Aggiornamenti sui prossimi corsi

In relazione all’emergenza COVID-19 l’attività di formazione, in materia di sicurezza sul lavoro, per i lavoratori neoassunti e per i cambi di mansione, è stata ripristinata e resa obbligatoria in modalità “videoconference”.

Vi informiamo che, per supportare le imprese, ???????????? ???????????????????????????? ha ATTIVATO una piattaforma ad hoc per la fruizione del corso in videoconference e per rilasciare l’attestato di formazione al fine di adempiere agli obblighi normativi.
Per la PRENOTAZIONE al corso è necessario inviare una mail a formazione@studioasq.it.
Le modalità e i tempi per la fruizione del corso verranno comunicati successivamente.
Per il collegamento è sufficiente un computer, un tablet o uno smartphone e naturalmente un collegamento internet.

La validità dei corsi di aggiornamento (antincendio, primo soccorso, carrellista, lavoratori ecc…) è stata prorogata fino al 15/06/2020 o, comunque, fino ai termini previsti dalla norma.

RICORDIAMO che, in caso di riscontrate irregolarità da parte degli organi ispettivi, la mancata formazione di un lavoratore prevede sanzioni penali.

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Cadute dall’alto in cantiere: le reti di protezione

I dispositivi di protezione collettiva si stanno sempre più diffondendo, ma il loro impiego deve essere valutato con attenzione e nel rispetto di quanto indicato nel D.Lgs. n. 81/2008.

 

La scelta di una rete di sicurezza dipende da diversi fattori, tra cui:

  1. l’altezza da cui può cadere il lavoratore rispetto alla posizione della rete di sicurezza;
  2. la presenza di adeguato spazio libero sotto la rete di sicurezza;
  3. le caratteristiche della struttura alla quale viene ancorata la rete;
  4. le modalità con le quali si effettuano gli ancoraggi;
  5. il posizionamento della rete di sicurezza, tale da non creare interferenze con il movimento dei lavoratori e delle macchine.

 

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Il rischio biologico? Affrontatelo così

Gli agenti sono identificati in quattro distinti gruppi, sulla base delle caratteristiche di infettività, patogenicità, virulenza, trasmissibilità e neutralizzabilità. Ma il primo passo è conoscere il problema nei differenti ambienti di lavoro perché molto spesso è del tutto sottostimato

Nessun ambiente può considerarsi esente dalla presenza di agenti biologici. I fattori che possono favorire lo sviluppo e la diffusione di agenti biologici sono infatti molteplici e diversi:

• il tipo di attività;
• il processo o la fase lavorativa;
• le materie utilizzate;
• il contatto con fluidi biologici umani o animali potenzialmente infetti;
• la presenza di polvere;
• la scarsa igiene;
• il cattivo funzionamento e la manutenzione degli impianti aeraulici;
• la presenza e il numero di occupanti;
• il microclima ecc.

La valutazione del rischio da esposizione ad agenti biologici viene affrontata dal titolo X del D.Lgs. 81/2008, in allineamento a quanto precedentemente previsto dalla direttiva 2000/54/Ce.

 

Credits: Ambiente & Sicurezza

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PREVENZIONE INCENDI NUOVO APPROCCIO, AVANTI TUTTA

Prevenzione incendi: l’azione di rivisitazione dell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 ha riguardato una serie di sezioni di fondamentale importanza della normativa. Obiettivo? Mantenersi al passo con l’evoluzione del progresso e degli standard internazionali. Questi cambiamenti sono il frutto di un attento monitoraggio che ha consentito di individuare i possibili margini di miglioramento su cui intervenire.

 

Con la pubblicazione del decreto 18 ottobre 2018 si rinforza l’azione di semplificazione e razionalizzazione del corpo normativo relativo alla prevenzione degli incendi.

Il decreto 18 ottobre 2019 è il risultato di uno specifico monitoraggio che ha consentito di individuare ambiti di miglioramento delle norme tecniche contenute nell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 3 nel quale è contenuto il codice prevenzioni incendi. In particolare, questa azione di rivisitazione delle specifiche tecniche ha riguardato le sezioni G («Generalità»), S (»Strategia antincendio»), V («Regole tecniche verticali»), e la sezione M («Metodi»).

 

 

Credits: Ambiente & Sicurezza

 

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La norma Iso 45001 e l’importanza del contesto

La decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare
a prestazioni d’eccellenza. Ma tutto ciò è possibile se si analizzano gli eventuali “condizionamenti” esterni alla struttura. Il ricorso all’analisi Pest e allo strumento di pianificazione strategica Swot

 

Una delle principali innovazioni introdotte dall’High level structure, sintetizzato in Hsl – lo standard che la Iso si è data per la progettazione dei nuovi sistemi di gestione è quella contenuta al capitolo 4, relativa al contesto dell’organizzazione. Tutti gli standard disegnati secondo l’Hls impongono che le organizzazioni costruiscano i propri sistemi di gestione secondo l’idea che l’organizzazione si fa di se stessa. Non si tratta però di un esercizio solipsista: l’Hls richiede che questa sia analizzata nel suo contesto, specificando che con questo termine si intende il complesso di relazioni che essa intrattiene, magari anche involontariamente, non solo legate al mondo produttivo. Lo standard, infatti, richiede di non limitarsi a considerare il solo ambiente industriale o dove si svolge l’attività dell’organizzazione, ma anche ambiti differenti quali quello sociale, culturale, politico, a seconda di come si vede l’organizzazione stessa. Lo scopo di questo esercizio è definire i fondamenti del sistema di gestione da sviluppare, in maniera che que- sti siano adeguati all’organizzazione, alla sua dimensione e alle aspettative dei suoi leader, che poi sono coloro da cui nasce la volontà di implementarlo. Gli standard emessi secondo l’Hls hanno requisiti molto più dinamici di quanto era previsto in pas- sato, e la comprensione dell’organizzazio- ne e del suo contesto consente l’adozione di sistemi di gestione molto più flessibili. Non dimentichiamo che tanti problemi le- gati alla loro implementazione derivano da quella che viene percepita come una eccessiva burocratizzazione e appesantimento dei processi: potere dimensionare il proprio sistema di gestione sulle rea- li necessità dell’organizzazione può costituire senza dubbio un fattore di successo.

Le finalità
La determinazione dei fattori interni ed esterni pertinenti alle finalità dell’organizzazione, che possano influenzare la capacità di raggiungere i suoi obiettivi, è un’attività che lo standard non ritiene necessario documentare: l’auditor deve desumerne i concetti attraverso incontri e interviste faccia a faccia con il top management. La sua rilevanza per tutto il progetto è però tale da suggerire che sia in qualche modo registrata e resa formale. Nelle migliori applicazioni del metodo sarà la persona incaricata della progettazione del sistema di gestione, interna all’organizzazione o consulente, a intervistare le figure aziendali rilevanti e a svolgere una indagine per questo scopo, allo scopo di realizzare un autoritratto dell’organizzazione, che sia efficace per gli obiettivi del sistema di gestione. È consigliabile che i risultati siano esposti al management aziendale attraverso la condivisione e la illustrazione di una relazione provvisoria, sulla base della quale approfondire e definire i risultati finali. L’«Appendice Informativa – Guida sull’utilizzo del presente documento (lo standard Iso 45001), al capitolo A.4.1 Comprendere l’organizzazione ed il suo contesto», approfondendo l’indicazione della norma di prendere in considerazione sia i fattori interni che quelli esterni, suggerisce che nell’analisi vengano tenute in considerazione, relativamente ai fattori interni:

  • la governance, la struttura organizzativa, i ruoli e le responsabilità;
  • le politiche, gli obiettivi e le strategie attuate per realizzarli;
  • la capacità di perseguire i propri obiettivi, come le risorse, i capitali, il tempo, le risorse umane, le conoscenze e le competenze; i sistemi, le tecnologie e i processi;
  • la gestione dell’informazione e come vengono sviluppati i processi decisionali;
  • l’introduzione di nuovi prodotti, mate- riali, servizi, strumenti, software, locali e attrezzature;
  • le relazioni con i lavoratori, le loro percezioni e i loro valori;
  • la cultura dell’organizzazione;
  • la forma delle prestazioni lavorative, i contratti, gli appalti, le forniture;
  • l’orario di lavoro, inclusi i turni;
  • le condizioni lavorative;
  • i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è una materia definita minuziosamente dal D.Lgs. 81/2008; la decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare a prestazioni d’eccellenza. È una questione perché i risvolti di queste attività possono incidenti e infortuni e avere conseguenze penali. L’approfondimento di un’analisi come quella indicata dalla «Guida alla norma», specie se un’azienda strutturata, è un obiettivo ambizioso già di per sé,e non è detto che i componenti l’organizzazione siano in grado di svolgerla da soli. Un certo grado di incomprensione, di incapacità di decifrare i processi o di legittima ritrosia a evidenziare punti deboli è comprensibile e deve essere messa in conto. Una organizzazione strutturata che intenda affrontare il cam- mino verso l’implementazione di un sistema di gestione secondo la Iso 45001 è consigliabile che coinvolga almeno un consulente esterno, all’interno del gruppo di lavoro, che abbia la funzione di fare emergere queste questioni.
Per quanto riguarda i fattori esterni, la «Guida» suggerisce di valutare:

  • l’ambiente culturale, sociale, politico, legale, finanziario, tecnologico, economico e naturale e del mercato, a livello internazionale, nazionale, regionale e locale;
  • possibili nuovi concorrenti, appaltatori, subappaltatori, fornitori di beni, partner e fornitori di servizi, nuove tecnologie, leggi e l’emergere di nuove professioni;
  • nuove conoscenze sui prodotti e sui loro effetti su salute e sicurezza;
  • fattori chiave e tendenze per il settore di business;
  • relazioni con le parti interessate interne e loro percezioni e valori;
  • e, anche qui, i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

Questa lista, naturalmente, deve essere presa come stimolo per l’analisi dell’organizzazione: non è detto che necessariamente tutti questi argomenti debbano essere approfonditi per ciascuna di esse, specialmente in relazione all’estensione territoriale degli interessi dell’azienda o alla sua rilevanza per la politica. In sostanza si tratta di andare a individuare quali possono essere i fattori esterni all’organizzazione, così come quelli interni alla stessa, che possono avere una influenza positiva o negativa, costante o mutevole, sul sistema di gestione della sicurezza che sarà implementato. L’ambiente culturale, ad esempio, può essere considerato un fattore positivo: un milieu avanzato che favorisce il recepimento delle istanze della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Oppure, al contrario, un fattore negativo a causa di un ambiente retrogrado, una situazione in cui ci si imbatte spesso in cui la sopravvalutazione delle capacità personali e la sottovalutazione dei pericoli porti a essere poco ricettivi nei confronti della tutela dei lavoratori. Queste due condizioni si possono verificare alternativamente, quando ad esempio le pratiche di sicurezza sono consolidate a livello di stabilimento o di casa madre e vengono trascurate dal personale in trasferta, magari in altri Paesi in cui questi standard sono più bassi.

Considerazioni di carattere sociale possono riguardare condizioni negative, quando la pressione demografica o il livello di disoccupazione portano a rendere accet- tabili bassi standard di sicurezza. Questo può avvenire sempre, o in particolari situazioni, come ad esempio relativamente ai lavoratori immigrati. Ragionamenti opposti si potranno fare per le condizioni sociali di aree o nazioni in cui viene dato grande valore alla protezione dell’individuo.

Come eseguire le analisi
Lo standard non specifica come debbano essere svolte queste analisi: tra gli strumenti che sono diventati d’uso comune neglianni dalla diffusione di standard per sistemi di gestione basati sull’Hls (lo standard Iso 9001, sicuramente il più diffuso di essi, è stato revisionato nel 2015), sicuramente l’analisi Pest è uno dei metodi più utilizzati. L’analisi Pest, che significa fattori politici, economici, socioculturali e tecnologici, è un metodo formalizzato per ricavare un primo panorama dei fattori esterni relativo allo scenario in cui l’azienda si muove. Non è nulla di speciale, se non un metodo ormai entrato nella consuetudie, per elencare questi fattori. Tra l’altro, nel tempo sono state sviluppate analisi Pestle, che includono i fattori legali, o Destep, con l’integrazione di fattori demografici ed economici, per cui ciascuno è libero di organizzare la sua tabella, perché di ciò si tratta, come meglio crede.

Un altro strumento molto in voga, a supporto di questa attività, è la matrice Swot. La sigla Swot definisce uno strumento di pianificazione strategica il cui obiettivo è analizzare i punti di forza, le debolezze, le opportunità e le minacce, appunto strenghts, weaknesses, opportunities e threats, di un progetto o di una organizzazione.
La matrice Swot, attribuita ad Albert S. Humphrey nell’ambito dei suoi studi allo «Stanford Research Institute», fin qui è uno strumento di immediato impatto visivo, che facilita l’individuazione dei fattori critici. Partendo dall’analisi Pest, che sem- plicemente elenca i fattori da considerare per definire l’indirizzo strategico dell’organizzazione, i risultati vengono incasellati nella matrice Swot, che diventa il punto di partenza per andare ad approfondire il lavoro. Occorre tenere presente, però, che questi fattori vengono solo individuati in maniera più immediata, e che né l’analisi
Pest né quella Swot sono l’analisi dell’organizzazione e del suo contesto vera e pro- pria. Occorre partire da qui per svilupparla: dalla riflessione su questi punti verranno definiti i criteri per progettare il sistema di gestione, specificatamente sulle peculia- rità dell’organizzazione, attraverso i passi definiti dalla norma.
A prima vista il procedimento definito dallo standard sembra particolarmente macchinoso: in realtà l’approccio dall’Hls è molto interessante, perché fornisce uno strumento per approfondire la conoscenza dell’organizzazione che decide di adottare il sistema di gestione, utile per la sua progettazione, ma anche per il business in generale. È l’occasione per abbandonare un approccio totalizzante e velleitario, che ha caratterizzato la fase in cui il possesso di una certificazione era solamente una questione di politica commerciale, e non motivata da una reale volontà di migliorare i processi dell’organizzazione. Non che le cose siano necessariamente cambiate; almeno ora questo non è più un segreto da nascondere (lo ammette la stessa Iso).

La motivazione
In sostanza, il primo passo per la proget- tazione di un sistema di gestione della sicurezza diventa l’analisi della motivazione che è alla base della decisione del top management di intraprendere questo per corso. A questo si unisce un percorso di au- toanalisi che ha lo scopo di definire i punti di partenza e gli obiettivi raggiungibili per il sistema di gestione stesso. Ma la comprensione dell’organizzazione che intende adottare un sistema di gestione e del suo contesto è solo il primo passo per la raccolta delle informazioni necessarie. Parte essenziale di questo processo è il requisito descritto nel capitolo 4.2 «Comprendere le esigenze e le aspettative dei lavoratori e di altre parti interessate», un titolo che modifica leggermente quello dell’originale capitolo dell’Hls, 4.2 «Comprendere le aspettative delle parti interessate». Parte interessata, secondo la definizione dell’Hls, è chiunque può influenzare o essere influenzato o percepire sé stesso come influenzato, da una decisione o da un’attività dell’organizzazione. In questo caso i passi da svolgere sono:

  • identificare quali possono essere le parti interessate;
  • definire quali di esse siano da considerare “rilevanti”, ovvero degne di considerazione. I lavoratori, afferma lo standard, sono per definizione parti interessate dei sistemi di gestione. La decisione di chi altro considerare è una questione che può essere delicata per le grandi organizzazioni, che possono avere a che fare con gruppi di interesse il cui peso politico non corrisponde al reale potere di cui possono disporre direttamente.

Definire quali possano essere le esigenze e le aspettative delle parti interessate individuate, anche qui identificando quali di esse possano essere rilevanti per l’organizzazione.
A un primo livello di analisi sono natural- mente parti interessate, oltre ai lavoratori, le autorità legislative e i rappresentanti dei lavoratori e i sindacati. Comprendere quali sono le esigenze e le aspettative delle prime può essere un esercizio banale, anche se non è sempre detto. L’ingresso di un grande player industriale in zone fino ad allora marginali di un territorio, per esperienza può portare le autorità del posto a maturare aspettative che sono al di là sia delle pratiche localmente accettate che dello stesso standard legislativo, con i conseguenti problemi relazionali e organizzativi. Già relazionarsi con le rappresentanze organizzate dei lavoratori nella fase di progettazione di un sistema di gestione può essere complesso e impegnativo. Comunque l’inclusione di particolari organizzazioni cui riferirsi per il quadro delle esigenze e aspettative, conferma ancora di più l’impostazione della norma. È lecito interrogarsi, almeno nei Paesi nei quali la cultura della sicurezza ha meno impatto, su quali potrebbero essere le aspettative di proprietari, azionisti e magari clienti in relazione alle performance del sistema di gestione della sicurezza, specie se in relazione con altri aspetti più direttamente profittevoli del business Ogni dubbio dovrebbe dissolversi quando leggiamo nell’elenco i servizi sociali, i media, le università e le organizzazioni non governative. In poche parole, la reputazione che una organizzazione vuole avere diventa una base sulle quali progettare il sistema di gestione della sicurezza. Nel definire i criteri con i quali questo sarà sviluppato il, l’organizzazione deve chiedersi che reputazione vuole avere nel proprio ambiente, tra i lavoratori in primis, ma anche tra i soci, i fornitori, i clienti, i vicini di casa, la politica, le banche eccetera.

Per ultimo, il capitolo 4.4 «Sistema di gestione per la SSL», definisce i requisiti generici del sistema, per il quale devono essere definiti le modalità di applicazione e l’integrazione nei processi di business, a garanzia del suo rendimento. Lo standard, come tutti quelli redatti sul modello dell’Hls, si articola in dieci capitoli principali di cui quello oggetto di questa analisi, il quarto, definisce solo alcuni aspetti del Ssl, che sono fondamentali però per la sua corretta articolazione. Il cambiamento di prospettiva, però, è tale da avere ripercussioni strutturali su tutto il Ssl, specie se paragonato a quanto accade con la Bs Ohsas 18001. I temi che sembrano più interessanti sono il combinato disposto di questa visione “radicale” con il requisito del 8.1 «Pianificazione e controllo operativi», che obbligherà le organizzazioni che fanno dell’esternalizzazione dei processi il loro modello di business a ricondurli sotto il controllo del Ssl aziendale. Ma soprattutto, la competen- za sia di chi sarà chiamato a disegnare il sistema sia di chi dovrà verificarlo. Non è più sufficiente, infatti, una generica comprensione dei requisiti legali, ma occorrerà padroneggiare principalmente i processi, e le loro interazioni, in ambiti che vanno oltre il mero aspetto tecnico, presupponendo anche, si potrebbe dire, una profonda esperienza lavorativa e “di vita”, oltre che indubbia fantasia e flessibilità.

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Piccoli trabattelli ora la norma c’è

Attrezzature provvisionali di ridotte dimensioni, dotate di due sole ruote, che possono essere spostate, disassemblate e riconfigurate rapidamente
in ambienti caratterizzati da spazi ristretti o altezze limitate. Quelle grandi, invece, fanno riferimento alla Uni 1004. Vediamo in sintesi quali sono le novità

In molte situazioni di lavoro è assai diffuso l’utilizzo di piccoli trabattelli, attrezzature provvisionali di lavoro che si differenziano dai trabattelli oggetto della Uni En 1004. A differenza di questi ultimi, che presentano generalmente quattro piedini e almeno quattro ruote girevoli, i piccoli trabattelli sono dotati di due sole ruote. Sono generalmente adatti a lavori di breve durata, possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente in ambienti caratterizzati da spazi ristretti e/o altezze ridotte. Considerate le ridotte dimensioni del piano di lavoro, devono essere usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende il peso dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e dei materiali. L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma, recentemente pubblicato come norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova».

I trabattelli sono attrezzature provvisionali non coperte da direttiva specifica e che, quindi, non possono essere marcate Ce. Sono soggetti, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il codice del consumo) parte IV, titolo I «Sicurezza dei prodotti». La norma di riferimento per i trabattelli è la Uni En 1004: 2005 «Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestaziona- li» che fu elaborata dal Cen Tc 53 tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

La Uni En 1004:2005 nacque dalla esigenza di unificare la produzione di torri mobi- li di accesso e di lavoro che possedessero i necessari requisiti di sicurezza.

La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro dotate di quattro ruote e costituite da elementi prefabbricati con altezza, riferita alla quota dell’impalcato, da 2,5 m a 12 m (se utilizzate all’interno o non esposte al vento) e da 2,5 m a 8 m (se utilizzate all’esterno o esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione, i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. L’importanza della Uni En 1004 è esplicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII, comma a («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»).
La Uni En 1004 deve essere utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni». In alcuni contesti lavorativi, ove per esempio gli spazi sono ristretti e le altezze sono ridotte, l’utilizzo di trabattelli “normali” Uni En 1004 è assai difficoltoso, per cui vengono frequentemente impiegati i piccoli trabattelli.
Sul mercato italiano sono presenti molti piccoli trabattelli che non rientrano nell’am- bito della Uni 1004: 2005.
L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma dedicato.

Le versioni “mini”
Esistono numerose attività in cui vengono utilizzate attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto: hanno ingombri in pianta limitati e possono raggiungere altezze non elevate.

I piccoli trabattelli sono una via di mezzo tra le scale movibili con piattaforma costruite secondo la Uni En 131-7 e i trabattelli Uni En 1004. Hanno un impalcato di dimensioni ridotte con accesso dall’interno o dall’esterno attraverso scale inclinate o verticali a pioli o a gradini. In alcuni piccoli trabattelli le fiancate sono realizzate utilizzando scale portatili come componenti. I piccoli trabattelli non devono essere utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto. L’utilizzo di questo tipo di attrezzature espone il lavoratore al rischio di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.

Dal punto di vista legislativo, i piccoli trabattelli possono essere definiti “ponti su ruote a torre”, devono quindi rispettare le prescrizioni indicate all’art. 140 del D.Lgs. 81/2008. Nello specifico i “ponti su ruote a torre” devono:

  • avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai cari- chi e alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati;
  • avere il piano di scorrimento delle ruote livellato;
  • il carico del piccolo trabattello sul terreno deve essere opportunamente ripartito con tavoloni o altro mezzo equivalente;
  • avere ruote saldamente bloccate nella fase di lavoro con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso, dispositivi appropriati devono impedir- ne lo spostamento involontario durante l’esecuzione dei lavori in quota;
  • avere verticalità controllata con livello o con pendolino;
  • non essere spostati quando su di essi si trovano lavoratori o carichi (esclusi quelli usati nei lavori per le linee elettriche di contatto).

In particolare, i trabattelli devono essere ancorati alla costruzione almeno ogni due piani (cioè almeno ogni quattro metri in al- tezza). È ammessa deroga a quest’obbligo per i ponti su ruote a torre (trabattelli Uni En 1004 che hanno “stabilità propria” attestata dal suparamento di prove sperimentali e corredati di manuale di istruzioni sul corretto montaggio, uso e smontaggio, che sia conforme alla Uni En 1298).
La nuova norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» stabilisce requisiti dimensionali, di sicurezza e i metodi di prova per i piccoli trabattelli su due ruote con l’altezza del piano di lavoro minore di quattro metri e portata massima di 150 kg, per l’utilizzo da parte di una sola persona alla volta. La norma classifica i piccoli trabattelli in base all’altezza e all’accesso. Riguardo l’altezza, i piccoli trabatelli si suddividono nelle classi h2 e h4. In un piccolo trabattello di classe h2, l’altezza h tra il suolo e la superficie superiore della piattaforma più alta è inferiore a 2 m; in uno di classe h4 l’altezza h è maggiore o uguale a 2 m e inferiore a 4 m.
Riguardo all’accesso, la norma distingue fra tipologia e modalità di accesso: i tipi di accesso sono quelli previsti nella Uni En 1004:2005 (A, B, C o D) mentre la modalità di accesso può essere di tipo E (dall’esterno); di tipo I (dall’interno) o di tipo EI (dall’esterno e dall’interno).

Designazione
La designazione è molto simile a quella prevista nella Uni En 1004:2005; a quest’ultima è stato aggiunto il dato relativo al tipo di accesso (E, I o EI) che la norma europea non prevede.

Requisiti
La norma distingue i requisiti in dimensionali e di sicurezza. I requisiti dimensionali sono quelli legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie di accesso e alle modalità di accesso.

Verifiche e prove
La norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» prevede un capitolo specifico destinato alle verifiche e alle prove. La sezione destinata alle verifiche è particolarmente importante in quanto per la prima volta in una norma relativa alle attrezzature provvisionali viene inserito un prospetto che contiene i metodi di verifica dei requisiti stabiliti nella norma stessa:

  • esame visivo, per verificare l’integrità del piccolo trabattello o dei componenti;
  • misurazione, per verificare che i parametri misurabili (per esempio: dimensioni geometriche, distanze di sicurezza, resistenza) siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma;
  • prova di funzionamento, per verificare che, senza carico, il piccolo trabattello nel suo complesso operi come previsto e che tutte le funzioni siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma e alla documentazione tecnica;
  • prova specifica prevista dalla norma;
  • verifica dei documenti e dei disegni forniti, per verificare che siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma.

