stati sollevati sin dall’introduzione del D.Lgs. n. 626/1994 laddove all’art. 19, comma 5, si stabiliva, nella formulazione originaria, che il rappresentante dei lavoratori avesse «accesso, per l’espletamento della sua funzione», al documento di valutazione dei rischi. Nulla, tuttavia, era detto specificamente circa le modalità con cui poteva avvenire questo accesso, lasciando così aperta la strada a contrasti circa la corretta osservanza della disposizione.
È in questo contesto normativo che si colloca la sentenza della corte d’Appello di Brescia del 27 ottobre 20073. La vicenda nasceva da un decreto ingiuntivo richiesto dal Rls di un’azienda il quale lamentava di aver fatto richiesta di rilascio di copia del Dvr ottenendo, tuttavia, risposta negativa da parte del datore di lavoro.
Il giudice del lavoro accoglieva il ricorso per decreto ingiuntivo e l’azienda proponeva opposizione sostenendo che in capo al rappresentante dei lavoratori fosse riconosciuto solamente un diritto di accesso al documento, che si esplica nella presa in visione presso la sede dell’azienda stessa, senza alcuna prerogativa di portare fuori dai locali la documentazione in parola. Il tribunale di Brescia, con la sentenza 4 ottobre 2006, n. 729, respingeva questa opposizione rilevando che il Rls riceve il – non avendo solamente accesso al – documento di valutazione dei rischi, in base a quanto disposto dall’art. 19, comma 1, lettera e), D.Lgs. n. 626/1994. Peraltro, questa interpretazione era già stata sostenuta dalle circolari ministeriali del 2000 nonché dalla giurisprudenza di merito La società, quindi, presentava ricorso avverso il rigetto dell’opposizione, lamentando che la divulgazione del documento avrebbe cagionato nocumento all’azienda, ritenendo giustificato, sulla base di ciò, il diniego opposto alla richiesta del Rls di ricevere copia del documento, nonché affermando che, all’interno della sede, erano stati predisposti locali adeguati per la consultazione e l’esame del Dvr.
Nelle more del giudizio interveniva la legge n. 123/2007 che ha modificato il comma 5 dell’art. 19, riconoscendo in capo al datore un vero e proprio dovere di consegna di copia del documento.

L’art 3, lettera e), legge n. 123/2007, infatti, prevede che «[…] all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente: 5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4, comma 5, lettera o)».

La Corte d’appello di Brescia, alla luce di questo intervento normativo, affermava che: «L’art. 3, lettera e), legge n. 123/2007, che ha modificato l’art. 19, comma V, D. Lgs. n. 626/1994, prevedendo l’obbligo del datore di lavoro di consegnare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza copia del documento di valutazione del rischio e del registro infortuni, rappresenta norma innovativa unicamente per quanto attiene al registro infortuni, in quanto il diritto a ricevere copia del documento di valutazione del rischio era già previsto dalla lettera e) dello stesso art. 19».
La Corte concludeva, pertanto, che il Rls avesse non solo il diritto di ricevere copia del documento, peraltro già consolidato in passato secondo i giudici, ma anche di portarlo fuori dall’azienda, poiché, in caso contrario, si vanificherebbe il diritto stesso a possedere una copia e si trasformerebbe in una mera consultazione.

Dal D.Lgs. n. 81/2008 al D.Lgs. n. 106/2009

Con l’avvento del D.Lgs. n. 81/2008 è stato sancito in modo inequivocabile l’obbligo per il datore di lavoro di consegnare materialmente il documento di valutazione dei rischi al Rls. L’art. 18, comma 1, lettera o), infatti, nella sua formulazione originaria (ossia prima della modifica del D.Lgs. correttivo n. 106/2009) prevedeva che il datore di lavoro dovesse «consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r)», rendendo, in questo modo, illegittima e antisindacale qualunque condotta del datore di lavoro ostativa alla consegna. A ulteriore consolidamento della sussistenza del diritto del Rls di ricevere copia del documento in questione, vi è l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il quale disciplina le attribuzioni di questa figura. Infatti, da un lato la lettera e) del comma 1, dall’altro il comma 4 dell’articolo, affermano che il Rls, su sua richiesta e per l’esercizio delle proprie funzioni, debba ricevere le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le relative misure di prevenzione. La mancanza di formalità circa le modalità di consegna del documento ha dato luogo a incertezze riguardo quando possa dirsi adempiuto il relativo obbligo. Tra i tanti, è interessante analizzare un interpello sollevato da Confcommercio con il quale è stato richiesto un parere alla direzione generale per l’attività ispettiva – presso il ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali – in merito alla possibilità di consegna al Rls del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico. Nel caso prospettato ci si è chiesti se la consegna di un videoterminale connesso con la rete aziendale contenente il Dvr, consultabile all’interno dei locali della società, possa costituire assolvimento dell’obbligo ex art. 18, comma1, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008. Il ministero del Lavoro ha risposto sostenendo che, non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’obbligo a carico del datore può dirsi adempiuto tramite consegna su supporto informatico, anche se utilizzabile solamente su terminale messo a disposizione all’interno dell’azienda. In questo modo, conclude il Ministero, non vi è alcun pregiudizio all’effettivo svolgimento delle funzioni da parte del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, fermo restando, peraltro, il diritto dello stesso di scegliere la forma ritenuta da esso più agevole.
L’interpretazione fornita dalla direzione generale per l’attività ispettiva ha presto incontrato critiche, soprattutto per due motivi:

  • da un lato, questa soluzione risulterebbe inapplicabile al Rls territoriale8, rispetto al quale non può ritenersi ragionevole l’accesso al Dvr solamente nei locali aziendali – considerato che opera su un territorio e quindi su una pluralità di aziende – a meno che non lo si voglia trattenere in azienda, né sarebbe logico prevedere un trattamento differenziato per le due forme di rappresentanti per la sicurezza (aziendale e territoriale);
  • dall’altro lato, invece, viene censurato il riferimento all’art. 53, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 5 dispone che «Tutta la documentazione rilevante in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e tutela delle condizioni di lavoro può essere tenuta su unico supporto cartaceo o informatico».

Rispetto quest’ultimo aspetto, la critica sostiene sia vero che la documentazione in materia, quindi compreso il Dvr, possa essere tenuta in forma elettronica, tuttavia, come precisa la lettera e) della medesima norma, a condizione che “sia possibile riprodurre su supporti a stampa, sulla base dei singoli documenti, ove previsti dal presente decreto legislativo, le informazioni contenute nei supporti di memoria». Ciò significa che se non è consentita la stampa cartacea del documento, la mera messa a disposizione su supporto informatico non può considerarsi legittima.
Il 3 agosto 2009 è stato emanato il D.Lgs. n. 106/2009, correttivo del precedente D.Lgs.n. 81/2008. In particolare, l’art. 13, comma 1, lettera c) del suddetto decreto è intervenuto modificando la lettera o) dell’art. 18, facendo propria l’interpretazione fornita dal ministero del Lavoro nell’interpello sopra riportato. In particolare, il D.Lgs. n. 106/2009 aggiunge alla norma originaria due precisazioni, ovvero che il documento:

  • possa essere consegnato «anche su supporto informatico come previsto dall’art. 53, comma 5»;
  • sia «consultato esclusivamente in azienda ».

Quest’ultimo inciso ha posto una limitazione alla consultazione del Dvr e, di conseguenza, ha sollevato problemi e dibattiti sul piano applicativo. L’interrogativo posto a seguito di questo modifica è se il Rls possa o meno portare il documento fuori dai locali dell’azienda, anche al fine di disporre di maggior tempo per la consultazione ed eventualmente farsi assistere da soggetti esperti esterni; d’altra parte, si tratta di un documento aziendale che, ex art. 29, comma 4 del D. Lgs. n. 81/2008, deve essere custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce. Se la finalità della norma è quella di permettere al Rls un’analisi approfondita del documento, si sostiene debbano essergli garantiti tutto il tempo e l’assistenza che esso riterrà necessari.
Tuttavia, preme evidenziare che la Carta costituzionale, all’art. 41, sancisce il principio della libertà imprenditoriale, alla luce del quale si può riconoscere al datore di lavoro anche la facoltà, qualora lo ritenga, di consentire che il Dvr sia consultato anche fuori dalla sede aziendale.
Successivamente all’intervento del D.Lgs. n. 106/2009, riguardo il diritto di accesso del Rls al Dvr si è espressa la giurisprudenza di merito. In particolare, si è pronunciato il tribunale di Milano, a seguito di un’opposizione a decreto ingiuntivo con cui era stato ordinato alla società datrice di lavoro di consegnare il documento di valutazione dei rischi al rappresentante dei lavoratori dell’azienda. In questa occasione, il tribunale ha posto l’attenzione sulle formalità di consegna, rilevando che l’inciso introdotto dal correttivo di consultare il documento solo in azienda non ha, in alcun modo, pregiudicato il relativo diritto del Rls. Confermando il decreto ingiuntivo, i giudici milanesi, in premessa, hanno affermato l’incontrovertibilità dell’obbligo del datore di consegnare copia del Dvr, passaggio che implica la materiale disponibilità e conseguente ricezione da parte del Rls, sia in forma cartacea che su supporto informatico. La scelta circa la forma in cui ottenere la copia non può che spettare al Rls stesso, il quale ha diritto di ricevere il documento nella modalità per esso preferibile ai fini della consultazione. Quindi, il giudice milanese ha affermato che «l’obbligo di consegna si attua mediante la ricezione di una res e non può essere obliterato attraverso la semplice messa a disposizione o consultazione di un documento solo su supporto informatico e su computer aziendale, alla luce delle importanti, ma soprattutto delle fattive prerogative riconosciute dalla legge al RLS, che presuppongono una analitica e approfondita conoscenza del documento in parola».

In conclusione, il tribunale asserisce che il correttivo operato con l’art. 13, D.Lgs. n. 106/2009 non ha, in alcun modo, limitato le prerogative del Rls, essendo intervenuto solamente sulle modalità di consultazione, esclusa al di fuori dei locali aziendali, e non sul relativo diritto. Insomma, l’inciso aggiunto ha reso meno agevole la fruibilità del documento, ma senza toccare il contenuto e la portata del diritto. Il giudice ha evidenziato anche che il datore di lavoro deve permettere al Rls di svolgere la propria funzione di controllo e salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, consentendogli di consultare il Dvr per tutto il tempo ritenuto necessario, tenuto conto dell’eventuale tecnicità e complessità dello stesso. Tutto ciò, peraltro, restando i relativi costi a carico dell’azienda, secondo quanto si evince anche dall’art. 15, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008, ai sensi del quale «le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori».
Nello stesso senso si esprime anche la normativa, la quale riconosce che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza debba poter disporre del tempo necessario allo svolgimento del proprio incarico senza perdita di retribuzione.
Merita, infine, di essere evidenziato che al diritto di ricevere il documento di valutazione dei rischi da parte del Rls, corrisponde un dovere dello stesso a non divulgare informazioni riservate in esso contenute, dichiarando di utilizzarlo esclusivamente ai fini di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori che rappresenta. A questo riguardo, si richiama il D.Lgs. n. 25/2007, di attuazione della direttiva 2002/14/Ce (istitutiva di un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), il cui art. 5 – rubricato «Informazioni riservate» – impone l’obbligo di riservatezza in capo non solo ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma anche agli esperti di cui questi eventualmente si avvalgano. Inoltre, al comma 2, riconosce un’eccezione al dovere di consegna del documento, un’ipotesi di particolare tutela del datore di lavoro, il quale «non è obbligato a procedere a consultazioni o a comunicare informazioni che, per comprovate esigenzetecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o da arrecarle danno». Al fine di individuare queste ipotesi eccezionali, il successivo comma 3 rimanda alla contrattazione collettiva il compito di costituire una commissione di conciliazione che definisca le controversie riguardanti la natura riservata o meno delle notizie che il datore di lavoro affermi essere tali, ovvero circa le esigenze tecniche, organizzative e produttive la cui divulgazione possa arrecare difficoltà o danno all’azienda.

Il Rlst: competenze e obblighi
Alcuni cenni merita la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (Rlst). Questo soggetto, ai sensi dell’art. 48, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, «esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui all’articolo 50 e i termini e con le modalità ivi previste con riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza». Pertanto, al Rlst sono riconosciute le stesse attribuzioni del Rls aziendale; in particolare, tra gli altri, ha diritto di accedere ai luoghi di lavoro, di ricevere le informazioni e la documentazione correlata alla valutazione dei rischi e alle relative misure di prevenzione, nonché di presentare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure adottate non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Rispetto a questa figura, la questione circa la possibilità o meno di portare il Dvr fuori dal perimetro aziendale ha suscitato discussioni sulla portata del dato normativo. Vi è stato, infatti, chi ha mosso critiche alla norma stessa nonché all’interpello del 2008, poiché la consultazione esclusiva nei locali della società non è agevole né logica nei confronti di questa figura, visto che essa ricopre la funzione di rappresentante per la sicurezza su un territorio e, quindi, per una pluralità di aziende.
La questione è stata affrontata16, sul piano della prassi operativa, in riferimento all’adempimento dell’obbligo di consultazione ex art. 50, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008; nello specifico, è stato richiesto un parere all’osservatorio Olympus circa l’assolvimento da parte del datore di lavoro del suddetto obbligo con il mero invio del documento di valutazione dei rischi all’organismo paritetico territoriale e la conseguente adesione del Rlst. L’organismo paritetico (Op), definito alla lettera ee) dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2008 e disciplinato all’art. 51 del medesimo decreto, è quel soggetto costituito a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che svolge attività di programmazione della formazione, di assistenza alle imprese per l’attuazione degli adempimenti in materia di salute e sicurezza e ogni altra funzione a esso attribuita dalla legge o dai contratti collettivi.
L’osservatorio Olympus, formulando una soluzione di natura operativa, asserisce che, concentrando la trasmissione della documentazione relativa alla valutazione dei rischi all’organismo paritetico, il Rlst viene messo nella condizione di essere adeguatamente consultato, peraltro secondo le modalità che esso riterrà più opportune; infatti, il rappresentante territoriale potrà decidere di accedere ai luoghi di lavoro e svolgere le funzioni attribuitegli dall’art. 50 alla pari del Rls, ovvero potrà ritenere sufficiente la consultazione in sede di organismo paritetico. Pertanto, conclude il parere, l’obbligo di consultazione si può ritenere assolto nel momento in cui il datore di lavoro invia la documentazione all’Op e il Rlst esprime la propria opinione dopo aver effettuato tutte le valutazioni del caso. In tema di consegna del Dvr al rappresentante territoriale, interessante è anche l’accordo interconfederale Confapi/Cgil-Cisl-Uil 20 settembre 2011 sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità, il quale richiama la normativa in materia.
Infatti, l’accordo, nella parte II, art. 9, comma 2, disciplina le attribuzioni del Rlst, con particolare riferimento a quelle riconosciute ex art. 50, lettere e) ed f), D.Lgs. n. 81/2008, affermando espressamente che «al rappresentante verranno fornite le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, le informazioni relative agli infortuni e alle malattie professionali» e che «Il RLST riceve copia del documento di valutazione dei rischi e del DUVRI e ogni loro modificazione».
Alla luce di quanto sopra esposto, è condivisibile che l’obbligo del datore di lavoro di consegnare il documento in questione possa ritenersi assolto tramite la consegna dello stesso all’organismo paritetico. Ciò nonostante, va rilevato che la normativa non prevede alcuna eccezione per il Rlst a quanto stabilito dall’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 e, quindi, non c’è motivo per cui questa disposizione non debba valere anche rispetto questa figura. Anzi, il richiamo che l’art. 48, D.Lgs. n. 81/2008 opera a quanto stabilito per il Rls riguardo le competenze e le modalità di esercizio delle stesse, porta a ritenere che anche per il rappresentante territoriale debba trovare attuazione la medesima disciplina e, pertanto, la consultazione del Dvr può avvenire limitatamente all’interno dei locali aziendali. Più chiaramente, non essendoci deroghe espresse alla lettera o) dell’art. 18, la stessa si deve considerare applicabile anche al Rlst.

L’ambito delle pubbliche amministrazioni
Un tema di particolare interesse è quello relativo all’accesso alla documentazione in materia di salute e sicurezza negli ambienti del pubblico impiego. È, infatti, emerso come in questo ambito la disciplina prevista dal D. Lgs. n. 81/2008 tenda a scontrarsi con quanto stabilito dalla legge n. 241/1990 in materia di accesso agli atti, con incertezze giurisprudenziali su quale tra le due debba prevalere. Premessa fondamentale per affrontare la questione riguarda la natura dei documenti oggetto di disciplina da parte della legge n. 241/1990. L’art. 22, lettera d) della suddetta legge, come modificato dalla successiva legge n. 15/2015, definisce quale documento amministrativo «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
Il documento di valutazione dei rischi è un atto avente natura generale, finalizzato all’elaborazione di norme comportamentali, contenente la programmazione e la pianificazione della sicurezza all’interno dell’azienda, compresi i profili inerenti all’organizzazione amministrativa che esigono riservatezza. Per questo, l’accesso a tale documento è limitato espressamente alla sola figura del Rls. Pertanto, si sostiene che esso non possa, alla luce della definizione fornita dalla legge n. 241/1990, essere considerato documento amministrativo né atto interno endoprocedimentale e, quindi, non possa essere messo a disposizione di qualsiasi lavoratore.
Se, come sopra esposto, la posizione della dottrina circa il rapporto tra la disciplina di accesso agli atti e quella di accesso al documento di valutazione dei rischi risulta pacifica, la giurisprudenza al riguardo è molto più discordante.
La pronuncia del Tar Abruzzo (L’Aquila), sez. I, 12 luglio 2012, n. 467 ha accolto il ricorso di un lavoratore avverso il diniego di accesso «alla documentazione inerente il procedimento di verifica della valutazione del rischio amianto nel luogo di lavoro» opposto dall’istituto pubblico presso il quale prestava la propria attività. Il tribunale ha riconosciuto il diritto di accesso al documento da parte del lavoratore – e non solo al Rls come, invece, sostenuto dall’istituto – affermando che «la normativa sull’accesso ai documenti amministrativi riveste una portata generalizzata che non tollera inibizioni applicative in virtù di disposizioni speciali». Il giudice amministrativo, inoltre, ha tenuto a puntualizzare che la funzione del Rls non si sostanzia in una mera cognizione delle misure predisposte dal datore di lavoro, ma va ben oltre essa, avendo diritto a essere informato e consultato in ordine alla valutazione dei rischi, vedendo riconosciuto un autonomo potere propositivo. In conclusione è stato rilevato che «la legge 241/90 incide sulla diretta cognizione degli atti datoriali già formati, ma non deroga al ruolo istituzionale del RLS quale organo di rappresentanza dei lavoratori, chiamato comunque alla esclusiva e qualificata interlocuzione con il datore di lavoro, anche sulla scelta delle modalità mirate a garantire la sicurezza».
Posizione favorevole all’accesso al documento di valutazione dei rischi da parte del Rls è anche quella del Tar Lazio (Roma), sez. III, 13 dicembre 2012, n. 10390. La decisione ha preso avvio dall’istanza presentata da alcuni dipendenti di Poste italiane con la quale chiedevano l’estrazione di copia di alcuni documenti, tra cui il Dvr, richiesta rimasta priva di riscontro. La società resistente ha giustificato il silenzio- diniego sulla base del fatto che il documento contenga dati sensibili e riservati, non arbitrariamente divulgabili. Il tribunale romano ha accolto il ricorso asserendo che Poste italiane non può «limitare il diritto di accesso, essendo quegli stessi atti direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto dei ricorrenti», richiamando a sostegno di ciò il decreto del ministero delle Comunicazioni 24 agosto 1999, n. 211, relativo all’esclusione del diritto di accesso ai documenti di Poste italiane, tra i quali non risulta essere contemplato il documento di valutazione dei rischi. Infine, ha concluso il giudice, qualora la società ritenga necessario tutelare la riservatezza dei dati, questa esigenza potrebbe essere sufficientemente garantita anche solo tramite particolari accortezze circa le modalità di accesso.
Sul tema è intervenuta anche la sentenza del Tar Puglia (Bari), sez. III, 15 gennaio 2015, n. 56, adito per decidere una controversia sorta a seguito del permesso di accedere al Dvr riconosciuto da un dirigente scolastico a un organismo sindacale degli insegnanti. Questo accesso, però, era stato subordinato dal dirigente a due condizioni: la sussistenza di un’opportuna giustificazione ex art. 22, legge n. 241/1990 e la visione solamente presso l’ufficio di presidenza della scuola negli orari di apertura.
Il Tribunale ha affermato la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo al ricorrente, conseguentemente dichiarando l’illegittimità della subordinazione della consultazione del documento a una opportuna giustificazione del diritto affermato. Il giudice amministrativo, inoltre, ha asserito la assoluta mancanza di pertinenza del richiamo alla legislazione giuslavoristica, negando che possa, in qualche modo, prevalere sulla disciplina relativa all’accesso agli atti. Particolarità della decisione riguarda la modalità con cui deve essere garantita la consultazione; infatti, accogliendo il ricorso, il tribunale amministrativo ha condannato il dirigente scolastico a rilasciare copia informatica del Dvr inviandolo via pec alla ricorrente. Si tratta di una formalità che porta a una trasmissione del documento all’esterno dei locali scolastici, in violazione di quanto prescritto espressamente dall’art. 18, comma 1, lettera o), D. Lgs. n. 81/2008.
Di diverso avviso è la più recente sentenza del Tar Marche n. 506/2016. Nel caso discusso, una dipendente della direzione territoriale del lavoro di Ancona ha impugnato il diniego dell’amministrazione alla richiesta di estrarre copia del Dvr, motivato sulla base degli artt. 18 e 50, D.Lgs. n. 81/2008, dalla cui lettura si evince che l’accesso è consentito al solo rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Inoltre, l’amministrazione ha disconosciuto che il documento in questione possa considerarsi avente natura amministrativa e, pertanto, sarebbe sottratto dall’applicazione della legislazione sul procedimento amministrativo. In netta contrapposizione con le posizioni sovraesposte degli altri tribunali amministrativi, il giudice marchigiano ha asserito la specialità della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro rispetto quella più generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi.