 

 

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Spazi confinati: gestire le acque reflue tutelando la salute degli addetti

Negli ultimi dieci anni, ci sono state oltre quaranta vittime negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Questi tragici fatti hanno ancora una volta portato all’attenzione della pubblica opinione la gravità degli infortuni sul lavoro che avvengono durante l’esecuzione di attività lavorative all’interno degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Evidenziando, ancora una volta, che il modo di gestire la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro durante lo svolgimento di queste particolari attività, nelle aziende pubbliche e private in Italia, è perlomeno suscettibile di notevoli miglioramenti. Un efficace modello di gestione dell’attività può, tutta- via, fornire indicazioni e modalità operative per l’esecuzione in sicurezza delle attività da realizzarsi all’interno degli spazi confinati 1 presenti in una rete per la gestione delle acque reflue, secondo quanto previsto dagli artt. 66 e 121 e dall’allegato IV, punto 3, D.Lgs. n. 81/2008, e dal D.P.R. n. 177/2011.

Le definizioni
Innanzitutto, è opportuno chiarire il significato dei termini.

Spazio confinato/Ambiente sospetto d’inquinamento
Uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture d’accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può verificarsi un evento incidentale importante, che può portare a un infortunio grave o mortale, a causa della presenza gas tossici o infiammabili o della carenza d’ossigeno; in generale si tratta di un’area nella quale si opera in condizioni di rischio latente o imminente o dalla quale uscire durante un’emergenza potrebbe rivelarsi estremamente difficoltoso, vedi ad esempio, cunicoli, pozzetti di servizio, sollevamenti fognari, pozzetti fognari, serbatoi, camerette d’ispezione ecc…

Responsabile di funzione
Persona che ha la responsabilità dell’intera funzione del settore acque reflue dell’azienda.

Tecnico responsabile di reparto
Persona che ha la responsabilità di un reparto del settore acque reflue dell’azienda

Caposquadra preposto
Persona che, grazie alla formazione, all’addestramento e all’esperienza acquisita e dimostrata, ha la responsabilità di autorizzare l’accesso allo spazio confinato/ambiente sospetto d’inquinamento, vigilare durante le operazioni e interromperle a propria discrezione, qualora si verifichino o si sospettino condizioni pericolose.

Personale accedente
Personale incaricato di effettuare le operazioni che prevedono l’esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento.

Personale di supporto
Personale incaricato di supportare le attività della squadra d’intervento e che può, a seconda delle condizioni, svolgere an- che l’attività del personale accedente o di componente del personale d’emergenza.

Permesso di lavoro
Documento in cui sono indicati sia rischi specifici dell’ambiente in cui il personale è chiamato a lavorare che le operazioni preliminari per l’esecuzione in sicurezza dell’attività, le misure da attuare durante l’esecuzione dei lavori, le attrezzature di lavoro e i Dpc e Dpi da utilizzare.

Dvr
Documento di valutazione dei rischi aziendale.

Dpc
Dispositivo di protezione collettiva.

Dpi
Dispositivo di protezione individuale.

I compiti e le responsabilità
Il passo successivo è quello di definire le responsabilità e i compiti delle figure prima citate.

Utilizzo degli autorespiratori
Questi dispositivi risultano necessari quando, a seguito di un incidente, l’aria all’inter- no degli spazi confinati diviene non adatta alla respirazione a causa della presenza di gas, fumi o vapori o per la mancanza di ossigeno. L’utilizzo di autorespiratori è necessario per interventi in emergenza. Gli autorespiratori devono essere:

protetti dagli urti e dall’inquinamento ambientale;

  • correttamente puliti e disinfettati;
  • chiaramente identificabili;
  • dotati di una bombola di riserva piena per ogni autorespiratore;
  • con maschere ed erogatore di soccorso;
  • custoditi e mantenuti secondo le indicazioni fornite dal fabbricante.

Per ciascun caso devono essere previste le specifiche misure di gestione delle emergenze.

Metodo di comunicazione
L’aspetto più importante è il metodo di segnalazione dell’emergenza. Ove possibile, è necessario che venga mantenuto il contatto visivo e vocale con l’operatore che scende nello spazio confinato o prevedere la comunicazione via radio. Se l’infortunato è in grado di comunicare, allora – in caso di emergenza – può richiedere vocalmente aiuto. Se l’infortunato non è cosciente, l’addetto alle emergenze, in caso di contatto visivo, lo individua immediatamente e attiva il soccorso. Se non avesse un contatto visivo diretto, alla seconda chiamata vocale o via radio nulla attiva il soccorso. È anche consigliabile l’uso dello strumento “motion alert”. Si tratta di uno strumento in grado di segnalare l’allarme, quando l’uomo che lo ha con sé rimane immobile per 30 secondi, con un preallarme sonoro a intervalli regolari. Se non venisse rilevato alcun movimento nei dieci secondi successivi lo strumento attiva un allarme sonoro a sirena. Ovviamente, va ricordato che la funzione “motion alert” deve essere attivata ogni volta prima che l’operatore acceda all’interno dello spazio confinato.

Misure di primo soccorso
Allontanare l’infortunato e tenerlo all’aria aperta. Se l’infortunato non respira e il cuore non batte, praticare la rianimazione cardiopolmonare (massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca). Se l’infortunato non è cosciente ma respira, disporlo in posizione laterale di sicurezza e controllare le funzioni vitali (sentire polso e respiro). In ogni caso chiedere l’intervento del 112 (numero unico per le emergenze), descrivendo l’accaduto, le condizioni dell’infor-tunato e l’ubicazione del posto di lavoro.

Utilizzo del treppiede
Il personale di sorveglianza deve utilizzare l’argano manuale collegato alla imbracatura di sicurezza per estrarre dallo spazio il lavoratore in difficoltà. Se possibile devono essere fatti tentativi di ventilazione dello spazio. In caso di soccorso al lavoratore all’interno dello spazio confinato è necessario:

  • aver indossato preventivamente, da parte del personale di emergenza che deve entrare nello spazio confinato, tutti i Dpi a disposizione per la specifica operazione;
  • portare l’infortunato all’esterno, rispar- miandogli qualsiasi sforzo muscolare e chiamare il soccorso di emergenza del pronto soccorso o i vigili del fuoco (112) nei casi di difficoltà di estrazione dell’infortunato;
  • nel caso risulti impossibile estrarre il lavoratore dallo spazio confinato, avvicinare alla sua zona di respirazione il tubo di immissione dell’aria collegato al ventilatore, in modo da fargli respirare nel più breve tempo possibile aria pulita prelevata dall’esterno del locale.

Prescrizioni e divieti specifici
Non devono essere utilizzati negli spazi confinati motori a benzina e diesel. È vietato in ogni caso l’accesso in ambienti di “tipo A” non testati e senza autorizzazione specifica. La rilevazione dell’aria non deve essere mai fatta fidandosi delle proprie percezioni; molti gas o vapori tossici non sono percepibili. La rilevazione dei gas de- ve essere fatta in assenza di ventilazione. La rilevazione dei gas o dell’ossigeno deve essere fatta solo dopo aver accertato che lo strumento sia tarato e calibrato correttamente secondo le istruzioni dettagliate dal fornitore. Nel caso in cui la rilevazione evidenzi presenza di gas, l’intervento non può essere effettuato prima della bonifica – pulizia – ventilazione ulteriore con esito positivo. Gli interventi negli spazi confina- ti non possono essere eseguiti in condizio- ni climatiche avverse, ad esempio, in caso di pioggia anche nei giorni precedenti.

Le modalità operative
Un’azienda che opera nella gestione delle acque reflue, dovrebbe aver individuato come spazi confinati, quantomeno le seguenti tipologie:

  • cunicoli fognari;
  • tombinature stradali;
  • pozzetti di servizio fognari;
  • manufatti d’ispezione;
  • sollevamenti fognari;
  • vasche;
  • locali tecnici interrati.

Il passo successivo è quello di procedere alla classificazione. Opportuno procedere come segue:

  • gli spazi confinati presenti all’interno di impianti o che comunque si presentano come singolarità sono stati valutati singolarmente, inserendoli in un apposito elenco. È compito del responsabile del settore acque reflue verificare questo elenco e mantenerlo aggiornato in caso di eventuali variazioni;
  • i volumi tecnici che sono presenti in numeri elevati (quali i pozzetti di servizio su strada o fuori e manufatti d’ispezione) devono essere valutati per tipologie simili e non devono essere elencati nel censimento tranne i casi indicati al punto precedente; la valutazione deve essere effettuata su elementi rappresentativi di una certa categoria e poi associata a tutta quelli che hanno simili caratteristiche; questa valutazione per tipologie simili permette di poter avere una informazione di massima relativamente ai rischi che si possono avere intervenendo su di essi.

In particolare, tutti i pozzetti e manufatti d’ispezione è opportuno si facciano rientrare cautelativamente nella categoria di spazio confinato di tipo A, tranne gli spazi in cui l’operatore non entra interamente che restano di tipo C.
Gli spazi confinati prevalutati, valutati per tipologie simili o valutati sul posto devono essere suddivisi in tre categorie (A, B e C) in relazione alle loro caratteristiche di pericolosità.
Per le attività all’interno degli spazi confinati di categoria A, l’intervento può avvenire solo attraverso il “permesso di lavoro spazi confinati”.

L’esecuzione delle attività
Le istruzioni operative per l’esecuzione dei lavori all’interno degli spazi confinati si differenziano in relazione alla categoria con cui viene classificato il luogo di lavoro confinato. Per la classificazione del tipo di spazio confinato occorre procedere secondo quanto riportato nella successiva fase 0.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria A
I lavori in spazi confinati di categoria A si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento e rilascio della relativa autorizzazione (fase comprensiva dei controlli previsti);
  • esecuzione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria B
I lavori in spazi confinati di categoria B si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativacomunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria C
I lavori in spazi confinati di categoria C si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.
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Quando le prassi sono un autogol

Nei casi in cui si accerti che lo svolgimento di determinate attività dà luogo a condotte che, ripetute nel tempo, si traducono in comportamenti non corretti, in quali termini si configura la responsabilità, rispettivamente del datore, del dirigente o del preposto? Un’attenta e precisa analisi ci aiuta a capire meglio

 

Risposta
La Cassazione è univocamente orientata, da tempo, ad affermare il principio che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro – cui spetta di assicurare l’obiettivo di un’efficace tutela delle condizioni di lavoro, è molteplice e articolato.
Questa figura, infatti, non può limitarsi all’istruzione dei lavoratori sui rischi professionali, e sulla conseguente necessità di adottare specifiche misure di sicurezza, bensì deve ulteriormente consistere e concretarsi in un controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino le disposizioni impartite; e si adeguino tanto alle misure di tutela previste dalla legislazione antinfortunistica, quanto a quelle supplementari derivanti dalle procedure di sicurezza adottate da ciascuna azienda, allo scopo di garantire condizioni di lavoro sicure.
Invero, spesso, i lavoratori sono tentati, per i motivi più vari, a trascurare tanto le prime, quanto le seconde. Dunque, il datore di lavoro, quale soggetto primariamente responsabile della sicurezza, deve possedere la cultura e la forma mentis di garante di quel bene costituzionalmente rilevante te costituito dall’integrità psicofisica del lavoratore. In questa veste, rilevante anche sul piano dei valori costituzionalmente tutelati, il datore ha il preciso dovere, in primo luogo, di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste per le singole lavorazioni e, in secondo luogo, di attivarsi e di controllare sino alla pedanteria, che le norme e le disposizioni aziendali siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Questi specifici oneri di informazione e di assiduo controllo, ordinariamente necessari nei confronti dei dipendenti dell’impresa, si impongono a maggior ragione nei confronti di coloro che, prestando lavoro alle dipendenze di altri, e venendo per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture a loro non familiari (ad esempio, in regime di appalti extra-aziendali ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008), possono essere per ciò solo inseriti in situazioni di lavoro che per elementi e circostanze non conosciute risultano insidiose per i prestatori di lavoro.

La Cassazione ha, inoltre, sottolineato che il suddetto dovere di vigilanza spetta in ogni caso al datore di lavoro (che non abbia validamente delegato i suoi compiti), e che questo obbligo di attuare e controllare le misure di sicurezza non viene meno neppure in caso di distacco di lavoratori presso un cantiere gestito da altro imprenditore.
Naturalmente, l’obbligo della vigilanza può essere disimpegnato dal datore di lavoro anche avvalendosi della propria organizzazione aziendale, mediante la ripartizione delle competenze a dirigenti prevenzionistici e a preposti, e predisponendo altresì un’efficace rete di flussi informativi che consentano il controllo delle condizioni di lavoro in azienda (in tal senso è illuminante la recente pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 4 aprile 2019, n. 49215). 

Le responsabilità
Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro (e, più in generale, dei vertici aziendali) le pronunce giurisprudenziali sono diffuse. È così che, con riguardo a un infortunio occorso a un lavoratore operante su un ponte sviluppabile, utilizzato a un’altezza di dodici metri da terra, comandato da terra a opera di un terzo lavoratore, e non da bordo del cestello del ponte, così come imponeva l’ordine di servizio impartito dal datore di lavoro (in conformità alla previsione dell’art. 233 del D.P.R. n. 547/1955), la Cassazione ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’esonero della responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che il lavoratore avesse dichiarato di essere a conoscenza delle corrette modalità di lavoro, ma che queste ultime erano il più delle volte disattese nella prassi concreta di lavoro, che avveniva con modalità non conformi (Cass. pen. sez. III, 28 maggio 1999, n. 6695). Dunque, nel caso di specie, la scorretta pratica di lavoro, tollerata dal datore di lavoro e non conforme alle norme prevenzionistiche (giacché solo il personale a bordo del ponte sviluppabile poteva avere una diretta percezione delle manovre, in relazione allo spazio di traslazione e alla eventuale presenza di ostacoli), nonché il mancato accertamento della non aderenza di questa prassi concreta alle disposizioni impartite, sono stati gli elementi fondanti il profilo di colpa specifica addebitato nel processo, conclusosi con la condanna dell’imputato.
Si può dunque affermare che il datore di lavoro deve non solo ordinare, ma altresì esigere che le norme di sicurezza siano rispettate; e questo controllo deve essere effettivo, cosicché il datore non può mettersi al riparo emanando un ordine, laddove la prassi esecutiva dell’azienda risulti sistematicamente in contrasto con le norme di sicurezza. Il controllo sulla conformità della prassi esecutiva di lavoro all’ordine di servizio impartito deve pertanto essere effettivo, non limitato a una pretesa di natura esclusivamente formale.

L’orientamento della Cassazione
Da decenni l’orientamento prevalente della suprema Corte (per tutte Cass. pen. sez. IV, 4 giugno 1974, Pelloni), è che il datore di lavoro deve «controllare ed esigere che le modalità di lavoro siano conformi ai criteri di sicurezza». Analogamente la legislazione prevenzionistica e di igiene del lavoro da sempre ha sancito l’obbligo della cosidetta “pretesa d’uso” (art. 4, lett. c) del D.P.R. n. 547/1955: il datore di lavoro deve: «disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione »), addirittura assoggettandolo ad autonoma sanzione (artt. 4, lett. d) e 58, lett. c) del D.P.R. n. 303/1956), cosa che le normative emanate agli inizi degli anni ’90 (il D.Lgs. n. 277/1991 e il D.Lgs. n. 77/1992) hanno confermato, sconfessando in questo modo le pronunce giurisprudenziali di segno contrario (ad esempio, Cass. pen. sez. IV, 15 gennaio 1975, Menardo).
La tesi della autonoma sanzionabilità della violazione dell’obbligo della “pretesa d’uso” ebbe poi a ricevere una conferma esplicita nel D.Lgs. n. 626/1994, il quale, ponendo fine alle oscillazioni giurisprudenziali, stabilì chiaramente che l’obbligo per il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti (ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze) di esigere, da parte dei singoli lavoratori, l’osservanza delle norme di legge e aziendali in tema di sicurezza, è un obbligo autonomamente sanzionato (art. 4, comma 5, lettera f) e art. 89, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 626/1994). Questa impostazione del dovere di sicurezza, rivolto a fronteggiare e a contrastare efficacemente l’instaurarsi di prassi scorrette di lavoro, è stato integralmente confermato nel testo unico della sicurezza sul lavoro (art. 18, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008: «Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono(…) f) richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione»).

Il controllo? Anche personale
In altra vicenda infortunistica (folgorazione di un operaio, raggiunto da una violenta scarica elettrica mentre lavorava in prossimità di una pressa ad alta frequenza, senza operare il cosiddetto sezionamento della linea elettrica così come previsto dall’art. 345 del D.P.R. n. 547/1955), analogamente la Cassazione ha ritenuto che l’abitudine omissiva del lavoratore deceduto di non interrompere la tensione del generatore (forse per eccesso di confidenza con le mansioni di lavoro e la conoscenza del macchinario) non avrebbe dovuto essere tollerata in alcun modo dal datore di lavoro, il quale avrebbe dovuto esercitare finanche personalmente un controllo adeguato per impedire la violazione delle norme e le prevedibili conseguenze dannose derivanti dalla loro inosservanza, intervenendo per pretendere il rispetto di quelle disposizioni che risultassero sistematicamente violate nella concreta prassi di lavoro (Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3970).
In un altro caso di omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sull’effettivo utilizzo dei dispositivi di protezione individuale messi a disposizione dei lavoratori, ma dagli stessi non utilizzati durante il lavoro, la Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro «non può – e non deve – limitarsi a mettere a disposizione dei singoli lavoratori il materiale necessario all’allestimento dei mezzi di protezione, limitandosi ad ordinare che se ne faccia uso ma deve, in concreto, assicurarsi che ciò sia avvenuto».

Il ragionamento dei giudici di legittimità è stato che, essendo le norme di protezione e di sicurezza poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, queste ultime devono essere attuate anche contro la sua volontà, sicché «il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza circa la loro rigorosa osservanza, risponde della loro violazione in termini di culpa in vigilando, non rilevando l’affidamento sulla diligente condotta esecutiva dei prestatori di lavoro» (in termini Cass. pen. 17 febbraio 1984, n. 5795, e Cass. pen. 10 gennaio 1989, Santoro). Nel senso che l’affidamento di lavori, pur di prassi elementare, a un lavoratore particolarmente esperto, non esime il datore di lavoro dal fornire al lavoratore medesimo le indicazioni delle particolari cautele e delle attrezzature necessarie per lo svolgimento in sicurezza dei compiti affidati, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3984. Per Cass. pen. sez. IV, 25 settembre 1995, Moranti, non è rilevante a escludere la responsabilità del datore che il lavoro si sia svolto secondo la prassi instauratasi nell’azienda, se contraria alle misure antinfortunistiche. Le valutazioni espresse da queste consolidati orientamenti giurisprudenziali – ex plurimis, Cass. pen. sez. IV, 9 aprile 1999, Di Spirito; Cass. pen. sez. IV, 23 febbraio 1999, Beltramelli; Cass. pen. sez. III, 27 gennaio 1999, Celino – impongono in ogni caso al datore di lavoro di esercitare senza riserve un efficace controllo e una diligente vigilanza al fine di far rispettare le disposizioni di legge e quelle impartite in relazione alla propria concreta organizzazione di lavoro.

Quanto al criterio di imputazione della responsabilità colposa, l’orientamento prevalente della Cassazione è nel senso di ancorarlo alla tolleranza e all’acquiescenza del datore di lavoro di fronte alla prassi operativa scorretta, consistente o nell’inosservanza di una specifica disposizione di legge, ovvero di un ordine di lavoro specificamente impartito. Il fondamento della colpa viene dunque ravvisato nel consenso del datore di lavoro al perdurare di una situazione in contrasto con le disposizioni imperative della legislazione antinfortunistica, che egli aveva invece l’obbligo giuridico di conoscere, cosicché lo stato di ignoranza della medesima non è affatto valutato come circostanza scriminante, bensì proprio come indice di una condotta di inerzia colpevole (sul tema della doverosa conoscenza-conoscibilità ex ante della situazione antigiuridica da parte del soggetto gestore del rischio, Cass. pen. sez. IV, 5 dicembre 2017, n. 54825 e da ultimo Cass. pen. sez. IV, 15 maggio 2019, n. 20833).

Dunque il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere il lavoratore subordinato, assicurando un assetto organizzativo del lavoro che sia rispettoso delle norme antinfortunistiche; ed è responsabile per l’infortunio subito da un dipendente nell’esercizio dell’attività lavorativa, anche di fronte a una condotta imprudente di quest’ultimo, quanto meno agevolata, da una situazione conosciuta o colpevolmente ignorata, e rispetto alla quale nulla abbia fatto per impedirla. In questo contesto, un’istruzione di lavoro, per quanto perentoria e specifica, non è di per sé sufficiente per escludere la penale responsabilità del datore di lavoro, dovendosi quest’ultimo anche attivare concretamente per la sua osservanza; e l’affidamento all’ordinaria diligenza del prestatore di lavoro nell’esecuzione della prestazione si risolve in una pretesa non legittima, nei limiti in cui a detto affidamento si voglia attribuire un’efficacia scriminante della responsabilità.
Va da sé, peraltro, che qualora la prassi scorretta inerisca all’esercizio del dovere di vigilanza, di essa risponderà ordinariamente il preposto (con riguardo ad una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, v. Cass. pen., sez. IV 22 aprile 2004, Policarpo: «(…) il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche»); qualora, invece, questa prassi sia correlabile alla omessa predisposizione di misure prevenzionistiche, di essa deve risponderà (anche o solo) il datore di lavoro e/o il dirigente prevenzionistico di riferimento (Cass. pen. sez. IV, 16 marzo 2005, Ranzi: «Il direttore del Dipartimento di facoltà dell’Università risponde – in quanto datore di lavoro – dell’incolumità degli studenti allorché essi siano adibiti, per prassi, ad attività manuali all’interno del Dipartimento medesimo»; Cass. pen. sez. IV 23 marzo 1998, Ruggiero: «il preposto al cantiere (…) ha mansioni normalmente limitate alla mera sorveglianza sull’andamento dell’attività lavorativa, sicché la sua esistenza – salvo che non vi sia la prova rigorosa (e nella specie non lo è) di una delega espressamente e formalmente conferitegli (con pienezza di poteri e di autonomia decisionale) e di una sua particolare competenza – non comporta affatto il trasferimento in capo a lui degli obblighi e delle responsabilità incombenti sul datore di lavoro, essendo a suo carico (peraltro neppure in maniera esclusiva quando l’impresa sia di dimensioni molto modeste) soltanto il dovere di vigilare a che i lavoratori osservino le misure e usino i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione, comportandosi in modo da non creare pericoli per sé e per gli altri. Ne consegue che una responsabilità del preposto non è configurabile allorché l’infortunio sia dipeso non da omessa o insufficiente vigilanza nel senso suddetto, bensì dalla mancanza di strumenti, misure ed accorgimenti antinfortunistici la cui predisposizione ed attuazione spetta soltanto al datore di lavoro o al soggetto specificamente competente appositamente delegato»).

L’importanza della qualifica
Particolarmente interessante la pronuncia di Cass. pen. sez. IV 26 settembre 1988, Dell’Arte, secondo la quale «il titolare dell’impresa (o il preposto) il quale abbia consentito, quale prassi aziendale, l’interscambio di ruoli tra i dipendenti, risponde dell’infortunio occorso a un lavoratore nell’esecuzione di operazioni non corrispondenti alla qualifica o al ruolo formale a lui attribuito; e ciò anche nel caso esso titolare/preposto non sia presente al momento del verificarsi dell’evento».

Anche recenti pronunce della suprema Corte hanno ribadito i principi di responsabilità dei vertici aziendali e più in generale delle figure deputate alla tutela delle condizioni di lavoro: per Cass. pen. sez. IV, 13 dicembre 2012, n. 48231, correttamente i giudici di merito avevano condannato il datore di lavoro in relazione all’infortunio di un dipendente il quale, salito sulla scala che conduceva alla macchina in movimento, mettendo un piede sul parapetto, aveva poi dichiarato, in sede d’indagini, che questo modo di procedere era stato da lui sempre praticato – così come dagli altri colleghi – in conformità a una vera e propria consuetudine; di qui la censura al datore di lavoro di non aver adeguatamente e risolutamente interdetto questa prassi consuetudinaria e scorretta di lavoro né avere predisposto un efficace sistema di controllo e di vigilanza sui lavoratori. Nel caso di una prassi di lavoro non corretta tollerata da un coordinatore per l’esecuzione in un cantiere edile (utilizzo di una scala per le lavorazioni in altezza, in luogo dell’allestimento di apprestamenti più sicuri quali ponteggi e trabattelli) i giudici di legittimità (Cass. pen. sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 1870) hanno confermato la responsabilità del Cse. Interessante anche la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 3 giugno 2014, n. 22977, secondo la quale in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, il dovere di vigilanza deve essere valutato «in relazione alla concreta organizzazione aziendale.
Qualora l’infortunio sia riconducibile ad una violazione isolata, frutto di contingente trascuratezza da parte del lavoratore, e non consista in una prassi scorretta di lavoro, concretantesi in sistematiche e usuali violazioni, occorre valutare se, sul luogo di lavoro, esistano altre figure preposte al controllo della condotta dei lavoratori, ovvero se il datore di lavoro sia tenuto a svolgere egli stesso una vigilanza assidua e un controllo continuo sull’esecuzione della prestazione di lavoro, assimilabili ai compiti propri del preposto».
Nel caso concreto si trattava dell’infortunio subito da un lavoratore, colpito all’occhio mentre eseguiva il taglio di un tondino: al datore di lavoro era stato contestato di avere omesso di dotare il lavoratore di idonei occhiali di protezione, ma era emerso che i Dpi erano stati bensì forniti al dipendente (come dallo stesso confermato in udienza), ma questi, per negligenza non li aveva utilizzati.
Da ultimo, con riguardo alla figura del dirigente, condannato a prescindere dall’accertamento della conoscenza effettiva della prassi scorretta di lavoro, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 2 dicembre 2016, n. 51537.

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Iso 45001: quale rapporto con la legislazione?

L’adozione dei principi espressi nell’high level structure per la scrittura dello standard ha fatto segnare un marcato distacco rispetto a come la Bs Ohsas 18001 aveva affrontato i fondamenti su come costruire un sistema di gestione per una specifica organizzazione.
Un confronto con l’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008, le linee guida Uni-Inail e la norma Bs del 2007 Uni Iso 45001:2018 serve a mettere in luce gli aspetti “innovativi” dei nuovi requisiti per i sistemi di gestione per la salute e la sicurezza.

 

Standard o legge?
Il rapporto tra norma cogente e norma volontaria, tra le disposizioni di legge a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e gli standard dei sistemi di gestione della salute e della sicurezza era già molto dibattuto ai tempi della Bs Ohsas 18001:2007 “Occupational health and safety assessment series”; queste discussioni hanno avuto grande parte dibattito che ha portato all’emissione della Iso 45001:2018 “Sistemi di gestione per la salute e la sicurezza”.
In Italia, così come in gran parte dei Paesi del mondo, esiste una legislazione in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro molto sviluppata, con ampi collegamenti a prassi condivise nel resto del mondo, frutto dell’appartenenza dell’Italia ad associazioni e organismi politici internazionali che hanno stipulato accordi tra i loro membri, primi tra tutti le Nazioni unite (Onu) e la sua agenzia per il lavoro – l’International labour organization (Ilo) – e l’Unione europea. È al di fuori di ogni dubbio che la legge ponga, a carico delle aziende, obblighi e responsabilità in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori che prestano la propria opera presso le aziende stesse. In più, le persone fisiche che ricoprono rilevanti ruoli aziendali hanno precisi profili di responsabilità personali in merito alla tutela dei lavoratori, che derivano direttamente dai ruoli ricoperti e dai poteri esercitati.
In Italia, il provvedimento principale in materia di salute e sicurezza sul lavoro è il D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “testo unico”), che stabilisce obblighi e responsabilità, principi e processi, finalizzati a determinare i requisiti minimi per perseguire il risultato del più alto grado di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’adozione di un sistema di gestione standardizzato per la Ssl non deve essere intesa come un modo per rimpiazzare gli obblighi e le responsabilità previsti dalla legge; al contrario, il suo obiettivo è quello di creare una struttura logica per il raggiungimento degli scopi e dei risultati che questo sistema si pone, che non sono altro quelli di prevenire infortuni e malattie dei lavoratori correlate al lavoro e la predisposizione di luoghi di lavoro sicuri e salubri.
Il sistema disegnato dalla Iso 45001 si basa sul noto ciclo “Plan-Do-Check-Act”.
L’adozione di un sistema di gestione basato sul ciclo Pdca consente alle organizzazioni di essere più efficaci ed efficienti per la gestione dei propri rischi strategici e di migliorare le proprie prestazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Le organizzazioni di questo genere hanno la possibilità di agire sistematicamente con tempestività per affrontare rischi e opportunità e sono agevolate nel raggiungimento dei requisiti legali.
Il processo di sviluppo della Iso 45001 risale al 2013, quando il British standard institution (Bsi) propose alla Iso di studiare uno standard internazionale sui sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro, prendendo come base lo standard Bs Ohsas 18001, in passato sviluppato proprio da Bsi. In qualità di proponente, Bsi ha assunto il ruolo di segretario del nuovo comitato Iso Pc 283, incaricato dello studio, di cui hanno fatto parte 62 nazioni, insieme ad altre 11 che hanno partecipato in qualità di osservatori, oltre a 17 organizzazioni, tra cui Iosh.
I lavori sono stati a particolarmente complessi, passando attraverso l’emissione di due Cd (committee draft) e di due Fdis (final draft international standard), per culminare nella pubblicazione, avvenuta nel marzo 2018.

Si tratta di uno standard maturo, che tiene anche conto dell’esperienza delle organizzazioni che, negli anni, hanno certificato i propri sistemi di gestione secondo la Bs Ohsas 18001, stimate attorno a 90.000 in circa 127 Paesi nel mondo.
Tuttavia, l’adozione di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza non è, da sola, la garanzia di un miglioramento delle prestazioni dell’organizzazione. L’esperienza ha dimostrato che, se il sistema di gestione non è supportato da una serie di attività, strategiche o quotidiane, questo resta solo sulla carta. La Iso, all’interno del proprio standard, elenca questi fattori necessari per il successo di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza. I più importanti sono:
• la leadership e l’accountability, ovvero la capacità di rendere conto delle proprie azioni, espressa dall’alta direzione dell’organizzazione. Senza un impegno esplicito e pubblico dell’alta direzione, infatti, tutti gli sforzi per l’implementazione di un sistema di gestione sono vani. I redattori dell’Iso 45001 ne erano bene al corrente al momento della stesura, tanto che la versione definitiva dello standard presenta significativi cambiamenti rispetto alla Bs Ohsas 18001;
• comunicazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Si tratta di attività che sono generalmente trascurate da chi si pone come obiettivo il mero rispetto dei requisiti minimi di legge, ma che hanno dimostrato di essere molto efficaci e per questo non possono mancare nella composizione di un’organizzazione che voglia impegnarsi ad andare oltre il mero dettato normativo, con l’implementazione di un sistema di gestione della sicurezza;
assegnazione delle risorse necessarie, definizione di politiche compatibili con gli obiettivi strategici globali e con gli indirizzi dell’organizzazione.Un sistema di gestione non è un punto di arrivo: lo si può, piuttosto, paragonare a un percorso. Affrontarlo senza avere deciso dove si voglia arrivare e senza avere definito i mezzi da utilizzare è deleterio, perché l’indecisione, la mancanza di informazione o la definizione di obiettivi velleitari incidono sulla motivazione e sulla determinazione di tutti coloro che dovranno percorrere la strada e, in definitiva, sulla credibilità del sistema di gestione e dell’organizzazione stessa.

Il testo unico per la salute e la sicurezza
L’adozione di un sistema di gestione, quindi, non è una scelta in competizione o in contraddizione con le leggi sulla salute e sicurezza negli ambienti di lavoro; si tratta, piuttosto, di uno strumento di cui un’organizzazione diligente può decidere di dotarsi per raggiungere con più efficacia gli obiettivi della norma, che – è opportuno ricordarlo – sono la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, attraverso la predisposizione di ambienti di lavoro salubri e sicuri. In altri termini, un modo per colmare la distanza tra i “requisiti minimi” promossi dalla norma e il massimo della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore. Questo perché, per riuscire veramente a rispettare la legge (e quindi a garantire i livelli di tutela che della legge costituiscono l’obiettivo), non ci si deve limitare a osservare unicamente i requisiti minimi; punto, questo, fatto proprio dal D.Lgs. n. 81/2008, che, all’articolo 30, si riferisce al «modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche». Gli obblighi definiti dal testo unico sono sanzionati penalmente, colpendo la persona fisica che ha commesso effettivamente la violazione. Per ovviare a questo meccanismo, il legislatore ha introdotto, con un emendamento del 2007 al D.Lgs. n. 231/2001, il principio della responsabilità amministrativa da reato, ovvero della responsabilità delle organizzazioni, in conseguenza dei reati commessi nel proprio interesse o nel suo vantaggio dalle persone:
• che la rappresentano, che la amministrano, che la dirigono, che ne esercitano – anche di fatto – la gestione e il controllo;
• che sono sottoposte al controllo di costoro, in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle attività lavorative.

L’implementazione efficace di un sistema di gestione, all’epoca conforme alla Bs Ohsas 18001 o alle linee guida Uni-Inail, è considerato uno strumento conforme a evitare questi tipi di reato. Per questo motivo, l’11 luglio 2011, la direzione generale della tutela delle condizioni del lavoro ha pubblicato una lettera circolare1 che contiene una tabella in cui i requisiti delle linee guida Uni-Inail e della Bs Ohsas 18001:2007 sono messi a confronto con il contenuto dell’articolo 30, D.Lgs. 81/2008, allo scopo di verificarne la sovrapponibilità.

 

 

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L’accertamento del rischio amianto

Gli obblighi per le varie situazioni “a rischio” in carico a proprietari e operatori

 

Premessa
Il D.Lgs. 81/2008, con il termine amianto indica i seguenti silicati fibrosi:

• actinolite d’amianto;
• grunerite d’amianto (amosite);
• antofillite d’amianto;
• crisotilo;
• crocidolite;
• tremolite d’amianto.

Ciò premesso, come noto, l’amianto è un minerale naturale a struttura fibrosa che ha buone proprietà fonoassorbenti e termoisolanti e che, unitamente all’economicità, è stato ampiamente utilizzato in passato in innumerevoli applicazioni industriali, edilizie e in prodotti di consumo.

Il D.M. Sanità 6 settembre 1994 («Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto ») classifica i manufatti contenenti amianto (Mca) in due categorie distinte: a matrice friabile se le fibre di amianto sono libere o debolmente legate e quindi possono essere facilmente sbriciolati o ridotti in polvere con la semplice azione manuale; a matrice compatta nel caso in cui le fibre di amianto sono fortemente legate in una matrice stabile e solida (come il cemento-amianto o il vinyl-amianto) e quindi possono essere sbriciolati o ridotti in polvere solo con l’impiego di attrezzi meccanici.
Come noto, con il tempo questo materiale si è rivelato nocivo per la salute dell’uomo per la sua proprietà di rilasciare fibre che, se inalate, possono provocare patologie gravi e irreversibili a carico dell’apparato respiratorio (asbestosi, carcinoma polmonare) e delle membrane sierose, principalmente la pleura (mesoteliomi). L’amianto è quindi sicuramente pericoloso soltanto quando può disperdere le sue fibre nell’ambiente circostante per effetto di qualsiasi tipo di sollecitazione meccanica, eolica, da stress termico, dilavamento di acqua piovana.
Per questa ragione l’amianto in matrice friabile, il quale può essere ridotto in polvere con la semplice azione manuale, è considerato più pericoloso dell’amianto in matrice compatta che per sua natura ha una scarsa o scarsissima tendenza a liberare fibre.

Riconosciuta la pericolosità di questo minerale e in attuazione di specifiche direttive Ce, l’Italia con la legge n. 257 del 27 marzo 1992 ha dettato le «Norme per la cessazione dell’impiego e per il suo smaltimento controllato». Questa legge prevede il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. È stata poi emanata una serie di dispositivi legislativi che definiscono le modalità di attuazione dei piani regionali amianto, di valutazione del rischio amianto, di gestione dei manufatti contenenti amianto, sugli obblighi dei proprietari e/o dei responsabili delle attività degli edifici con presenza di questi manufatti, nonché le tipologie di intervento per la bonifica.
Successivamente, sono state emanate nuove norme per lo smaltimento controllato, le regole per la mappatura e gli interventi di bonifica urgenti, è stato introdotto l’obbligo per le imprese di bonifica da amianto dell’iscrizione all’Albo nazionale dei gestori dei rifiuti (attualmente «gestori ambientali») ed è stato emanato il regolamento relativo alla determinazione e disciplina delle attività di recupero dei prodotti e beni di amianto e contenenti amianto.
I manufatti contenenti amianto adottati in edilizia presentano ciascuno un certo grado di friabilità. 

L’iter
I manufatti contenenti amianto sono stati ampiamente utilizzati nel passato e installati almeno fino all’emanazione della legge n. 257/1992, in ambito residenziale, commerciale e in applicazioni industriali.
Pertanto, il sospetto che queste strutture contengano amianto è abbastanza radicato.
In tutti questi i siti è, pertanto, necessario accertare l’eventuale presenza di amianto e quindi occorre conoscere, per quanto possibile, la storia del sito, la data di costruzione e le ristrutturazioni successive, affidandosi a professionisti abilitati ed esperti (come i coordinatori amianto, abilitati ex legge n. 257/1992 e D.P.R. 8 agosto 1994), al fine di riconoscere i manufatti sospetti, chiedendo all’occorrenza informazioni ad hoc a soggetti responsabili (proprietari, datori di lavoro, appaltatori).

L’ampia gamma di manufatti contenenti amianto (si contano circa tremila applicazioni) e la variabilità delle loro tipologie che non consente di accertare la presenza di amianto a occhio nudo o dal semplice esame di un progetto di costruzione. L’unico modo per essere sicuri è sottoporre un campione del manufatto ad accurata analisi da parte di laboratorio autorizzato.
In tutti i luoghi di lavoro oppure strutture in cui sono presenti Mca o almeno sospettati di contenere amianto è necessario predisporre l’inventario dell’amianto, soprattutto quando occorre effettuare lavori specialmente di ristrutturazione o addirittura di demolizione. Infatti, a questo proposito, l’articolo 248 del testo unico della sicurezza (D.Lgs. n. 81/2008) stabilisce non solo che è necessario accertare l’eventuale presenza di amianto nei manufatti, prima di effettuare lavori di demolizione o di manutenzione, ma anche che qualsiasi materiale sospettato di contenere amianto deve essere considerato come contenente amianto fino a quando non viene accertato che ne è privo.

Per molti materiali, la presenza di amianto non può essere esclusa soltanto a seguito di una semplice ispezione visiva perché, molto spesso, il manufatto che contiene amianto è simile a quello che non lo contiene. Pertanto, è necessario ricorrere a tecniche analitiche che identificano la presenza di amianto nel materiale mediante esame visivo al microscopio per identificare le fibre.
L’inventario dei manufatti contenenti amianto deve identificare la loro posizione nel sito, indipendentemente dal fatto che siano sospettati o confermati dal laboratorio.

Sarà necessario accertare:
• la quantità dei Mca (ad esempio superficie, sviluppo lineare ecc.);
• la tipologia di manufatto (ad esempio, lastre di copertura, materia isolante, rivestimento, mattonelle per pavimenti ecc.);
• la percentuale in peso di amianto presente, se nota;
• la friabilità che rappresenta un parametro indicativo del rilascio di fibre nell’aria;
• le condizioni di conservazione (buone, normali, scarse, presenza di detriti, presenza di confinamento, di incapsulante ecc.);
• l’accessibilità dei manufatti (necessario per capire se le persone possono accedervi o venirne in contatto);
• il tipo di amianto presente (ad esempio crisotilo, amosite, crocidolite).

Ciò premesso, il primo obbligo per il proprietario e/o il gestore delle attività di un sito qualsiasi sia esso di proprietà privata o pubblica (terreno, fabbricato residenziale, edificio per uffici, fabbricato industriale, ecc.) consiste nell’accertare la presenza di amianto perché solo così si può essere certi di privilegiare la protezione delle persone e dell’ambiente, senza incorrere in esposizioni inconsapevoli al rischio.
Ai fini dell’accertamento della presenza di amianto nei materiali, innanzi tutto, i manufatti da ispezionare sono quelli sospettati di contenerlo, sia per l’età del manufatto sia per la funzione da esso svolta, qualora la stessa rientri tra quelle svolte dall’amianto.

Questa ricerca dovrebbe essere affidata a personale tecnico esperto e adeguatamente formato, come ad esempio a un “coordinatore amianto” abilitato ex legge n. 257/1992 e D.P.R. 8 agosto 1994 e non a personale qualsiasi dal momento che la normativa non prevede alcun particolare requisito formativo né di esperienza.
L’obbligo dell’accertamento della presenza di amianto va nella stessa direzione del censimento, previsto dalla normativa italiana.
Infatti, ai sensi dell’art. 12, D.P.R. 8 agosto 1994, il censimento degli edifici nei quali sono presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile ha carattere obbligatorio e vincolante per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico e di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti.

Solo poche Regioni hanno istituito l’obbligo della denuncia di tutti i manufatti, compatti e friabili di questo tipo. Pertanto, occorre individuare le strutture sospette e, prima di procedere al campionamento dei materiali, è necessario predisporre uno specifico protocollo che si può così riassumere:

• ricerca della documentazione tecnica disponibile sulla struttura, per accertare i vari tipi di materiali usati nella sua costruzione e per rintracciare, ove possibile, l’impresa costruttrice;
• ispezione diretta dei materiali per identificare quelli friabili e potenzialmente contenenti fibre di amianto, e per riconoscere approssimativamente il tipo di materiale impiegato e le sue caratteristiche;
• verifica dello stato di conservazione dei materiali friabili e valutazione delle condizioni degli eventuali rivestimenti sigillanti o dei mezzi di confinamento, per ottenere una prima stima sul potenziale di rilascio di fibre nell’ambiente;
• acquisizione di documentazione fotografica a colori la più rappresentativa possibile del materiale da campionare, che ne evidenzi la struttura e l’ubicazione rispetto all’ambiente potenzialmente soggetto a contaminazione.

Dopo aver eseguito queste verifiche preliminari, si procede al campionamento propriamente detto mettendo in atto criteri e procedure atte a garantire una sufficiente rappresentatività dei campioni evitando, oltre all’esposizione dell’operatore, la contaminazione dell’ambiente circostante mediante l’adozione delle seguenti procedure operative:

• umidificazione dei materiali da prelevare con acqua nebulizzata;
• impiego di strumenti adeguati che non permettano dispersione di polvere o di fibre nell’ambiente circostante, e che consentano il minimo grado di intervento distruttivo (sono indicati pinze, tenaglie, piccoli scalpelli, forbici, cesoie, ecc., e controindicati trapani, frese, scalpelli grossolani, lime, raspe, frullini e simili; per i campionamenti in profondità è consigliabile l’uso di idonei “carotatori” a tenuta stagna);
• prelievo di una piccola aliquota di materiale, sufficientemente rappresentativo e che non comporti alterazioni significative del materiale in sito;
• inserimento immediato dei campioni in sacchetto o contenitore di plastica ermeticamente sigillabile
• riparazione con adeguati sigillanti del punto di prelievo e pulizia accurata con panni umidi di eventuali residui sottostanti;
• trasmissione del campione, accompagnato da lettera riportante i dati del richiedente, il tipo di analisi richiesta, la descrizione sommaria della struttura da cui è stato prelevato, il luogo e la data di prelievo, (scheda di prelievo), unitamente alla documentazione fotografica, a un laboratorio specialistico riconosciuto come idoneamente attrezzato (qualificato e autorizzato ad effettuare le analisi ex allegati 1, 2 e 3 del D.M. 6 settembre 1994) il quale procederà all’accertamento dell’eventuale presenza di amianto, della tipologia del medesimo (dato qualitativo) ed eventualmente anche del dato quantitativo sul contenuto (percentuale in peso).

I materiali contenenti amianto possono essere omogenei o eterogenei. Tipicamente omogenei sono i prodotti di cemento-amianto, le pannellature isolanti per pareti friabili spruzzati sono in genere omogenei, ma possono anche essere costituiti da strati di diversa composizione, per cui occorre prelevare i campioni con l’ausilio del “carotatore”.
I rivestimenti isolanti di tubi e caldaie sono spesso eterogenei, e quindi necessitano di prelievo tramite carotatura.
Per i materiali omogenei è sufficiente prelevare uno o due campioni rappresentativi di circa cinque centimetri in estensione (o circa 10 gr.).
Per i materiali eterogenei è consigliabile prelevare da due a tre campioni ogni 100 mq circa, avendo cura di campionare anche dove vi siano cambiamenti di colore o dove siano state effettuate nel tempo delle riparazioni.

L’accertamento nell’aria
Per la misura della concentrazione delle fibre aerodisperse per mezzo di monitoraggio ambientale e il successivo conteggio delle fibre sono utilizzate due differenti tecniche analitiche: microscopia ottica in contrasto di fase (Mocf), prevista dal D.M. 6 settembre 1994, allegato 2, punto 1A, la quale rappresenta un metodo di analisi per la determinazione delle fibre aero disperse e per rilevare in maniera qualitativa la presenza di fibre in campioni massivi, unitamente alla tecnica di dispersione cromatica; microscopia elettronica a scansione (Sem), prevista dal D.M. 6 settembre 1994, allegato 2, punto 1B, la quale rappresenta un metodo di analisi per la determinazione della concentrazione delle fibre aero disperse e per rilevare, in maniera qualitativa, la presenza e il tipo di fibre in campioni massivi o in maniera quantitativa negli stessi campioni massivi in caso di presenza di amianto in percentuale inferiore all’1% in peso. È la tecnica prescelta dal D.M. 6 settembre 1994 per la determinazione della concentrazione di fibre aero disperse ai fini della certificazione della restituibilità di ambienti bonificati.

Per rimarcare la differenza tra le due tecniche analitiche, nel punto 2C del D.M. 6 giugno 1994, in materia di monitoraggi ambientali di fibre aerodisperse, è anche riportato che: «Va ricordato che nel caso della Mocf tutto il materiale fibroso viene considerato mentre, nel caso della Sem, è possibile individuare soltanto le fibre di amianto. Per questo motivo si ritiene che valori superiori a 20 ff/l valutati in Mocf o superiori a 2 ff/l in Sem, ottenuti come valori medi su almeno tre campionamenti, possono essere indicativi di una situazione di inquinamento in atto».
Inoltre, il testo unico sicurezza con riferimento agli ambienti di lavoro, all’articolo 254 «Valore limite», comma 1, stabilisce che «Il valore limite di esposizione per l’amianto è fissato a 0,1 fibre per centimetro cubo di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore.
I datori di lavoro provvedono affinché nessun lavoratore sia esposto a una concentrazione di amianto nell’aria superiore al valore limite».

Nel caso di indagine finalizzata alla valutazione dell’esposizione professionale o al monitoraggio ambientale durante l’intervento di bonifica, i campioni possono essere analizzati in Mocf. Quando essa invece è finalizzata alla restituzione di ambienti bonificati i campioni devono essere obbligatoriamente analizzati in Sem.

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Allerta massima per chi opera in quota

l punto del giurista alla luce della normativa e della giurisprudenza in materia

Si tratta di una delle attività maggiormente pericolose. Come si caratterizza la disciplina specifica in tema di valutazione dei rischi e di svolgimento di questo tipo di mansioni? Che cosa dicono sull’argomento il testo unico della sicurezza e i giudici?

 

Risposta
Il testo unico della sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) disciplina, al titolo IV, lo specifico settore dei «Cantieri temporanei o mobili» e, in questo ambito, al capo II (artt. 105-156), detta le «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota». Il successivo capo III (artt. 157-160) reca la disciplina sanzionatoria.
Mentre il titolo IV,capo I del testo unico è recepimento dell’ottava direttiva particolare (direttiva 92/57/Cee – la cosiddetta “direttiva cantieri”- riguardante le «prescrizioni minime di sicurezza e salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili») e si pone in rapporto di continuità con le precedenti disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 494/1996 – abrogate dall’art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008 a far data dal 15 maggio 2008-, il successivo capo II del titolo IV è la trasposizione delle disposizioni già contenute nel D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 (recante «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni»), parimenti abrogate dal citato art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.
Il capo I del titolo IV del Tusic è espressione di un modello “gestionale” della sicurezza sul lavoro che presuppone necessariamente l’esistenza di un «cantiere temporaneo o mobile»; laddove il successivo capo II fa dell’esistenza del “cantiere” una condizione sufficiente, ma non necessaria: come a dire che il capo II del titolo IV del Tusic (diversamente dal capo I si applica anche a realtà diverse da quella di cantiere, e cioè anche ai «lavori in quota» che siano svolti in un settore diverso da quello delle costruzioni. Ciò si ricava direttamente dal tenore dell’art. 105, ultimo periodo del D.Lgs. n. 81/2008 (ove si legge che «Le norme del presente capo si applicano ai lavori in quota di cui al presente capo e ad in ogni altra attività lavorativa»), nonché dal recente dictum di Cass. pen. sez. IV, 12 marzo 2019, n. 10857.
Già sotto l’impero dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, la giurisprudenza aveva affermato il principio che la suddetta norma «ha carattere assoluto ed è intesa a proteggere il lavoratore in ogni momento della sua attività che si svolga ad altezza superiore ai due metri dal suolo con pericolo di caduta», dunque il suo campo di applicazione non doveva essere limitato al settore delle costruzioni, bensì essere esteso a tutte le attività in quota che potevano determinare cadute dall’alto dei lavoratori.