In conseguenza di ciò ritiene che il solo Rls, fermi i limiti e divieti di cui al D.Lgs. n. 196/2003 (codice della privacy) e quelli relativi al segreto industriale, abbia diritto di ricevere copia del Dvr e che in questo modo siano adeguatamente tutelati gli interessi dei suoi rappresentati. Peraltro, si rileva come il Dvr abbia un contenuto tecnico che molto spesso è di difficile comprensione da parte dei lavoratori. Il Tar Marche ha confermato, infine, che quanto stabilito dal D.Lgs. n. 81/2008 si debba ritenere applicabile tanto al datore di lavoro pubblico quanto a quello privato e, di conseguenza, anche le pubbliche amministrazioni sono tenute all’osservanza delle prescrizioni in esso contenute.
Preso atto delle contrastanti posizioni giurisprudenziali, si può ritenere che la soluzione più idonea a risolvere il dibattito sia quella prospettata dal Tar Marche. Quanto sostenuto dagli altri giudici amministrativi, infatti, non può essere condiviso poiché si è in presenza di una disposizione [l’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008] che prevede espressamente e senza eccezioni le modalità di accesso al Dvr. Disposizione che è contenuta in una normativa speciale (il testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro) rispetto a quella in materia di accesso agli atti amministrativi e, perciò, su di essa prevalente. In conclusione, anche in materia di pubblico impiego deve valere quanto prescritto dal D.Lgs. n. 81/2008 e, di conseguenza, il documento di valutazione dei rischi è consultabile solamente da parte del Rls e soltanto all’interno dell’azienda.

Profili di responsabilità
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prescrive sanzioni direttamente in capo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (né aziendale né territoriale), in quanto, da una parte, si vuole evitare che i soggetti siano scoraggiati dall’assumere questo incarico, dall’altra perché la funzione da esso svolta è meramente consultiva, ciò implicando che la decisione finale – e la conseguente responsabilità – è sempre e comunque rimessa al datore di lavoro.
La giurisprudenza di Cassazione (sez. III penale, 2 marzo 2001, n. 20904), a sostegno di quanto sopra, ha escluso che il soggetto nominato come rappresentante per la sicurezza dei lavoratori debba rispondere, in quanto tale, delle misure di prevenzione da adottare. Con la sentenza n. 20904/2001 la Cassazione penale, peraltro confermando quanto sostenuto in primo grado dal tribunale di Lucera, chiarisce che il Rls «a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 626/1994, ha solo compiti di consulenza e di proposta in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, ma sempre nell’ambito dell’azienda o dell’amministrazione di appartenenza».
Questa figura non ha poteri decisionali né di spesa, dunque non possono ricadere su di essa quelle responsabilità derivanti da
obblighi di prevenzione collegati al riconoscimento ed esercizio dei suddetti poteri.
In tema di responsabilità merita poi di essere richiamato l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 7 stabilisce espressamente le ipotesi di incompatibilità della funzione di Rls, la quale non può essere svolta da quei soggetti che ricoprono l’incarico di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione. Ciò porta a ritenere che non vi siano altri compiti incompatibili con quello di Rls, che perciò potrebbe essere un lavoratore avente anche mansioni di responsabilità (ad esempio un capo turno, un capo reparto eccetera); in queste situazioni, quindi, può svolgere un ruolo non solo consultivo ma anche operativo e, pertanto, in forza del principio di effettività anch’esso potrà essere considerato responsabile dell’eventuale reato. Qualora il Rls aziendale non ricopra alcun ruolo particolare, esso è pur sempre un lavoratore come gli altri, per cui si applica quanto stabilito dall’art. 20, nei limiti della specifica formazione eventualmente ricevuta. Rispetto quest’ultima precisazione, infatti, il comma 10 dell’art. 37, D.Lgs. n. 81/2008 riconosce in capo al rappresentante il diritto a una formazione idonea ad assicurargli competenze adeguate circa le tecniche di controllo e prevenzione dei rischi specifici esistenti negli ambienti di lavoro ove svolge la propria funzione. Sarà, perciò, possibile esigere da parte sua una maggiore attenzione, valutazione e gestione dei rischi rispetto agli altri lavoratori, in base alla particolare formazione a esso fornita. Dal combinato disposto degli artt. 20 e 37 si evince che, ove i lavoratori – e quindi anche il Rls – abbiano ricevuto la formazione prevista, essi saranno perfettamente in grado di valutare e gestire in modo appropriato i rischi, limitando le conseguenze negative sul datore di lavoro. L’art. 20, infatti, se correttamente applicato, è idoneo a infrangere l’orientamento giurisprudenziale che pone in capo al datore di lavoro ogni responsabilità derivante dal controllo sui lavoratori. Altro elemento di rilievo è quello previsto dalla lettera e) del comma 2 dell’art. 20, il quale prescrive l’obbligo di immediata segnalazione al datore di lavoro di eventuali carenze o condizioni di pericolosità riscontrate. In caso di omessa osservanza di questa disposizione, anche il Rls potrà rispondere della relativa violazione; infatti, anch’esso deve adoperarsi attivamente al fine di eliminare o almeno ridurre al minimo la situazione di pericolo e, qualora ciò non avvenga, si determina l’insorgere di profili di responsabilità.
La violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008 è sanzionata, ai sensi dell’art. 59, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, «con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro per la violazione degli articoli 20, comma 2, lettere b), c), d), e), f), g), h) e i), e 43, comma 3, primo periodo (…)». Alla luce di quanto esposto, questa norma è applicabile anche a quel lavoratore che rivesta la particolare funzione di Rls. Preme però evidenziare che ne risponderà non in quanto soggetto che ricopre la suddetta qualifica, ma in quanto lavoratore dell’azienda.
La disciplina in materia di salute e sicurezza, come detto finora, non sanziona alcun comportamento del Rls in quanto tale.
L’unico divieto espressamente sancito è quello relativo al dovere di segretezza e riservatezza di quanto venga a conoscenza nell’esercizio della propria funzione e, in particolare, attraverso la consultazione del documento di valutazione dei rischi.
L’art. 50, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008, infatti, prevede che il rappresentante sia «tenuto al rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi e nel documento di valutazione dei rischi di cui all’ articolo 26, comma 3, nonché al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni». In base a questa norma, quindi, il Rls è obbligato al rispetto della disciplina in materia di privacy, concetto inteso non solo come diritto a un trattamento limitato e attento dei dati personali, ma anche come adozione in via cautelativa di misure tecniche ed organizzative poste a salvaguardia della riservatezza dei soggetti interessati.
L’attenzione posta dal legislatore a questi aspetti si rinviene anche nei limiti posti all’accesso al Dvr, quale quello di consultazione solo all’interno dei locali dell’azienda, poiché esso contiene una pluralità di elementi concernenti aspetti strettamente personali della vita privata dei lavoratori. Per quanto attiene, invece, ai processi lavorativi di cui viene a conoscenza nello svolgimento del proprio ruolo, in caso di violazione dei segreti che ne scaturiscono, il rappresentante può essere chiamato a risponderne in sede penale.
Possono, infatti, configurarsi le fattispecie di cui agli artt. 621, 622 e 623 del codice penale. Tuttavia, ai fini della sussistenza dei reati in questione, la giurisprudenza di Cassazione si è più volte espressa nel senso della necessità che la rivelazione di quanto conosciuto e oggetto del diritto alla segretezza abbia effettivamente procurato un pregiudizio giuridicamente rilevante alla società, costituendo questo elemento condizione di punibilità.
Si richiama, infine, la disciplina del D.Lgs. n. 25/2007, già trattata precedentemente29, che estende l’obbligo di riservatezza ai soggetti esperti di cui il rappresentante può eventualmente avvalersi nell’esercizio delle proprie funzioni e nella comprensione del documento di valutazione dei rischi. L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 5 del suddetto decreto sanziona espressamente la violazione del divieto prescritto di non divulgare informazioni riservate, rimandando alla contrattazione collettiva l’individuazione dei relativi provvedimenti disciplinari.

Conclusioni
Giurisprudenza e dottrina, nel corso degli anni, si sono dovute confrontare con un dato normativo per niente chiaro e tranchant come quello attuale elaborato dal D.Lgs. n. 81/2008. A oggi, infatti, non vi sono più dubbi circa il fatto che il Rls aziendale debba consultare il documento esclusivamente in azienda e ciò in quanto è la norma che espressamente lo prescrive. Per quanto concerne il rappresentante territoriale, si può qui ribadire che, non essendo stabilito alcunché di specifico, nonostante la particolarità di questa figura che opera per una pluralità di imprese, la soluzione deve essere la stessa prospetta ta per il Rls, valendo per il soggetto territoriale le medesime competenze e modalità di esercizio di quello aziendale.
La più controversa delle situazioni esaminate è probabilmente quella del pubblico impiego, poiché in questo ambito il diritto di consegna e consultazione del Dvr deve contemperarsi con il diritto di accesso agli atti secondo quanto stabilito dalla legge n. 241/1990. Tuttavia, come già rilevato in apposita sede, questo contrasto normativo deve essere risolto con l’applicazione del principio di specialità, in base al quale la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in quanto speciale, prevale sulla disciplina, più generale, relativa all’accesso agli atti amministrativi. In merito ai profili di responsabilità, si è detto che al Rls, svolgendo una funzione meramente consultiva, non sono attribuiti obblighi sanzionati in quanto ricoprente tale qualifica. Tutt’al più, qualora rivesta mansioni particolari (ad esempio capo reparto, capo turno eccetera), potrà essere considerato responsabile per gli specifici obblighi derivanti da questo differente funzione ovvero, qualora sia un normale lavoratore dell’azienda, sarà soggetto alla disciplina sanzionatoria prescritta in caso di violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008.
È, invece, espressamente richiesto al Rls l’osservanza della disciplina in materia di privacy nonché del segreto industriale, potendo, in caso di violazione di queste normative, incorrere in responsabilità anche penale.
È possibile comunque affermare che le varie tematiche sono state affrontate e risolte dal legislatore, tenendo conto del necessario bilanciamento dei diversi interessi in gioco:

  • da un lato vi è quello dei lavoratori, o meglio del Rls in loro rappresentanza, di accedere agli atti che riguardano i vari aspetti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, al fine di ottenerne una rigorosa osservanza in ambito aziendale;
  • dall’altro lato, invece, vi è l’interesse dei lavoratori non direttamente interessati, i quali hanno diritto a vedere tutelata e garantita la propria privacy, affinché non vengano abusivamente rese ostensibili e divulgate informazioni inerenti la loro vita privata;
  • dall’altro lato ancora, gli interessi del datore di lavoro. Questi ha diritto alla riservatezza e segretezza, in particolar modo per quanto attiene alla sfera professionale e industriale: la violazione di questi segreti può arrecare un ingente danno economico alle aziende coinvolte;
  • un ultimo interesse che rileva è quello di tutela pubblica. Non si deve, infatti, sottovalutare il fatto che la divulgazione di documenti segreti inerenti all’attività industriale possa ripercuotersi su tutta la collettività, per cui risulta fondamentale il rispetto della riservatezza; basti pensare al pericolo che potrebbe derivare, anche al fine di possibili attentati, dalla divulgazione di notizie e segreti dei siti industriali a rischio “Seveso”.

Per concludere, la soluzione al problema affrontato va risolta con il semplice richiamo alla lettera della norma, il quale risulta chiaro e pacifico; infatti, il citato art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce espressamente che il documento sia consultato esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali.

 

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Estintori sicuri, dai Vigili del fuoco chiarimenti per i corsi

Le raccomandazioni contenute nella circolare n. 11197/2018 del 14 agosto 2018

I fornitori sono responsabili delle attrezzature, ma anche i componenti la commissione d’esame o gli incaricati delle lezioni devono accertare la loro conformità. Indicazioni utili pure ai soggetti privati che erogano servizi di formazione

Con la pubblicazione della circolare 11197 del 14 agosto 2018, il dipartimento dei Vigili del fuoco ha offerto utili chiarimenti circa l’impiego degli estintori portatili utilizzati per le prove pratiche di estinzione durante i corsi erogati dai comandi dei Vigili del fuoco.

Considerato il fatto che nel nostro Paese la formazione dei lavoratori incaricati di attuare le misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro può essere erogata anche da soggetti privati, è auspicabile che queste precauzioni possano diventare di uso comune. I chiarimenti, infatti, contengono una serie di istruzioni operative atte a verificare l’efficienza e la sicurezza degli estintori d’incendio utilizzati nel corso dell’esercitazioni pratiche di estinzione. Inizialmente è specificato che la responsabilità di assicurare presidi idonei, pienamente funzionanti e dotati di tutte le certificazioni e documentazioni previste per legge è a carico dei soggetti fornitori di estintori portatili. Di fatto con questa affermazione si richiama la responsabilità di chi, a vario titolo, fornisce ai comandi le attrezzature antincendio necessarie alla formazione. Proseguendo l’analisi del testo della circolare emerge un interessante consiglio circa la tipologia di estintori da impiegare per le prove di estinzione. Per questo aspetto è precisato che, alla luce del fatto che questi dispostivi sono soggetti a ripetuti utilizzi con frequenze di scariche e ricariche molto elevate e un’usura sicuramente riferibile più a una attrezzatura di lavoro che a un presidio antincendio, è preferibile l’uso di estintori caratterizzati da minori pressioni di esercizio (come per esempio gli estintori a base d’acqua) al fine di minimizzare le conseguenze di un’eventuale malfunzionamento per una eccessiva usura del dispositivo.
Le indicazioni contenute nella circolare proseguono con l’elencazione delle verifiche da attuare per assicurare il corretto funzionamento degli apparecchi.

Al riguardo è specificato che al momento del ricevimento degli estintori la commissione d’esame o gli incaricati della lezione hanno il dovere di verificare che le iscrizioni sull’etichetta dell’estintore siano presenti e ben leggibili, che l’estintore non abbia superato la vita utile ammissibile (18 anni dalla data di produzione rinvenibile sui dati punzonati sul serbatoio) e che gli estintori siano integri e non presentino segni di deterioramento in alcuna parte del dispositivo (assenza di segni di ruggine o tracce di corrosione, integrità della manichetta e dell’eventuale cono di espansione, assenza di sconnessioni o incrinature delle tubazioni flessibili ecc.). Ulteriori controlli da eseguire riguardano la verifica del corretto accoppiamento della manichetta con il cono erogatore (se presente) e quello della manichetta con la valvola di comando, che l’indicatore di pressione (se presente) indichi un valore compreso all’interno del campo verde e che sia presente il sigillo sul dispositivo di sicurezza della valvola di azionamento.

Un particolare riferimento è fatto per l’utilizzo di estintori immessi sul mercato a partire dal 29 maggio 2002. Per questi infatti è richiesto di accertare la presenza e la leggibilità della marcatura Ce relativa agli aspetti di sicurezza delle apparecchiature a pressione (requisiti direttiva Ped). Per quanto concerne gli obblighi a carico dei fornitori di estintori, con la circolare 11197 è specificato che questi ultimi hanno sempre il dovere di presentare al comando una dichiarazione in cui è espresso che i presidi messi a disposizione sono conformi al prototipo omologato e che sono stati sottoposti a corretta manutenzione.
Di fatto, con questa ultima parte della circolare è richiesta una verifica puntuale del rispetto delle disposizioni del decreto del ministero dell’Interno 7 gennaio 2005 e delle specifiche contenute nella norma tecnica Uni 9994-1.

Riscontro di non conformità
La circolare 11197 del 14 agosto 2018 termina con le azioni da attuare in caso di riscontro di non conformità. Di fatto è specificato che qualora dai controlli indicati emergano delle criticità sugli estintori, gli addetti alla lezione pratica e la commissione di esame non dovranno utilizzare l’apparecchiatura e il comando dovrà provvedere a inoltrare una segnalazione alla direzione del corpo nazionale dei Vigili del fuoco.

È richiamata inoltre la necessità di porre la massima attenzione nel consentire l’attività di formazione e accertamento esclusivamente a personale docente e discente opportunamente protetto in base alla valutazione del rischio cui è esposto.

La normativa di riferimento
Non è superfluo ricordare che il decreto 7 gennaio 2005 citato nella circolare detta le regole per la classificazione e l’omologazione degli estintori portatili di incendio con il quale, ricordiamo, il legislatore ha riconosciutoufficialmente la norma En 3-7 3 che specifica i requisiti, i metodi di prova e i criteri di prestazione per estintori di incendio portatili. Questo significa che oggi i produttori italiani hanno il dovere di fabbricare, omologare e immettere sul mercato nazionale estintori portatili d’incendio costruiti in conformità alla norma europea En 3-7. Inoltre, con il decreto 7 gennaio 2005 è stabilito che tra gli obblighi e le responsabilità dei produttori vi è quello di:

  • garantire la conformità della produzione al prototipo omologato mediante un sistema di controllo di produzione;
  • impiegare nella produzione materiali, componenti e accoppiamenti conformi alla direttiva Ped;
  • emettere per ogni estintore portatile la dichiarazione di conformità;
  • fornire a corredo di ogni esemplare il libretto d’uso e manutenzione;
  • punzonare sull’estintore portatile d’incendio l’anno di costruzione, il numero di matricola progressivo e il codice costruttore.

Anche l’utilizzazione è uno degli aspetti regolamentati dal D.M. 7 gennaio 2005.
In particolare, è importante ribadire che con l’articolo 4 «Utilizzazione» sono dettate le disposizioni volte ad assicurare che l’estintore mantenga nel tempo le caratteristiche tecniche che hanno portato al rilascio dell’omologazione ministeriale. Viene infatti specificato che gli estintori immessi sul mercato devono sempre essere conformi ai rispettivi prototipi omologati. Inoltre, con il secondo comma dell’articolo 4 è richiamato l’obbligo di far eseguire la manutenzione degli apparecchi in esercizio da personale esperto (come previsto dal D.M.10 marzo 1998 4) e secondo le proceduredefinite dalla famosa norma Uni 9994.
Per questo aspetto si segnala che, attualmente, è disponibile la norma Uni 9994-1 (pubblicata il 20 giugno 2013) nella quale sono contenuti i criteri per svolgere il controllo iniziale e la manutenzione degli estintori di incendio.