Secondo la pronuncia di Cass. civ. sez. lavoro, 1° dicembre 1986, n. 7098, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 è applicabile «alle operazioni di imbracatura eseguite nei porti, ai fini dell’accertamento della necessità della dotazione di apposite scale». Per Cass. pen. sez. III, 5 novembre 1993, n. 437, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 risulta applicabile al lavoro «eseguito sulle pareti di una vasca – nella specie di raccolta d’acqua – ad altezza superiore a due metri dal suolo». Ancora, per Cass. pen. sez. IV, 17 maggio 2013, n. 21268, la suddetta norma poteva essere applicata alle operazioni di scaricamento e di sbracaggio di un motore industriale di notevoli dimensioni da un rimorchio, atteso che essa non è limitata al settore delle costruzioni edilizie, ma riguarda tutte le attività in quota che possano determinare cadute dall’alto dei lavoratori (nel caso specifico il lavoratore si era inerpicato sul motore, a un’altezza superiore ai due metri, in assenza di idonee precauzioni anticaduta, era poi scivolato, mentre cercava di sganciare i cavi d’acciaio che lo imbracavano, ed era rovinosamente caduto a terra, riportando gravi lesioni). Peraltro, in un raro caso in cui la Cassazione si è dovuta occupare dell’applicabilità della disciplina sui parapetti ai “mezzi di trasporto”, ha ritenuto che «In tema di normativa antinfortunistica, l’art. 27, D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, il quale prevede che i posti di lavoro siano provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali o di difese equivalenti, non è applicabile al posto di lavoro costituito dal cassone di automezzo, da cui si stiano scaricando materiali, a causa della peculiare natura di tal posto di lavoro, che non consente l’approntamento di un valido sistema protettivo equivalente contro il pericolo di cadute dall’alto» (Cass. pen., sez.IV, 20 maggio 1988, Fabbri).

Nell’ipotesi di «lavori in quota» che non diano luogo a un «cantiere temporaneo o mobile», il modello gestionale di riferimento, per l’applicazione delle norme del titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008, sarà il sistema degli “appalti interni” codificato all’art. 26 del testo unico.

Il titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008 (artt.105-156) detta dunque l’attuale disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e, nell’ambito di questa, dei «lavori in quota». Trattasi di disposizioni che erano già contenute nel D.Lgs. n. 235/2003, recante norme in tema di requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori (attuativo della direttiva 2001/45/Ce del 27 giugno 2001), e che, all’epoca, erano confluite nel titolo IV del D.Lgs. n. 626/1994 (artt. 34 e 36-bis e ss.).
Prima del recepimento della direttiva 2001/45/Ce, non esisteva nella legislazione italiana una esplicita definizione di «lavoro in quota». Le uniche disposizioni prevenzionistiche riferibili ai posti di lavoro “sopraelevati” erano l’art. 27 del D.P.R. n. 547/1955 (riferito alle imprese in generale) e, con specifico riferimento al settore delle costruzioni, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956.

La filosofia generale di tutela muove dall’affermazione di principio, contenuta nel 10° considerando della direttiva 2001/45/Ce, per la quale «In genere le misure di protezione collettiva contro le cadute offrono una protezione migliore delle misure di protezione individuale».
È così che l’art. 111, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce in via principale l’obbligo, per il datore di lavoro, di scegliere le attrezzature di lavoro «più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure», irrobustito dal criterio della “priorità” delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale (comma 1, lett. a), con richiamo concettuale all’art. 15, comma 1, lett. i) del testo unico, a sua volta derivante dall’art. 6, par. 2, lett. d) della direttiva- quadro 89/391/Cee). D’altro canto, l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008 (vero e proprio “polmone respiratorio” del sistema di gestione della sicurezza) è richiamato anche dall’allegato XV al testo unico «(Contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili»), ove al punto 2.1.1. è indicato a chiare lettere che i contenuti generali del piano di sicurezza e di coordinamento «sono il risultato di scelte progettuali ed organizzative conformi alle prescrizioni dell’articolo 15 del presente decreto».

Gli ulteriori criteri generali di scelta, improntata a un principio di sicurezza gradata, tra le attrezzature di lavoro utilizzabili per i lavori temporanei in quota (compresi i sistemi di accesso ai posti di lavoro, anche a fini di evacuazione in caso di pericolo “imminente”), sono: 

• per le scale a pioli (art. 111, comma 3), la sussistenza di condizioni di «limitato livello di rischio» e di «breve durata di impiego», oppure le caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare;

• per i sistemi a funi (art. 111, comma 4), il conseguimento di un livello di sicurezza accettabile (implicante facoltà di non impiego di un’attrezzatura di lavoro considerata più sicura), risultante dall’attività di valutazione dei rischi, sempre che si versi in situazioni di «breve durata di impiego», e di caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare.

Un ulteriore criterio di scelta è quello della minimizzazione dei rischi specifici insiti nell’uso delle attrezzature di lavoro (art. 111, comma 5), con l’ulteriore prescrizione relativa ai cosiddetti dispositivi anticaduta i quali, per quanto possibile, devono prevenire lesioni ai lavoratori, in ogni caso di caduta da luoghi di lavoro in quota (sia a terra sia in sospensione). Anche questa previsione è un’applicazione specifica della misura generale dell’obbligo di riduzione al minimo dei rischi, inserita dall’art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008 tra le misure generali di tutela.
L’art. 111, comma 6, introduce il principio della sicurezza equivalente per l’esecuzione di lavori di natura particolare, che richiedono l’eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute (con obbligo di immediato ripristino anche nel caso di temporanee sospensioni del lavoro: ad esempio la pausa mensa o la fine dell’orario di lavoro giornaliero).
L’art. 111, comma 7, da riferirsi ai lavori in esterno, è di non facile interpretazione, in assenza di ogni riferimento all’entità del pericolo per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e alla sua natura astratta o concreta (cioè imminente). Tra l’altro il punto 1 dell’allegato XI del D.Lgs. n. 81/2008 consente l’esecuzione di lavori in quota, pur particolarmente aggravati dalle condizioni ambientali (tra le quali vanno sicuramente ricomprese le condizioni meteo), laddove l’art. 111 citato, in situazioni di minor rischio (che possono verificarsi anche in cantiere), pone al contrario un esplicito divieto. Gli artt. 113, 116 e 136 del D.Lgs. n. 81/2008 dettano poi le condizioni di impiego delle scale a pioli, dei ponteggi, e dei sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi, strutturando variamente gli obblighi posti a carico del datore di lavoro (più restrittivamente rispetto alla direttiva, che in alcune ipotesi utilizza l’espressione «personale competente»), anche in termini di risultato (reso inequivoco dal ricorso all’uso del verbo «assicurare»), nonché di logica programmatoria dei lavori, e di formazione professionale dei lavoratori addetti ai lavori in quota (supplementare rispetto a quella ordinaria, e a contenuto sia teorico che pratico – salvo che per l’uso delle scale a pioli, per le quali valgono le regole generali dell’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008). 

La formazione teorico-pratica si compone di formazione in senso stretto (comprensione/ apprendimento, che è qualcosa di più della mera informazione, la quale ha normalmente un contenuto passivo), e di addestramento per i soli sistemi a funi; quanto alla previsione dell’art. 116, comma 3, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008, va rilevato che la norma non ha trasposto fedelmente il testo della direttiva, la quale prevede che la formazione investa in particolare le procedure di salvataggio. Si è in tal modo bypassato il livello minimo delle prescrizioni fissato dalla normativa comunitaria: né a questo inconveniente si è rimediato in sede di accordo Stato-Regioni del 26 gennaio 2006 (attuale allegato XXI al D.Lgs. n. 81/2008). Quanto al rapporto intercorrente tra l’art. 107 e l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008. Va detto che mentre l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 concepiva (senza definirlo) il «lavoro in quota» come il lavoro eseguito «ad un’altezza superiore ai m 2», l’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 dispone invece che per «lavoro in quota» si intende un’attività lavorativa «che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile».
Ne deriva che, a partire dal 19 luglio 2005 (data di entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 235/2003), il criterio cui si deve avere riguardo nello stabilire la sussistenza dell’obbligo, per il datore di lavoro, di adozione e di messa in opera di adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali, non è più la quota di «esecuzione del lavoro», bensì la quota di «esposizione al rischio di caduta» per il lavoratore.

La parola alla giurisprudenza
Per vero, la giurisprudenza formatasi sull’antesignana norma di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 156/1964, aveva concordemente affermato che l’altezza superiore a due metri dal suolo doveva essere calcolata non con riguardo al piano di calpestio (e più in generale al punto in cui il lavoratore poggia i piedi: nella specie i pioli di una scala), bensì con riguardo al punto in cui venivano «eseguiti i lavori» (Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 1983, Bioc; Cass. pen., sez. IV, 4 agosto 1982, Placucci; Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 1982, Salimbeni. Più recentemente Cass. pen., sez. III, 18 giugno 2003, n. 26208; Cass. pen. sez. IV, 1° aprile 2014, n. 15028 e Cass. pen. sez. IV, 14 aprile 2014, n. 16223).

Più specificamente la pronuncia di Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 1989, ebbe ad affermare che «la norma di cui all’art. 29, ultimo comma, D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008, nda), che detta disposizioni circa le passerelle e le andatoie, si applica anche nel caso in cui i lavori si eseguano a una altezza inferiore a due metri dal piano di calpestio; mentre, i ponteggi e le opere provvisionali, di cui all’art. 16 detto D.P.R. (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), e i parapetti, di cui al successivo art. 24 (attuale art. 126 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), vanno predisposti solo quando i lavori si eseguono ad altezza superiore ai due metri».
Il testo in vigore dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 fa invece propendere per la tesi contraria: infatti, nel lavoro in quota, ciò che conta è la quota di appoggio del lavoratore (non quella di lavoro effettivo). Insomma, l’altezza di due metri non va calcolata dalla quota del piano di calpestio (fino) alla quota in cui si esegue il lavoro; bensì mettendo in relazione la quota del piano di calpestio «rispetto ad un piano stabile», evidentemente situato a una quota inferiore.
Il che rende assolutamente ininfluente, ai fini del calcolo dell’altezza alla quale il lavoro viene eseguito, l’altezza del lavoratore.

D’altro canto, appare evidente la diversità di ratio normativa: mentre l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008 fissa la quota minima al di sopra della quale scatta l’obbligo, per il datore di lavoro, di far ricorso a opere provvisionali, l’art. 107 del D.Lgs. n. 626/1994 fissa la quota minima al di sopra della quale il datore di lavoro, all’esito della valutazione del rischio (parametrata sia alla natura e all’entità dello stesso, sia alla tipologia e alla durata dei lavori, sia alle caratteristiche del sito oggetto dell’intervento), deve esercitare la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di opere provvisionali (scale a pioli, ponteggi, sistemi a funi). Sotto questo profilo, l’obiettivo dell’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008 già citato, è di stabilire corrette relazioni gerarchiche d’uso tra le attrezzature di lavoro normalmente impiegate per l’esecuzione di lavori in quota, con rischio di caduta dall’alto dei lavoratori (in termini, di recente, Cass. pen. sez. IV, 23 luglio 2018, n. 34818).
Solo in qualche raro caso la Cassazione ha affrontato e risolto in maniera corretta la quaestio iuris legata all’interpretazione dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008: con riguardo alla caduta a terra di un lavoratore da un impalcato di altezza pari a 185 cm, che era stato allestito per l’esecuzione di lavori edili, i giudici di legittimità hanno confermato la pronuncia assolutoria del datore di lavoro, ritenendo l’inapplicabilità delle norme cautelari in tema di lavoro in quota, argomentando che trattasi di «disposizioni riguardanti lo svolgimento di attività lavorativa ad un quota posta ad altezza superiore a due metri, laddove l’impalcato misurava cm. 185 di altezza» (Cass. pen. sez. IV, 1° dicembre 2011, n. 44650).

Per il resto, la maggior parte delle pronunce di legittimità continuano ostinatamente a interpretare le nuove norme (artt. 107 e 122 del D.Lgs. n. 81/2008) secondo i vecchi parametri e l’ormai superata dizione che era contenuta nell’abrogato art. 16 del D.P.R.n. 164/1956 (ex aliis, Cass. pen. sez. IV, 11 febbraio 2019, n. 6408, secondo cui «l’altezza superiore a metri due dal suolo va calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore». Conformi Cass. pen. sez. IV, 15 aprile 2019, n. 16175; Cass. pen. sez. IV, 15 settembre 2017, n. 42261; Cass. pen. sez. IV, 5 luglio 2017, n. 32638; Cass. pen. sez. IV, 9 maggio 2017, n. 22599; Cass. pen. sez. IV, 20 settembre 2016, n. 39024).

Quanto ai requisiti di formazione professionale per i lavoratori addetti all’uso di attrezzature di lavoro per lo svolgimento di lavori temporanei in quota, esaurita la fase transitoria fissata ai sensi del D.Lgs. n. 235/2003 al 19 luglio 2007, dispongono ora gli articoli 116, comma 4 e 136, comma 8 e l’allegato XXI del D.Lgs. n. 81/2008.

Relativamente poi al meccanismo di ripartizione, nei cantieri edili, dei compiti e delle responsabilità tra coordinatori e datori di lavoro delle imprese esecutrici, va ribadito che i primi – fermo restando l’obbligo preliminare della valutazione di tutti i rischi professionali, e gli obblighi inerenti alla segnalazione delle inosservanze al committente e alla obbligatoria sospensione delle singole lavorazioni in caso di pericolo grave e imminente: lett. e) e f) dell’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008 – devono limitarsi a gestire anch’essi direttamente i rischi professionali derivanti dall’effettuazione di lavori temporanei in quota, solo qualora questi determinino “interferenze” tra le lavorazioni (ad esempio, derivanti dall’uso comune di un ponteggio); in caso contrario i suddetti obblighi gestionali faranno esclusivamente carico alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi.

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Cancerogeni e mutageni nuovi compiti in arrivo

La recente direttiva (Ue) 2019/130 andrà recepita entro il 20 febbraio 2021

Datore di lavoro e medico competente, unitamente all’intero sistema prevenzionistico, saranno chiamati a rivedere il proprio ruolo per la gestione del rischio in azienda. Punto di partenza: inasprire i controlli del livello di esposizione

Le novità
La nuova direttiva (Ue) 2019/130 del parlamento europeo del 16 gennaio 2019, in vigore dal 20 febbraio 2019, modifica la direttiva 2004/37/Ce sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione
ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro. In Italia sarà recepita nel D.Lgs. n. 81/2008 e modificherà/integrerà il titolo 9, Capo II e gli allegati XLII e XLIII; termine ultimo per il recepimento negli ordinamenti nazionali, il 20 febbraio 2021.
Si tratta della seconda modifica della direttiva 2004/37/Ce (la prima è la direttiva Ue 2017/2398 del Parlamento europeo del 12 dicembre 2017). 

Le principali modifiche che la direttiva (Ue) 2019/130 apporta alla direttiva 2004/37/Ce riguardano:
• l’introduzione dell’articolo 13-bis;
• alcuni emendamenti a carico dell’allegatoI e dell’allegato III.

L’articolo 13-bis «Accordi delle parti sociali», orientato allo sviluppo di politiche di prevenzione, prevede che gli accordi delle parti sociali eventualmente conclusi nell’ambito della presente direttiva siano elencati nel sito web dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) con necessità di aggiornamento periodico. Ciò per ribadire l’importanza della definizione degli accordi delle parti sociali per l’attuazione efficace, oltre alle misure normative, degli obblighi a carico dei datori di lavoro di cui alla stessa direttiva 2004/37/Ce.

Le modifiche dell’allegato I e dell’allegato III coinvolgono, invece, aspetti più tecnici.

L’allegato I alla direttiva 2004/37/Ce, recepito dall’allegato XLII del D.Lgs. n. 81/2008, definisce cancerogena una sostanza, miscela o procedimento, nonchè una sostanza o miscela liberate nel corso di un processo di seguito menzionato:
• produzione di auramina con il metodo Michler;
• i lavori che espongono agli idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame o nella pece di carbone;
• i lavori che espongono alle polveri, fumi e nebbie prodotti durante il raffinamento del nichel a temperature elevate;
• il processo agli acidi forti nella fabbricazione di alcool isopropilico;
• il lavoro comportante l’esposizione a polvere di legno duro;
• i lavori comportanti esposizione a polvere di silice cristallina respirabile generata da un procedimento di lavorazione.

Con la nuova direttiva (Ue) 2019/130 a questi andranno ora aggiunti:
• i lavori comportanti penetrazione cutanea degli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore;
• i lavori comportanti esposizione alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel.

Con la direttiva (Ue) 2019/130 l’allegato III («Valori limite e altre disposizioni direttamente connesse») è sostituito dal testo che figura nell’allegato della direttiva stessa; di fatto, la nuova direttiva apporta all’allegato III l’aggiunta di cinque sostanze cancerogene:
• il tricoloretilene (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• la 4,4’ – metilendianilina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’epicloridrina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dibromuro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dicloruro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008).

Queste sostanze vanno ad aggiungersi:
• alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel;
• alle miscele di idrocarburi policiclici aromatici (categoria 1A o 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008), in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene;
• agli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore.

Per tutti questi composti, ad eccezione degli ultimi due, sono definiti i valori limite che non devono essere superati nel corso dell’esposizione lavorativa. Per le miscele di idrocarburi policiclici aromatici, in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene, e per gli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna non vengono identificati valori limite, ma, essendo noto l’assorbimento anche per via cutanea, è proposta la “skin notation” a raccomandare, nella valutazione del rischio, di considerare anche la capacità di contribuire in modo significativo all’esposizione totale attraverso la via di assorbimento cutanea. Salgono, quindi, ora a ventidue gli agenti cancerogeni per i quali è fissato un limite espositivo (in questa direttiva non è contemplato l’amianto) e sono dodici le sostanze che assumono la “skin notation”.

Le conseguenze per il datore di lavoro…
Da tutto ciò ne deriva che sono importanti le novità che datore di lavoro e medico competente dovranno affrontare. Per il datore di lavoro vi sarà la necessità di ricomprendere nel processo di valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni nuovi composti e, quindi, nuovi ambiti occupazionali. Ne sono importanti esempi i gas di scarico dei motori diesel e gli oli precedentemente (facendo attenzione alle pregresse esposizioni) usati nei motori a combustione interna (maggior parte dei veicoli). Per i primi, classificati dal 2014 come cancerogeni per l’uomo dalla Iarc (categoria 1), andranno considerate le attività comportanti l’impiego di motori diesel on road e off road e alcuni ambiti del trasporto ferroviario e navale.
Per i secondi ne conseguirà la necessità di valutare l’esposizione ad agenti cancerogeni per settori comuni fin qui per questo non valutati (uno per tutti il settore delle autoriparazioni).
Sempre per il datore di lavoro si confermerà con maggior forza l’obbligo di misurare e contenere l’esposizione per via inalatoria degli agenti cancerogeni o mutageni entro i limiti stabiliti dall’allegato III alla direttiva (Ue) 2019/130. Questi limiti sono stabiliti in funzione di un periodo di riferimento di otto ore o, per alcuni agenti cancerogeni o mutageni, di periodi di riferimento per esposizione di breve durata (Stel), normalmente di 15 minuti. Il testo della direttiva (Ue) 2019/130 precisa che l’adozione di valori limite relativamente agli agenti cancerogeni o mutageni non azzera i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dall’esposizione durante il lavoro (rischio residuo). I valori limite di esposizione professionale rientrano, in ogni modo, a pieno titolo nelle misure di gestione del rischio di cui alla direttiva 2004/37/Ce e il rispetto contribuisce, comunque, a una riduzione significativa dei rischi derivanti da questa esposizione. L’osservanza dei limiti non deve, tuttavia, pregiudicare gli altri obblighi dei datori di lavoro ai sensi della direttiva quali, in primis:
• la sostituzione dell’agente cancerogeno o mutageno con una sostanza, una miscela o un procedimento che non sia o sia meno nocivo per la salute del lavoratore;
• il ricorso a un sistema chiuso o altre misure volte a ridurre l’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile;
• la riduzione dell’utilizzazione di agenti cancerogeni e mutageni sul luogo di lavoro, la prevenzione o la limitazione dell’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile.

Già nel 2002 le linee guida per l’applicazione del titolo VII del D.Lgs. n. 626/1994 «Protezione da agenti cancerogeni e/o mutageni», del coordinamento tecnico per la sicurezza nei luoghi di lavoro delle regioni e delle province autonome, ricordavano che il limite non può essere considerato uno spartiacque verso il basso, dato che il rispetto del limite non comporta di per sé rispetto della minimizzazione dell’esposizione, mentre deve essere considerato tale verso l’alto, nel senso che un’attività che comporti superamento del limite non può essere in nessun caso mantenuta in essere.

Nella direttiva (Ue) 2019/130 sono poi fissati alcuni valori limite ai quali l’adeguamento dovrà essere progressivo:
• per le polveri di legno duro il valore limite è fissato a 2 mg/m3 con livello transitorio di 3 mg/m3 fino al 17 gennaio 2023;
• per i composti di cromo VI definiti cancerogeni il valore limite diventa 0,005 mg/m3 (0,010 mg/m3 fino al 17 gennaio 2025; 0,025 mg/ m3 per i procedimenti di saldatura o taglio al plasma o analoghi procedimenti di lavorazione che producono fumi fino al 17 gennaio 2025).

Per questi due agenti, già la direttiva (Ue) 2017/2398 aveva stabilito questi limiti che sono stati quindi ripresi dalla attuale direttiva (Ue) 2019/130.
Per le emissioni di gas di scarico dei motori diesel (misurate sotto forma di carbonio elementare) il limite è per la prima volta posto a 0,05 mg/m3. Il valore limite si applicherà a decorrere dal 21 febbraio 2023. Per le attività minerarie sotterranee e la costruzione di gallerie, il valore limite sarà in vigore a decorrere dal 21 febbraio 2026.
Lo strumento di analisi, a disposizione del datore di lavoro, per la valutazione dell’esposizione e dell’efficacia delle misure preventive per il rispetto dei limiti è, quindi, ancora una volta l’indagine ambientale la cui metodica è indicata dalle norme tecniche.
La valutazione dell’esposizione deve essere eseguita periodicamente. Le indagini devono valutare sia la via inalatoria, che l’esposizione cutanea. Per quest’ultima, vigono, tuttavia, difficoltà maggiori; non esistono, infatti, diffusi metodi di campionamento e analisi, né sono disponibili valori limite di esposizione cutanea con i quali confrontare le valutazioni effettuate.
Per alcuni agenti, segnatamente le emissioni di gas di scarico dei motori diesel, le metodologie di analisi (la già citata misura del carbonio elementare) non sono ancora di pronta disponibilità.

…e il medico competente
Il medico competente:
• avrà, anzitutto, la necessità di esercitare un ruolo attivo nella fase della valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni provenienti da nuovi settori professionali e collaborare attivamente al processo di individuazione e ottimizzazione delle misure di prevenzione;
• ove disponibili, dovrà essere in grado di mettere a disposizione idonei indicatori che quantifichino il livello di esposizione dei lavoratori coinvolti in particolari attività, utilizzando il monitoraggio biologico;
• avrà l’esigenza di perfezionare i protocolli di sorveglianza sanitaria per nuovi gruppi di lavoratori collaborando alla loro informazione e formazione;
• infine, amplierà la compilazione e l’aggiornamento del registro degli esposti aziendale.