La manutenzione
Alla luce del fatto che solo una puntuale conoscenza della norma Uni 9994-1 può consentire una adeguata verifica degli estintori circa la loro corretta manutenzione, si ritiene opportuno ricordarne brevemente le specifiche in essa contenute. In particolare, la norma – che si applica per la corretta manutenzione degli estintori di incendio portatili e carrellati (inclusi gli estintori di incendio per fuochi di classe D) – specifica che per mantenere l’estintore in efficienza devono essere eseguite, con una determinata periodicità, alcune verifiche oggettive, che nella maggior parte dei casi possono essere svolte solo da personale esperto. In particolare, nella nuova norma vengono individuate sei fasi di manutenzione: il controllo iniziale, la sorveglianza, il controllo periodico, la revisione programmata, il collaudo e la manutenzione straordinaria.
Per quanto concerne il controllo iniziale, che deve essere eseguito da un tecnico manutentore, è previsto l’esame della conformità dell’apparecchio e della documentazione che lo accompagna (verifica della integrità delle marcature e la disponibilità del libretto d’uso e manutenzione rilasciato dal produttore). Questo intervento, che in prima battuta potrebbe risultare poco utile, può essere definito come la fase di presa in carico dell’estintore da parte dell’impresa di manutenzione, in quanto consente di verificare la conformità dei mezzi di estinzione manuali e di provvedere eventualmente alla loro messa fuori servizio a causa della presenza di specifiche anomalie (per esempio, se presentano segni di corrosione, ammaccature, se sono privi delle marcature o che abbiano superato 18 anni di vita ecc.).
La sorveglianza, che è la misura di prevenzione atta a controllare l’estintore nella posizione in cui è collocato, può essere svolta invece direttamente dall’utilizzatore che, nel caso di evidenti anomalie, deve provvedere a interpellare il manutentore che può eseguire gli interventi previsti in tutte le altri fasi della manutenzione. In questa fase deve essere verificata l’integrità dell’estintore e dei suoi componenti, come per esempio l’indicatore di pressione, la corretta posizione, l’adeguatezza della segnaletica che consente di individuarlo e la presenza del cartellino di manutenzione.
Per controllo periodico si intende la misura di prevenzione atta a verificare, con frequenza almeno semestrale, l’efficienza dell’estintore. In particolare, durante questo intervento, che è svolto esclusivamente da personale competente (tecnico manutentore), è previsto il controllo della pressione interna con uno strumento indipendente per gli estintori a pressione permanente, il controllo dello stato di carica mediante pesatura per gli estintori a biossido di carbonio, il controllo della presenza del tipo e della carica delle bombole di gas ausiliario per gli estintori pressurizzati con questo sistema.
La revisione programmata, invece, è la misura di prevenzione volta a verificare e rendere perfettamente efficiente l’estintore. Effettuata da persona competente e con la periodicità non maggiore rispetto a quella indicata nel prospetto 2 della norma Uni 9994-1, la revisione programmata prevede:

  • esame interno dell’apparecchio;
  • controllo funzionale di tutte le parti;
  • controllo dei componenti (pescante, tubi flessibili, ugelli ecc.);
  • sostituzione dei dispositivi di sicurezza se presenti;
  • sostituzione dell’agente estinguente;
  • sostituzione delle guarnizioni;
  • sostituzione della valvola erogatrice per gli estintori a biossido di carbonio;
  • rimontaggio dell’estintore in perfetto stato di efficienza.

Gli estintori d’incendio sono apparecchi a pressione e, pertanto, il loro serbatoio periodicamente deve essere e sottoposto a collaudo da parte di personale competente. Per questa fase, nella norma Uni 9994-1 è stata specificata la frequenza in funzione della conformità alla direttiva 97/23/CE 5 (D.Lgs. n. 93/2000 6).
In particolare, gli estintori che non siano già soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e costruiti in conformità al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati secondo la periodicità prevista nel prospetto 2 della norma mediante una prova idraulica della durata di 30 secondi alla pressione di prova (Pt) indicata sul serbatoio, mentre quelli che non sianogià soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e non conformi al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati mediante una prova idraulica della durata di un minuto a una pressione di 3,5 MPa, o come da valore punzonato sul serbatoio (se maggiore). Al termine delle prove, non devono verificarsi perdite, trasudazioni, deformazioni o dilatazioni di alcun tipo. La manutenzione straordinaria, invece, è l’intervento che deve essere attuato, durante la vita dell’estintore, ogni volta che le operazioni di manutenzione ordinaria non sono sufficienti al ripristino delle condizioni di efficienza dell’estintore stesso.

Durante l’attività di un effettivo mantenimento dello stato di fatto in cui l’estintore è stato consegnato, possono emergere problemi di entità diversa che sono risolvibili solo con la sostituzione di alcune parti componenti dell’apparecchio. Tutti gli interventi devono essere garantiti dal manutentore e tutte le riparazioni (e le sostituzioni che impediscano il decadimento dei livelli di sicurezza dei prodotti) devono essere attuate immediatamente. La mancanza di ricambi originali o adeguati, il protrarsi dell’intervento oltre il normale tempo del controllo stesso obbliga di fatto il manutentore a dichiarare il prodotto non funzionante e a comunicarne le cause alla persona responsabile. Una cosa importante: la norma Uni 9994-1 prevede chiaramente che la messa fuori uso dell’estintore deve essere effettuata tramite l’emissione di un documento attestante la messa fuori uso. Infine, per quanto concerne questo importante aspetto, è indispensabile non dimenticare che in fase di manutenzione se l’estintore deve essere rimosso, è necessario prevedere la sua momentanea sostituzione con altro di capacità estinguente non inferiore.

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E-learning sì o no? La parola al Ministero del Lavoro

L’interpello n. 7/2018 formulato dal Consiglio nazionale delle ricerche.

Il Cnr ha presentato un articolato quesito, facendo notare che l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 e l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 sono chiari: la formazione per i lavoratori costituisce un obbligo per il datore, il quale può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi secondo criteri e condizioni stabilite nell’allegato I. La risposta della Commissione, invece, è stata molto netta e di segno contrari.

Con l’interpello del 21 settembre 2018, n.7, il ministero del Lavoro è tornato nuovamente sulla spinosa normativa attuativa relativa alla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, fornendo questa volta alcuni importanti chiarimenti sull’e-learning; l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, infatti, da un lato ha concesso una parziale (e molto discussa) apertura verso questa particolare modalità di erogazione della formazione, mentre dall’altro ha apportato anche alcune importanti modifiche alla disciplina previgente, introducendo numerosi vincoli finalizzati a garantire, almeno potenzialmente, un livello di qualità formativa pari a quella classica erogata in aula.

In effetti, bisogna ricordare che questo nuovo e più rigido approccio nasce dalle numerose criticità che, invero, sono emerse in sede di prima applicazione della disciplina sull’e-learning contenuta nell’accordo Stato- Regioni del 21 dicembre 2011, relativo alla formazione dei lavoratori, dei dirigenti e dei preposti. L’allegato I di questo provvedimento, infatti, era parso subito a maglie larghe, incentrato più su alcuni elementi tecnici che su quelli di progettazione dei contenuti che, viceversa, in una modalità del genere rappresentano lo zoccolo duro con cui confrontarsi. Per altro veniva concessa al datore di lavoro anche una piena autonomia circa l’organizzazione e l’erogazione dei corsi in e-learning che, tuttavia, con la riforma operata dal già citato accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 ha subito un netto giro di vite. Malgrado questo riassetto, però, la disciplina non è parsa ben coordinata, soprattutto in ordine ai soggetti che sono abilitati a erogare i corsi per lavoratori in e-learning; il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), quindi, ha presentato un articolato quesito in merito, facendo rilevare che l’art. 37 del D.Lgs n. 81/2008, e il già citato accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 indicano «chiaramente che la formazione per i lavoratori costituisce un obbligo per il datore di lavoro che può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi sia in modalità frontale sia in modalità e-learning secondo i criteri e le condizioni stabilite nell’allegato I». L’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, tuttavia, nello stabilire la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) e gli addetti a questo servizio (Aspp), secondo il Cnr ha operato un ampliamento delle «possibilità di formazione in modalità e-learning al modulo A, all’aggiornamento per Rspp e Aspp e alla formazione specifica per lavoratori delle aziende inserite nel rischio basso, secondo i criteri previsti nell’allegato II dello stesso accordo».

Secondo il Cnr, quindi, sembra sussistere una contraddizione e per questo motivo ha chiesto di sapere se le disposizioni dell’allegato II dell’accordo Stato-Regioni del 7 luglio del 2016 trovano applicazione esclusivamente per i corsi per Rspp e Aspp e, di conseguenza, se il datore di lavoro può organizzare direttamente i corsi per i lavoratori in modalità e-learning, senza essere tenuto a dover ricorrere necessariamente a uno dei soggetti.

Quando è a distanza

La risposta della Commissione a questo è stata, invero, abbastanza netta; nell’interpello, infatti, viene fatto rilevare in via preliminare che l’accordo del 7 luglio 2016, nel definire la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per Rspp e Aspp ravvisa in modo esplicito «la necessità di procedere alla sostituzione dell’allegato I all’accordo del 21 dicembre 2011 per la formazione dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008, con l’allegato II al presente accordo, relativo alla formazione in modalità e-learning, al fine di superare le incertezze applicative in tema di formazione emerse in sede di prima applicazione della pertinente disciplina». Come già accennato le «incertezze applicative » cui fa riferimento la Commissione sono evidentemente quelle richiamate pocanzi, certamente importanti in quanto determinavano un regime molto “fragile” in quanto non assicurava un adeguato livello di qualità soddisfacente dell’azione formativa, con possibili pesanti ricadute sul versante dell’efficacia.

Sotto questo profilo non vanno dimenticate le tante polemiche sulla validità della stessa modalità in e-learning per formare le risorse umane in un ambito così delicato come quello della salute e della sicurezza sul lavoro, caratterizzato da un preoccupante trend infortunistico e dalla necessità obiettiva di assicurare un corretto approccio andragogico.

Un’eccezione al modello tradizionale

Alla luce, quindi, di queste criticità la conferenza Stato-Regioni, dopo un lungo percorso, con l’accordo del 7 luglio 2016 ha messo a punto un rinnovato regime applicativo di portata “universale” in quanto applicabile non solo ai corsi in e-learning degli Rspp e degli Aspp ma anche a quelli per i lavoratori, i preposti e i dirigenti. Un pilastro fondamentale di questo regime è certamente il principio in base al quale «(…) per i corsi in materia di salute e sicurezza la modalità e-learning e da ritenersi valida solo se espressamente prevista da norme e accordi Stato-Regioni o dalla contrattazione collettiva (…) »; questa norma, quindi, ribadisce che il modello di formazione comune è quello in aula, mentre l’e-learning ne rappresenta solo un’eccezione sottoposta, per altro, a numerosi vincoli in quanto deve essere erogata «(…) con le modalità disciplinate dal presente accordo e nel rispetto delle disposizioni di cui all’allegato II».

L’obbligatorietà del ricorso ai soggetti formatori abilitati

Ecco, quindi, che la Commissione ministeriale sulla base di questi principi ha messo in chiaro che il datore di lavoro non può direttamente erogare ai propri dipendenti la formazione in e-learning e «ritiene che i soggetti formatori siano solo quelli individuati al punto 2 dell’allegato A (individuazione dei soggetti formatori e sistema di accreditamento) e che, pertanto, soltanto i soggetti ivi previsti possano erogare la formazione in modalità e-learning, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’allegato II».

Di conseguenza, qualora il datore di lavoro intenda formare tramite l’e-learning i propri lavoratori – e gli altri soggetti ove consentito – dovrà fare ricorso esclusivamente ai soggetti formatori riportati in questo elenco che è da considerarsi tassativo. Si tratta, quindi, delle Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, anche mediante le proprie strutture tecniche operanti nel settore della prevenzione (aziende sanitarie locali ecc.) e della formazione professionale di diretta emanazione regionale o provinciale, dell’Inail, degli enti di formazione accreditati e di numerosi altri soggetti.

Si osservi, in particolare, che tra questi sono compresi anche le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e gli organismi paritetici quali definiti all’art. 2, comma 1, lett. ee), del D.Lgs. n. 81/2008, per lo svolgimento delle funzioni di cui all’art. 51 dello stesso decreto, limitatamente allo specifico settore di riferimento.

Gli estensori di questa norma hanno, quindi, operato una precisa scelta di campo: la legittimazione a erogare questi corsi non spetta a una qualsiasi associazione sindacale, ma solo a quelle che soddisfano questo requisito e come precisato nella nota in calce all’allegato A «le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e gli organismi paritetici possono effettuare le attività formative e di aggiornamento direttamente o avvalendosi di strutture formative di loro diretta ed esclusiva emanazione. Queste ultime strutture devono essere accreditate secondo i modelli definiti dalle Regioni e Province autonome ai sensi dell’intesa sancita in data 20 marzo 2008 e pubblicata sulla Guri del 23 gennaio 2009».

Nella stessa nota, inoltre, viene richiamato quanto previsto dal già citato art. 2, comma 1, lett. ee), del D.Lgs. n. 81/2008, che definisce ai fini dell’applicazione della disciplina ivi contenuta gli organismi paritetici «organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quali sedi privilegiate per: la programmazione di attività formative e l’elaborazione e la raccolta di buone prassi a fini prevenzionistici; lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; la l’assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento»; al tempo stesso nella nota in questione sono riportati anche i criteri per stabilire il possesso del requisito della rappresentatività. Occorre rilevare, inoltre, che nell’elenco contenuto nell’allegato A non sono compresi gli enti bilaterali.

Le tipologie

Alla luce, pertanto, di questo indirizzo interpretativo è necessario ricordare brevemente che le tipologie di formazione per i lavoratori erogabili dai soggetti abilitati attraverso l’e-learning sono quella generale, di almeno quattro ore, e quella specifica per le aziende inserite nel rischio basso, così come riportato nella tabella di cui all’allegato II del già citato accordo del 21 dicembre 2011, nel rispetto ovviamente delle disposizioni di cui all’allegato II dell’accordo del 7 luglio 2016, e a condizione che i discenti abbiano: la possibilità di accesso alle tecnologie impiegate; familiarità con l’uso del computer; buona conoscenza della lingua utilizzata.

Questa “agevolazione” è prevista anche per la formazione specifica dei lavoratori che, a prescindere dal settore di appartenenza, non svolgono mansioni che comportino la loro presenza, anche saltuaria, nei reparti produttivi, cosi come indicato al primo periodo del paragrafo 4 «Condizioni particolari» dell’accordo del 21 dicembre 2011; la formazione specifica per lavoratori deve essere riferita, in ogni caso, all’effettiva mansione svolta dal lavoratore e deve essere pertanto erogata rispetto agli aspetti specifici scaturiti dalla valutazione dei rischi. Pertanto, per le aziende inserite nel rischio basso non è consentito il ricorso alla modalità e-learning per tutti quei lavoratori che svolgono mansioni che li espongono a un rischio medio o alto (punto 12.7); inoltre, la modalità in questione è utilizzabile anche per l’aggiornamento della formazione prevista dall’accordo del 21 dicembre 2011.

Divieti

Da sottolineare, inoltre, che l’allegato VI dell’accordo 7 luglio 2016 vieta espressamente l’e-learning per gli addetti al primo soccorso e per gli addetti alla prevenzione incendi; inoltre, per quanto riguarda la formazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) nell’allegato V dello stesso accordo è precisato che non è consentita la formazione in e-learning, fatto salvo diverse indicazioni dei Ccnl.

Se è in aula

Per quanto riguarda, invece, la formazione classica dei lavoratori in aula, dei dirigenti e dei preposti resta fermo quanto stabilisce il punto 2 dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2001, che inserisce direttamente – e non poteva fare altrimenti visto il tenore dell’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008 – il datore di lavoro tra i soggetti organizzatori dei corsi.

Considerazioni conclusive

La posizione assunta dal ministero del Lavoro con l’interpello n. 7/2018 appare, quindi, molto netta e condivisibile; purtroppo, però, potrebbe avere ricadute in termini sanzionatori per quei datori di lavoro che hanno seguito una strada diversa.
È pur vero, tuttavia, che l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, non ha operato un convincente coordinamento con le disposizioni previgenti dell’Accordo del 21 dicembre 2011, visto che solo un’attenta lettura sistematica ha consentito di giungere a questa interpretazione; il quesito proposto testimonia ancora una volta che la mancanza di chiarezza nell’attività di normazione genera solo zone d’ombra che rende frustante per i datori di lavoro stabilire ex ante qual è la condotta corretta da seguire e questo stato patologico tutto italiano mette a dura prova chi ogni giorno deve gestire la safety aziendale.

 

BOX 1

Chi sta sulla “cattedra” dell’e-learning

(Allegati A, punto 2, e II accordo Stato-Regioni 7 luglio 2016) *

  1. a) Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, anche mediante le proprie strutture tecniche operanti nel settore della prevenzione (aziende sanitarie locali, ecc.) e della formazione professionale di diretta emanazione regionale o provinciale;
  2. b) gli enti di formazione accreditati in conformità al modello di accreditamento definito in ogni Regione e Provincia autonoma ai sensi dell’intesa sancita in data 20 marzo 2008 e pubblicata sulla Guri del 23 gennaio 2009;
  3. c) le università;
  4. d) e scuole di dottorato aventi a oggetto le tematiche del lavoro e della formazione;
  5. e) le istituzioni scolastiche nei confronti del personale scolastico e dei propri studenti;
  6. f) l’Inail;
  7. g) il corpo nazionale dei vigili del fuoco o i corpi provinciali dei vigili del fuoco per le Province autonome di Trento e Bolzano;
  8. h) amministrazione della Difesa;
  9. i) le amministrazioni statali e pubbliche di seguito elencate, limitatamente al personale della pubblica amministrazione sia esso allocato e livello centrale che dislocato a livello periferico:

– ministero del Lavoro e delle politiche sociali;
– ministero della Salute;
– ministero dello Sviluppo economico;
– ministero dell’Interno: Dipartimento per gli affari interni e territoriali e Dipartimento della pubblica
– sicurezza;
– Formez;
– Sna (Scuola nazionale dell‘amministrazione);

  1. l) le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e gli organismi paritetici quali definiti all’art. 2, comma 1, lettera ee), del D.Lgs. n. 81/2008 per lo svolgimento delle funzioni di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008, limitatamente allo specifico settore di riferimento;
  2. m) i fondi interprofessionali di settore nel caso in cui, da statuto, si configurino come erogatori diretti di formazione;
  3. n) gli ordini e i collegi professionali.

* Ulteriori soggetti formatori che operano a livello nazionale possono essere eventualmente individuati, in sede di conferenza Stato-Regioni congiuntamente dalle amministrazioni statali interessate e dalle Regioni e Province autonome, ai sensi dell’art. 32, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008.

_______________________________

BOX2

Criteri per stabilire la rappresentatività delle associazioni sindacali, datoriali e degli organismi paritetici

(Nota al punto 2, lett. l), allegato A, accordo Stato-Regioni 7 luglio 2016)

Il requisito principale che gli organismi paritetici devono soddisfare è la rappresentatività, in termini comparativi sul piano nazio-nale, delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro che la costituiscono, individuata attraverso una va-lutazione complessiva del seguenti criteri:

  1. consistenza numerica degli associati delle singole organizzazioni sindacali;
  2. ampiezza e diffusione delle strutture organizzative;
  3. partecipazione alla formazione e stipulazione dei contratti nazionali collettivi di lavoro (con esclusione nei casi di sottoscrizione per mera adesione);
  4. partecipazione alla trattazione delle controversie di lavoro.

I suddetti criteri devono essere soddisfatti anche dalle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori che decidono di effettuare le attività formative e di aggiornamento.

 

 

 

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Emissioni inquinanti: al via le nuove misure

Qualità dell’aria e salvaguardia della salute umana e dell’ambiente prioritarie. Previste anche disposizioni finalizzate a una partecipazione più efficace dei cittadini ai processi decisionali. Rinnovati gli impegni nazionali di riduzione, il contenuto dei programmi di controllo, nonché le metodologie per l’elaborazione e l’aggiornamento degli inventari e delle proiezioni.

Migliorare la qualità dell’aria, salvaguardare la salute umana e dell’ambiente e assicurare una partecipazione più efficace dei cittadini ai processi decisionali. Sono le finalità del decreto legislativo 30 maggio 2018, n. 81 [«Attuazione della direttiva (UE) 2016/2284, concernente la riduzione delle emissioni nazionali di determinati inquinanti atmosferici, che modifica la direttiva 2003/35/Ce e abroga la direttiva2001/81/CE»] 1, emanato in base all’ articolo 1, legge 25 ottobre 2017, n. 163 («Legge di delegazione europea 2016-2017»). Il nuovo provvedimento abroga il decreto legislativo 31 maggio 2004, n. 171, recante attuazione della direttiva 2001/81/Ce in materia di limiti nazionali delle emissioni; materia che la direttiva (Ue) 2016/2284 ha rielaborato «al fine di tendere al conseguimento di livelli di qualità dell’aria che non comportino significativi impatti negativi e rischi significativi per la salute umana e l’ambiente »

Il provvedimento

Gli articoli che compongono il decreto legislativo 30 maggio 2018, n. 81 sono:

  • articolo 1 – Finalità;
  • articolo 2 – Definizioni;
  • articolo 3 – Impegni nazionali di riduzione delle emissioni;
  • articolo 4 – Elaborazione e adozione del programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • articolo 5 – Attuazione dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • articolo 6 – Inventari e proiezioni delle emissioni;
  • articolo 7 – Monitoraggio degli impatti dell’inquinamento atmosferico su ecosistemi;
  • articolo 8 – Comunicazioni;
  • articolo 9 – Sanzioni;
  • articolo 10 – Informazioni al pubblico;
  • articolo 11 – Norme finali;
  • articolo 12 – Clausola di invarianza.

Negli allegati sono, invece, riportati:

  • monitoraggio e comunicazione delle emissioni atmosferiche (allegato I);
  • impegni nazionali di riduzione delle emissioni (allegato II);
  • contenuto dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico (allegato III), a sua volta suddiviso in:

– contenuto minimo dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;

– misure di riduzione delle emissioni del settore agricolo;

  • metodologie per elaborazione e aggiornamento di inventari e proiezioni nazionali delle emissioni, relazioni di inventario e inventari nazionali rettificati (allegato IV), a sua volta suddiviso in:

– inventari nazionali delle emissioni annue;

– proiezioni nazionali delle emissioni;

– relazioni di inventario;

  • rettifica degli inventari delle emissioni nazionali.

Finalità

L’articolo 1 dispone che le finalità del decreto legislativo (miglioramento della qualità dell’aria, salvaguardia della salute umana e dell’ambiente e partecipazione dei cittadini ai processi) siano perseguite mediante:

  • impegni nazionali di riduzione delle emissioni [la cui definizione è riportata all’articolo 2, comma 1, lettera l), D.Lgs. n. 81/2018; di origine antropica di biossido di zolfo (SO2), ossidi di azoto (NOx), ammoniaca (NH3) composti organici volatili non metanici (Covnm) e particolato fine (PM2,5)3;
  • elaborazione, adozione e attuazione di programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • obblighi di monitoraggio delle emissioni di sostanze inquinanti;
  • obblighi di monitoraggio degli impatti dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi;
  • obblighi di comunicazione alla Commissione degli atti e delle informazioni connessi;
  • una più efficace informazione ai cittadini.

Ciò al fine ultimo di perseguire gli obiettivi di qualità dell’aria auspicati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)4 e quelli fissati dal settimo programma di azione per l’ambiente.

Definizioni

L’articolo 2 opera in due ambiti:

  • riproduce il corrispondente elenco contenuto nella direttiva (Ue) 2016/2284:

– emissione;

– emissioni di origine antropica;

– impegno nazionale di riduzione delle emissioni;

– cicli di atterraggio e di decollo degli aeromobili;

– traffico marittimo internazionale;

– zona di controllo dell’inquinamento;

– normativa europea sul controllo dell’inquinamento atmosferico alla fonte;

– strumenti di settore;

– precursori dell’azoto;

– biossido di zolfo;

– ossidi di azoto;

– composti organici volatili non metanici;

– particolato fine;

– particolato carbonioso;

– obiettivi di qualità dell’aria6;

  • introduce, a integrazione di questa direttiva, le definizioni di «Strumenti di settore e «Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza» (convenzione Lrtap);

Impegni nazionali di riduzione delle emissioni

L’articolo 3 prevede la riduzione delle emissioni entro il 2020 e il 2030 nella misura indicata dall’allegato II, fermo restando l’obbligo di applicare il livello previsto per il 2020 sino al 2029. Stabilisce, inoltre, che queste emissioni siano ridotte nel 2025 «a livelli da fissare secondo una traiettoria lineare di riduzione stabilita fra i livelli definiti dagli impegni di riduzione delle emissioni per il 2020 e il 2030»; obiettivo, questo, che può essere conseguito anche con una traiettoria non lineare di riduzione, purché:

  • a partire dal 2025 questa converga progressivamente con la traiettoria lineare di riduzione e non sia pregiudicato alcun obbligo di riduzione delle emissioni per il 2030;
  • questa traiettoria non lineare e le relative motivazioni siano individuate nei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico.

I benefici attesi da queste riduzioni, rispetto a quelli fissati dal previgente D.Lgs. n. 171/2004, elaborata dalla Camera dei deputati e dal Senato, sulla base dei dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

Completa l’articolo 3 la disciplina riguardante il mancato rispetto dei suindicati obiettivi e le procedure da seguire al verificarsi dei seguenti casi:

  • cambiamenti nella metodologia di stima delle emissioni dovuti allo sviluppo delle conoscenze scientifiche;
  • condizioni meteorologiche eccezionali;
  • perdite improvvise e eccezionali di capacità nel sistema di produzione o di fornitura di elettricità e di calore.

Elaborazione e adozione del programma nazionale

L’articolo 4 reca norme in materia di adozione del programma nazionale di controllo dell’inquinamento, disponendo che all’elaborazione e all’aggiornamento del programma provveda il ministero dell’Ambiente e della tutela del mare e del territorio (Mattm), entro il 30 settembre 2018, sulla base del supporto tecnico dell’Ispra e dell’ Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea), e nel rispetto delle indicazioni contenute nell’allegato III. Sempre l’articolo 4 stabilisce, inoltre, che l’elaborazione e l’aggiornamento del programma debba avvenire secondo i seguenti criteri:

  • considerare tutti i settori responsabili di emissioni, con particolare riferimento a trasporti, industria, agricoltura, energia e riscaldamento civile;
  • coerenza tra le politiche e le misure del programma stesso e gli strumenti di settore;
  • proporzionalità tra costi da sostenere e l’ entità delle riduzione delle emissioni attesa;
  • rispetto della qualità dell’aria nel territorio nazionale e, se opportuno, in quello degli Stati membri limitrofi;
  • priorità alle riduzioni di emissioni di particolato fine, in particolare a quelle che hanno effetti specifici sulle emissioni di black carbon.

Attuazione dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico

L’articolo 5 revede la costituzione, presso la presidenza del Consiglio dei ministri, di un tavolo di coordinamento che ha il compito di elaborare atti di indirizzo per coordinare i tempi e le modalità di adozione degli atti attuativi del programma nazionale (commi 1-5). Lo stesso articolo stabilisce, inoltre, che il ministero dell’Ambiente trasmetta al Parlamento, entro il 31 dicembre di ciascun anno (a decorrere dal 2019), una relazione sullo stato di attuazione del programma nazionale, e assicuri «una corretta conoscenza del pubblico in merito alla procedura di attuazione del programma nazionale» (comma 7).

Inventari e proiezioni delle emissioni

L’articolo 6 dispone che l’Ispra elabori e aggiorni:

  • ogni anno, gli inventari nazionali delle emissioni nazionali per gli inquinanti dell’allegato I, nel rispetto delle prescrizioni di questo allegato e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • ogni 4 anni, gli inventari nazionali delle emissioni geograficamente disaggregati, nonché gli inventari delle grandi fonti puntuali, per gli inquinanti indicati nell’allegato I, tabella C, nel rispetto delle prescrizioni del medesimo e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • una relazione di inventario che accompagna gli inventari, predisposta nel rispetto delle prescrizioni dell’allegato I e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • ogni due anni, le proiezioni nazionali dei consumi energetici e dei livelli delle attività produttive responsabili delle emissioni per gli inquinanti dell’allegato I.

Sempre l’articolo 6 stabilisce, inoltre, che l’Enea elabori e aggiorni ogni due anni le proiezioni delle emissioni per gli inquinanti di cui alla citata tabella C e che provveda a comunicarne gli esiti al ministero dell’Ambiente.

Monitoraggio degli impatti su ecosistemi

L’articolo 7 stabilisce che il monitoraggio degli impatti negativi dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi sia assicurato da una «rete rappresentativa delle relative tipologie di habitat di acqua dolce, habitat naturali e seminaturali ed ecosistemi forestali», da individuare con decreto del ministero dell’Ambiente, da adottare, entro il (decorso) 30 giugno 2018, sentite le regioni interessate e il sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa). Lo stesso articolo stabilisce, inoltre, che il monitoraggio sia effettuato attraverso forme di coordinamento e integrazione con altri programmi di previsti dalla normativa vigente:

  • parte terza del testo unico dell’ambiente22;
  • decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 155 («Attuazione della direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa»);
  • decreto del presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 («Regolamento recante attuazione della direttiva habitat»);
  • convenzione Lrtap

Comunicazioni

L’articolo 8 prevede che il ministero dell’Ambiente invii alla Commissione europea:

  • il primo programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico (entro il 1° aprile 2019);
  • il programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico aggiornato (entro due mesi da ciascun aggiornamento);
  • le proiezioni nazionali delle emissioni per gli inquinanti (entro il 15 marzo di ogni anno);
  • entro il 1° luglio 2018 e, successivamente, ogni quattro anni, l’ubicazione dei siti di monitoraggio e gli indicatori di monitoraggio utilizzati;
  • entro il 1° luglio 2019 e, successivamente, ogni quattro anni, i dati del monitoraggio degli impatti negativi dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi.

Sanzioni

L’articolo 9 prevede che alla violazione delle disposizioni adottate dalle amministrazioni statali, regionali e locali responsabili per l’attuazione delle misure del programma nazionale, si applichino le sanzioni fissate dalla normativa vigente, fatte salve specifiche sanzioni introdotte con successivi provvedimenti legislativi.

Informazioni al pubblico

L’articolo 10 dispone che il ministero dell’Ambiente e il sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (Snpa) assicurino, anche con la pubblicazione sul proprio sito internet, una attiva e sistematica informazione del pubblico, in relazione ai programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico, ai relativi aggiornamenti e agli inventari delle emissioni nonché alle informazioni comunicate alla Commissione europea.

Norme finali

L’articolo 11 abroga il D.Lgs. n. 171/2004 introducendo una norma transitoria per l’applicazione (fino al 31 dicembre 2019) dei limiti nazionali di emissione indicati dall’articolo 1 e dall’allegato I dello stesso decreto legislativo. Stabilisce, inoltre, che tutti gli allegati al D.Lgs. n. 81/2018 possano essere modificati con decreto del ministero dell’Ambiente, ai sensi dell’articolo 36, legge 24 dicembre 2012, n. 234 («Norme generali sulla partecipazione dell›Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea»)

Aspetti applicativi

I termini ristretti previsti dal decreto legislativo ai fini della concreta applicazione della direttiva (Ue) n. 2016/2284 impongono lo sforzo di tutte le amministrazioni interessate, pena l’avvio di una procedura di infrazione. Rischio che dovrebbe essere evitato se si considera che sono pendenti procedure d’infrazione in materia analoga e, precisamente:

  • procedura d’infrazione 10 luglio 2014, n. 2014/2147, avviata per mancata attuazione della direttiva 2008/50/Ce relativa alla qualità dell’aria ambiente – Superamento dei valori limite di PM10;
  • procedura d’infrazione 29 maggio 2015, n. 2015/2043, avviata per mancata applicazione in della direttiva 2008/50/Ce relativa alla qualità dell’aria e per un’aria più pulita in Europa, con riferimento ai valori limite di NO2;
  • procedura d’infrazione 23 gennaio 2017, n. 2017/130, avviata per mancato recepimento della direttiva 2015/1480/Ue che modifica vari allegati delle direttive 2004/107/Ce e 2008/50/Ce recanti le disposizioni relative ai metodi di riferimento, alla convalida dei dati e all’ubicazione dei punti di campionamento per la valutazione della qualità dell’aria ambiente.

Allegato III

L’allegato III («Contenuto dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico») si articola in due parti:

  • la prima («Contenuto minimo dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico»);
  • la seconda («Misure di riduzione delle emissioni del settore agricolo»), a sua volta suddivisa in tre sezioni:

– «Misure di riduzione delle emissioni di ammoniaca» (sezione A);

– «Misure per la riduzione di emissioni di particolato e black carbon» (sezione B);

– «Prevenzione degli impatti sulle piccole aziende agricole» (sezione C ).

In base alla parte prima, il programma nazionale, oltre a essere in possesso dei requisiti minimi previsti dal comma 4, deve contenere, se necessario:

  • una spiegazione dei motivi per cui i livelli delle emissioni al 2025 possono essere raggiunti solo mediante misure che comportino costi non proporzionati;
  • un rendiconto in merito all’applicazione delle procedure adottate per il mancato rispetto dei limiti di emissione causato dall’aggiornamento delle metodologie e conoscenze scientifiche, da un inverno eccezionalmente rigido o da un’estate eccezionalmente secca, condizioni meteo eccezionali o perdite improvvise ed eccezionali di capacità nel sistema di produzione/ fornitura di elettricità/ calore.

Più particolareggiata e corposa è la parte seconda (sezione A), che prevede :

  • l’elaborazione di un codice nazionale indicativo delle buone pratiche agricole per controllare le emissioni di ammoniaca che tenga conto del codice quadro dell’Unece del 2014 (decisione ECE/ EB.AIR/127, paragrafo 36-sexies), e che riguardi i seguenti aspetti:

– gestione dell’azoto;

– strategie di alimentazione del bestiame;

– tecniche di spandimento/stoccaggio del letame;

– sistemi di stabulazione che comportano emissioni ridotte, limitazione delle emissioni di ammoniaca derivanti dall’impiego di fertilizzanti minerali;

  • il divieto di utilizzo di fertilizzanti al carbonato di ammonio; • la possibilità di ridurre le emissioni di

ammoniaca provenienti dai fertilizzanti inorganici mediante la sostituzione dei fertilizzanti a base di urea con quelli

a base di nitrato di ammonio, ovvero promuovendo la sostituzione dei fertilizzanti inorganici con quelli organici;

  • la riduzione delle emissioni di ammoniaca dagli effluenti di allevamento con i seguenti metodi:

– riduzione delle emissioni di liquami e di letame solido sui seminativi e sui prati con pratiche che riducano le emissioni di almeno il 30% rispetto al metodo descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca, adottato con decisione 2012/11, ECE/EB/ AIR/113/Add. 1 (di seguito “documento di orientamento sull’ammoniaca”);

– riduzione delle emissioni prodotte dallo stoccaggio di letame al di fuori degli edifici di stabulazione mediante la copertura dei depositi di letame, l’utilizzo di sistemi e tecniche di immagazzinamento a basse emissioni che riducano le emissioni di ammoniaca di almeno il 40% per i depositi di liquame esistenti;

  • riduzione delle emissioni prodotte dai locali di stabulazione degli animali con sistemi che abbiano dimostrato di ridurre le emissioni di ammoniaca di almeno il 20% rispetto al metodo descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca;
  • riduzione delle emissioni provenienti dal letame, a mezzo di strategie di alimentazione a ridotto contenuto proteico che abbiano dimostrato di ridurre e emissioni di ammoniaca di almeno il 10% rispetto al metodo di riferimento descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca.

Misure altrettanto stringenti sono contemplate dalla sezione B, dove è stabilito che, fatto salvo quanto previsto dall’allegato II al regolamento Ue n. 1306/2013 («Finanziamento, gestione e monitoraggio della politica agricola comune»), può essere vietata la combustione dei rifiuti agricoli, dei residui del raccolto e dei rifiuti forestali, «anche in relazione alle ipotesi di combustione ammesse dalla normativa vigente». Con l’effetto che le deroghe a questo divieto «devono limitarsi ai programmi per la prevenzione degli incendi di incolto, per la lotta contro i parassiti o per la protezione della biodiversità». Il tutto – recita l’allegato III – in attesa dell’elaborazione di un codice nazionale delle buone pratiche agricole per la corretta gestione dei residui del raccolto, basato sui seguenti principi:

  • miglioramento della struttura dei suoli attraverso l’incorporazione dei residui del raccolto;
  • utilizzo di tecniche per l’incorporazione e/o di questi residui;
  • miglioramento del tenore di nutrienti e della struttura dei suoli mediante l’incorporazione del letame ai fini di una crescita ottimale dei vegetali in modo da evitare la combustione del letame.

Infine, nella sezione C, l’allegato III stabilisce che le piccole e micro aziende agricole possano essere in tutto o in parte essere esentate dalle misure sopradescritte, ove ciò sia possibile alla luce degli impegni di riduzione applicabili.

Allegato IV

L’allegato IV («Metodologie per elaborazione e aggiornamento di inventari e proiezioni nazionali delle emissioni, relazioni di inventario e inventari nazionali rettificati») stabilisce che per gli inquinanti di cui all’allegato I gli inventari nazionali delle

emissioni geograficamente disaggregati per regioni, gli inventari delle grandi fonti di inquinamento localizzabili geograficamente (cosiddette “fonti puntuali”), gli inventari nazionali delle emissioni rettificati e le relazioni di inventario siano essere elaborati secondo quanto prevede la nomenclatura per la comunicazione dei dati-NFR (nomenclature for reporting) stabilita dalla convenzione Lrtap e la guida dell’Agenzia europea per l’ambiente per gli inventari degli inquinanti atmosferici (guida Emep/Eea). Di qui l’obbligo di ottemperare alle condizioni di sotto indicate, come contemplate dalle Parti

1, 2, 3 e 4 dello stesso allegato IV:

  • le emissioni oggetto degli inventari devono essere calcolate in conformità alla guida Emep/Aea e in funzione dell’applicazione di un metodo di livello 2 o di un livello più elevato, tenendo conto che il calcolo delle emissioni del settore dei trasporti deve essere effettuato in coerenza con i bilanci energetici nazionali trasmessi a Eurostat ( per le emissioni relative al trasporto su strada si computano i quantitativi di carburante venduti);
  • le proiezioni nazionali delle emissioni (calcolate anch’esse in conformità alla Guida EMEP/AEA) devono essere coerenti con l’inventario delle emissioni annue nazionali e con le proiezioni comunicate di cui al regolamento (UE) n. 525/2013

(«Meccanismo di monitoraggio e comunicazione delle emissioni di gas a effetto serra») e comprendere «una chiara individuazione delle politiche e delle misure adottate [nonché], i risultati dell’analisi di sensibilità effettuata [e] la descrizione delle metodologie, dei modelli, delle ipotesi di base e dei principali parametri di input e output»;

  • la relazione di inventario deve essere elaborata utilizzando le metodologie del programma europeo di sorveglianza e valutazione (Emep) e contenere una serie di elementi, tra cui:

– la descrizione, i riferimenti e le fonti di informazione in merito a metodologie specifiche, ipotesi, fattori di emissione e dati sulle attività, nonché i motivi della scelta;

– la descrizione delle disposizioni previste per la compilazione degli inventari;

– le informazioni sulle procedure adottate al verificarsi di: cambiamenti nella metodologia di stima delle emissioni, condizioni meteorologiche eccezionali o di perdite improvvise e eccezionali di capacità nel sistema di produzione o di fornitura di elettricità e di calore;

  • la rettifica degli inventari delle emissioni nazionali deve essere corredata dai seguenti elementi:

– la prova che uno o più impegni nazionali di riduzione delle emissioni non sono rispettati;

– la prova della misura in cui la rettifica riduce il superamento dei livelli e contribuisce al rispetto di questi impegni;

– una stima della data in cui l’impegno o gli impegni di riduzione sarebbero rispettati in base alle proiezioni delle emissioni nazionali prima della rettifica;

– la prova che la rettifica deve essere coerente con una delle circostanze contemplate ai punti 1, 2 e 3 della parte 4 dello stesso allegato IV, ovvero: nuove categorie di fonti di emissione, fattori di emissione molto diversi per la determinazione delle emissioni provenienti da categorie di fonti specifiche o metodologie molto diverse per la determinazione delle emissioni provenienti da categorie di fonti specifiche (nel primo caso, ad esempio, occorre provare che la nuova categoria di fonti emissione non è inclusa nell’inventario nazionale delle emissioni, e che le emissioni provenienti dalla nuova categoria di fonte di emissione impediscono di rispettare gli impegni di riduzione).

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Scuola-lavoro e tirocini: chiarito il regime di tutela

La risposta della Commissione Interpelli a un quesito della Provincia di Trento.