Possibili sviluppi e conclusioni
In conclusione, si tratta, quindi, di modifiche rilevanti per datore di lavoro e medico competente, in realtà più diffusamente per tutto il sistema prevenzionistico aziendale, che riguardano molte attività e mansioni che sino a oggi non erano state incluse fra quelle da valutare e sorvegliare.
Per queste, proprio perché esponenti ad agenti cancerogeni o mutageni, si imporrà un più rigido controllo del livello di esposizione. Una terza proposta di revisione della direttiva 37/2004 (documento COM 2018/0171), la cui prima lettura al Parlamento europeo è attesa per dicembre 2019, prevede l’introduzione di ulteriori valori limite di esposizione per cadmio e suoi composti inorganici, acido arsenico e suoi composti inorganici, formaldeide, 4,4’-metilen-bis (2-cloroanilina) (MOCA).
Gli agenti reprotossici non trovano, invece, ancora inclusione, benché auspicata, nella direttiva (ue) 2019/130.

 

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Formazione inadeguata nella Babele delle lingue

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la Cassazione ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti per quanto riguarda la presenza, sul posto di lavoro, di operatori stranieri che non parlano, o parlano male, l’italiano. Una presa di posizione che si ispira al testo unico della sicurezza e all’accordo Stato-Regioni

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la di Cassazione, sezione 3 pen. (pres. Rosi; rel. Andronio) ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti sulla di formazione in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare, per quanto riguarda quella dei lavoratori stranieri.
Bisogna subito richiamare, in tal senso, l’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento sia a una serie di nozioni fondamentali (concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) che costituiscono la cosiddetta “formazione generale” sia ai rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione che costituiscono, invece, la cosiddetta “formazione specifica” che, com’è noto, trovano una puntuale regolamentazione nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Proprio grazie all’intensa attività giurisprudenziale degli ultimi anni, i concetti di “adeguatezza” e di “sufficienza” si stanno riempiendo di contenuti e sotto questo profilo, come vedremo, la sentenza in commento riveste una significativa importanza perché la Cassazione ha in questa occasione ancora meglio messo sotto la lente d’ingrandimento la delicata questione dell’efficacia e dell’adeguatezza dei corsi di formazione rivolti ai lavoratori stranieri.

Il fatto
La vicenda affrontata dalla Cassazione riguarda l’infortunio dell’operaio T.M. di un’impresa appaltatrice, inquadrato come preposto, che durante lo sbloccaggio del nastro trasportatore, dovuto ad anomalia, ha perso la vita.
Con la sentenza del 28 marzo 2018, la Corte d’Appello di Milano, a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2016, ha confermato la sentenza emessa nel 2014 dal tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati, D.C. rappresentante legale dell’impresa D. committente, e P. rappresentante legale della P. soc.coop., appaltatore, per i reati di cui agli artt. 41, primo e terzo comma; 42 secondo comma; 43, primo comma e 589, secondo comma, del codice penale, perché, ciascuno mediante condotta colposa di negligenze e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 del codice civile, avevano cagionato la morte di T.M., lavoratore dipendente della «ditta appaltatrice addetta alla manovalanza», attraverso l’inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 3, art. 71, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008, per quanto attiene agli obblighi dell’imputato D.C., e degli artt. 17, 26, comma 2, e 37, comma 7, del D.Lgs. n 81/2008, con riferimento agli obblighi a carico dell’imputato P. Va precisato che la Cassazione aveva annullato, però, la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello nel 2015, rilevando l’insufficienza della motivazione quanto al profilo dell’ampiezza e della serietà dell’obbligo informativo sui rischi lavorativi.
In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la sentenza assolutoria non aveva chiarito quale fosse il livello di approfondimento del documento di valutazione e della formazione in concreto svolta, a fronte del rischio smontaggio dello scivolo cui era addetto il lavoratore, né aveva chiarito se lo smontaggio potesse dirsi come anomalia prevedibile o imprevedibile, anche considerata la circostanza della presenza di un tubo che avrebbe potuto costituire un ostacolo allo spostamento dello scivolo.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello del 2018 sia D.C. sia P. avevano proposto ricorso per Cassazione censurando l’operato dei giudici sotto vari profili; concentrando l’attenzione su quello della formazione, che qui interessa, i ricorrenti avevano lamentato l’omessa valutazione di controprove dichiarative ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, a loro avviso, i giudici del rinvio in contrasto con le indicazioni contenute nella sentenza di annullamento, avrebbero omesso di approfondire i dirimenti aspetti della violazione degli obblighi informativi cui erano tenuti gli imputati e dell’eventuale abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore, facendo rilevare che per quanto riguarda le prove testimoniali gli stessi giudici avrebbero considerato solo parzialmente le dichiarazioni rese dai testimoni M., B. C. e C.E., omettendo qualsivoglia valutazione su profili dirimenti. ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il teste B.C., consulente esterno della sicurezza sul lavoro, aveva dichiarato che i corsi di formazione venivano eseguiti direttamente in azienda ogni tre o quattro mesi, che il lavoratore vittima dell’incidente partecipava ai corsi tenuti in italiano, ma compresi da tutti i lavoratori presenti, e che durante gli stessi veniva espressamente indicata la procedura da seguire in caso di guasto. Aveva precisato, altresì, che la predetta procedura impediva qualsivoglia partecipazione diretta da parte del lavoratore, tenuto a contattare il tecnico della manutenzione, unico incaricato della risoluzione dei guasti dei macchinari.
E ancora, sempre secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valorizzare le dichiarazioni rese dal teste B. (responsabile del reparto) che aveva confermato il regolare svolgimento dei corsi di formazione tenuti dal consulente B.C. e aveva ribadito che il T.M. non era autorizzato allo smontaggio del nastro trasportatore.
Identiche dichiarazioni sarebbero state rese dal teste M., dipendente della P. soc. coop. e unico testimone oculare presente al momento dell’incidente. Quindi, secondo i due imputati, queste dichiarazioni sarebbero idonee a dimostrare il corretto e abituale svolgimento di corsi di formazione rivolti ai dipendenti delle due società coinvolte, nonché l’abnormità della condotta tenuta dal lavoratore, cimentatosi, imprevedibilmente, in un’attività non rientrante nella loro competenza.

La legittimità
La Cassazione ha, tuttavia, respinto i ricorsi ritenendoli infondati. In particolare, per quanto riguarda la formazione, i giudici di legittimità hanno tenuto a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’Appello non ha omesso di valutare le dichiarazioni testimoniali richiamate nel ricorso, ma, pur valutandole, le ha ritenute immeritevoli di prevalere rispetto alle dichiarazioni di senso contrario, specifiche, complete e soprattutto reciprocamente riscontrate.
In particolare, per quanto riguarda i corsi di formazione, i giudici di merito non si sono limitati a riportare la testimonianza del consulente B. C., nella parte in cui lo stesso ha confermato il regolare svolgimento dei corsi all’interno dell’azienda, ma hanno, altresì, richiamato il prosieguo della testimonianza «(…) da cui è emerso con pacifica attendibilità che i corsi di formazione erano tenuti in lingua italiana nonostante i dipendenti impiegati nell’azienda appaltatrice fossero per la maggior parte stranieri».
Sottolineano ancora i giudici che, più precisamente, i corsi di formazione erano tenuti «(…) soltanto in lingua italiana anche se rivolti ad una compagine di lavoratori stranieri per buona parte incapaci di comprendere l’italiano»; di conseguenza sono stati ritenuti inidonei a garantire il necessario livello di preparazione in quanto appare evidente che, anche da un punto di vista metodologico, la formazione così erogata diventa “zoppa” in quanto solo formale e non sostanziale come, invece, richiede la norma.
Sotto questo profilo giova ricordare che il già citato art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga proprio il datore di lavoro a compiere preliminarmente una verifica finalizzata a stabilire il livello di conoscenza della lingua veicolare da utilizzare nei corsi e, quindi, un accertamento in concreto della conoscenza dell’italiano cosa che sembra non sia avvenuta nel caso de quo.

Una parola sui rischi
Secondo la Cassazione, quindi, i corsi di formazione predisposti dagli imputati, sebbene svolti con cadenza trimestrale, non potevano ritenersi sufficienti a garantire ai lavoratori un idoneo livello di competenze anche perché, come emerso dalle testimonianze, avevano «(…) carattere generale e poco approfondito, non prevedevano insegnamenti differenziati per le singole mansioni attribuite ai dipendenti».
Sotto questo profilo viene sottolineato che, in effetti, durante i corsi venivano fornite indicazioni generali sul complesso delle lavorazioni compiute negli stabilimenti, ma secondo i giudici « (…) non erano idonei a formare i lavoratori in ordine allo svolgimento delle specifiche mansioni cui erano preposti e ad informarli in merito al complesso dei rischi connessi non solo alla propria attività, ma anche alle ulteriori operazioni inevitabilmente interferenti con le lavorazioni di propria competenza».
Di conseguenza, per i giudici, la formazione è risultata carente del requisito della specificità, anche in ordine ai rischi da interferenze, e quindi ritenuta anche per questo motivo non adeguata.

Il comportamento abnorme
Per quanto riguarda, poi, l’accertamento dell’abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore T.M. nella sentenza viene precisato che era “non rara” la necessità di intervenire sulle frequenti anomalie del macchinario gestito dall’infortunato. Infatti, sarebbero stati dimostrati frequenti interventi di sbloccaggio del nastro trasportatore che avrebbero richiesto una specifica formazione dei lavoratori o, quanto meno, una concreta informativa in ordine ai rischi connessi allo svolgimento di quell’attività, a prescindere dalla tipologia di intervento da compiere per garantire la ripresa del funzionamento dei macchinari. Per altro si osservi che nella sentenza è anche sottolineato che la Corte d’Appello ha accertato che, in effetti, sussisteva un quadro operativo privo di un’effettiva distinzione di ruoli, di competenze e di mansioni «…tanto che il T.M. era solo formalmente considerato un “preposto”, ma in realtà svolgeva attività di operaio semplice al pari di tutti gli altri lavoratori».

La verifica
In definitiva, quindi, queste omissioni – unitamente ad alcune altre come, ad esempio, la genericità del Duvri – hanno radicato la responsabilità dei due imputati; ma ciò che qui preme di più sottolineare è che con la sentenza n. 16498/2019 la Cassazione ha focalizzato, quindi, forse meglio che in passato 2 una delle più importanti “patologie” della formazione che frequentemente si registrano nella prassi: l’attuazione di un intervento formativo in italiano rivolto a una platea di lavoratori stranieri non in grado, però, di comprendere l’italiano. Bisogna ricordare che, sotto questo profilo, proprio i dati sul fenomeno infortunistico e la massiccia apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri hanno indotto il legislatore nel 2008 a introdurre, con l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 81/2008, il già citato obbligo della verifica preventiva della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo. Secondo questa norma, infatti, il «(…) contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo».
Per altro, giova anche ricordare, infine, che la rilevanza di questa problematica emerge anche dalla disciplina regolamentare dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, che prevede nei corsi rivolti a lavoratori stranieri anche le opzioni dell’ausilio di mediatori interculturali o di traduttori e il ricorso a programmi di formazione preliminare in modalità e-learning.

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PREVENZIONE INCENDI: DAL 21 OTTOBRE 2019 OBBLIGATORIO IL “NUOVO APPROCCIO”

Il decreto 12 aprile 2019, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019, apporta importanti modifiche al decreto 3 agosto 20151, noto come codice di prevenzione incendi. Con il nuovo decreto – che entrerà in vigore il 21 ottobre 2019 anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività soggette ma non normate (prive di regola tecnica verticale) – dovrà essere adottato il nuovo approccio prestazionale.

Prima di esaminare le novità introdotte con il decreto 12 aprile 2019, è opportuno ricordare che il D.M. 3 agosto 2015, oggetto delle modifiche, è un atto di notevole rilevanza in quanto, attraverso l’adozione di un unico testo organico e sistematico di disposizioni e l’introduzione di un nuovo approccio metodologico, si è potuto semplificare e razionalizzare l’impianto normativo in materia di prevenzione incendi.

Di fatto, il D.M. 3 agosto 2015 ha segnato il passaggio da un sistema rigido, caratterizzato da norme prescrittive, a uno che agevola l’approccio prestazionale, che permette di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Il D.M. 3 agosto 2015, entrato in vigore il 19 novembre 2015, è costituito da cinque articoli e un consistente allegato tecnico, 1), nel quale sono contenute le norme di prevenzione incendi. Attraverso l’articolato sono state individuate le attività ricadenti nel campo di applicazione del decreto e indicate le modalità di adozione della nuova metodologia di prevenzione incendi. In particolare, sono state approvate ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. 8 marzo 2006 n. 139, le norme tecniche di cui all’allegato al decreto ed è stata prevista una introduzione graduale del nuovo approccio, che ha permesso, sino ad oggi, che le nuove norme potessero essere applicate in alternativa alle specifiche disposizioni dettate dalle vigenti regole di prevenzione incendi.

Per quanto concerne l’allegato al decreto, nel quale sono contenute le specifiche tecniche, si ricorda la suddivisone in quattro sezioni: generalità, strategia, regole tecniche verticali e metodi. Attraverso queste sezioni sono specificati puntualmente i principi fondamentali per la progettazione della sicurezza antincendio, gli elementi necessari per ideare la strategia antincendio, le regole tecniche di prevenzione incendi applicabili e le metodologie progettuali. In particolare, con la prima sezione dell’allegato 1 (sezione G), suddivisa in tre capitoli, sono descritti la terminologia e i simboli grafici, sono fissati i criteri di progettazione per la sicurezza antincendio e, infine, sono determinati i profili di rischio delle attività.

Con la sezione S della regola tecnica sono trattate le misure per comporre la strategia antincendio finalizzata alla riduzione del rischio di incendio. In questa sezione, composta di dieci capitoli, sono specificate le misure antincendio di prevenzione, protezione e gestionali applicabili alle diverse attività. Con la sezione V sono trattate le regole tecniche verticali che si applicano a specifiche attività (o ad ambiti di queste ultime). Le misure tecniche contenute in questa sezione sono complementari o integrative a quelle generali previste nella sezione S «Strategia antincendio». Al riguardo, va ricordato che la loro funzione è quella di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice. Di fatto, l’applicazione di queste regole consente di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Le regole tecniche verticali, i cui contenuti di base sono quelli previsti dal codice, sono caratterizzate dalla stessa struttura: «Campo di applicazione», «Classificazioni», «Profili di rischio», «Strategia antincendio e altre specifiche tecniche». Con il «Campo di applicazione» e le «Classificazioni» sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree, ecc.). Nel punto concernente i «Profili di rischio» (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice («Determinazionedei profili di rischio delle attività»). Con la sezione «Strategia antincendio» sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (S.1 «Reazione al fuoco», S.6 «Controllodell’incendio», S.2 «Resistenza al fuoco»,S.7 «Rivelazione ed allarme», S.3 «Compartimentazione», S.8 «Controllo di fumi e calore», S.4 «Esodo», S.9 «Operatività antincendio», S.5 «Gestione della sicurezza antincendio», S.10 «Sicurezza degli impianti tecnologici e di servizio»). La regola tecnica di prevenzione incendi allegata al decreto 3 agosto 2015 termina con la sezione M «Metodi», attraverso la quale sono definite le disposizioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio, descritte le procedure di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto e, infine, delineata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita.

La metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio (o progettazione antincendio prestazionale) è trattata nella sezione M del codice. Attraverso questa sezione è descritta dettagliatamente la metodologia di progettazione dell’ingegneria della sicurezza antincendio che, di fatto, è la metodologia che consente di definire soluzioni idonee al raggiungimento di obiettivi progettuali mediante analisi di tipo quantitativo. Il primo elemento trattato in questa sezione è quello concernente le fasi del metodo. Al riguardo ricordiamo che la metodologia di progettazione prestazionale si compone di due fasi: analisi preliminare e analisi quantitativa. In particolare, nella prima fase (analisi preliminare) sono formalizzati i passaggi che conducono a individuare le condizioni più rappresentative del rischio al quale l’attività è esposta e quali sono le soglie di prestazione cui riferirsi in relazione agli obiettivi di sicurezza da perseguire, mentre nella seconda fase (analisi quantitativa), impiegando modelli di calcolo specifici, si esegue l’analisi quali-quantitativa degli effetti dell’incendio in relazione agli obiettivi assunti sunti, confrontando i risultati ottenuti con le soglie di prestazione già individuate e definendo il progetto da sottoporre a definitiva approvazione. Nel capitolo M sono inoltre illustrati puntualmente i passaggi (sotto-fasi) necessari per definire i rischi da contrastare e i criteri oggettivi di quantificazione degli stessi, utili per la successiva analisi numerica, e quelli indispensabili per effettuare le verifiche di sicurezza degli scenari individuati. Il codice specifica che la documentazione di progetto deve essere integrata, per la prima fase (analisi preliminare), dal sommario tecnico – nel quale è sintetizzato il processo seguito per individuare gli scenari di incendio di progetto e le soglie di prestazione – e, per la seconda fase (analisi quantitativa), dalla specifica relazione tecnica in cui si presentano i risultati dell’analisi e il percorso progettuale seguito e il programma per la gestione della sicurezza antincendio.
Alla descrizione della metodologia di progettazione dell’ingegneria seguono le specifiche concernenti l’attuazione della gestione della sicurezza antincendio. Al riguardo si segnala che con l’applicazione della metodologia prestazionale devono essere previste specifiche misure di gestione della sicurezza antincendio (Gsa) affinché non possa verificarsi la riduzione del livello di sicurezza assicurato inizialmente.

La sezione M termina con i capitoli concernenti gli scenari di incendio per la progettazione prestazionale e la salvaguardia della vita con la progettazione prestazionale. Di fatto, attraverso questi capitoli sono specificati gli altri aspetti tecnici della progettazione antincendio prestazionale. In particolare, è descritta la procedura di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto che sono impiegati nell’analisi quantitativa da parte del professionista che si avvale dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Sono fornite, inoltre, le indicazioni per eseguire la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sicurezza antincendio per le attività. Infine, è specificata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita, necessaria per assicurare la possibilità per tutti gli occupanti di un’attività di raggiungere o permanere in un luogo sicuro, senza che ciò sia impedito da un’eccessiva esposizione ai prodotti dell’incendio, unitamente alla possibilità per i soccorritori di operare in sicurezza.

Il provvedimento
Il decreto 12 aprile 2019, costituito da cinque articoli, inizialmente sancisce l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 1 del decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015 (articolo 1). Si tratta di una modifica di particolare rilevanza in quanto pone un termine all’introduzione graduale del nuovo approccio contenuta nella prima versione del codice di prevenzione. Il comma abrogato stabiliva, infatti, la possibilità di applicare sia le disposizioni contenute nel codice di prevenzione sia le specifiche disposizioni dettate dalle previgenti regole di prevenzione incendi.
Segue la sostituzione integrale dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 concernente il «Campo di applicazione e modalità applicative ». In particolare, con il nuovo articolo 2 è stabilito che le specifiche tecniche contenute nel codice di prevenzione incendi si applicano alla progettazione, alla realizzazione e all’esercizio delle attività di nuova realizzazione di cui all’allegato I del decreto del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1512, individuate con i numeri 9, 14; da 19 a 40; da 42 a 47; da 50 a 54; 56, 57; 63, 64, 66, a esclusione delle strutture turistico-ricettive all’aria aperta e dei rifugi alpini; 67, a esclusione degli asili nido; da 69 a 71; 73, 75, 76.
Di fatto, con il nuovo articolo 2, sono state comprese nel campo di applicazione la quasi totalità delle attività non normate (prive di regola tecnica verticale) per le quali l’unico riferimento normativo diventa ora il D.M. 3 agosto 2015.

Altra novità apportata dal decreto 12 aprile 2019 riguarda le disposizioni per gli interventi di modifica o di ampliamento alle attività esistenti. Per questi casi, attraverso la rivisitazione dell’articolo 2, è stabilito che le norme si applicano a condizione che le misure di sicurezza antincendio esistenti, nella parte dell’attività non interessata dall’intervento, siano compatibili con gli interventi da realizzare. Invece, per gli interventi di modifica o di ampliamento delle attività esistenti non rientranti in questi ultimi casi, è specificato che si devono applicare le specifiche norme tecniche definite nel nuovo comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto 3 agosto 2015 (di seguito descritto) e, per quanto non disciplinato dalle stesse, i criteri tecnici di prevenzione incendi di cui all’articolo 15 (comma 3) del D.Lgs n.139 del 8 marzo 2006.3. Si segnala che è comunque concessa al responsabile dell’attività, la possibilità di applicare le disposizioni del codice di prevenzione incendi all’intera attività.

Con la nuova versione dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 è ribadito che le norme tecniche contenute nel codice possono essere di riferimento anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività che non soggette ai controlli di prevenzione incendi. 

Il decreto 12 aprile 2019 prosegue con l’articolo 3 attraverso il quale è stato introdotto l’articolo 2-bis nel decreto del 3 agosto 2015.
In particolare, con questo nuovo articolo sono indicate le attività per le quali è concesso in alternativa all’approccio definito dal codice, l’uso di norme tecniche indicate del nuovo comma 1-bis dell’articolo articolo 5 introdotto dal decreto 12 aprile 2019 attraverso il quarto articolo. Al riguardo segnaliamo che con l’introduzione del comma 1-bis all’articolo 5 nel decreto del 3 agosto 2015 sono definiti tutti gli atti normativi le cui specifiche non possono più essere adottate per le attività per le quali è previsto solo l’utilizzo delle disposizioni del codice di prevenzione incendi.

Si evidenzia che attraverso l’art. 4 del decreto 12 aprile 2019 è stato introdotto nell’art. 5 del decreto 5 agosto 2015 anche il comma 2, necessario per specificare che per le attività in regola con gli adempimenti previsti per la valutazione dei progetti, per i controlli di prevenzione incendi e per quelle che hanno potuto usufruire dell’istituto della deroga, il decreto 03 agosto 2015 non comporta adempimenti.
Il decreto 12 aprile 2019 termina con l’art. 5 attraverso il quale sono definite le disposizioni transitorie e quelle finali. In particolare, è stabilito che le modifiche introdotte al decreto 5 agosto 2015 si applicano alle attività interessate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il provvedimento entra in vigore il 21 ottobre 2019 (centottantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019).

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Consulenti responsabili? La parola alla Cassazione

Infortuni sul lavoro: il punto della sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018

 

Se i professionisti esterni, di regola, non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa prevenzionistica? Un’articolata e interessante pronuncia della suprema Corte chiarisce alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione

 

Il fatto
La sentenza in esame è stata emessa nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di due consulenti esterni di una azienda in relazione all’infortunio sul lavoro occorso a tre operai. Per il medesimo infortunio era stata accertata, in un procedimento gemello, la responsabilità del datore di lavoro, nonché Rspp, in particolare, per non aver valutato in modo adeguato i rischi aziendali e aver realizzato empiricamente, quale progettista, una macchina centrifuga caratterizzata da anomalie e carenze strutturali quali il sottodimensionamento dei meccanismi di bloccaggio della flangia.
Nel corso della realizzazione di un getto di lega di acciaio inossidabile, tre dipendenti del reparto fonderia dell’azienda che produce acciai speciali centrifugati erano stati investiti in varie parti del corpo dalla massa di acciaio liquido fuoriuscito dalla conchiglia rotante nella quale quest’ultima era contenuta. Durante la fase di solidificazione del processo di colata, infatti, il coperchio della conchiglia, detto “flangia”, si era sollevato a causa del cedimento di due dei tre dei dispositivi meccanici di bloccaggio – cedimento dovuto alla pressione generata dal metallo fuso in essa contenuto che, sottoposto a una spinta verso l’alto a causadel movimento centrifugo della conchiglia – ed era fuoriuscito improvvisamente.
L’investimento degli operai aveva determinato la morte di due lavoratori e il ferimentograve di uno.

Il merito
Nell’ambito del giudizio di merito erano stati giudicati corresponsabili due consulenti, entrambi professionisti esterni all’azienda e legati al datore di lavoro da autonomi contratti d’opera intellettuali in virtù dei quali all’uno (tale F.) era stato assegnato l’incarico di collaborare alla valutazione dei rischi all’altro (tale S.), quello
di occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario. Ai consulenti era stato contestato di non aver in particolare valutato il rischio meccanico di proiezione a distanza del metallo fuso, di aver predisposto barriere balistiche laterali e dispositivi di protezione individuali tutti inidonei.
Il presupposto sul quale è stata ritenuta, secondo la Corte di Appello, la «corresponsabilità» di:
• F. deriva dal suo inserimento ex contractu, ancorché si tratti di “consulenza generalizzata” in relazione alla messa in sicurezza delle macchine, nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda. Ciò avrebbe comportato l’assunzione di una posizione di garanzia in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, giudicata nel caso di specie inadeguata (così ha argomentato il giudice di primo grado: se un soggetto, come il F, «si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (..) non è esente da (co) responsabilità»);
• S. deriva dalla sua investitura ex contractu in relazione agli adempimenti di certificazione del macchinario che sarebbero stati connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.

La legittimità
La suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza di condanna agli e etti civili pronunciata nei confronti di S. ritenendo impossibile accertare al di là di ogni ragionevole dubbio un’eventuale responsabilità a suo carico per gli infortuni occorsi. La Corte ha cassato, invece, con rinvio la sentenza di condanna di F. rispetto alla posizione del quale dovrà essere celebrato un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale si uniformerà
ai principi di diritto affermati. Con la sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018, in sostanza, la suprema Corte nell’affrontare lo specifico tema della responsabilità in materia di sicurezza dei «consulenti» del
datore di lavoro statuisce che:
• i consulenti, in quanto soggetti estranei alla compagine aziendale e destinatari di un incarico di consulenza generale, non sono destinatari “in linea generale” della normativa prevenzionistica e, come tale, di posizioni di garanzia. E ciò a differenza del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ai quali la disciplina è formalmente e direttamente rivolta;
• ferma la sopracitata regola, i consulenti possono assumere la veste di «corresponsabili» a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale. A tal fine è necessario che, in relazione alle circostanze del caso concreto sia possibile, in alternativa, affermare che abbiano acquisito la veste di garante «di fatto» oppure abbiano realizzato una condotta cooperativa causalmente connessa all’evento e nella consapevolezza dell’altrui condotta.
Tra i destinatari della normativa prevenzionistica non vi sono (di regola) i consulenti.
Con riguardo al primo punto, la Corte è chiara nell’affermare come i consulenti esterni che non sono riconducibili all’organizzazione aziendale non sono tra i destinatari diretti della normativa sulla sicurezza. La disciplina prevenzionistica è, infatti, rivolta anzitutto nei confronti del datore di lavoro che è il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile e, quindi, dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e di assumere direttamente le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazionidi rischio. Al datore di lavoro si aggiungono, altresì, come destinatari il “dirigente” (art. 18, D.Lgs. cit.) «che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso» e il “preposto” (art. 19, D.Lgs. cit.) «colui che attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione».
La suprema Corte, sotto questo profilo, afferma «il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel Rspp ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica».
Ciò comporta che i consulenti anche qualora si inseriscano nel processo di valutazione dei rischi aziendali non sono perciò solo automaticamente «corresponsabili» unitamente alle figure istituzionali e questo perché l’avvalimento di soggetti tecnici esterni non implica necessariamente e automaticamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro. Ma se dunque i consulenti esterni, di regola,
non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa sulla sicurezza?
«Corresponsabilità» dei consulenti esterni: sì, se ricorre in concreto il cosiddetto intreccio cooperativo. La natura colposa dei delitti in materia di infortuni sul lavoro (omicidio colposo e lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro) impone di ricorrere – nel caso in cui gli illeciti siano riconducibili a una pluralità di soggetti – all’istituto della cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale che si caratterizza, a differenza del concorso di cui all’art. 110 del codice penale dal difetto della volontà di partecipare con altri alla realizzazione del delitto. Non a caso di parla di cooperazione in luogo di concorso.
A questo fine, oltre alla pluralità di soggetti, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, il contributo causale alla realizzazione dell’evento e la consapevolezza
(e non la volontà) da parte ci ciascun partecipe di agire in concomitanza con l’azione di altri. Si tratta di un istituto cui è assegnato il compito di estendere la responsabilità penale colposa a condotte astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto.
La Corte, per assegnare contenuto a questo istituto, richiama un precedente del 2013 (Cass. pen. sez. IV – ud. 3 ottobre 2013; 18 ottobre 2013, sent. n. 43083) nel quale si afferma che la rilevanza penale del contributo
anche atipico si coglie “in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori del delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione e alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia».
In quella occasione, la Cassazione aveva confermato la sentenza di condanna per cooperazione in omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza nei confronti dell’amministratore
della società subaffittuaria di una stalla in relazione al decesso del soggetto incaricato dalla proprietà del fabbricato e committente dei lavori (quindi di un soggetto diverso) alla rimozione di alcune lastre di fibrocemento poste a copertura del tetto. Il giudizio aveva confermato che l’operazione, infatti, avvenne nella consapevolezza da parte dell’imputato, per quanto rileva, dell’omessa predisposizione da parte del committente di misure di protezione a tutela dell’operatore a fronte del rischio evidente di caduta dall’alto (consapevolezza
cooperazione) e addirittura fornendo il mezzo di elevazione delle lastre sostitutive al livello della copertura (condotta agevolatrice causalmente connessa).
In sostanza, la Corte ha ricostruito in capo all’agente/cooperante un “dovere giuridico di astensione” – pur in difetto di posizione di garanzia – allorché si trovi a operare in una situazione di rischio “immediatamente e distintamente percepibile”: in questo contesto, qualora la mancata astensione (condotta cooperativa) si traduca in un’agevolazione o aggravamento del rischio che poi si concretizza (l’infortunio) e il contributo causale alla realizzazione dell’evento sia giuridicamente apprezzabile (e provato) l’agente ne risponderà penalmente ex art. 113 del codice penale.
In sintesi, la condotta di “cooperazione”, di per sé penalmente a contenuto neutro, riceve la qualifica di condotta colposa, quindi penalmente rilevante, soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, a cui ci si limita volontariamente ad aderire. L’istituto della cooperazione colposa, pertanto, estende l’area del penalmente rilevante anche alle condotte dei cooperanti le quali di per sé non violino alcuna regola cautelare ma siano adesive all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta «assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento».
Afferma, infatti, la Corte che anche quando il coinvolgimento integrato di più soggetti non sia imposto dalla legge o da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, e sia contingenza oggettivamente definita
senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza «l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte queste situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così
un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Questa pretesa “d’interazione prudente” individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v.Cass., sez. 4, n. 1428/2011, Rv. 252940)».

Questo principio è stato ribadito anche successivamente in un caso nel quale è stata confermata, a titolo di cooperazione colposa, la responsabilità dell’amministratore di una società gerente un complesso sciistico per l’infortunio mortale occorso a un bambino rimasto incastrato in un gonfiabile, allestito nell’area di proprietà del complesso, ma sradicatosi a seguito di vento di burrasca ampiamente previsto (Cass. pen. sez. feriale, ud. 25 agosto 2015 – 13 ottobre 2015 n. 41158). La suprema Corte, peraltro, ha ricondotto all’istituto previsto dall’art. 113 del codice penale la fonte di «corresponsabilità» anche del responsabile del serviziodi prevenzione e protezione di un’azienda sanitaria per l’infortunio occorso a seguito di una sovratensione dell’impianto elettrico a un paziente della struttura in terapia elettromedicale (Cass. pen. sez. IV – ud. 24 gennaio 2013 – 11 marzo 2013, n. 11492). Pur affermando che il Rspp «non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica» operando quale “consulente” del datore di lavoro «nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori» e, come tale, operando in mancanza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, egli può nondimeno “concorrere” con la responsabilità del datore di lavoro.
Nel dettaglio «anche il Rspp (…) può essere ritenuto (co)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
La mancata doverosa segnalazione di un rischio da parte del Rspp è stata dunque qualificata come concausa dell’evento dannoso consapevolmente connessa all’azione posta in essere dal garante. Quindi, se è vera la conclusione (rassicurante per i professionisti esterni coinvolti in materia di sicurezza aziendale) che questi non sono tra i destinatari diretti della normativa cautelare di settore è vero, altresì, che il rischio di un coinvolgimento a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale è ugualmente effettivo.
Ogni procedimento penale nel quale verranno chiamati a rispondere a questo titolo richiederà peraltro, la Corte lo ribadisce con forza, un accertamento probatorio mirato a verificare e ricostruire in concreto i termini della condotta cooperativa fornita. Tenuto conto che la «corresponsabilità» del consulente potrà trovare fondamento tanto nel caso dell’assunzione di “fatto” di una posizione di garanzia quanto nel caso, come visto, di una condotta cooperativa anche solo agevolatrice ma causalmente rilevante e consapevole all’azione altrui, l’accertamento probatorio potrà assumere complessità variabile. Ciò tenendo, peraltro, conto che i delitti in materia si caratterizzano per essere per lo più reati colposi omissivi impropri caratterizzati cioè dal punire non già il semplice mancato compimento di un’azione doverosa bensì l’evento cagionato dall’omissione del comportamento doveroso finalizzato a prevenirlo (la morte o le lesioni). Ne consegue che alla complessità dell’accertamento deriva a cascata il rischio di esposizione dell’imputato all’alea di una ricostruzione della “verità processuale” lontana da quella fattuale, ferma l’evidenza che già ordinariamente i due concetti non sono pienamente e necessariamente sovrapponibili. La Corte con la sentenza in commento cerca di offrire coordinate rassicuranti al fine di consentire agli operatori del diritto di navigare senza incognite e non perdersi nel mare dell’accertamento probatorio.

Un discrimine da considerare
Qualora il coinvolgimento del “consulente” avvenga sulla base dell’acquisizione di una posizione di garanzia riconducibile all’esercizio “di fatto” delle funzioni tipiche di una delle diverse figure di garante, la ricostruzione degli obblighi cautelari deve essere operata «accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro».
Nel caso di specie la suprema Corte ha scrutinato la sentenza impugnata per verificare se e come la Corte territoriale avesse in concreto ricostruito la posizione di garanzia ascritta di fatto agli imputati. L’esito negativo di questa verifica deriverebbe dal fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare in modo accurato «le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato» pur avendo accertato il difetto di delega (investitura formale) e dell’attribuzione specifica di compiti, non ricostruibile sulla base della “consulenza sia pure generalizzata”.

La cooperazione causalmente rilevante e consapevole
Come anticipato, qualora il coinvolgimento del “consulente” non derivi dall’assunzione anche di fatto di una posizione di garanzia, l’accertamento giuridico del contributo cooperativo fornito nei termini rigorosamente descritti assume profili di complessità probatori- giuridici non indifferenti.
In questo caso, del pari, occorre infatti – afferma la Corte – che «una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che di adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento».
Nel caso di specie questa complessità si è tradotta in un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per il consulente S., incaricato di collaborare con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare il macchinario al cui utilizzo erano intenti gli operai infortunati. Afferma la Corte che «i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità».
Al contrario, quanto alla posizione di F., questa necessità di accertamento ha condotto, come anticipato, a una sentenza di annullamento con rinvio affinché la Corte territoriale verifichi, dandone conto, alla luce dei principi affermati dalla suprema Corte se il coinvolgimento di F. sia riconducibile a una condotta di cooperazione rilevante ai sensi dell’art. 113 del codice penale. Ciò significa che all’esito del giudizio ben potrebbe esserne affermata la penale responsabilità in relazione all’infortunio occorso ai tre dipendenti. Il rischio, non solo del coinvolgimento nel processo penale ma delle conseguenze da esso derivanti nel caso di condanna, inducono pertanto a ritenere necessario, nella fase prodromica del rapporto di collaborazione delineare con precisione e attenzione i contenuti della prestazione professionale richiesta.
Se una “consulenza generalizzata”, infatti, consente di escludere in linea generale in capo ai professionisti esterni all’azienda l’assunzione formale di garanti delle norme cautelari in materia di sicurezza non altrettanto consente di mettere al riparto gli interessati da rischi di una chiamata in causa a titolo di «corresponsabilità» in caso di infortuni. Di più. Una tale falsa partenza implicherebbe la necessità di valutare globalmente gli elementi fattuali della vicenda per come concretamente avvenuta i quali potrebbero condurre a una ricostruzione diversa (rispetto agli accordi contrattuali) e più gravosa a danno dell’interessato.

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Rspp, elemento cardine della sicurezza in azienda

Quali sono i compiti e i limiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione?
Dal “vecchio” D.Lgs. 626/1994 in poi il perimetro di questa figura si è via via sempre più delineato e il suo profilo, soprattutto grazie alla giurisprudenza, meglio precisato. Ma alcuni aspetti sul versante
penale devono ancora essere messi a fuoco con maggiore puntualità. Vediamo quali sono

Figura di riferimento nella gestione della sicurezza sul lavoro, unico organo collegiale della sicurezza, il Rspp ha spesso suscitato l’attenzione della Corte di Cassazione che più volte si è espressa a riguardo, richiamando e sottolineando le funzioni del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nel coordinamento di tutte le misure idonee a evitare i rischi presenti nell’ambiente di lavoro.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura introdotta in Italia con il D.Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, emanato in attuazione di alcune direttive europee relative al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e confermata dal D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 – Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tutta la sezione III del D.Lgs. n. 81/2008 è dedicata a questa figura chiave nell’ambito della sicurezza sul lavoro, necessaria in azienda e nei cantieri civili e industriali e indispensabile per realizzare la prevenzione.
«Il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici» che «devono possedere le capacità e i requisiti professionali di cui all’articolo 32 del decreto, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati».
La nomina del Rspp è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro, prevista dall’art. 17, comma 1 lettera b) del D.Lgs. 81/2008 e deve essere nominato un Rspp obbligatoriamenteinterno all’azienda nei casi previsti dall’ art. 31 comma 6 del D.Lgs. 81/2008.
Gli addetti al servizio devono essere «in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore, nonché di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative».
In alcuni casi, singolarmente indicati nella tabella 1 dell’articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, «il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza» e in questi casi deve seguire uno specifico percorso formativo e di aggiornamento i cui contenuti sono stati individuati con accordo nell’ambito della conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011.

Le regole d’ingaggio
I compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono elencati nell’articolo 33 del D. Lgs. 81/2008 e sono così sintetizzabili:
• individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
• elaborazione, per quanto di competenza, delle misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di queste misure;
• elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
• proposizione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
• partecipazione alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
• “fornitura” ai lavoratori delle informazioni di cui all’articolo 36.
In linea generale, il responsabile coordina il servizio di prevenzione e protezione cioè «l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori» (art. 2 comma, 1 lettera l), del D.Lgs. 81/2008), collaborando con il datore di lavoro, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla realizzazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr).

Collegamento di funzioni
L’articolo 2 del “testo unico” sulla sicurezza definisce il responsabile del servizio di prevenzione e protezione come una «persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi».
Da questa definizione emerge l’intenzione del legislatore di avvicinare queste due figure portanti nel sistema della sicurezza, in modo tale da creare tra loro un vero e proprio “collegamento di funzioni”.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione trasmette al datore di lavoro le competenze tecniche e organizzative necessarie a garantire la predisposizione di tutte le misure idonee per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma non è assolutamente tenuto a controllare l’effettiva applicazione delle misure stesse, non essendo titolare di quella posizione di garanzia che la normativa ha riservato in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto.
Come stabilisce l’articolo 17, comma 1, letterab), «la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi» è uno degli obblighi propri del datore di lavoro che non può delegare e il Rspp deve rispondere del suo operato al datore di lavoro e a nessun altro soggetto con cui viene a interagire nella normale pratica aziendale.
Il Rspp opera per conto del datore di lavoro che è la «persona giuridicamente posta nella posizione di garanzia, poiché l’obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il Rspp fa capo a lui stesso». Il Rspp, come affermato dalla Cassazione, «è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come avviene in qualsiasi altro settore dell’azienda, devono essere fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che è quest’ultimo che viene comunque chiamato a rispondere delle sue eventuali negligenze».
La nomina del Rspp non equivale, sicuramente, a una «delega di funzioni» tale da far venir meno, in capo al datore di lavoro, la responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica il quale non può delegare la posizione di garanzia che riveste nei confronti dei lavoratori, ma questo non esclude che il Rspp possa, in alcuni casi specifici, avere una propria responsabilità responsabilità, concorrente, nel verificarsi di un evento lesivo. Questa sembra essere la tendenza della suprema Corte che già in una pronuncia risalente a diversi anni fa aveva affermato che: «Il Rspp risponde, insieme al datore di lavoro, per il verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare» (Cass. Pen, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 2814).

Che cosa è cambiato
La giurisprudenza di legittimità si è espressa, negli ultimi anni, a favore di una maggiore responsabilizzazione del Rspp che è stato disegnato dal legislatore e rimane una figura puramente consultiva e propulsiva al fianco del datore di lavoro, ma questo non esclude che sia ipotizzabile, nei suoi confronti, una responsabilità penale «qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, trascuri di segnalare una situazione di rischio, inducendo così, il datore di lavoro, a omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo». Questa possibilità non escluderebbe l’innegabile responsabilità del datore di lavoro, ma darebbe spazio a una responsabilità “concorrente” del Rspp. In questo senso si è espressa la Cassazione penale nella sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 con cui è stata confermata la responsabilità penale anche del Rspp in ordine all’omicidio colposo aggravato in danno di un dipendente. L’imputato in questione, prima consulente e poi Rspp dell’azienda, non poteva esimersi dal valutare dove e come venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti alcuni materiali liquidi altamente infiammabili che erano stati travasati nelle cisterne presenti sul piazzale dell’azienda, talmente grandi da non poter essere non notate. L’esistenza di questo deposito esterno all’azienda, invece, non è stato menzionato nel documento di valutazione dei rischi da parte del responsabile che ha dimostrato, così, una grave negligenza nell’assolvimento dei propri obblighi.
Nel caso in esame è stato confermato il principio secondo cui: «il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica, lo stesso opera, piuttosto, quale “consulente”, in questa materia, del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio» (Cass.pen. n. 11492/2013).
La designazione del Rspp non equivale a «delega di funzioni» utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori.
«L’indiscussa responsabilità del datore dilavoro, che rimane, comunque, titolare della propria posizione di garanzia relativamente all’osservanza della normativa antinfortunistica, non esclude che possa profilarsi lo spazio per una responsabilità concorrente del Rspp: anche il Rspp, che è privo di poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizza detta situazione».
Nel caso specifico, dunque, l’imputato – prima consulente esterno del datore di lavoro per l’elaborazione del documento di valutazione e Rspp successivamente nominato – non poteva assolutamente ignorare e non segnalare l’esistenza del deposito esterno di cisterne contenenti materiale infiammabile, dopo aver valutato l’effettiva situazione di rischio che si era creata nell’ambiente di lavoro, e se lo ha fatto, ciò è ascrivibile a colpa.

Una responsabilità “concorrente”…
Questa tendenza è stata confermata dalla suprema Corte in una successiva pronuncia, relativa a una fattispecie in cui sarebbe stata ammessa una corresponsabilità del Rspp se quest’ultimo non avesse osservato i propri obblighi e non avesse svolto adeguatamente i propri compiti come è, invece, avvenuto.
Ecco, quindi, che il dettato della Cassazione ha affermato che «non è configurabile la responsabilità penale in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione per il reato di lesioni colpose, aggravato dalla violazione antinfortunistica ex articolo 590, comma 2, del codice penale, qualora questo abbia diligentemente valutato e, conseguentemente segnalato, tramite un documento di valutazione rischi (Dvr) completo e idoneo, i fattori di rischio presenti in azienda, con ciò adempiendo all’obbligo, sullo stesso gravante in forza della posizione di garante ascrittagli, di impedire l’evento» (Cassazione penale, sezione IV, 10 maggio 2017, n. 27516).
In questo caso specifico il Rspp aveva adeguatamente segnalato, tramite il Dvr, il rischio per la pericolosità intrinseca delle presse presenti in azienda, aggravato dall’inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge, e, dunque, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di proscioglimento del reato di cui all’articolo 590, comma 2, del codice penale, emessa in favore dello stesso.

…e l’ipotesi di una “esclusiva”
La Cassazione torna sull’argomento con la sentenza n. 4941 del 1° febbraio 2018 in cui si “osa” un po’ di più e si ipotizza una responsabilità “esclusiva” del Rspp che va oltre quella “concorrente” ormai consolidata.
Nel caso in questione, viene sottoposto all’esame dei giudici di legittimità un infortunio avvenuto nel corso di opere di disboscamento, a seguito al quale era deceduto un lavoratore, colpito al capo da un ramo che egli stesso aveva provveduto a tagliare. Imputati sono sia il datore di lavoro, sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per aver omesso di eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; per aver omesso di vigilare opportunamente sulle operazioni di disboscamento; per avere omesso di informare e formare adeguatamente il lavoratore sui rischi connessi all’attività che si accingeva a svolgere.
La Corte ribadisce le linee guida in materia, confermando che:
• «il datore di lavoro si avvale dell’ausilio del Rspp per la valutazione dei rischi aziendali e per la redazione del relativo documento (Dvr);
• che “la designazione del Rspp costituisce, per il datore di lavoro, un obbligo il cui inadempimento è penalmente sanzionato”;
• che i compiti del Rspp non rientrano nelle funzioni delegabili di cui all’articolo 16 del D.Lgs n. 81/2008 e che ha l’obbligo di assolvere ai compiti indicati nell’articolo 33 del decreto”.
Rimane, dunque, fuori da ogni dubbio, il fatto che «i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici “ausiliari” del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, ma sempre eventualmente in concorso con il datore di lavoro, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.
Sono soltanto “consulenti” e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera
si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario…»
Tutto ciò, però, come su accennato, non esclude che possa delinearsi una responsabilità penale del Rspp, per infortuni sul lavoro o tecnopatie, «sempre in concorso con il datore di lavoro» ai sensi dell’articolo 113 del codice penale, quando l’evento lesivo sia derivato da alcuni suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio».
La suprema Corte, però, nel caso in questione, si spinge un po’ avanti nel momento in cui si pone il dubbio se possa essere prospettabile «una responsabilità anche esclusiva del Rspp ogni qual volta gli infortuni e/o le malattie professionali siano riconducibili a situazioni di pericolo che il Rspp avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro.
Ciò, in particolare, se è vero «che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
I giudici di legittimità si sono domandati quale sarebbe la regola o il principio di diritto applicabile nel caso in cui il datore di lavoro avesse nominato un Rspp, altamente qualificato, ne avesse seguito sempre le direttive e i suggerimenti, ma quest’ultimo avesse omesso di segnalare una situazione di rischio specifica e sofisticata, che il datore di lavoro non sarebbe stato in grado di riconoscere.
Sicuramente il datore di lavoro avrebbe mantenuto la propria posizione di garante della sicurezza con tutti gli impegni che ne derivano a cui non ha potuto tener fede per una condotta omissiva del Rspp di cui non è stato colpevole.
In questo caso si potrebbe prospettare l’ipotesi di «una responsabilità esclusiva del Rspp, laddove si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia il frutto dell’omissione colposa di un compito professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (Cass. Pen. sez. IV, 15 luglio 2010, n. 32195).

Una questione rimasta ancora in sospeso
I giudici, però, non si spingono oltre, non generalizzano all’intera materia antinfortunistica: le affermazioni contenute nella pronuncia in esame, relative a uno specifico caso di infortunio sul lavoro e non elaborano, dunque, un principio di diritto che modifichi radicalmente i cardini della responsabilità penale in materia.
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione: non vi è uno specifico sistema di pene che vada a sanzionare il comportamento di un Rspp che non svolga adeguatamente i propri compiti. Tutto ciò non sta a significare, come abbiamo detto, che il Rspp sia esente da responsabilità penale per reati anche gravi: nel caso in cui si verifichi un infortunio derivante da una situazione pericolosa che aveva il dovere di individuare e di segnalare, in modo tale che il datore di lavoro potesse predisporre le misure di sicurezza adeguate, sarà, comunque, co-responsabile con il datore di lavoro per l’evento l’evento lesivo.
È il passo in più che non è stato, in un certo senso, ancora “codificato”: l’ipotesi in cui al Rspp possa riconoscersi una responsabilità “esclusiva”, per colpa professionale, che vada a esonerare persino il datore di lavoro, perché l’infortunio sia derivato da una specifica situazione di rischio che solo il Rspp aveva la capacità di scorgere e di rendere nota e che il datore di lavoro non era in grado di vedere e di valutare.

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Piccoli trabattelli a prova di sicurezza

Attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto. Hanno ingombri in pianta limitati e raggiungono altezze non elevate.
Le fiancate possono essere realizzate utilizzando le scale portatili come componenti. L’accesso alla piattaforma può avvenire dall’esterno o dall’interno. Nelle attività per cui è previsto il ricorso, il lavoratore, però, è esposto ai rischi di instabilità e di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.
Non sono coperte da direttiva specifica e non possono essere marcate Ce, ma sono soggette, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il cosiddetto codice del consumo)

In alcuni contesti lavorativi, l’utilizzo di trabattelli “normali” è assai difficoltoso per cui vengono frequentemente impiegati “piccoli trabattelli”, attrezzature provvisionali di lavoro diverse da quelle previste nella Uni En 1004. Sono sono generalmente destinati a lavori di breve durata e possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente.
Gli ambienti ove più spesso vengono impiegati sono gli spazi ristretti e/o i luoghi ad altezza ridotta. I “piccoli trabattelli” assomigliano anche ad altri “dispositivi”: le scale mobili con piattaforma secondo la Uni En 131-7. Considerate le ridotte dimensioni, i piccoli trabattelli vengono generalmente usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende l’utilizzatore, gli utensili, le attrezzature e il materiale. Non vanno utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto e devono essere conformi a quanto previsto dal D.Lgs. 81/2008 e nello specifico all’art. 140. L’utilizzo di trabattelli per lavori in quota è previsto nell’art. 111 del D.Lgs 81/2008 al comma 2: «Il datore di lavoro sceglie il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego. Il sistema di accesso adottato deve consentire l’evacuazione in caso di pericolo imminente».
Il comma 5 prevede che «Il datore di lavoro, in relazione al tipo di attrezzature di lavoro adottate in base ai commi precedenti, individua le misure atte a minimizzare i rischi per i lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione, prevedendo, ove necessario, l’installazione di dispositivi di protezione contro le cadute. I predetti dispositivi devono presentare una configurazione ed una resistenza tali da evitare o da arrestare le cadute da luoghi di lavoro in quota e da prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori». I dispositivi di protezione collettiva contro le cadute possono presentare interruzioni soltanto nei punti in cui sono presenti scale a pioli o a gradini». I requisiti essenziali che i piccoli trabattelli debbono possedere sono:

• la stabilità al ribaltamento laterale;
• la sicurezza durante il montaggio e lo smontaggio;
• la sicurezza durante l’uso.