Il soggetto ospitante, anche se è un autonomo, deve assumere, a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore per la sicurezza con tutto quanto consegue come, ad esempio, l’obbligo – fra gli altri – di effettuare la valutazione dei rischi, di redigere il Dvr e nominare il Rspp. Tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani interessati a percorsi di questo tipo.

Nel corso degli ultimi, anni in svariate occasioni è finito al centro dell’attenzione il tema dell’inserimento lavorativo dei giovani e la tutela dalla loro salute e sicurezza sul lavoro. Bisogna riconoscere che il modello contrattuale “principe” dell’apprendistato – pur se oggetto di continui rimaneggiamenti, da ultimo con il D.Lgs. n. 81/2015 – in Italia, purtroppo, stenta ancora a decollare a differenza di quello che accade in Germania e in altri Paesi europei.

A tutto ciò si aggiunge, poi, la legge n. 977/1967 sul lavoro minorile che al fine di assicurare una tutela più intensa delle condizioni di lavoro dei giovani prevede numerosi vincoli, spesso però vissuti dai datori di lavoro come un autentico zoccolo duro che esercita una forte azione disincentivante. Questo quadro consente di spiegare, almeno in parte, perché nel corso dell’ultimo biennio appare sempre più crescente la disponibilità che stanno dimostrando soprattutto le aziende nell’ospitare studenti inseriti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, rivitalizzati dalla legge n. 107/2015 (la cosiddetta legge sulla “buona scuola”).

Questo strumento si affianca, per altro, a un altro istituto affine come il tirocinio che nei primi anni del nuovo millennio ha subito un vero e proprio boom, soprattutto poco prima dell’emanazione della legge n. 92/2012, che ha riformato la materia con l’obiettivo di frenare il loro utilizzo spesso in modo distorto «come uno strumento di fuga dal lavoro subordinato». La massiccia diffusione di queste due forme di primo ingresso dei giovani in ambito aziendale ha sollevato, però, anche numerose criticità sul piano gestionale, soprattutto in ordine al tipo di regime della salute e della sicurezza sul lavoro applicabile.

Per questo motivo il ministero del Lavoro è stato costretto a intervenire nuovamente con l’interpello n. 4 del 25 giugno 2018, in cui ha fornito alcune indicazioni in risposta allo specifico quesito presentato dalla Provincia autonoma di Trento, che aveva chiesto di sapere «se, nei casi di tirocini formativi da svolgersi presso lavoratori autonomi non configurabili come datori di lavoro, sia applicabile l’articolo 21 del D.Lgs. 81/2008, individuando particolari modalità per garantire la tutela e sicurezza del tirocinante o se invece il decreto vada applicato interamente, con conseguente e non indifferente aggravio di oneri a carico dell’imprenditore e possibili effetti sulla realizzabilità del tirocinio stesso». La Commissione ministeriale ha espresso, così, alcune indicazioni interpretative che, come vedremo, si pongono in piena sintonia con gli orientamenti dottrinali in materia rispondendo, sia pure indirettamente, al quesito sullo specifico caso deilavoratori autonomi prospettato dalla Provincia autonoma di Trento.

Si tratta, invero, di un indirizzo molto interessante che dovrebbe sopire definitivamente (si spera) ogni incertezza circa il tipo di regime generale applicabile, anche per gli stessi organi di controllo (Asl, Inl ecc.) nei confronti dei quali bisogna ricordare che le indicazioni fornite dalla Commissione nelle risposte ai quesiti costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza.

Regime ordinario del D.Lgs. 81/2008

Nell’interpello n. 4/2018, la Commissione del ministero del Lavoro, dopo aver ricostruito puntualmente l’evoluzione normativa che ha caratterizzato questi due strumenti, si è soffermata sui tirocinanti richiamando l’orientamento già assunto dallo stesso ministero in una risposta a un quesito pubblicato sul proprio sito istituzionale il 1° ottobre 2012, in cui ha tenuto a precisare che se un’azienda o uno studio professionale fa ricorso a soggetti che svolgano stage o tirocini formativi dovrà osservare gli stessi obblighi previsti per i lavoratori subordinati (informazione, formazione, addestramento, sorveglianza sanitaria ecc.) in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, che prevede un’equiparazione per effetto della quale il titolare dello studio o l’amministratore di un’impresa assume nei confronti anche di questi soggetti la posizione di datore di lavoro per la sicurezza.

Lo stesso principio, ha precisato la Commissione, trova applicazione anche nel caso degli studenti impegnati nei percorsi di alternanza scuola-lavoro previsti dalla legge n. 107/2015, in quanto il già citato art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, equipara esplicitamente ai lavoratori subordinati anche gli studenti impegnati secondo questo regime.

Ripartizione degli obblighi formativi

In ordine all’alternanza scuola-lavoro la stessa Commissione, poi, ha anche puntualizzato che la disciplina del D.Lgs. n. 81/2008 dovrà essere applicata tenendo presente anche di quanto prevede il decreto interministeriale 3 novembre 2017,

  1. 195, che oltre a prevedere la «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti» ribadisce in modo fermo l’essenza dello strumento – introducendo anche un tetto massimo al numero degli studenti impiegabili a livello di singola struttura ospitante – e detta all’art. 5 norme specifiche finalizzate alla tutela antinfortunistica degli studenti in alternanza, soprattutto per quanto riguarda la formazione e la sorveglianza sanitaria.

In particolare, per quanto riguarda la formazione, l’art. 5, comma 1, 2 e 3 del decreto n. 195/2017 prevede un meccanismo di ripartizione dell’obbligazione formativa, di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, tra istituzione scolastica e soggetto promotore.
L’obbligo della formazione generale in materia di sicurezza, infatti, di almeno quattro ore secondo quanto stabilisce l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 n. 221/Csr, ricade sull’istituzione scolastica. Sulla struttura ospitante, invece, ricade l’obbligo della formazione specifica da erogare all’ingresso dello studente nella stessa struttura: quindi le aziende non possono avvalersi della contestatissima disposizione contenuta nell’accordo del 21 dicembre 2011, che in caso di difficoltà stabilisce che il «percorso formativo deve essere completato entro e non oltre60 giorni dalla assunzione».

Nella convezione è possibile, comunque, stabilire «(…) il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri conseguenti». Questa disposizione appare, invero, poco chiara in quanto non si comprende se il ministero faccia riferimento agli oneri economici della formazione specifica o la possibilità che la formazione specifica possa essere erogata direttamente dalla scuola. In effetti al comma 2 è stabilito che è di competenza dei dirigenti scolastici l’organizzazione dei corsi di formazione.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, ciò non può che essere riferito alla formazione generale in quanto per quella specifica entra in gioco il Dvr delle singole strutture ospitanti le quali, per altro, durante la permanenza dello studente assumono la posizione di datore di lavoro per la sicurezza ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008.

Sorveglianza sanitaria

Per quanto, invece, riguarda la sorveglianza sanitaria occorre sottolineare che l’art. 5, comma 5, del decreto n. 195/2017, stabilisce che agli studenti in regime di alternanza è garantita la sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, nei casi previsti dalla normativa vigente3, attraverso le aziende sanitarie locali, con la possibilità di stabilire in un’apposita convenzione tra queste ultime e l’istituzione scolastica il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri a essa conseguenti.

Questa previsione sta creando non poche incertezze sul piano operativo e pone un problema di fondo: si tratta di una soluzione che mette fuori gioco il medico competente aziendale, ossia proprio il soggetto che ha una conoscenza approfondita del documento di valutazione dei rischi (Dvr) dell’azienda ospitante. Appare interessante far osservare, poi, che

su questo tema così delicato si è espresso recentemente anche l’ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna, che nella nota 8 maggio 2018, prot. 860, ha tenuto a precisare che riveste «(….) natura eccezionale – previa valutazione caso per caso – la necessità di attivare la sorveglianza sanitaria, considerate le peculiarità di questo tipo di metodologia didattica, lo sviluppo temporale delle attività previste, nonché lo svolgimento da parte dello studente di esperienze lavorative in affiancamento a personale della struttura ospitante e sotto la supervisione del tutor aziendale e scolastico, sulla base di un progetto personalizzato condiviso” e «In base alla esperienza e ai limiti imposti dalla norma, considerati i compiti che vengono richiesti agli studenti in alternanza scuola lavoro (affiancamento e non svolgimento diretto) e la limitata permanenza degli studenti nelle strutture, la predetta valutazione dovrebbe portare a escludere livelli di rischio tali da giustificare la sorveglianza sanitaria».

Minorenni e stage formativi

Si osservi, inoltre, che nello stesso interpello n. 4/2018 è anche richiamata molto opportunamente anche la risposta all’interpello del 2 maggio 2013, n. 1, in cui la Commissione ha fornito indicazioni in merito al quesito relativo alla visita medica preventiva nei confronti di studenti minorenni Partecipanti a stage formativi, precisando in particolare che «l’obbligatorietà della visita di cui all’art. 8 della legge 977/1967 vige solo nei casi in cui vi sia un rapporto di lavoro, anche speciale, circostanza che non sussiste per “l’adolescente stagista” e “lo studente minorenne” che dovranno pertanto essere sottoposti a sorveglianza sanitaria solo nei casi previsti dalla normativa vigente».

Abusi e limiti

L’interpello n. 4/2018 deve essere letto congiuntamente, comunque, anche con le importanti indicazioni espresse dal ministero dell’Istruzione (Miur) nella poco nota lettera circolare 28 marzo 2017, prot. n. 3355, nella quale vengono forniti alcuni chiarimenti interpretativi in merito al già citato decreto n. 195/2017, oltre che a numerosi altri aspetti legati alla gestione degli studenti in alternanza (buoni pasto, compensi a esperti aziendali per opera legata alle attività di alternanza scuola-lavoro ecc.).

In particolare, il Miur ha tenuto a precisare, tra l’altro, che gli studenti in alternanza scuola-lavoro devono essere costantemente guidati nelle varie esperienze da una o più figure preposte alla realizzazione del percorso formativo (tutor interno, tutor formativo esterno) e non possono essere impegnati nelle fasce notturne. Sotto questo profilo è opportuno ricordare che gli studenti vanno impiegati esclusivamente per le attività coerenti con le finalità didattiche-educative e ciò costituisce un limite invalicabile. Da rilevare ancora che nella stessa lettera circolare viene molto opportunamente sottolineato che l’accoglimento degli studenti minorenni per i periodi di apprendimento in situazione lavorativa non fa acquisire agli stessi la qualifica di “lavoratore minore” di cui alla già citata legge n. 977/1967.

Il caso dei lavoratori autonomi

Tornando all’interpello n. 4/2018, alcune doverose osservazioni conclusive devono essere svolte sul caso specifico dell’impiego di tirocinanti e studenti in alternanza da parte dei lavoratori autonomi a cui fa particolare riferimento la Provincia autonoma di Trento nel quesito presentato. Si tratta di artigiani, professionisti e, più in generale, di prestatori d’opera che, secondo quanto prevede l’art. 2222 del Codice civile, svolgono un’attività intellettuale o manuale con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, che ai fini antinfortunistici diventano datori di lavoro per la sicurezza quando occupano almeno un dipendente o un equiparato a esso dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008. Com’è noto, ai lavoratori autonomi si applica sostanzialmente solo l’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale gli stessi sono tenuti a utilizzare le attrezzature di lavoro e i Dpi conformi alla vigente normativa e il tesserino identificativo, con la facoltà relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali, nonché di frequentare corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37 dello stesso decreto.

Alla luce di quanto evidenziato più in generale dalla Commissione si può desumere, quindi, che questo regime di tutela più limitata dell’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, non è applicabile né ai tirocinanti né agli studenti in alternanza con il risultato che il questi casi il soggetto ospitante anche se è un lavoratore autonomo assume a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza con tutto ciò che ne consegue come, ad esempio, l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di redigere il Dvr, nominare il Rspp ecc, e tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani.

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Nel cantiere edile il rischio è dietro l’angolo

Alcune delle situazioni più tipiche che meritano particolare attenzione.

Spesso sono proprio le attività estemporanee o di breve durata a essere quelle maggiormente pericolose per gli operatori. Cattive abitudini o errate indicazioni possono rivelarsi fatali. Ma basta poco, a volte, per garantire la sicurezza, organizzativa e puntuale, dei lavoratori.

Nei cantieri edili, le lavorazioni estemporanee o di durata relativamente breve sono molto più numerose che in altri ambienti. Gli spazi di lavoro sono caratterizzati da situazioni sempre nuove e in esse si ricorre molto spesso a una valutazione del rischio comparata fra due diverse misure di sicurezza. In questo confronto può accadere che l’uso di una misura di sicurezza, per così dire, consolidata, perché di tipo oggettivo o di tipo collettivo, cioè una misura di sicurezza che per lavorazioni stabili o di lunga durata sarebbe senz’altro prioritaria, potrebbe non essere conveniente perché lavori per la sua installazione potrebbero introdurre nell’intero ciclo rischi non giustificati rispetto al beneficio, modesto per la brevità della lavorazione. In altre parole, i rischi valutati per il montaggio della misura di sicurezza, scelta perché ritenuta prioritaria, sommandosi a quelli della lavorazione di produzione sposterebbero il totale generale, superando quelli che si avrebbero utilizzando misure di sicurezza di tipo individuale o di altro tipo come potrebbe essere la costante presenza di un preposto.

I lavori di manutenzione ordinaria di un tetto a falde, come la sostituzione di alcune tegole o la pulizia della superficie dei pannelli solari o infine la rimozione del materiale che ostruisce le grondaie, rappresentano situazioni reali più significative e concettualmente più semplici a sostegno di questa affermazione. La priorità delle misure collettive1 spingerebbe a realizzare un ponteggio metallico, mentre una corretta valutazione del rischio suggerisce che il rischio di caduta nel montaggio dell’opera provvisionale di tipo collettivo sposta la somma dei rischi a un valore tale da renderli maggiori a quelli che si valuterebbero se il lavoro fosse eseguito con dispositivi di protezione individuale agganciati a una linea vita o anche a un unico punto di ancoraggio. In queste ultime procedure la probabilità di caduta in assoluto è maggiore, ma poiché il tempo di esposizione è molto modesto il rischio finisce per essere minore a quello valutato per il montaggio del ponteggio metallico.

Qualità

Quando il braccio è impennato e il tubo di getto si estende verso il basso in tutta la sua lunghezza nel tragitto verticale del tubo la forza di gravità si sostituisce in parte alla pressione di avanzamento del flusso. Questo produce una separazione fra materiale inerte (più veloce) e impasto di cemento (più lento) e quindi una diversa concentrazione della miscela nel manufatto finale, non favorevole alla buona qualità del prodotto. La strozzatura inserita dall’applicazione del collo d’oca ricompone in parte la miscela evitando una eccessiva disomogeneità del getto.

Proiezione di materiale

Quando si ha la necessità di spostare in continuazione la posizione del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trova nelle vicinanze degli operatori come nelle casseforme di travi di coronamento o di pareti verticali continue o di scale, l’estremità del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trovano nelle immediate vicinanze degli operatori (almeno due: manovratore e vibratore). Se, in questo caso, non si provvede a rallentare in qualche modo la velocità di uscita del calcestruzzo parte del materiale si proietta in tutte le direzioni e ricopre gli operatori di cemento.

Rilascio dopo l’arresto del pompaggio

Quando si opera il getto all’interno di una serie di casseforme di pilastri, il tubo di getto rilascia una significativa quantità di calcestruzzo anche dopo che il manovratore per spostarsi da una cassaforma all’altra, ha interrotto il pompaggio. La presenza di una chiusura a cerniera sul terminale del tubo trattiene la caduta libera del calcestruzzo lungo il percorso da una cassaforma all’altra. Indicazione: tenere il tubo fermo sopra la cassaforma in attesa del termine del rilascio, oltre a introdurre tempi di esecuzione molto lunghi, non dà mai risultati certi.

Meno comprensibile è invece la natura delle motivazioni del divieto di queste attrezzature, che talora si concentrano in un unico elemento costituito da un collo d’oca munito di dispositivo di chiusura all’imbocco. Le motivazioni sono tutte riferite all’intasamento del condotto e successiva improvvisa ripartenza del flusso di calcestruzzo.

Il fenomeno può causare un movimento incontrollabile del tubo di getto, il cosiddetto colpo di frusta, dotato di notevole energia cinetica con potenziali effetti devastanti per la rigidità e per la massa del tubo e per l’anello metallico che è presente comunque alla fine del tubo flessibile. Le procedure di coordinamento impongono azioni di sicurezza più importanti per la gestione delle operazioni necessarie allo sblocco del flusso di calcestruzzo: interruzione della manovra di pompaggio e immediato allontanamento del personale a distanza di sicurezza dall’attrezzatura, fino a che il getto non ritorni regolare.
Non è mai detto chiaramente sulle documentazioni di sicurezza prodotte, ma si è autorizzati a pensare, salvo prova contraria, che i suddetti divieti siano originati dal ritenere che il colpo di frusta del tubo di getto sia pericoloso se attrezzato con collo d’oca e tanto più se quest’ultimo sia dotato di chiusura all’imbocco. In realtà, per quanto già detto, il colpo di frusta, conseguenza di una ripartenza improvvisa del flusso a seguito di un intasamento, è pericoloso a prescindere dalla presenza del collo d’oca.
È ovvio che la pericolosità possa aumentare per l’applicazione sul tubo di una parte metallica di riguardevole massa, ma questo aumento si potrebbe ripercuotere su un lavoratore solo se si contravviene manifestamente alla procedura data. Quindi, da una parte l’uso del collo d’oca non deve essere generalizzato, ma consentito solo nei casi descritti, quando cioè viene richiesto per motivi tecnici, ergonomici e di sicurezza, dall’altra non è corretto impartire restrizioni non ergonomiche alle lavorazioni perché si teme che procedure fondamentali non vengano rispettate.

In altre parole, se – nonostante nelle procedure di coordinamento siano state previsti determinati comportamenti per eliminare i rischi d’infortunio in caso del colpo di frusta – si vuole vietare il collo d’oca per timore che il pompista non rispetti questi comportamenti, non solo si perde di vista il rischio fondamentale costituito dal tubo anche senza collo d’oca, ma si rendono inutili le misure di sicurezza fondamentali. Ovvero, in altre parole, sarebbe come vietare la presenza di corpi contundenti sul fondo di un scavo perché, in assenza di u parapetto, una eventuale caduta da quelli sarebbe aggravata.

Noleggio a caldo di piattaforme aeree

È noto l’obbligo, per alcune piattaforme aeree, in base al quale le manovre siano effettuate da un operatore a bordo della piattaforma. La posizione del manovratore a terra, o in qualsiasi altra parte, potrebbe essere tanto lontana dal cestello in movimento, a bordo del quale stazionano altri lavoratori, da causare errori di valutazione di distanze o di presenza di ostacoli. Non sono stati infrequenti gravi infortuni per errori di manovra da parte di manovratori a terra o all’interno della cabina dell’automezzo che trasporta la piattaforma. L’obbligo è comprensibile e di normale attuazione quando l’attrezzatura è usata nell’ambito dell’azienda proprietaria del mezzo; diventa problematico nel caso di noleggio con operatore.
Questi, sentendosi estraneo a qualsiasi operazione venga eseguita in quota, manovra sempre da terra. Se interpellato sulla regolarità di questo tipo di postazione, l’operatore si identifica nel soggetto della manovra di emergenza e sostiene che solo da terra si può procedere a questa operazione. La situazione è sottovalutata e la motivazione è superficiale. Il rispetto delle istruzioni di manovra è tassativo. Ma è anche vero che, con tutto il rispetto dell’importanza della formazione, le istruzioni per questa manovra sono piuttosto semplici e questa si effettua sempre a motore spento.

Con una chiave si accede al quadretto di emergenza. La manovra avviene con un comando, a pulsante o a leva, che libera il fluido verso il serbatoio attraverso una valvola limitatrice di flusso, provocando la discesa per gravità della piattaforma a velocità controllata. Se le istruzioni prescrivono la manovra a bordo della piattaforma, il manovratore, prima delle operazioni, istruisce un soggetto dell’impresa che ha preso a noleggio l’attrezzatura, gli consegna la chiave del quadretto, stabilisce un contatto vocale con lo stesso e sale a bordo della piattaforma. All’inizio di ogni giornata lavorativa successiva ripete queste istruzioni prima di incominciare le operazioni.