Per stabilità al ribaltamento laterale si intende la capacità che ha un piccolo trabattello a opporsi alle azioni che ne determinano il ribaltamento laterale con una rotazione intorno a un asse passante per la base dei due montanti; è dovuta al comportamento del lavoratore che si pone lateralmente al piccolo trabattello per cui il suo baricentro cade fuori dalla base di appoggio o che esercita forze sostanzialmente parallele all’impalcato (quando per esempio adopera un trapano) pur avendo il baricentro entro la base di appoggio del trabattello.

Riguardo alla stabilità, l’articolo 140 del D.Lgs. 81/2008 prevede che «I ponti su ruote devono avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai carichi ed alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati» (art. 140, comma 1).

Ulteriore risvolto su cui il legislatore pone l’attenzione ai fini della stabilità è il bloccaggio delle ruote che «devono essere saldamente bloccate con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso dispositivi appropriati devono impedire lo spostamento involontario dei ponti su ruote durante l’esecuzione dei lavori in quota» (art. 140, comma 2). Per quanto riguarda la sicurezza durante il montaggio, lo smontaggio e l’uso si deve far riferimento alle indicazioni obbligatorie del fabbricante che conosce esattamente le caratteristiche delle attrezzature e i vincoli nell’utilizzo. Queste istruzioni obbligatorie devono essere esaurienti.

I requisiti
I requisiti ai quali il piccolo trabattello deve soddisfare possono essere distinti in requisiti dimensionali e requisiti di sicurezza. I requisiti dimensionali sono legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie e alle modalità di accesso.

La Uni En 1004
La Uni En 1004: 2005 («Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestazionali») fu elaborata dal Cen TC 5 «Attrezzature di lavoro provvisionali» tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

Il Cen Tc 53 deliberò, nel 1980, di unificare la produzione di torri mobili di accesso e di lavoro parallelamente all’unificazione a livello europeo di ponteggi di servizio e di lavoro prefabbricati, Uni En 12810-2 («Ponteggi di facciata realizzati con componenti prefabbricati – Parte 2: Metodi particolari di progettazione strutturale» e Uni En 12811-3 «Attrezzature provvisionali di lavoro – Parte 3: Prove di carico». La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati con altezza da 2,5 m a 12,0 m (non esposte al vento) e da 2,5 m a 8,0 m (esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione; i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. La norma costituisce il principale riferimento tecnico per la realizzazione di queste attrezzature di lavoro che possono essere alte fino a 12m e hanno l’aspetto di “strutture”. L’importanza della Uni En 1004 è implicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII comma a. («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»). La Uni En 1004 va utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 – «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni» che non è una “solo” norma sul manuale d’istruzioni, ma rappresenta il complemento alla Uni En 1004 in quanto fornisce informazioni non contenute nella stessa e che vanno oltre i normali contenuti del manuale di istruzioni. La Uni En 1004 e la Uni En 1298 sono oggetto di revisione da parte del Cen TC 53 WG4 «Torri mobili di accesso». Le bozze contengono modifiche significative.

La Uni En 131-7
La Uni En 131-7:2013 Scale – Parte 7 («Scale movibili con piattaforma» definisce i termini e specifica le caratteristiche generali di progettazione di questa particolare tipologia di scale. Si applica alle scale movibili con piattaforma di lavoro con area massima di 1 m2 e altezza massima della stessa di 5 m, da usare da parte di una persona alla volta. Il carico massimo ammesso sulla scala è di 150 kg che comprende un carico massimo combinato dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e del materiale.

Non si applica alle scale portatili, secondo la Uni En 131-1, alle scale portatili secondo la Uni En 131-4, alle scale portatili per servizi antincendio secondo la Uni En 1147, alle scale per sottotetto secondo la Uni En 14975, agli sgabelli a gradini secondo la Uni En 14183, alle scale, scale a castello e parapetti secondo la Uni En Iso 14122-3 e alle scale isolanti secondo la Uni En 50528. Questa tipologia di scale conosciuta anche come “scala a castello”, “scala cimiteriale” o “scala a palchetto” è utilizzata in molti ambiti per le specifiche caratteristiche costruttive.
A un tronco di salita, è provvista di piattaforma, guarda corpo e corrimano. La base è costruita per non permetterne il ribaltamento frontale e laterale, è dotata di due ruote fisse portanti per garantirne gli spostamenti e appoggia su quattro punti. Si tratta di attrezzature provvisionali di lavoro molto di use nel nostro paese. L’assenza di una standard specifico ha indotto Uni ad avviare uno progetto di norma dedicata.

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La formazione è un obbligo e deve essere verificata

Non è sufficiente trasferire al lavoratore conoscenze teoriche e pratiche: la sua preparazione deve, infatti, basarsi su un’attività meticolosa, specifica, concreta, applicata e sperimentata. Senza dimenticare l’affiancamento di personale più esperto in grado di verificare l’acquisita padronanza da parte dell’addetto delle operazioni che è chiamato a svolgere. Un principio, questo, da non trascurare. Obiettivo: garantire la più elevata sicurezza possibile

Sembrerebbe superfluo, oggi, ribadire, ancora una volta, l’importanza di un’adeguata formazione e informazione per ogni lavoratore che si accinga a intraprendere una nuova mansione, ma in realtà le molteplici situazioni e circostanze che si vengono a incontrare nell’ambiente lavorativo rendono ancora necessario richiamare i principi già espressi da una consolidata giurisprudenza in materia e aggiungere altre direttive che, sulla base di una specifica normativa, riescano a garantire sempre e comunque, la sicurezza di chi lavora.
La suprema Corte, in una recente pronuncia (Cass.pen. sez.IV, n. 54803, del 7 dicembre 2018) ha affermato questo principio,
sottolineando, appunto, l’importanza della formazione dei lavoratori e di quanto essa debba essere meticolosa, specifica e sempre più concreta, applicata e sperimentata.
Il legislatore non ha trascurato questo aspetto: il D.Lgs. n. 626 del 1994, agli articoli 37 e 38, aveva previsto una specifica disciplina che doveva rispondere all’esigenza di «informare, formare ed addestrare» il lavoratore, e questo argomento non è stato trascurato, successivamente, nel D.Lgs. n. 81 del 2008 il cui articolo 37 detta le regole per un’adeguata «formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti» su tutto ciò che concerne la prevenzione e la protezione della salute e della sicurezza dei dipendenti contro i rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Ovviamente, come in tutti i casi, l’efficienza della disciplina dettata dal legislatore incontra e palesa i propri limiti nel momento in cui viene applicata alle esperienze concrete, soprattutto, le più delicate come questa in cui si tratta del “lavoro” che è il centro della quotidianità di tutti noi e della salvaguardia della salute e della vita umana. Passare dalla teoria alla pratica non è semplice, così come, nel caso specifico, fornire al lavoratore tutte le informazioni teoriche sulle mansioni che andrà a svolgere, rendendolo edotto sul corretto funzionamento di tutti i dispositivi che dovrà utilizzare e dei rischi a cui potrà andare incontro, potrebbe risultare non sufficiente se a tutto questo non si affianca un’adeguata preparazione pratica, un vero e proprio “addestramento” a opera di persone esperte, in grado di verificare, concretamente, la “acquisita padronanza”, da parte del lavoratore, delle operazioni da compiere.

Il fatto
Un lavoratore, intento a operare su una pressa di stampaggio a caldo per la produzione di piccoli pezzi metallici, denominati “gomiti”, aveva prelevato un pezzo incandescente dal nastro con le pinze, introducendo la mano sinistra sotto lo stampo e premendo inavvertitamente con il piede il comando a servizio della pressa, permettendo a questa di effettuare un altro ciclo di lavorazione mentre aveva ancora la mano sotto lo stampo, determinando così l’infortunio dal quale erano derivate le lesioni personali. Dall’istruttoria era emerso che la vittima era stata addetta alla pressa solo qualche giorno prima dell’infortunio, che era uno stampatore e non aveva alcuna competenza nello specifico settore; la formazione impartitagli era stata del tutto insufficiente, il corso generale sul funzionamento dei macchinari era durato solo quattro ore e l’addetto era stato avviato a lavorare sul macchinario in questione dopo appena due giorni, senza una previa verifica pratica e in assenza di un vero e proprio affiancamento e di una corretta supervisione. La datrice di lavoro era stata condannata in primo e in secondo grado, per il reato di cui all’articolo 590 del codice penale ai danni del proprio dipendente (per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia) e per la violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (articolo 37 del D.Lgs. n. 81 del 2008).

La legittimità
Il ricorso dell’imputata in questione ha fatto sì che il caso venisse sottoposto al giudizio della suprema Corte che ha, dunque,
ripercorso l’argomento focalizzando e sottolineando alcuni elementi determinanti
in materia. L’unico motivo di ricorso addotto dalla
difesa aveva evidenziato «l’interferenza della condotta della vittima sul nesso causale, che era stato ritenuto abnorme, in considerazione del fatto che il ciclo produttivo prevedeva espressamente che l’operatore non inserisse gli arti
nell’area di lavoro, avendo, inoltre, il dipendente, omesso di utilizzare i dispositivi di sicurezza forniti».
In realtà, il concetto di “abnormità” cui fa ricorso la difesa è molto più preciso e definito di quello che si possa pensare: non indica semplicemente una condotta che, per quanto imperita, imprudente e negligente, possa rientrare, comunque,
nelle mansioni assegnate, dal momento che «la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standard di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro».
L’ atto “abnorme” non consiste nel compimento da parte del lavoratore di un’operazione che, pure inutile e imprudente, non sia, però, eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo. Perché «la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio «contegno abnorme» del lavoratore medesimo, configurabile come un «fatto assolutamente eccezionale» e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (Cass. Pen. Sez. IV, n. 22249, del 14 marzo 2014).
Un “comportamento” di questo tipo è interruttivo, non perché eccezionale, ma perché “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Cass. Pen. sez.IV, n. 49821, del 2012).
In questo caso, e solo in questo caso, si è in presenza di una condotta imprevedibile e, quindi, ingovernabile da parte di chi riveste una posizione di garanzia come il datore di lavoro che è depositario di tutta una serie di obblighi finalizzati a garantire la formazione del lavoratore al fine di preservarne, appunto, la sicurezza.
Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Cass. Pen. sez.IV, n. 39765 del 2015).
Ecco perché addurre, a propria difesa, il fatto che il lavoratore sia stato munito degli opportuni dispositivi di sicurezza e che sia stato informato dei rischi connessi con l’attività che si accinge a svolgere non basta a giustificare l’estraneità del datore di lavoro all’accadimento da cui è derivato l’infortunio.
E tanto meno si può escludere la responsabilità del “garante della sicurezza” qualora risulti che il lavoratore avesse un proprio apprezzabile bagaglio di conoscenze in materia, derivato per e etto di una lunga esperienza operativa o per il travaso di conoscenze che, comunemente, si realizza nella collaborazione tra lavoratori.
L’apprendimento derivante dal vissuto del lavoratore medesimo, dalla condivisione delle esperienze e dalla prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e formazione prevista dalla legge (Cass. Pen. sez. IV, n. 21242, del 2014).

I quattro aspetti irrinunciabili
Tutte queste sfumature della motivazione addotta dall’imputata, nel caso di specie, sono state escluse dalla suprema Corte che ha tenuto a stigmatizzare come «l’obbligo di formazione non si esaurisce nel passaggio di conoscenze teoriche e pratiche al dipendente, dovendo il soggetto obbligato verificare anche che esse siano divenute patrimonio acquisito in concreto, ciò che solo una effettiva prova pratica, sotto la supervisione di un tutor può garantire».
Quattro sono, dunque, i punti cardine dell’adeguata preparazione del lavoratore all’approccio con una nuova mansione da svolgere:
• la formazione intesa come l’opportuna informazione su tutto ciò che riguarda l’attività da svolgere, i tempi e i modi per svolgerla, i rischi connessi a essa e l’uso appropriato dei mezzi di sicurezza e di protezione dati in dotazione per proteggersi e prevenire eventuali danni;
• la verifica intesa come la prova concreta che tutte le conoscenze trasmesse al lavoratore siano state acquisite al punto tale da renderlo edotto su tutti gli aspetti inerenti allo svolgimento della propria mansione e al funzionamento degli apparecchi necessari per lo svolgimento dell’attività;
• la prova pratica intesa come un vero e proprio “addestramento” da cui possa derivare la consapevolezza di ciò che si va a fare, dell’attività che si è chiamati a svolgere e della padronanza di tutte le tecniche necessarie per utilizzare, senza, rischi aggiuntivi, gli attrezzi, i macchinari ed i dispositivi che rientrano nello svolgimento della mansione;
• la supervisione di un tutor, cioè di una persona altamente esperta in materia, che si rende artefice di tutti i suddetti controlli e ne dà la garanzia, se tutto è avvenuto secondo quanto stabilito dalla legge per assicurare al massimo la sicurezza e, dunque, la tutela della salute del lavoratore.

Il punto
Senza alcun dubbio, dunque, questa pronuncia della Cassazione rappresenta un ulteriore passo avanti in materia di protezione e prevenzione nell’ambiente di lavoro.
Ci si allontana da un discorso puramente teorico per avviarsi a un processo di formazione del lavoratore sempre più pratico e concreto dove “l’informazione” rappresenta il primo passo di un progetto di “migliore consapevolezza” per realizzare un ambiente lavorativo il più sicuro possibile, dove si prende coscienza dei rischi esistenti e si cerca di controllarli e di gestirli
senza andare ad aggravare le situazioni con un comportamento “anomalo” e inappropriato che, come nel caso in esame, è derivato proprio dalla mancanza delle conoscenze teoriche e pratiche e della preparazione richiesta per lo svolgimento delle proprie mansioni.

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DPI: CHE COSA È CAMBIATO CON IL DECRETO PUBBLICATO SULLA GAZZETTA UFFICIALE N. 53 DELL’11 MARZO 2019

Dispositivi di protezione individuale: il D.Lgs. 17/2019 allinea l’Italia alle norme dell’Unione con un maggior onere pecuniario – e non solo – per gli eventuali illeciti. Si tratta di un intervento legislativo studiato per rendere organico il nostro ordinamento al regolamento in materia e già in vigore

Dopo una lunga attesa, anche l’Italia si allinea alle nuove disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, in materia di dispositivi di protezione individuali (Dpi). Con il D.Lgs. 19 febbraio 2019 (1), n. 17, infatti, il governo – dando attuazione alla delega contenuta nella legge 25 ottobre 2017, n. 163 – ha introdotto nel nostro ordinamento interno un nuovo regime che, secondo quantoriportato nel comunicato del consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio, ha l’obiettivo di semplificare e chiarire
il quadro esistente per l’immissione sul mercato di questi dispositivi, nonché di migliorare la trasparenza, l’efficacia e l’armonizzazione delle misure esistenti, realizzando il coordinamento con le disposizioni generali in materia di mercato, sicurezza e conformità dei prodotti.
Per comprendere l’e ettiva portata di questo nuovo importante provvedimento appare indispensabile ricordare preliminarmente che il regolamento n. 2016/425, conosciuto comunemente anche come “regolamento Dpi”, è lo strumento giuridico scelto dall’Unione europea per sanare, in primo luogo, il problema delle differenti normative nazionali dei singoli Paesi
membri che era sorto con la direttiva n. 89/686/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, ora abrogata; sono state, infatti, diverse le incongruenze registrate e si è posta, così, l’esigenza obiettiva di fare in modo che l’ambito di applicazione, i requisiti
essenziali di salute e di sicurezza e le procedure di valutazione della conformità fossero gli stessi in tutti gli Stati membri.
Com’è noto le direttive richiedono il recepimento attraverso specifici atti interni da parte dei singoli Stati e, proprio in questa fase, si generano normative nazionali che pur se di matrice europea in non pochi casi sono anche profondamente diverse l’una dall’altra: in questo senso l’esempio emblematico è la disciplina antinfortunistica in cui la direttiva 89/391/Cee del Consiglio, del 12 giugno 1989 (la cosiddetta “direttiva quadro”), mentre in Italia è stata applicata garantendo un livello di tutele ben superiore a quello minimo previsto daquesta direttiva in diversi altri Paesi, invece, ci si è limitati quasi alla mera riproduzione dei principi comunitari.
Attraverso il regolamento n. 2016/425, che com’è noto non richiede invece il recepimento interno, si è cercato, pertanto, di realizzare un vero mercato unico dei Dpi con requisiti identici, favorendo così anche la loro libera circolazione.
Al tempo stesso, però, era anche necessario da parte dell’Italia allineare la disciplina interna in materia in modo da renderla organica con il predetto regolamento Dpi e, per questo motivo, come vedremo con il D.Lgs. n. 17/2019, sono state apportate anche diverse modifiche sostanziali al D.Lgs. n.475/1992, e alcune più marginali, comunque importanti, al D.Lgs. n. 81/2008, tanto da dare vita a un nuovo regime applicativo che si potrebbe definire “Dpi 3.0”.

Ambito applicativo ed esclusioni
Concentrando ora l’attenzione sui profili più significativi del D.Lgs. n. 17/2019, da una sua prima lettura è possibile rilevare che l’art. 1, comma 1, lett. b), ha sostituito integralmente l’art. 1 del già citato D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo ora che le norme di questo decreto si applicano ai Dpi di cui all’art. 2 del regolamento n. 2016/425; per le definizioni occorre fare riferimento a quanto previsto dall’art. 3 di questo regolamento. Pertanto, rientrano nel nuovo regime i Dpi appartenenti alle tre categorie previste nell’allegato I del regolamento Dpi, progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza, i componenti intercambiabili dei Dpi essenziali per la loro funzione protettiva, nonché i sistemi di collegamento per i citati dispositivi «…che non sono tenuti o indossati da una persona, che sono progettati per collegare tali dispositivi a un dispositivo esterno o a un punto di ancoraggio sicuro, che non sono progettati per essere collegati in modo fisso e che non richiedono fissaggio prima dell’uso». Nel novellato art. 1 del D.Lgs. n. 475/1992 compare anche il richiamo all’allegato I che riportava l’elenco tassativo delle categorie Dpi escluse da questa disciplina, abrogato insieme agli allegati II, III, IV, V e VI del predetto decreto (vedere la tabella 3). Di conseguenza ora occorrerà fare riferimento a quanto stabilisce l’art. 2, comma 2, del regolamento n. 2016/425, che esclude dal suo campo diversi dispositivi di protezione sottoposti a regimi particolari: è il caso, ad esempio, di quelli da utilizzare esclusivamente su navi marittime.

Le tutele
È bene anche precisare che le nuove disposizioni si applicano ai Dpi che, secondo il citato regolamento n. 2016/425, sono «(…) nuovi sul mercato dell’Unione al momento di tale immissione sul mercato, vale a dire i Dpi nuovi di un fabbricante stabilito nell’Unione oppure i Dpi, nuovi o usati, importati da un Paese terzo”. Questi Dpi, quindi, anche se importati devono essere conformi ai nuovi requisiti per la progettazione e la fabbricazione, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori. Sotto questo profilo, quindi, la nuova disciplina appare, almeno potenzialmente, più efficace rispetto a quella previgente in termini di lotta all’ingresso nel mercato europeo di Dpi non rispondenti a questi requisiti o, peggio ancora, recanti la marcatura di conformità “Ce” posta in modo ingannevole. Di conseguenza il D.Lgs. n. 17/2019 non interessa solo i fabbricanti e i distributori, ma anche gli stessi datori di lavoro che grazie a questa nuova disciplina dovrebbero godere di maggiori tutele in fase di acquisto e d’impiego, nonché i lavoratori che potranno contare sui Dpi che dovrebbero assicurare maggiori garanzie in termini di e icacia della protezione dai rischi.

I requisiti essenziali
Il D.Lgs. n. 17/2019 ha profondamente novellato anche l’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo in materia di requisiti essenziali di sicurezza che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato solo se rispettano le indicazioni di cui agli articoli 4 e 5 del regolamento Dpi. Da notare, in particolare, che mentre l’art. 5 di questo regolamento rinvia a quanto stabilito dall’allegato II, che elenca numerosi requisiti inderogabili, invece l’art. 4 prevede che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato «(…) solo se, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni». In merito al concetto di «messa a disposizione sul mercato» l’art. 3, comma 1, n. 2, stabilisce che s’intende «la fornitura di Dpi per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito».
La portata della disposizione non appare, invero, del tutto chiara in quanto se è pacifico che sono attratti da questa disciplina
tutti gli operatori economici che professionalmente forniscono i dispositivi, anche senza il corrispettivo di un prezzo, è possibile rilevare anche alcune situazioni limite, ma non troppo. È il caso, ad esempio, di un’impresa che non commercia Dpi, ma avendo in magazzino dispositivi inutilizzati intende rivenderli; oppure si pensi a un committente che concede l’uso a titolo gratuito all’appaltatore Dpi acquistati dallo stesso. L’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, inoltre, nella nuova versione stabilisce anche che si considerano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza i Dpi muniti della marcatura Ce per i quali il fabbricante o il suo mandatario stabilito nel territorio dell’Unione sia in grado di presentare, a richiesta, la documentazione di cui all’art. 15 e all’allegato III del regolamento Dpi, nonché, relativamente ai dispositivi di seconda e terza categoria, la certificazione di cui agli allegati V, VI, VII e VIII sempre del già citato regolamento Dpi.

La procedura di valutazione della conformità
Inoltre, alcune modifiche sono state apportate anche all’art. 5 D.Lgs. n.475/1992, che disciplina la procedura di valutazione della conformità; in particolare il fabbricante è tenuto a eseguire, o far eseguire questa procedura di valutazione (cfr. art. 19) e a redigere la documentazione tecnica di cui all’allegato III, anche al fine di esibirla alle autorità di vigilanza per tutti i Dpi. Nella disciplina previgente, invece, era previsto che prima di procedere alla produzione di Dpi di seconda o di terza categoria, il fabbricante o il rappresentante stabilito nel territorio comunitario doveva chiedere il rilascio dell’attestato di certificazione Ce di cui all’art. 7.

Le modifiche al D.Lgs. n. 81/2008
Appaiono, invece, di minore impatto le modifiche apportate al D.Lgs. n. 81/2008, che, tutto sommato, si limitano solo ad aggiustamenti testuali; l’art. 2 del D.Lgs. n. 17/2019, infatti, ha armonizzato gli artt. 74 e 76 del cosiddetto testo unico della sicurezza sul lavoro con il predetto regolamento Dpi (vedere il testo aggiornato di questi articoli nel box 2). In particolare, nel novellato art. 76 è consacrato il principio in base al quale i Dpi devono essere conformi al regolamento (Ue) n. 2016/425; scompare, quindi, il richiamo del D.Lgs. n. 475/1992, ma resta fermo che i Dpi devono:

• essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;
• essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
• tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
• poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità.

Inoltre, in caso di rischi multipli che richiedono l’uso simultaneo di più Dpi, questi devono essere tra loro compatibili e tali da mantenere, anche nell’uso simultaneo, la propria efficacia nei confronti del rischio e dei rischi corrispondenti.

È necessario precisare che il D.Lgs. n. 17/2019 non modifica la disciplina sugli obblighi del datore di lavoro contenuta nell’art. 77 del D.Lgs. n. 81/2008; di conseguenza resta fermo il dovere di quest’ultimo di effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e d’individuare le caratteristiche dei Dpi necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi, tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi Dpi.