Ponteggio all’interno dei vani ascensori

Il sistema migliore per eliminare il rischi di caduta nel vano ascensore durante il lungo intervallo di tempo che separa la costruzione della struttura di cemento armato (quasi all’inizio dell’opera) dall’istallazione dell’impianto (quasi alla fine dell’opera) consiste nel costruire fin da subito all’interno il ponteggio di tubi e giunti, a servizio del futuro montaggio, con ripiani in corrispondenza dei solai.

Negli edifici di civile abitazione, la distanza fra un piano e l’altro varia da 270 a 300 cm. Poiché il regolamento prescrive che gli impalcati distanti più di 2,50 m devono essere dotati di sottoponte, fra due ripiani consecutivi dovrebbe essere realizzato un impalcato che abbia questa funzione. Poiché nel nostro caso l’obbligo è generato dal superamento dell’altezza limite fissata dal regolamento di appena 20-50 cm e poiché la costruzione del sottoponte, come ogni altra lavorazione in quota, introduce nella lavorazione un rischio di caduta dall’alto, è lecito chiedersi se esiste un’altra misura di sicurezza che risponda alle finalità del sottoponte4 che non presenti gli stessi rischi durante la costruzione. La sostituzione del sottoponte con il raddoppio dello strato di tavole del ripiano soddisfa alle condizioni poste. Infatti, da una parte, come nel caso del sottoponte, c’è il raddoppio dell’opera provvisionale e, dall’altra, il posizionamento di un secondo strato di tavole sui ripiani del ponteggio non comporta alcun rischio di caduta.

Abbigliamento

A parte alcune lavorazioni tradizionali (saldatura) od occasionali di particolare natura nelle quali l’abbigliamento di sicurezza deve coprire l’intero corpo, la riduzione dell’abbigliamento nella parte superiore del corpo durante la stagione estiva deve arrestarsi alla maglietta con mezze maniche. Al contrario, poiché la continuità del tessuto nei pantaloni normali può costituire impaccio nell’articolazione in caso di abbondante sudorazione, nella parte inferiore si possono consentire pantaloni a mezza gamba e scoprire le ginocchia. Pertanto, occorre raccomandare ai datori di lavoro di non permettere ai lavoratori di operare in canottiera, né tanto meno a torso nudo e di controllare che i lavoratori che optano per il pantalone a mezza gamba indossino tassativamente i calzini per proteggere la parte inferiore della gamba.

Dopo avere ribadito la riserva per le lavorazioni nelle quali la protezione obbligatoria fornita dall’abbigliamento non potrà essere ridotta per alcun motivo, conviene supportare entrambe le posizioni assunte, mai trattate nei manuali di prevenzione infortuni e igiene del lavoro, con esempi tratti dall’esperienza quotidiana di cantiere. I lavoratori che frequentemente tendono a lavorare a torso nudo sono spesso i ferraioli. Invitati a mantenere un abbigliamento più confacente a un ambiente di lavoro, protestano lamentandosi del caldo estivo.

Questo atteggiamento nasce, naturalmente, da un pregiudizio: senza entrare nel merito dei tumori della pelle, artigiani di esercizi alimentari o lavoratori delle fonderie lavorano tutto l’anno in ambienti termicamente molto più severi senza spogliarsi. Riguardo, invece, alla possibilità concessa ai lavoratori di indossare nella stagione calda pantaloni lunghi fino a sopra il ginocchio, appare scontato che se l’abbigliamento fosse completato con calzini lunghi, à la coloniale, il rischio dovuto alla piccola parte scoperta che rimarrebbe sarebbe trascurabile rispetto ai vantaggi ergonomici di avere la completa libertà nell’articolazione degli arti inferiori.

Ma, altro è parlare di una divisa militare nella quale si può pretendere per disciplina una correttezza assoluta e altro è disporre che queste regole vengano rispettate nell’ambiente dei cantieri. Si rimane in ogni caso dell’avviso che nei giorni più caldi il pantalone sopra al ginocchio, accompagnato da un paio di calzini qualsiasi, sia più conveniente di quello lungo.

Passaggio di carichi sospesi

Il pericolo costituito da un carico sospeso, trattato nella vecchia normativa con un divieto riferito alla manovra dei carichi, nel D.Lgs. 81/2008 si è trasformato in un divieto di sostare riferito ai lavoratori. A parte che, in ogni caso, gli obblighi fanno capo al datore di lavoro, sfugge la ragione di questa variazione. Qualsiasi divieto riguardante i carichi sospesi è in ogni caso molto difficile da gestire. Da un lato, lo spostamento continuo delle lavorazioni nel cantiere e dei lavoratori nelle lavorazioni non consente di stabilire traiettorie del carico sgombre da persone; dall’altra ci sono situazioni nelle quali le operazioni di sollevamento carichi sono così frequenti e numerose che gli avvisi acustici lanciati dal gruista perdono la loro funzione di allarme.

Si assiste, in questo caso, a una sorta di atteggiamento indifferente da parte dei lavoratori: rimangono dove sono senza neanche dirigere lo sguardo verso l’alto per allertarsi. Poiché, peraltro, emerge nei colloqui con gli interessati, la causa per la quale non ci si allerta alzando il capo verso il cielo è talvolta il timore che l’elmetto scivoli dal capo, è una buona occasione per spezzare una lancia in favore dell’elmetto con sottogola che, oltre a permettere ai lavoratori una maggiore libertà di movimento, dovrebbe essere prescritto nei cantieri, dove lo scivolamento dell’elmetto verso le ampie aperture verso l’esterno o nel transito dei ponteggi o nei vani scala potrebbe avere dannose conseguenze.

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Ponteggi e autorizzazioni: le novità dal Ministero del Lavoro

L’adempimento va svolto, in base al D.Lgs. n. 81/2008, ogni dieci anni.

Con la circolare 28 maggio 2018, n. 10, chiarite le modalità con cui presentare le richieste di rinnovo per la costruzione e l’impiego. Dei contenuti si sta occupando un apposito gruppo incaricato di fare il punto sul progresso tecnico che ha interessato questo tipo di attrezzature per il cantiere.

La costruzione e l’impiego dei ponteggi realizzati con elementi portanti prefabbricati, metallici o no, sono disciplinati dalle norme contenute nella sezione V «Ponteggi fissi» del D.Lgs n. 81/2008 (articoli 131-137).

L’art. 131 stabilisce che per ciascun tipo di ponteggio il fabbricante debba chiedere al ministero del Lavoro l’autorizzazione alla costruzione e all’impiego, corredando la domanda da una relazione nella quale devono essere specificati i seguenti elementi:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

Il comma 5 dell’art. 131 specifica che «l’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». Il rilascio da parte del ministero dell’autorizzazione alla costruzione e all’impiego dei ponteggi era previsto già nel D.P.R. 164/1956 all’art. 30. Dal 1973 il ministero ha emesso un migliaio circa di provvedimenti (autorizzazioni, estensioni, volture) che, fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008 (14 maggio 2008), avevano durata illimitata.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto testo unico della sicurezza, il legislatore ha posto attenzione alla questione del periodo di validità dell’autorizzazione ministeriale e, per questo motivo, nel decreto fu inserito un comma specifico «L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». L’uscita della circolare 10/2018 ha permesso al ministero di dare prima applicazione alla previsione contenuta nel citato comma.

Ciò comporta di analizzare lo stato di evoluzione del progresso tecnico in merito alla costruzione dei ponteggi fissi, in relazione anche ai criteri e alle modalità con cui nel passato sono state rilasciate le autorizzazioni, e tenendo conto degli elementi contenuti nell’articolo 132 e cioè:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

È dunque necessario stabilire il significato di «evoluzione del progresso tecnico» che può essere inteso come un «processo di creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie» e «può derivare dall’aumento di conoscenze e capacità o dal miglioramento della qualità o delle caratteristiche di uno o più fattori produttivi».

Riguardo ai ponteggi metallici questo concetto va applicato alle istruzioni per la costruzione e l’impiego che, alla luce di quanto sopra specificato, possono essere influenzate dalla «creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie».

Identificare, stabilire e definire come si evolvano tecnicamente i ponteggi non è immediato. L’entrata in vigore di una nuova norma tecnica o di uno standard Cen o Uni – ad esempio – potrebbe essere considerata in questo senso.
L’evoluzione del progresso tecnico relativo ai ponteggi potrebbe scaturire da:

  • studi e ricerche per lo sviluppo e la validazione di metodologie e procedure dedicate alla fornitura, progettazione, montaggio, smontaggio, trasformazione e uso;
  • elaborazione di modalità applicative, svolgimento di attività sperimentale e sviluppo di modelli utilizzabili per la valutazione del rischio in relazione all’impiego;
  • effettuazione di verifiche di carattere progettuale e di prove sperimentali per la messa a punto di codici dedicati alla valutazione dei livelli di sicurezza.

Per poter adempiere a quanto contenuto nel comma 5, il ministero del Lavoro, (Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali) ha costituito un apposito gruppo di lavoro tecnico composto di rappresentanti del ministero stesso, del servizio tecnico centrale del Consiglio superiore dei lavori pubblici, dell’Inail e dell’Istituto per le tecnologie della costruzione del Cnr.
Il gruppo di lavoro ha lo scopo di elaborare un documento tecnico riguardante le norme tecniche specifiche sui ponteggi fissi e

provvedere successivamente all’aggiornamento delle istruzioni per la costruzione e l’impiego. Il documento tecnico elaborato dal gruppo consentirà al ministero di definire le indicazioni tecniche aggiornate necessarie a verificare l’adeguatezza delle autorizzazioni vigenti all’evoluzione del progresso tecnico.
La circolare 10/2018 tiene conto dei contenuti nella circolare 29 del 27 agosto 2010 dello stesso ministero del Lavoro e in particolare del quesito 1 «In riferimento all’articolo 131, comma 5 del D.lgs. n. 81/08 cosa si intende per L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico?»
La risposta al quesito fu che «La validità decennale delle autorizzazioni ministeriali, rilasciate prima del 15 maggio 2008, data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008, decorre dalla medesima data, quindi detta validità si intende estesa fino al 14 maggio 2018. Per quelle autorizzazioni ministeriali rilasciate successivamente al 14 maggio 2008 la validità decorrerà dalla data di rilascio.

Si ricorda altresì che l’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale di cui all’articolo 131 del D.Lgs. 81/2008 riguarda il titolare dell’autorizzazione ministeriale e non l’impresa utilizzatrice. Pertanto l’impresa utilizzatrice potrà impiegare i ponteggi anche dopo la cessazione della validità decennale dell’autorizzazione medesima. Si evidenzia, infine, che l’autorizzazione ministeriale si intenderà automaticamente sospesa, nei soli confronti del titolare dell’autorizzazione medesima, in assenza dell’avvenuto rinnovo decennale».

L’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale è in capo al titolare della stessa e non all’impresa utilizzatrice che non è coinvolta in questo iter. Essa potrà continuare a impiegare i ponteggi anche dopo la eventuale cessazione della validità decennale. La problematica del rinnovo non riguarda quindi i soggetti che utilizzano il ponteggio: imprese, lavoratori autonomi, artigiani ecc.

Il mantenimento in vigore del sistema autorizzativo sui ponteggi presuppone la conoscenza da parte del ministero delle autorizzazioni per le quali i fabbricanti sono interessati al proseguimento della produzione.

Ciò al fine di poter avviare, una volta disponibili le nuove indicazioni tecniche, la necessaria istruttoria per verificarne l’adeguatezza secondo quanto previsto dal comma 5.

A tal fine, il ministero ha richiesto ai titolari di trasmettere apposita istanza di rinnovo corredata da:

  • copia delle singole autorizzazioni a suo tempo rilasciate dal ministero stesso;
  • dichiarazione resa dal legale rappresentante riguardo il mantenimento dei requisiti di sicurezza del ponteggio;
  • dichiarazione dalla quale risulti che la produzione del ponteggio è tuttora in corso.

La circolare 10/2018 prevede la revoca delle autorizzazioni ministeriali per cui non è stata trasmessa l’istanza di rinnovo entro il 15 giugno 2018. Le autorizzazioni per le quali sia stata presentata istanza di rinnovo saranno decise sulla base delle indicazioni tecniche attualmente vigenti nelle more della definizione delle norme tecniche specifiche da parte del gruppo di lavoro tecnico citato.

Una volta disponibili le nuove norme tecniche, il ministero renderà noti ai titolari dei provvedimenti termini e modalità per la revisione delle autorizzazioni rinnovate medio tempore.

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Sicurezza sul lavoro: inasprite le sanzioni

L’aumento, in vigore dal 1° luglio 2018 e pari all’1,9%, è stato determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registrata nel quinquennio 2013-2018, sommandosi al contestato incremento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a una crescita dell’11,50%.

Nel corso dell’ultimo decennio, uno dei dati che, forse, spesso sfugge è che il sistema sanzionatorio italiano per gli illeciti derivanti dalla violazione di norme antinfortunistiche ha subito diverse modifiche e, soprattutto, i diversi governi che si sono succeduti hanno quasi puntualmente operato un giro di vite sugli importi delle ammende e delle sanzioni amministrative pecuniarie. Solo per ricordare alcuni dei passaggi più significativi di questa evoluzione occorre richiamare il D.Lgs. n. 106/2009 (il cosiddetto “correttivo al testo unico”) che ha introdotto un meccanismo d’indicizzazione delle sanzioni previste dal D. Lgs. n. 81/2008, per poi passare al D.L. n. 76/2013 che ha apportato importanti modifiche a questo meccanismo, fino ad arrivare all’art. 20, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 151/2015, che ha inserito nell’art. 55 del D.Lgs. n. 81/2008 il comma 6-bis in base al quale, in caso di violazione delle disposizioni previste dall’art. 18, comma 1, lettera g), in materia di visite mediche, e dall’art. 37, commi 1, 7, 9 e 10, in materia di formazione obbligatoria delle figure della prevenzione, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori gli importi della sanzione sono raddoppiati, mentre se si riferisce a più di dieci lavoratori gli importi della sanzione sono addirittura triplicati.

Insomma, malgrado un miglioramento del trend infortunistico, almeno fino al 2017 secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inail nell’ultimo rapporto annuale, il dato che emerge è che si stia giocando sempre più al rialzo attraverso continui giri di vite. L’ultimo è stato attuato con il decreto direttoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro 6 giugno 2018, n. 12 (comunicato di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 19 giugno 2018, n. 140), che ha determinato nella misura dell’1,9% la rivalutazione delle sanzioni pecuniarie. Il provvedimento arriva dopo il via libera del ministero del Lavoro che con nota del 18 aprile 2018 ha stabilito la competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro a regolare la materia, ed è stato emanato in attuazione dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, che ha novellato il comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, riscrivendo completamente e in modo peggiorativo il sistema d’indicizzazione su base quinquennale delle sanzioni penali e amministrative pecuniarie introdotto originariamente dal già citato D.Lgs. n. 106/2009. Si tratta, quindi, di un ulteriore inasprimento del sistema sanzionatorio in quanto il nuovo aumento dell’1,9%, in vigore dal 1° luglio 2018 e determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registratasi nel quinquennio 2013-2018, si somma al contestato aumento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a un incremento complessivo delle sanzioni dell’11,50%. Troppo, in soli cinque anni, per altro con un quadro economico nazionale che evidenzia che il Paese non è ancora uscito effettivamente dalla crisi. Per altro, il decreto n. 12/2018 pone anche una serie di questioni applicative legate soprattutto alle tipologie di illeciti interessati dall’aumento, la determinazione dei nuovi importi e i riflessi sulla sospensione dell’attività d’impresa e per questi motivi molto opportunamente l’Ispettorato nazionale del lavoro è corso subito ai ripari emanando la lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314.

Quali illeciti

Per quanto riguarda le tipologie di illeciti attratti dall’incremento, occorre subito evidenziare che la portata dell’aumento è generalizzata e non circoscritta, quindi, alle sole sanzioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008.

Si consideri, infatti, che la misura dell’1,9% si applica alle sanzioni penali pecuniarie di natura contravvenzionale (ammende) e amministrative pecuniarie previste non solo dal D.Lgs. n. 81/2008, ma anche da altri atti aventi forza di legge come decreti legge, decreti legislativi e leggi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. Di conseguenza, questo nuovo rincaro interessa una vastissima gamma d’illeciti come, ad esempio, quelli in materia di valutazione dei rischi e di redazione del relativo documento (artt. 17, 28, 29 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), d’informazione e formazione (art. 36, 37 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), di visite mediche (art. 41, D.Lgs. n.81/2008), di tesserino identificativo negli appalti, di cantieri temporanei e mobili, di documento unico di valutazione dei rischi da interferenze negli appalti (Duvri) e di Durc (art. 90, comma 9, lett. c), D.Lgs n. 81/2008) e la mancata comunicazione all’Inail del nominativo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 18, comma 1, lett. aa, D.Lgs n. 81/2008). L’aumento, inoltre, tocca anche le sanzioni penali e amministrative previste da altriprovvedimenti tra i quali occorre ricordare:

  • il D.Lgs. n. 271/1999, relativo alla salute e sicurezza nel lavoro marittimo;
  • il D.Lgs. n. 272/1999, relativo alla sicurezza in ambito portuale e nelle operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi;
  • il D.Lgs. n. 624/1996, relativo alla sicurezza e la salute nelle attività estrattive di sostanze minerali;
  • il D.Lgs. n.298/1999, relativo a salute e sicurezza a bordo delle navi da pesca.

I destinatari dell’aumento in questione non sono, quindi, solo i datori di lavoro, ma anche i dirigenti, i preposti, i lavoratori e altri soggetti come i coordinatori nei cantieri, il medico competente, i progettisti, i fabbricanti, gli installatori, i venditori, nonché i committenti (anche privati) degli appalti di lavori edili.

Il principio del “favor rei”

Collegato a questo ulteriore aumento è anche il problema della rilevanza delle condotte illecite commesse prima del 1° luglio 2018; in effetti la soluzione la si rintraccia già nel testo dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, dopo le modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 99/2013.

Questa disposizione, infatti, nella sua versione finale ha inserito nel corpo del comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, la specificazione che l’applicazione della rivalutazione del 9,60% avviene a decorrere dal 1° luglio 2013, e con riferimento «esclusivamente alle sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data».

Nel decreto n. 12/2018, però, è stato riportato il testo del citato comma 4-bis del D.Lgs. n. 81/2008, ma vigente prima delle modifiche della legge n. 99/2013; nella già citata lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, tuttavia, si chiarisce che «L’incremento dell’1,9% va calcolato sugli importi delle sanzioni attualmente vigenti e, analogamente a quanto previsto nella precedente rivalutazione, si applica esclusivamente alle ammende e alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per le violazioni commesse successivamente al 1° luglio 2018». In altri termini, quindi, in virtù del principio del favor rei (la tutela dell’imputato) per stabilire se trova applicazione o meno anche la nuova maggiorazione dell’1,9% occorrerà fare riferimento non al momento in cui l’illecito è stato contestato dagli organi di vigilanza, ma quando lo stesso è stato consumato dall’autore.

Sospensione

Alcune riflessioni devono essere compiute anche per quanto riguarda la sospensione dell’attività d’impresa regolata dall’art. 14 del D.Lgs. n.81/2008. Com’è noto, gli organi di vigilanza possono adottare provvedimenti di sospensione in relazione alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (cfr. allegato I, D.Lgs. n. 81/2008).

Si è posto il problema di stabilire, quindi, se sono attratte dall’incremento dell’1,9% anche le somme aggiuntive previste per la revoca del provvedimento di sospensione previsto dal comma 4 del già citato art. 14, ossia di 2 mila euro nell’ipotesi di sospensione per lavoro irregolare e di 3.200 euro nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

L’Ispettorato nazionale del lavoro, però, molto prontamente nella lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314, riprendendo l’orientamento già espresso in merito dal ministero del Lavoro nella circolare 29 agosto 2013, n. 35, ha tenuto a precisare che questo ulteriore aumento dell’1,9% non si applica alle richiamate somme aggiuntive in quanto le stesse non costituiscono propriamente una sanzione. Occorre sottolineare ancora che, per effetto di questo adeguamento, il datore di lavoro che non ottempera al provvedimento di sospensione nelle ipotesi d’impiego di lavoro irregolare dal 1° luglio 2018 è punito con arresto da tre a sei mesi o l’ammenda da 2.792,00 euro a 7.147,68 euro.

No agli arrotondamenti

Resta da osservare che per quanto riguarda la determinazione dei nuovi importi lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro, nella circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, ha anche precisato che «L’attuale disciplina non prevede arrotondamenti sull’ammontare finale dell’ammenda e della sanzione amministrativa incrementata dell’1,9% e pertanto non va applicato alcun arrotondamento delle cifre risultanti dal calcolo».

Si osservi che nell’operare questo calcolo potrebbe verificarsi un po’ di confusione. Infatti, nei testi ufficiali, gli importi delle sanzioni del D.Lgs. n. 81/2008 degli altri provvedimenti richiamati non sono stati aggiornati – alcuni riportano ancora gli importi in lire – e di conseguenza sull’ammontare originario dell’ammenda e della sanzione pecuniaria amministrativa andrà applicato il 9,60% (incremento dal 1° luglio 2013) maggiorato dell’1,9%.

Da rilevare, infine, che allegato alla lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, è riportato un utile quadro riepilogativo delle ammende e delle sanzioni pecuniarie più ricorrenti con indicazione degli importi rivalutati per effetto del decreto n. 12/2018.

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Antincendio nelle scuole: nuove norme al via

Pubblicato il decreto del ministero dell’Interno 21 marzo 2018. Con il provvedimento, sono state introdotte ulteriori indicazioni per l’adeguamento degli edifici destinati alla didattica, compresi gli asili nido. Uno strumento finalizzato a supportare la messa in sicurezza delle strutture dopo le molte – troppe – proroghe.

Con la pubblicazione del decreto ministeriale 21 marzo 2018, avvenuta sulla Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2018, sono state divulgate ulteriori indicazioni per l’adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole, compresi quelli adibiti ad asili nido. Di fatto, siamo in presenza di un nuovo strumento realizzato per supportare la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici la cui esecuzione, dopo numerosissime proroghe, avrebbe dovuto concludersi entro il 31 dicembre del 2017. Al riguardo non è superfluo ricordare che il primo atto avente forza di legge fu emanato nel lontano 1992. In particolare, i tecnici del ministero dell’interno, attraverso il D.M. 26 agosto 19921, avevano puntualmente individuato le misure da attuare per garantire alti livelli di sicurezza antincendio nell’edilizia scolastica e avevano stabilito che l’adeguamento di tutti gli edifici dovesse concludersi entro cinque anni. Purtroppo questa scadenza è stata oggetto di numerose proroghe e altrettante linee guida.

In questo quadro, particolare importanza ha rivestito il decreto del ministero dell’Interno 12 maggio 2016, attraverso il quale era stato fissato il piano definitivo per l’adeguamento delle scuole alle norme di prevenzione incendi. In particolare, il ministero dell’Interno con questo decreto aveva fissato puntuali scadenze entro le quali tutti gli istituti scolastici avrebbero dovuto attuare le misure di prevenzione e protezione specificate dal decreto del 1992. Il piano, contenuto nell’articolo 1 del decreto 12 maggio 2016, fissava due scadenze: il primo termine era previsto per la fine di agosto 2016 (prima della ripresa delle attività scolastiche); il secondo era fissato per la fine di novembre dello stesso anno. Nel dettaglio, con l’articolo 1 del D.M. 12 maggio 2016 era stato prescritto che entro il 26 agosto 2016, se non ancora compiuti, in tutti gli edifici scolastici si sarebbe dovuto intervenire per garantire impianti elettrici sicuri, per la rapida segnalazione degli allarmi, per segnalare la presenza di presidi antincendio e instalattare la segnaletica di sicurezza; infine, si sarebbero dovute adottare procedure di esercizio. La seconda scadenza prevista era quella del 26 novembre 2016. Al riguardo erano previsti adeguamenti differenti secondo il periodo di realizzazione degli edifici. In particolare, erano individuati tre casi: scuole preesistenti alla data di entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975, scuole realizzate successivamente all’entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975 ed entro la data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992 e scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992.

Per le prime era stabilito che doveva essere data attuazione alle misure di cui ai punti 2.4, 3.1, 5 (5.5 larghezza totale riferita al solo piano di massimo affollamento), 6.1, 6.2, 6.3.0, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. In effetti, per questi edifici era previsto l’adeguamento alle disposizioni concernenti le separazioni (e compartimentazioni), la reazione al fuoco dei materiali presenti, le misure per l’evacuazione in caso di emergenza, quelle previste per gli impianti elettrici e i mezzi e gli impianti di protezione ed estinzione degli incendi. Per le scuole che ricadevano nella seconda tipologia era invece prevista l’attuazione delle misure di cui ai punti 2.4, 3, 4, 5, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. Di fatto, per questi edifici era richiesto anche il rispetto delle specifiche dettate per la resistenza al fuoco delle strutture, la compartimentazione, le scale, gli ascensori, per l’evacuazione in caso di emergenza e servizi tecnologici.

Infine, per le scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992, era richiesto il rispetto di tutte le misure specificate nello stesso decreto, senza alcuna esclusione.
È opportuno evidenziare che tutti gli adeguamenti avrebbero dovuto comunque essere attuati entro il 31 dicembre 2016 (lettera c), 1 comma, art. 1). Purtroppo anche queste scadenze sono state oggetto di proroghe. In particolare con l’art. 4, comma 2 del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244 coordinato con la legge di conversione 27 febbraio 2017, n. 19 recante “Proroga e definizione di termini” (il cosiddetto “Milleproroghe”) tutti gli adeguamenti previsti dal D.M. 12 maggio 2016 sono stati posticipati al 31 dicembre 2017.

Oggi, alla luce del fatto che alla data del 31 dicembre 2017 è scaduto il termine di adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole di qualsiasi tipo, ordine e grado (compresi gli asili nido), il ministero dell’Interno, ferma restando l’integrale osservanza del decreto del 26 agosto 1992, ha individuato tre livelli di priorità programmatica:

  • livello di priorità A: disposizioni di cui al D.M. 26 agosto 1992 ai punti 7.1 (limitatamente al secondo comma) lettere a) e b); 8; 9.2; 10; 12;
  • livello di priorità B: disposizioni di cui al Dm 26 agosto 1992 ai punti 6.1; 6.2; 6.4; 6.6 (limitatamente al punto 6.6.1); 9.3;
  • livello di priorità C: restanti disposizioni del DM 26 agosto 1992.

Livello di priorità A

Il primo livello di priorità prevede inizialmente l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 7.1, (limitatamente al secondo comma, lettere a) e b)) concernete l’impianto elettrico di sicurezza che, si ricorda, oltre al sistema di allarme, deve alimentare anche quello di illuminazione di sicurezza, garantendo un livello di illuminazione non inferiore a cinque lux. Si evidenzia che l’alimentazione dell’impianto di sicurezza deve potersi inserire anche con comando a mano posto in posizione conosciuta dal personale, che sono ammesse singole lampade, o gruppi di lampade, con alimentazione autonoma e che l’autonomia della sorgente di sicurezza non deve essere inferiore a trenta minuti. Nel caso in cui siano impiegati dispositivi di carica degli accumulatori, è inoltre previsto l’impiego di prodotti di tipo automatico che consentano la ricarica entro dodici ore.

Per il sistema di allarme (disposizioni di cui al punto 8 del D.M. 26 agosto 1992), incluse nel «livello di priorità A», è previsto che le scuole debbano essere munite di un sistema in grado di avvertire gli alunni e il personale presenti in caso di pericolo. Questo sistema deve essere realizzato in modo da garantire la segnalazione del pericolo a tutti gli occupanti il complesso scolastico e il suo comando deve essere posto in locale costantemente presidiato durante il funzionamento della scuola.

Si segnala che per le scuole di tipo 0-1-2 il sistema di allarme può essere costituito, dallo stesso impianto a campanelli usato normalmente per la scuola. Per le altre scuole è invece previsto un impianto di altoparlanti.

Per quanto concerne gli estintori d’incendio, per l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 9.2 D.M. 26 agosto 1992 deve essere prevista l’installazione di estintori portatili di capacità estinguente non inferiore 13 A – 89 BC, in ragione di almeno un estintore per ogni 200 m2 di pavimento o frazione, con un minimo di due estintori per piano. Si segnala che nel primo livello di priorità programmatica ricade anche l’adeguamento alle disposizioni cogenti in materia di segnaletica di sicurezza (punto 10 D.M. 26 agosto 1992). Al riguardo è opportuno evidenziare che, attualmente, il D.Lgs. 81/2008 affronta questo argomento negli articoli 161 e 162.

Infine, per le norme di esercizio, comprese nelle priorità di tipo A, si ricorda che per l’adeguamento alle regole di prevenzione incendi deve essere predisposto un registro dei controlli periodici ove sono annotati tutti gli interventi e i controlli relativi all’efficienza degli impianti, dei presidi antincendio, dei dispositivi di sicurezza e di controllo, delle aree a rischio specifico e dell’osservanza della limitazione dei carichi d’incendio nei vari ambienti dell’attività.
Inoltre, deve essere predisposto un piano di emergenza e devono essere eseguite prove di evacuazione, almeno due volte nel corso dell’anno scolastico. Inoltre, devono essere rispettate altre disposizioni finalizzate a garantire che siano sempre rispettate le norme di sicurezza e che gli impianti, le attrezzature e le aree siano sottoposte a regolare manutenzione, il sistema di vie di esodo sia sempre funzionante e, infine, che il materiale infiammabile sia depositato in quantità strettamente necessarie per esigenze igienico-sanitarie e per l’attività didattica e di ricerca.

Livello di priorità B

Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel secondo livello di priorità (priorità B) l’adeguamento 6.4, 6.6 e 9.3 del decreto 26 agosto 1992. Di fatto, in questo caso l’intento dei tecnici del ministero dell’Interno è di suggerire la programmazione di interventi volti all’innalzamento dei livelli di sicurezza anche negli spazi a rischio specifico come i locali per le esercitazioni, i depositi, i servizi tecnologici, gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche, le autorimesse e le aree per servizi logistici (mense, dormitori).

Al riguardo, si evidenzia che per gli spazi per le esercitazioni (e i locali per depositi annessi) la regola tecnica di prevenzione incendi prevede che siano ubicati ai piani fuori terra o al 1° interrato, fatta eccezione per i locali ove vengono utilizzati gas combustibili con densità superiore a 0,8 che, si ricorda, devono essere ubicati ai piani fuori terra senza comunicazioni con i piani interrati. Per questi spazi è inoltre previsto che, indipendentemente dal tipo di materiale impiegato nella realizzazione, le strutture di separazione devono sempre avere caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Le comunicazioni tra il locale per le esercitazioni e il locale deposito annesso, devono essere munite di porte dotate di chiusura automatica aventi resistenza al fuoco almeno Rei 60.

Particolare attenzione deve essere data alle aree dove sono utilizzate e depositate sostanze radioattive o macchine radiogene. Al riguardo, si ricorda che questi locali – da realizzare in modo da consentire che eventuali operazioni di decontaminazione avvengano in modo agevole – devono essere predisposti per la raccolta e il successivo allontanamento delle acque di lavaggio o di estinzione di principi di incendio. Gli spazi per le esercitazioni dove sono maneggiate sostanze esplosive, o infiammabili, devono essere provvisti di aperture di aerazione permanente, ricavate su pareti attestate all’esterno di superficie pari a un ventesimo della superficie in pianta del locale. È opportuno evidenziare che nel caso di manipolazione di gas con densità superiore a 0,8 delle predette aperture di aerazione, la regola tecnica prevede che almeno un terzo della superficie complessiva sia costituita da aperture, protette con grigliatura metallica, situate nella parte inferiore della parete attestata all’esterno e poste a filo pavimento.

Per quanto concerne l’adeguamento degli spazi per depositi, che possono essere ubicati ai piani fuori terra o ai piani uno e due interrati, è necessario verificare che abbiano caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Anche per questi locali l’accesso deve avvenire tramite porte almeno Rei 60 dotate di dispositivo di autochiusura. Per quanto riguarda la superficie massima lorda di ogni singolo locale, si ricorda che non può essere superiore a mille metri quadrati per i piani fuori terra e 500 metri quadrati per i piani uno e due interrato. Per questi locali devono essere previste aperture di aerazione con superficie non inferiore a un quarantesimo della superficie in pianta (protette da robuste griglie a maglia fitta). Per quanto concerne il carico di incendio, si ricorda che quello di ogni spazio adibito a deposito non deve superare i 30 kg/m2 e che, nel caso in cui questo limite dovesse essere superato, deve essere prevista l’installazione di un impianto di estinzione incendi di tipo automatico. Tra le misure da attuare per l’adeguamento degli spazi dedicati a depositi, si ricorda anche quello relativo alla presenza di estintori portatili d’incendio. Per questo aspetto, la regola stabilita dal decreto 26 agosto 1992 prevede che a uso di ogni locale deve essere previsto almeno un estintore, di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, ogni 200m2 di superficie.
Particolare attenzione deve essere prestata ai depositi di materiali infiammabili liquidi e gassosi per i quali è stabilito che devono essere ubicati al di fuori del volume del fabbricato e che lo stoccaggio, la distribuzione e l’utilizzazione di que sti materiali devono sempre essere eseguiti in conformità delle norme e dei criteri tecnici di prevenzione incendi. Ogni deposito dovrà essere dotato di almeno un estintore di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, 89 B, C ogni 150 m2 di superficie. Per esigenze didattiche e igienico-sanitarie è consentito detenere complessivamente all’interno del volume dell’edificio, in armadi dotati di bacino di contenimento, 20 litri di liquidi infiammabili. Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel livello di priorità B anche l’adeguamento alle misure di prevenzione incendi per gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche(auditori, aule magne, sale per rappresentazioni).
Per questi spazi, che devono essere ubicati in locali fuori terra o al 1° interrato fino alla quota massima di – 7,50 metri, è necessario inizialmente valutare se la capienza supera le cento persone e se sono adibiti anche a manifestazioni non scolastiche, in quanto, se così fosse, dovranno essere applicate le norme di sicurezza per i locali di pubblico spettacolo.

Al riguardo si evidenzia che qualora, per esigenze di carattere funzionale, non fosse possibile rispettare le disposizioni sull’isolamento previste dalle suddette norme, le manifestazioni in argomento potranno essere svolte a condizione che non si verifichi contemporaneità con l’attività scolastica.
Per quanto riguarda le mense, l’adeguamento al punto 6.6.1 del decreto 26 agosto 1992 prevede che nel caso in cui a questi locali sia annessa la cucina o il lavaggio delle stoviglie con apparecchiature alimentate a combustibile liquido o gassoso, agli stessi si dovranno applicare le specifiche normative di sicurezza vigenti.
Gli adeguamenti inseriti nel livello di priorità B includono anche le disposizioni per gli impianti di rilevazione e di estinzione degli incendi. Al riguardo si ricorda che limitatamente agli ambienti o locali il cui carico d’incendio superi i 30 kg/m2, deve essere installato un impianto di rivelazione automatica d’incendio, se fuori terra, o un impianto di estinzione ad attivazione automatica, se interrato.

Livello di priorità C

Per la definizione del terzo livello di priorità, denominato “C”, non sono elencate puntualmente le misure da attuare ma è richiamato il compito di pianificare l’adeguamento a tutte le restanti disposizioni del decreto ministeriale 26 agosto 1992.

Il decreto 21 marzo 2018 termina con l’indicazione che tutte le attività di adeguamento indicate possono essere realizzate, in alternativa, con l’osservanza delle norme tecniche di cui al decreto del ministro all’Interno 3 agosto 20153, così come integrato dal decreto del ministro all’Interno 7 agosto 20174. Al riguardo non è superfluo ricordare che con la pubblicazione del decreto del ministero dell’Interno 7 agosto 2017 è stata approvata regola tecnica verticale per le attività scolastiche e che le nuove misure tecniche di prevenzione incendi contenute in questo atto possono essere applicate alle attività scolastiche di cui all’allegato I del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1515, sia esistenti che di nuova realizzazione, a esclusione degli asili nido. Si segnala che, a oggi, anche se con D.M. 21 marzo 2018 sono state fornite indicazioni programmatiche prioritarie ai fini dell’adeguamento alla normativa antincendio, i termini per l’adeguamento, scaduti il 31 dicembre 2017, non sono stati prorogati.

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Privacy e safety la parola agli esperti

Gdpr versus servizio prevenzione e protezione: un dialogo tra due consulenti dei rispettivi settori serve a chiarire i punti di contatto tra le due discipline alla luce del regolamento Ue n. 679/2016 recentemente entrato in vigore anche in Italia.

Protezione dati personali e Sgsl c’entrano qualcosa?

Sono Stella e ho una società che si occupa di salute e sicurezza sul lavoro e altri sistemi di gestione per le società e i negozi in zona.
Nella società ci sono tre collaboratori diretti molto bravi, due ragazzi in segreteria che gestiscono un po’ tutto, una piccola squadra di professionisti specializzati in gamba fra cui un medico competente e due bravi ingegneri per i rilievi tecnici e per le attività sui cantieri (Csp e Cse). Gli esercizi dei paesi vicini si rivolgono tutti a me; potrei quasi dire che ho quasi monopolizzato la zona. Fra i miei clienti ho un paio di grandi supermercati, alcune officine meccaniche – di cui una molto grande – negozi da parrucchiere e un paio di grandi negozi di prodotti per la costruzione. Inoltre, di recente in un paese vicino hanno deciso di costruire una nuova stazione dei carabinieri e hanno affidato alla mia società la gestione della salute e sicurezza sul lavoro con un Rspp e un Cse. Questo è il mio piano di lavoro per oggi, opportunamente condiviso con i miei collaboratori:

A – aggiornare il Dvr del supermercato Jedf: sono stati assunti 5 nuovi lavoratori, di cui ho i nominativi, che mi hanno detto di essere musulmani e che, per questo motivo, non vogliono essere assegnati ai turni in macelleria (nella zona si lavora e consuma parecchia carne di maiale) e di strutturare il lavoro in modo da permettere le pause per la preghiera. Il titolare è d’accordo, anzi la riduzione dei contributi gli sembra più premiante delle pause per la preghiera;

B – anche per il negozio di acconciature di via Roma sarà necessario aggiornare il Dvr: sono andati via un paio di lavoratori e ne ha subito assunti altri tre; in particolare, uno dei dipendenti mi ha detto che non si sente a suo agio con i ragazzi e vorrebbe poter utilizzare il bagno delle ragazze; penso sia opportuno chiedere al proprietario di abilitare il terzo bagno in modo da non avere problemi;

C – occorre inoltrare al titolare del negozio di abbigliamento di via Garibaldi la nota del medico per Francesco, il lavorante anziano: dalla visita periodica è emerso che potrebbe avere un problema oncologico e sono consigliate indagini approfondite. Il medico non aveva tempo di chiamarlo per cui ci occuperemo noi di contattarlo;

D – Giovanni, visto che sei Cse del cantiere di costruzione della caserma, mi è arrivata la comunicazione dell’Arma che il cantiere deve essere considerato come riservato ed è necessario identificare e tenere traccia di tutte le persone che lavorano negli ambienti al primo piano. Hanno richiesto, addirittura, l’accesso con riconoscimentodell’impronta digitale. Vanno verificati sia gli operai della società principale sia i due subappaltatori impiantisti e dobbiamo avere sempre l’elenco delle persone, con le impronte digitali da consegnare al controllo di ingresso, che operano nell’intero cantiere e nelle zone riservate. Scarica gli accessi dai rilevatori al portatile che ti porti dietro e, alla sera, ricordati di scaricare tutto sul server, così evitiamo di dover rifare tutto in caso di virus informatico come successo tre giorni quando abbiamo perso il lavoro di un po’ di mesi;

E – Cristina, tu completa la pratica Inail di infortunio di Marco, l’operaio dell’officina meccanica. Mi raccomando descrivi bene il fatto e dettaglia quello che ha detto il pronto soccorso circa la lesione alle dita e al tendine del braccio sinistro che forse avrà lunghi strascichi e comporterà un’invalidità. Sentiremo anche il medico competente;

F – ho letto di questa nuova normativa sulla privacy, penso che a noi non ci riguardi proprio, ma chiamerò Rita , che, se non sbaglio, ha fatto un corso sull’argomento. Cosa potrà aver detto Rita dopo aver ascoltato

Stella? Dal racconto emergono molti aspetti collegati con le normali attività che una società che eroga servizi di salute e sicurezza può ritrovarsi a gestire. In particolare, nei casi evidenziati all’interno del suo piano di lavoro (ma se ne potrebbero presentare altri e diversi) Stella deve affrontare:

  • aspetti legati alla religiose e alla differenza di genere;
  • infortuni sul lavoro;
  • patologie mediche che un medico competente “frettoloso” riversa sul responsabile del servizio salute e sicurezza sul lavoro;
  • la gestione delle squadre di un cantiere con zone riservate ad accesso obbligato da riconoscimento biometrico.

Queste sono tutte informazioni che interessano persone che hanno comunicato i propri dati personali al loro datore di lavoro, il quale, a sua volta, per obblighi di legge, li ha dovuti trasferire alla società di Stella.
Poiché i dati personali sono di esclusiva proprietà della persona (“sono la persona stessa” dice l’Autorità garante per la protezione dati personali) la società di Stella assume il ruolo di custode di una proprietà di altri e, come tale, deve preservarla al meglio.

Il regolamento Ue n. 679/2016 (conosciuto come “gdpr”), entrato di recente in vigore in Italia, enuncia, amplificandolo rispetto al passato, questo semplice principio: i dati personali sono la persona e come tali vanno tutelati e rispettati. Questo regolamento è nato per proteggere i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, con particolare riferimento alle innovazioni attuali e future della società ed enuncia i principi che qualunque organizzazione debba ponderare per rispettare la proprietà di altri (“interessati”) affidatale.

Di conseguenza, il titolare del trattamento (colui che determina finalità e mezzi di una qualunque “operazione” sui dati) deve garantire i principi:

  • di liceità correttezza ed esattezza del trattamento;
  • di finalità determinate, esplicite e legittime;
  • di adeguatezza, pertinenza e limitati a quanto serve per le finalità esplicitate;
  • di esattezza e aggiornamento;
  • di corretta conservazione;
  • di protezione con adeguate misure di sicurezza.

In queste operazioni di garanzia, il titolare può chiamare in causa, previa comunicazione agli interessati, un responsabile che opera su precisa delega su parti del trattamento.
Sempre il titolare deve assolutamente valutare il proprio profilo di rischio e adeguare il proprio comportamento e, in casi particolari, deve designare un Dpo (data protection officer) che lo supporti nei rapporti con l’autorità e con gli interessati, in modo da mantenere sempre elevata l’attenzione verso i diritti fondamentali dell’individuo, ricordando che è da considerarsi vietato il trattamento di dati personali che rivelino:

  • l’origine razziale o etnica;
  • le opinioni politiche;
  • le convinzioni religiose o filosofiche;
  • l’appartenenza sindacale.

Inoltre, deve trattare dati:

  • genetici;
  • biometrici, intesi a identificare in modo univoco una persona fisica;
  • relativi alla salute o alla vita e/od orientamento sessuale della persona.

Questo divieto è superabile in particolari casi e il rapporto di lavoro è proprio uno dei casi che permette il trattamento, a condizione di mantenere alta la tutela e l’attenzione ai principi enunciati.

La parola alla consulente sulla privacy

Tornando al racconto, questa è la risposta di Rita. Stella, sulla base di quello che mi chiedi ti illustro un quadro operativo di massima. Il datore di lavoro, tuo cliente, ti ha affidato i dati dei propri lavoratori; fra questi dati ci sono anche i cosiddetti “sensibili” (la norma parla di “particolari”, ma “sensibili” rende immediata la comprensione) che sono stati affidati a lui per le esigenze lavorative. Il datore di lavoro ti sta, quindi, trasferendo il suo “portafoglio” di dati, delegandoti le responsabilità della tutela. È ovvio che tu abbia necessità di operare su questo patrimonio; ma è altrettanto ovvio che, nel contempo, tu debba tutelare, oltre ciò che ti viene affidato, anche le tue attività.

Per questo “affidamento” il datore di lavoro dovrà farti avere una specifica nomina che contenga alcuni elementi chiave:

  • la tua società è stata scelta perché è in grado di presentare garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo da soddisfare la normativa e tutelare i dati affidati;
  • il titolare assume su di sé l’onere della corretta informazione ai propri dipendenti e collaboratori, dichiarandoti di avere erogato l’informativa che riporta la presenza della tua società fra i responsabili del trattamento;
  • il titolare ha definito le istruzioni necessarie al trattamento dei dati personali comunicandoti:

– se ha un responsabile della protezione dati (il famoso Dpo di cui hai sentito parlare);

– come deve essere informato e come ti deve informare in caso di violazioni o presunte tali;

– se e come dovranno essere cancellati i dati alla fine del contratto;

– se ha intenzione di effettuare audit sul tuo comportamento;

– se ha particolari regole di trasmissione dei dati personali;

  • la tua società deve, quindi, dotarsi di regole interne, tecniche (come rete protetta, firewall, antivirus, pc aggiornati, utilizzo di un cloud europeo, copie di sicurezza, armadi chiusi a chiave, sistema di allarme nella sede eccetera) e organizzative (istruzione dei tuoi collaboratori, procedure di gestione dei dati, flow-chart di intervento in caso di violazioni, controlli sistematici agli apparati e altre) in grado di proteggere il patrimonio dati affidato;
  • descrivi tutto in documenti interni sempre disponibili e aggiornati; fra i documenti inserisci una piccola analisi dei rischi sulla privacy (come quella del Dvr per intenderci) sulla base dei tre rischi fondamentali

– accesso illegittimo, modifiche indesiderate ai dati e furto di dati – e su questi descrivi le attività di mitigazione;

  • per tenere corretta traccia di come ti sei organizzata è utile fare un “registro del trattamento” nel quale, per ciascuna macroattività che svolgi, descrivi i punti fondamentali del processo;
  • la tua società, per ciascun cliente, deve aver predisposto un “registro del trattamento del responsabile”. Poiché operi per tanti clienti nello stesso modo, ti conviene standardizzare e produrre lo stesso registro accompagnandolo da un elenco dei clienti per cui svolgi le stesse attività;
  • devi, inoltre, definire una procedura di gestione delle violazioni – un po’ come le procedure di gestione delle emergenze che sviluppiamo per i clienti

– nella quale illustri ai tuoi collaboratori a riconoscere e intervenire correttamente.

Questo, Stella, è il minimo indispensabile. Poi dovrai pensare alla tua struttura e ai tuoi collaboratori. Valuta se la quantità e la diffusione dei clienti renda necessario l’adozione di una figura di relazione con l’autorità garante e gli interessati (il responsabile della protezione dati o Dpo o Rpd); a mio parere, visto che hai “monopolizzato” la zona, credo ti convenga: vedilo come un investimento sulla trasparenza verso i tuoi clienti e i loro interessati.

Poi ci saranno altre cose da fare, ma per ora parti dalle operazioni che ti ho indicato e che sono fondamentali. Sulla Gazzetta Ufficiale del 10 maggio 2018, n. 107, è stata pubblicata l’ordinanza 24 aprile 2018 n. 54, redatta dalla presidenza del Consiglio dei ministri-commissario del governo per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma del 24 agosto 2016, registrata in pari data e pubblicata sul sito https:// sisma2016.gov.it/. L’ordinanza, emessa in attuazione dell’articolo 23, comma 2, D.L. n. 189 del 2016, riguarda la ripartizione delle somme destinate al finanziamento dei progetti e formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro, stabilendo i criteri generali di utilizzo delle risorse.

In particolare, l’ordinanza disciplina termini, modalità e procedure per la concessione ed erogazione dei contributi nei comuni interessati dagli eventi sismici del 2016.

Beneficiari

Possono essere ammesse alle agevolazioni le imprese in possesso dei seguenti requisiti:

  • essere già presenti e operanti nei territori dei comuni di cui all’articolo 1, D.L. n. 189/2016, alla data degli eventi sismici del 24 agosto 2016, del 26 ottobre 2016, del 30 ottobre 2016 o del 18 febbraio 2017;
  • nel caso di impresa iscritta nel registro delle imprese, possedere una o più unità produttive in uno dei comuni;
  • nel caso di impresa non iscritta nel registro delle imprese, essere effettivamente operanti ed esercitare l’attività in uno dei comuni, da documentare attraverso il certificato di attribuzione della partita iva;
  • non essere in liquidazione volontaria e non essere sottoposte a procedure concorsuali alla data degli eventi sismici;
  • non essere incorse nell’applicazione della sanzione interdittiva di cui all’articolo 9, comma 2, lettera d), D.L. 8 giugno 2001, n. 231;
  • non essere incorse nell’applicazione di una misura di prevenzione ai sensi del libro I, titolo I, capo II, decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136»;
  • non trovarsi in nessuna delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, decreto legislativo

6 settembre 2011, n. 159;

  • in caso di delocalizzazione dell’attività, aver effettuato la delocalizzazione in uno dei comuni di cui all’articolo 1, D. L. n. 189/2016;
  • poter riprendere l’attività, ove interrotta in ragione degli eventi sismici per danneggiamento degli immobili, e acquisire

il certificato di agibilità sismica, rilasciato dal tecnico incaricato, in caso di immobili danneggiati. Fermi restando i predetti requisiti, possono essere ammesse alle agevolazioni previste dall’ordinanza in esame le imprese:

  • titolari di diritto di proprietà o usufrutto dell’immobile oggetto dell’intervento;
  • affittuarie dell’immobile oggetto dell’intervento in forza di contratto registrato in data antecedente agli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016 e onerate, in forza di questo contratto, delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile;
  • titolari di un contratto di locazione finanziaria stipulato in data antecedente agli eventi sismici verificatisi a partire dal 24 agosto 2016 e onerate, in forza di questo contratto, alle spese di manutenzione ordinaria e straordinarie.

Attività finanziabilie spese ammissibili

Sono ammessi alle agevolazioni gli interventi di cui alle norme tecniche per le costruzioni (ntc) vigenti, finalizzati a garantire la sicurezza dei lavoratori, relativi a immobili destinati ad attività di impresa e/o produttiva.
Non sono, invece, ammessi quelli relativi a immobili danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016 già oggetto di richiesta di contributo o ammessi a contributo ai sensi dell’ordinanza 9 gennaio 2017, n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018, n. 46, alla data di entrata in vigore dell’ordinanza in esame.

L’ordinanza specifica che la presentazione della domanda per l’ottenimento del contributo preclude la possibilità di accedere al contributo ai sensi dell’ordinanza 9 gennaio 2017 n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018 n. 46. Nello specifico, sono ammessi a finanziamento gli interventi di:

  • rafforzamento locale effettuati sulla base di un progetto redatto ai sensi dell’entc vigenti;
  • miglioramento sismico effettuati sulla base di un progetto redatto ai sensi delle ntc vigenti;
  • messa in sicurezza dei componenti non strutturali e degli impianti come tamponature, partizioni interne, scaffalature e ogni altro elemento non collegato alla struttura portante o con vincolo inefficace e la cui instabilità possa compromettere la sicurezza dei lavoratori.

Al fine di ottenere il contributo, le imprese devono allegare alla domanda il certificato di agibilità sismica o altra certificazione che attesti l’utilizzabilità dell’immobile.

Nel caso di interventi di miglioramento sismico, il livello di sicurezza sismica da conseguire deve essere pari almeno a quanto stabilito, per la corrispondente classe d’uso dell’immobile, dal D.M. 27 dicembre 2016, n. 477.

Nel caso in cui il livello di sicurezza sismica raggiunto con l’intervento risulti maggiore del limite superiore dell’intervallo definito per la classe d’uso pertinente dal suddetto decreto, la spesa ammissibile è, comunque, limitata alla classe d’uso pertinente corrispondente.

Per gli interventi relativi a immobili a destinazione produttiva non danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016, la spesa ammissibile a contributo viene determinata con riferimento al prezzario unico interregionale delle Regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria (prezzario unico cratere centro Italia 2016) approvato con l’ordinanza del commissario straordinario del 14 dicembre 2016, n. 7. Il costo unitario massimo dell’intervento non può, in ogni caso, essere superiore a 100 €/mq. Per gli interventi relativi a immobili a destinazione produttiva danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016, la spesa ammissibile a contributo è determinata secondo quanto disposto nell’articolo 3, ordinanza 9 gennaio 2017, n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018, n. 46, con riferimento ai costi parametrici di cui alla tabella 6 riferiti ai livelli operativi della tabella 5 dell’allegato 2 all’ordinanza n. 13/2017. A questi costi parametrici si applicano gli incrementi di cui alla tabella 7 dello stesso allegato 2. Sono ammesse a contributo le spese tecniche di progettazione, direzione lavori, indagini e, ove previsto, di collaudo.

Voci non ammesse

  • interventi effettuati in locali diversi da quelli in cui è esercitata l’attività lavorativa;
  • acquisto di beni usati;
  • manutenzione ordinaria degli ambienti di lavoro, di attrezzature, macchine e mezzi d’opera;
  • costi del personale interno;
  • spese generali;
  • spese amministrative e di gestione.

Al fine di asseverare il contenuto dell’istanza e, in particolare, la congruità e coerenza delle spese sostenute e indicate nella domanda con gli obiettivi del progetto e delle finalità dell’ordinanza in esame, le imprese devono allegare una perizia asseverata redatta secondo lo schema dell’allegato 2 dell’ordinanza. La suddetta perizia deve recare data antecedente alla presentazione della domanda e deve risultare redatta da un professionista abilitato a norma delle disposizioni vigenti.

Agevolazione

Il commissario straordinario, verificati i presupposti richiesti, dispone con proprio decreto la concessione del contributo.

L’agevolazione consiste in un contributo in conto capitale corrispondente al 70% della spesa ritenuta ammissibile che non può, in ogni caso, superare l’importo di complessivi € 200.000,00 per ciascun beneficiario, nel caso di interventi su più immobili e anche attraverso più domande riguardanti opere di miglioramento sismico. In presenza di copertura assicurativa, il contributo è pari alla differenza tra i costi complessivi, sostenuti e ritenuti ammissibili, e gli indennizzi assicurativi corrisposti.

Al fine di determinare il contributo nell’ipotesi sopra indicata, il richiedente deve allegare alla domanda:

  • copia della polizza assicurativa; • attestazione della compagnia assicurativa indicante:
  • tipologia e descrizione dei beni assicurati;
  • ammontare dell’indennizzo assicurativo per tipologia di bene e indicazione della percentuale di copertura, totale o parziale, dell’intervento effettuato. Nell’ipotesi di copertura assicurativa, l’erogazione del contributo è subordinata alla verifica che l’impresa beneficiaria abbia esperito tutte le azioni e gli adempimenti a suo carico per ottenere il risarcimento da parte dell’assicurazione.

L’erogazione del contributo può avvenire secondo le seguenti modalità:

  • pagamento in un’unica soluzione, qualora le spese relative agli interventi siano interamente quietanzate e rendicontate entro il termine di presentazione della domanda;
  • pagamento in due soluzioni, per interventi di importo superiore a 50.000,00 euro.

In questo caso, il commissario provvede a una prima erogazione del contributo, sulla base di spese interamente quietanzate e corrispondente ad almeno il 35% del valore complessivo dell’intervento.
Con successivo provvedimento si provvede all’erogazione a saldo, sulla base della documentazione di spesa richiesta, da presentarsi entro giorni 45 dalla fine dell’intervento ammesso a contributo.

I contributi non sono cumulabili con altri contributi pubblici concessi per le stesse spese e sono concessi nel rispetto delle disposizioni del regolamento (Ue) n. 1407/2013 e del regolamento (UE) n. 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2018.

Presentazione delle domande

La domanda di contributo, comprensiva dell’imposta di bollo, è presentata nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà e devono essere indicati, fra l’altro, pena l’esclusione:

    • il codice risultante dalla classificazione ateco 2007, della sede/unità produttiva in cui si realizza l’intervento;
    • l’indirizzo della sede/unità locale oggetto di intervento e la tipologia di intervento/ i oggetto di richiesta di contributo;
    • il titolo di possesso dell’immobile o degli immobili oggetto dell’intervento riferito all’impresa che presenta domanda di contributo;
  • i dati identificativi dell’impresa richiedente nonché la presenza dei requisiti soggettivi richiesti per accedere ai contributi;
  • il numero di iscrizione al registro delle imprese presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio;
  • il rendiconto analitico delle spese per ogni intervento oggetto di richiesta di contributo con le relative tabelle di sintesi, redatto in funzione della modalità di erogazione del contributo. In caso di erogazione in un’unica soluzione, il rendiconto

deve riportare la quietanza relativamente al 100% delle spese e le generalità di tutti i fornitori. Per gli interventi di importo superiore a € 50.000,00 e in caso di richiesta di erogazione in due soluzioni, il rendiconto deve riferirsi al totale delle spese previste e riportare la quietanza di almeno il 35% delle spese sostenute nonché le generalità dei relativi fornitori;

  • il termine iniziale e finale degli interventi;
  • gli estremi della notifica preliminare (protocollo sico – sistema informativo costruzioni), ottenuti tramite la compilazione sul sistema informativo presente all’indirizzo web www.progettosico.it)per le aziende affidatarie e per quelle esecutrici dei lavori, ove prevista ai sensi dell’art. 99, D. Lgs. n. 81/2008. In assenza del protocollo sico, si deve allegare un attestato comprovante l’avvenuto invio della suddetta notifica preliminare, qualora dovuto. In caso l’impresa dichiari la non necessità della notifica preliminare devono essere specificati in domanda i motivi;
  • le coordinate bancarie-iban ai fini dell’accredito del contributo concesso.

A pena di esclusione, l’impresa deve attestare nella domanda che:

  • le spese indicate nel rendiconto analitico riguardano effettivamente e unicamente i lavori previsti dall’intervento ammesso a contributo;
  • i titoli di spesa riportati nel rendiconto analitico, presentati secondo le modalità di erogazione del contributo, sono fiscalmente regolari e integralmente pagati e non sono stati né saranno utilizzati per l’ottenimento di altri contributi pubblici;
  • i beni acquistati sono di nuova fabbricazione.

Documenti a corredo

  • fotocopia della carta d’identità o del passaporto in corso di validità del legale rappresentante dell’impresa richiedente;
  • perizia finalizzata ad asseverare il contenuto dell’istanza, la rispondenza delle opere realizzate, la finalità dell’intervento e, in particolare, che il valore delle spese sostenute o da sostenere e indicate in domanda sia congruo con gli obiettivi dell’intervento e che tutte le opere siano state ultimate in data antecedente a quella di presentazione della domanda nel caso degli interventi già effettuati. La perizia deve essere redatta esclusivamente da un tecnico abilitato, regolarmente iscritto al proprio Albo professionale e deve, altresì, attestare la superficie dell’immobile o della porzione di immobile oggetto dell’intervento;
  • copia del “Certificato di collaudo statico”, laddove previsto, per ogni intervento finanziato;
  • relazione tecnica-illustrativa degli interventi, firmata digitalmente dal legale rappresentante o dal suo tecnico delegato, che illustri gli obiettivi, i risultati conseguiti e la loro coerenza e correlazione con le finalità dell’ordinanza. La relazione deve essere predisposta con riferimento ai contenuti di cui all’Allegato 3 dell’ordinanza che costituisce parte integrante e sostanziale;
  • copia delle fatture o di documenti fiscalmente equivalenti e relative quietanze per un importo pari al 100% della spesa sostenuta qualora si richieda l’erogazione dei contributi in un’unica soluzione, o per un importo non inferiore al 35% qualora si richieda l’erogazione in due soluzioni dei contributi previsti. Le fatture devono riportate, a pena di inammissibilità della domanda, una descrizione precisa delle spese sostenute che consenta l’immediata riconducibilità delle stesse all’intervento agevolato. Le domande di contributo devono, comunque, essere inoltrate, entro il 31 luglio 2018.

Valutazione delle richieste

Il Commissario straordinario procede all’istruttoria delle domande presentate e alla successiva fase di erogazione dei contributi. In particolare, provvede a verificare la ricorrenza dei presupposti previsti dall’ordinanza in esame e alla valutazione delle caratteristiche tecniche e finanziarie e di sicurezza raggiunti, della congruità dei valori, nonché della coerenza degli interventi proposti rispetto alle finalità del contributo.

Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine provvede ad adottare i decreti di concessione dei contributi nel rispetto delle risorse stanziate. Nel caso di insufficienza delle risorse, l’entità del contributo è proporzionalmente ridotta fino al raggiungimento della somma pari alle risorse stanziate. Nel decreto di concessione del contributo il commissario indica il termine entro il quale l’intervento deve essere eseguito, tenuto conto della complessità dell’intervento e dei tempi tecnici di realizzazione.

Risorse finanziarie

Ammontano complessivamente a 30.000.000,00 di euro.

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