Le sanzioni
Accanto a queste modifiche il legislatore delegato è intervenuto molto energicamente anche sul regime sanzionatorio, operando un vero giro di vite che eleva le responsabilità di tutti gli operatori. Basti considerare, ad esempio, che il novellato art. 14 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilisce che il fabbricante che produce o mette a disposizione sul mercato Dpi non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi nonché l’importatore che immette sul mercato Dpi non conformi ai requisiti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 8 mila euro sino a 48 mila euro se si tratta di Dpi di prima categoria; addirittura se si tratta di Dpi di secondo o terza categoria sono previste sanzioni penali. Molteplici sanzioni sono previste anche per i distributori e per «chiunque» metta a disposizione sul mercato Dpi non conformi alle nuove disposizioni.

Lotta agli abusi
Inoltre, nel D.Lgs. n. 17/2019 è contenuta anche una norma che si potrebbe definire “antitruffa”; infatti, chiunque appone o fa apporre marcature, segni e iscrizioni che possono indurre in errore i terzi circa il significato o il simbolo grafico, o entrambi, della marcatura Ce ovvero ne limitano la visibilità e la leggibilità, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a 6 mila euro. I destinatari sono, pertanto, non solo i fabbricanti, ma anche gli importatori; ci si aspettava, però, un regime sanzionatorio più severo per questo illecito considerata la sua particolare gravità e l’esperienza maturata in questa anni dove non di grado sono stati messi in vendita a prezzi da discount da parte di alcuni operatori dispositivi recanti in modo ingannevole la marcatura Ce. Viene punito, inoltre, con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a sei mila euro chiunque promuove la pubblicità per Dpiu che non rispettano le prescrizioni del regolamento Dpi.

Il sistema di vigilanza
Accanto a queste modifiche si affiancano, poi, quelle introdotte dell’art.1, comma 1. lett. l), del D.Lgs. n. 17/2019, all’art.13 del D.Lgs. n. 475/1992, in materia di attività di vigilanza del mercato; le competenze restano ancora in capo al ministero dello Sviluppo economico e al ministero del Lavoro secondo quanto stabilito dal capo VI del regolamento Dpi, mentre le funzioni di controllo alle frontiere esterne sono svolte dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli conformemente agli artt. da 27 a 29 del regolamento (Ce) n. 765/2008. Nell’azione di controllo previsto anche il coinvolgimento delle Camere di commercio e dell’Ispettorato nazionale del lavoro; importante è sottolineare che la funzione di controllo è, in e etti, attribuita anche alle Asl e agli altri organi ai quali sono attribuiti compiti ispettivi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, qualora accertino che un Dpi non rispetta i requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi, sono tenuti a rendere informativa ai citati ministeri ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

La sanatoria degli illeciti Sempre in materia di sanzioni deve essere anche rilevato che il legislatore ha previsto anche la possibilità per il trasgressore di sanare gli illeciti penali; infatti, alle contravvenzioni previste dall’art. 14 del
D.Lgs. n. 475/1992, per le quali sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda,
si applica l’istituto della prescrizione in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 20 e seguenti del D.Lgs.
n.758/1994. Pertanto, ottemperando a quanto previsto dall’organo di vigilandi trenta giorni un importo pari a un quarto del massimo previsto per l’ammenda il reato commesso si estingue. Per quanto, invece, riguarda gli illeciti amministrativi la stessa disposizione esclude espressamente la possibilità di ricorrere alla cosiddetta regolarizzazione di cui al 301-bis del D.Lgs. n. 81/2008; bisogna, comunque, tener presente che alle sanzioni amministrative irrogate dalla Camera di commercio territorialmente competente, si applicano per quanto compatibili le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.

Continuità e abrogazione del D.Lgs. n. 10/1997
Resta, infine, solo da osservare che l’art. 3 del D.Lgs. n. 17/2019, stabilisce che nelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in vigore, tutti i riferimenti alla direttiva 89/686/Cee, come accennato abrogata dal regolamento (Ue) n. 2016/425, si intendono fatti a quest’ultimo e sono letti secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato X al regolamento stesso; inoltre, è abrogato il D.Lgs. 2 gennaio 1997, n. 10, superato ormai da queste nuove disposizioni.

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Autorizzazione unica ambientale: richiesta e modifica

Di cosa si tratta

L’autorizzazione unica ambientale (Au-a) è un provvedimento abilitativo istituito con D.P.R. 29 maggio 2013, n. 591 al fine di semplificare gli adempimenti autorizzativi per le imprese. L’Aua, infatti, costituisce un “contenitore” all’interno del quale so-no confluite più autorizzazioni e comunicazioni ambientali che, in precedenza, dove-vano essere richieste singolarmente. Sono sette le categorie di autorizzazioni sostituite dall’Aua. Il gestore di un impianto deve oggi richiedere questa “nuova” autorizzazione per ottenere anche solo una delle “vecchie”.
Relativamente al momento dal quale diventa obbligatorio il regime Aua, è necessario fare una precisazione. Se l’obbligatorietà di questo regime inizia chiaramente a decorrere dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 59/2013, tuttavia per le attività già avviate prima dell’introduzione della disciplina Aua, «l’autorizzazione unica ambientale può essere richiesta alla scadenza del primo titolo abilitativo da essa sostituito», così come disposto dall’art. 10, comma 2, D.P.R. n. 59/2013. Con la circolare del ministero dell’Ambiente 7 novembre 2013, n. 00498013 è stato successivamente chiarito che, con questa indicazione, il Legislatore non ha inteso rendere facoltativo il regime Aua, bensì solo posticipare l’obbligo per il gestore di presentare domanda di Aua alla scadenza del primo titolo abilitativo sostituito dalla stessa. Nella medesima circolare si è, inoltre, chiarito che il gestore non debba attendere la scadenza del titolo sostituito, ma presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito (ad esempio, in materia di scarichi l’art. 124, D.L-gs. n. 152/2006, prevede che il rinnovo sia chiesto un anno prima della scadenza). Ciò al fine di poter continuare l’attività anche in caso di mancata risposta, nei termini di legge, sulla richiesta di primo rilascio dell’Aua.

Chi può richiederla
L’art. 1, D.P.R. n. 59/2013, al momento di determinare l’ambito di applicazione della disciplina Aua, fa esplicito riferimento alle sole piccole e medie imprese (Pmi), come individuate dal D.M. 18 aprile 2005. Tutta-via, con la circolare del ministero dell’Am-biente 7 novembre 2013, n. 0049801 sopra citata, il dicastero ha precisato che questa disciplina trova, in realtà, applicazione anche nei confronti delle grandi imprese, qualora non soggette ad autorizzazione in-tegrata ambientale. In altre parole, l’ambito di applicazione della disciplina Aua è determinabile per sottrazione, nel senso che ne sono esclusi solo:
• gli impianti soggetti ad Aia;
• i progetti che siano già sottoposti a valutazione di impatto ambientale, laddove la normativa statale o regionale preveda che la stessa Via comprenda e sostituisca tutti gli atti di assenso in mate-ria ambientale. In soli due casi la richiesta di Aua è facoltativa:
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette a sole comunicazioni;
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette solo all’autorizzazione generale di cui all’art. 272, D.Lgs. n. 152/20064.In questi casi, il gestore può optare tra il “vecchio” regime autorizzativo e l’Aua.
Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’Aua ad altri provvedimenti autorizzativi; è stato, tuttavia, chiarito in linee guida dedicate5 che il D.P.R. n. 59/2013 non dovrebbe trovare applicazione per quei procedimenti che già si caratterizzano per l’“unicità”, tra i quali, ad esempio, l’autorizzazione unica per impianti di gestione rifiuti (art. 208, D.Lgs. n. 152/2006).

Contenuto, durata e costi
Entrando nel merito dei contenuti del provvedimento, il D.P.R. n. 59/2013 rimanda alle discipline di settore, disponendo che «l’autorizzazione unica ambientale contiene tutti gli elementi previsti dalle normative di settore per le autorizzazioni e gli altri at-ti che sostituisce» (art. 3, comma 5).
In altre parole il D.P.R. ribadisce come l’Aua sia solamente un provvedimento “contenitore” che sostituisce formalmente le singole autorizzazioni e comunicazioni, ma che, dal punto di vista sostanziale, continuano a trovare applicazione le discipline settoriali, anche sul piano sanzionatorio. Ai sensi dell’art. 3, l’autorizzazione deve poi definire «le modalità per lo svolgimento delle attività di autocontrollo, ove previste, individuate dall’Autorità competente, tenendo conto della dimensione dell’impresa e del settore di attività». Ad esempio, i gesto-ri degli impianti autorizzati in Aua che possiedono scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006) so-no chiamati a presentare, sempre ai sensi dell’art. 3, comma 5, D.P.R. n. 59/2013, una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo all’autorità competente, con cadenza quadriennale.

L’autorità può, quindi, procedere all’aggiornamento/modifica dell’autorizzazione stessa qualora alla comunicazione emerga che l’inquina-mento provocato dall’attività e dall’impianto è tale da renderlo necessario, senza che ciò modifichi la durata dell’autorizzazione.Venendo alla durata, l’autorizzazione unica ambientale ha validità di quindici anni a decorrere dalla data del rilascio. Questa scadenza sostituisce quelle diverse pre-viste dalle discipline settoriali delle singole ipotesi autorizzatorie confluite nell’Aua. Decorsi i quindici anni, l’autorizzazione può essere rinnovata presentando, almeno sei mesi prima della scadenza, apposita istanza contenente la documentazione aggiornata (con la possibilità di limitarsi a richiamare quanto già in possesso dell’autorità, se le informazioni non sono variate nel tempo). Presentata l’istanza di rinnovo nei termini, fatta salva diversa previsione contenuta nel-la specifica normativa di settore, l’impianto potrà continuare a operare sino all’ottenimento del relativo provvedimento. Come già per l’Aia, peraltro, anche il D.P.R. n. 59/2013 dispone che l’autorità competente possa imporre al gestore una revisione dell’Aua prima della scadenza quando:
• le prescrizioni stabilite nella stessa impediscono o pregiudicano il conseguimento degli obiettivi di qualità ambientale stabiliti dagli strumenti di pianificazione e programmazione di settore;
• nuove disposizioni legislative comunitarie, statali o regionali lo esigono.Infine, con riferimento ai costi della stessa, il soggetto richiedente sostiene le spese e i costi dei diritti connessi ai provvedimenti racchiusi nell’autorizzazione unica ambientale.
Possono essere previsti ulteriori oneri istruttori, ma la somma dei costi non può superare quanto complessivamente si pagava prima dell’avvento dell’Aua per i singoli titoli abilitativi da essa sostituiti.

Presentazione della domanda di Aua

Il modello
In linea con quanto sopra illustrato, la stessa domanda per ottenere il provvedimento autorizzativo deve contenere tutte le infor-mazioni richieste dalle relative discipline di settore. A questo fine, come richiesto dall’art. 10, comma 3, D.P.R. n. 59/2013, con D.P.C.M. 8 maggio 2015 è stato predisposto un modello unico nazionale ad hoc al quale le regioni hanno dovuto adeguarsi. Si tratta di un modulo funzionale, appunto, a uniformare i modelli già utilizzati dalle diver-se amministrazioni regionali e a sostituire i sette moduli, relativi alle altrettante autorizzazioni rimpiazzate dall’Aua, con un unico modello più snello, chiaro e intuitivo da presentare attraverso i sistemi telematici.
Il modello si compone di una parte generale e di otto schede da allegare all’istanza, relative alle diverse autorizzazioni sostituite dall’Aua per le quali si fa richiesta. Non è, invece, necessario allegare queste schede qualora le condizioni di esercizio dell’impianto non siano mutate rispetto al precedente titolo autorizzativo, essendo in tal caso sufficiente predisporre una dichiarazione di invarianza. È di fondamentale importanza – per le imprese e, soprattutto, per chi materialmente sottoscrive la domanda di autorizzazione unica ambientale – tener conto che queste dichiarazioni hanno valore di “autocertificazione” ai sensi degli artt. 46 e 47, D.P.R. n. 445/2000. Di conseguenza, un’eventuale dichiarazione non veritiera può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha e ettuato tale “autocertificazione”.Si rileva, inoltre, che, ove espressamente in-dicato nel modello, le sezioni da compilare e le informazioni da inserire possono variare sulla base delle specifiche discipline regionali, conformemente alla possibilità data alle Regioni di estendere l’ambito di appli-cazione dell’Aua ad altri titoli autorizzativi o comunicazioni. Si segnala, infine, che, a pagina 41 del modello unificato, é riepilogata la documentazione da accludere a cia-scuna delle schede tecniche previste, a cui si rimanda per i contenuti di dettaglio. Solo con riferimento ad alcune schede tecniche sono proposti degli schemi per la predisposizione della relazione tecnica.

La procedura
Quanto alla procedura da seguire, la domanda deve essere presentata per via telematica al Suap (sportello unico attività produttive) del Comune ove si trova l’impianto.
Il Suap ne cura poi la trasmissione, sempre per via telematica, all’autorità competente – ovvero la provincia, salvo che la disciplina regionale attribuisca competenza a una diversa autorità – che gestisce la fase di autorizzazione, adottando il provvedimento finale e trasmettendolo al Suap che poi rilascia il titolo. Allo sportello unico è, quindi, attribuito un importante ruolo di coordinamento; è, pertanto, fondamentale che l’attività dello stesso sia svolta tempestivamente, in quanto i termini procedimentali decorrono dalla domanda presentata dall’istante indipendentemente da eventuali ritardi del Suap nella trasmissione della documentazione agli altri enti.
Il procedimento è diversificato in funzione della durata dei procedimenti per il rilascio dei provvedimenti sostituiti (inferiore o superiore a 90 giorni) nonché in funzione della necessità di acquisire o meno altri titoli abilitativi oltre all’autorizzazione unica ambientale (laddove sia necessario acquisire diversi titoli abilitativi, il ruolo del Suap diviene più rilevante). La disciplina del procedimento è scandita dai commi 4 e 5 dell’arti-colo 4, D.P.R. n. 59/2013, recentemente modificati dal D.Lgs. n. 127/2016, che ha ampliato i casi di obbligatoria indizione della conferenza di servizi7. Quanto, infine, alle eventuali modifiche previste per l’impianto nel regime di validità dell’Aua, la disciplina dettata dall’art. 6, D.P.R. n. 59/2013, ricalca in larga parte quella propria dell’A-ia ed è illustrata nella figura 5. Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di definire, nel rispetto delle norme di settore vigenti, ulteriori criteri per la qualificazione delle modifiche sostanziali e indi-care modifiche non sostanziali per le quali non vi è nemmeno l’obbligo di effettuare la comunicazione.

Consigli finali per le aziendeIn definitiva, l’azienda che voglia presentare domanda di Aua deve:
• prepararsi per tempo, ovvero non attendere la scadenza del titolo sostituito, bensì presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito;
• qualora sia in possesso di scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006), provvedere con cadenza quadriennale alla presentazione all’autorità competente di una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo;
• compilare attentamente la stessa consapevoli che, in caso di predisposizione di una dichiarazione di invarianza, l’eventuale non veridicità della stessa può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha effettuato questa “autocertificazione”;
• successivamente alla presentazione del-la prima domanda di Aua, quando altre autorizzazioni sostituite dall’Aua giungo-no in scadenza, far confluire le stesse in Aua (ricordandosi sempre di presentare la domanda nel termine preventivo di cui al primo punto).

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Acque reflue industriali: le caratteristiche base

Non devono mancare determinati requisiti di “natura” e di “gestione”

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale,9 novembre 2018, n. 51006, pur escludendola gestione non a norma e l’abbandono di rifiuti,ha comunque condannato un titolare di un’impresa agricola per il reato di cui all’articolo 137,D.Lgs. n. 152/2006 (scarichi illeciti). E nel farlo,si è pronunciata da una prospettiva diversa rispetto a precedenti orientamenti, su un elemento indicato come potenzialmente discriminante. Vediamo quale

La corte di Cassazione è stata chiamata, ancora una volta, a doversi esprimere relativamente a un caso in cui si pone la necessità di dover «distinguere tra scarichi e rifiuti», ovvero quando le acque reflue siano da fare rientrare in una tipologia piuttosto che nell’altra, con la conseguente applicazione della relativa disciplina. Nel caso specifico, la Corte ha definito scarichi industriali, oltre i reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti dove si svolgono attività artigianali e di prestazione di servizi, qualora le caratteristiche qualitative di questi siano diverse da quelle delle acque domestiche. La conclusione, però, è stata che, anche qualora si possa essere in presenza di scarichi di acque reflue, con la conseguente applicazione della relativa disciplina e sottrazione dall’ambito dei rifiuti, non devono mancare determinati requisiti e caratteristiche di “natura” e di “gestione” dello scarico.

Fatto
La vicenda in esame ha portato la suprema Corte a esprimersi e a ribadire le proprie posizioni su determinate questioni su cui, negli anni, si è andata consolidando una specifica giurisprudenza. Il titolare di un’azienda agricola era stato dichiarato, in primo e in secondo grado, colpevole del reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. 152/2006, per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini. L’imputato, nel proporre ricorso in Cassazione, avverso la pronuncia dei giudici dell’appello, ha addotto l’insussistenza del reato di cui sopra a causa della mancanza di un siste-ma stabile di collettamento da cui sarebbe derivato il carattere occasionale dell’operazione; oltre al fatto che sarebbe stata incerta anche la qualificazione delle acque provenienti dal lavaggio del capannone come “industriali”, potendo contenere, a giudizio del ricorrente, al massimo residui di materia organica e non certo sostanze chimiche che potessero connotare la pericolosità delle acque reflue.

La sentenza della suprema Corte

Acque reflue industriali: dalla definizione…
Al contrario, come accennato in precedenza, la Corte non ha avuto dubbi nel qualificare come “acque reflue industriali” quelle provenienti e scaricate dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, facendo opportuno riferimento a precedenti pronunce secondo cui «nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive». In questa accezione, inoltre, devono ricomprendersi «tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, e che non si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali inquinanti on connessi con le attività esercitate nello stabilimento» (Cassazione penale, sez. III, 5 febbraio 2009, n.12865). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2015, n. 3199).

…alla qualificazione come scarichi
Una volta assodato il fatto che nella nozione di acque reflue industrialirientrano anche quelle provenienti – come nel caso di specie – dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, la questione è stata incentrata sulla qualificazione di queste acque reflue come “scarichi”. L’imputato aveva addotto, in propria difesa, l’occasionalità delle immissioni di cui, facendo riferimento alle fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo, non esisteva una prova chiara. Il suddetto motivo di impugnazione, però, non ha convinto i giudici della suprema Corte che hanno confermato la colpevolezza dell’imputato per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006 e hanno colto l’occasione per confermare l’orientamento espresso in materia. In particolare, facendo riferimento a una precedente pronuncia, i giudici hanno ribadito che «non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando, invece, ai fini della sua configurabilità, l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo», di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo» (sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45634).

Il nesso funzionale e diretto

Quando esclude una disciplina…
Un altro aspetto sottolineato dai giudici della suprema Corte al fine della configurabilità del reato in questione è l’esistenza di «uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo». In una recente sentenza, la Corte ha definito la sottile distinzione tra i casi in cui le acque reflue devono essere considerate “scarichi” o “rifiuti”.
Sulla base di quanto afferma l’articolo 74, D.Lgs. n. 152/2006, per scarico deve intendersi «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo acque superficiali» da cui ne consegue che «in tutti i casi in cui non sussista un nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore debba applicarsi la disciplina sui rifiuti, che secondo l’articolo 185 del D.Lgs. n. 152/2006, opera anche in relazione alle acque di scarico». La pronuncia ha affermato che «in caso di raccolta di reflui in vasche, con successivo sversamento in un terreno e ruscellamento in un torrente, non potesse trovare applicazione la disciplina sugli scarichi, non potendo il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale essere considerato diretto e non essendo lo stesso attuato senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento» (Cassazione pena-le, sez. III, n. 38848/2017). In questo caso, dunque, l’imputato, che svolgeva attività di pulitura e confezionamento di ortaggi e raccoglieva le acque reflue derivanti in vasche senza autorizzazione, era stato stato condannato per gestione illecita e abbandono di rifiuti ex articoli 192, 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006.

… e quando ne ammette un’altra
Diverso è apparso il caso in esame nel quale, come sopra accennato, i giudici hanno confermato la colpevolezza del titolare dell’azienda agricola per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006, avendo effettuato scarichi di acque reflue industriali, derivanti dalle operazioni di lavaggio dei capannoni. Nella fattispecie, come in altri casi citati, è stata messa in evidenza l’esistenza del «nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore» che la Corte aveva sempre sottolineato come l’elemento che, qualora assente, avrebbe determinato l’applicazione della disciplina sui rifiuti (articolo 185, D.Lgs.152/2006) anche in relazione alle acque di scarico; in questo caso, però, lo stesso elemento è stato posto in senso positivo, non più a escludere, ma ad ammettere l’applicazione della disciplina sugli scarichi. La configurabilità del reato di cui all’articolo 137 citato, nel caso di specie, è derivata proprio dalla constatazione dell’esistenza di uno «stabile sistema di collettamento che univa il ciclo produttore del refluo con il suolo», costituito dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta.

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Luoghi confinati una trappola da evitare

La corretta valutazione del rischio per affrontare una delle situazioni più pericolose

Una problematica già affrontata a partire dalla legislazione prevenzionistica degli anni ‘50 che, per essere efficacemente risolta, necessita di un Dvr a maglie molto strette. L’obiettivo? Non lasciare nulla al caso. Ma in quale modo deve essere svolta l’analisi dei differenti contesti al fine di individuare modalità utili a salvaguardare la salute (e la vita) degli operatori impegnati in questo tipo di ambienti? Ecco alcune proposte operative

La valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce un obbligo non delegabile del datore di lavoro, il quale deve assolvere a questo compito – non delegabile – con l’eventuale ausilio del Rspp. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura altamente specialistica che, appunto, coadiuva il datore e controfirma il documento di valutazione di cui all’articolo 17 del D.Lgs. n. 81/2008, unitamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e dell’eventuale medico competente (quando necessario).
Il comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione «deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori», anche non ricompresi in quelli tutelati dai titoli del decreto successivi al primo; mentre il comma 2 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione debba riguardare:
• tutte le attività che vengono svolte;
• tutti i pericoli presenti nelle attività svolte;
• la valutazione del rischio di questi pericoli;
• le modalità di trattamento di tutti i rischi di questi pericoli;
• le modalità di controllo periodico di queste modalità di trattamento per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
• le modalità procedurali per la attuazione delle modalità di trattamento necessarie per esecuzione delle suddette attività.

Ovviamente l’obiettivo del Dvr di cui all’articolo 17 consiste nel consentire al datore di lavoro di prendere tutte le iniziative effettivamente necessarie a salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Il quadro in sintesi
La problematica dei “luoghi di lavoro confinati” fu già individuata dalla legislazione degli anni ’50: con:
• D.P.R. n. 547/1955 (art. 235, «Aperture di entrata nei recipienti», art. 236, «Lavori entro tubazione, canalizzazioni, recipienti e simili nei quali possono esservi gas e vapori tossici od asfissianti», art. 237, «Lavori entro tubazioni, canalizzazioni e simili nei quali possono esservi polveri infiammabili ed esplosivi»);
• D.P.R. n. 303/1956 (art. 25, «Lavori in ambienti di sospetto inquinamento»);
• D.P.R. n. 164/ 1956 (art. 15, «Presenza di gas negli scavi»).
Il D.Lgs n. 81/2008 tratta l’argomento degli ambienti sospetti di inquinamento o confinanti solo negli articoli 66 e 121, e nel capitolo 3 dell’allegato IV i quali si fermano a una scarna elencazione prescrittiva di regole da rispettare, mutuata dagli articoli 235, 236, 237, 244, 245, 246 247, 353, 354, 355 del vecchio D.P.R. 547/1955.Nel 2011 è stato emanato il D.P.R. n. 177 del 14 settembre 2011, il quale consta di soli quattro articoli, con lo scopo di regolamentare la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, che al comma 1 lettera a) dell’arti-colo 2 recita:«1.
Qualsiasi attività lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati può essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti: a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze». Si tratta dell’unico punto della legislazione italiana in materia di ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, in cui si fa riferimento al termine “valutazione dei rischi”. Inoltre, per quanto concerne i “luoghi confinati”, il D.P.R n. 177/2011 si limita a una genericissima previsione di una ipotetica valutazione dei rischi nella tipologia specifica, senza darne i requisiti minimi. Per la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza nelle attività lavorative, innanzi tutto risulta utile una indagine su numero e tipo di infortuni registrati all’Inail, nonché dalla eventuale registrazione di raccolta dati interna degli infortuni che hanno provocato solo una medicazione senza l’allontanamento dal lavoro dell’infortunato, nonché di incidenti non trasformatisi in infortunio, i cosiddetti “quasi infortuni” (near-miss) e “mancati infortuni” (near-hit). I rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro possono essere suddivisi in:
• rischi organizzativi (connessi alla necessità di conformità legislativa generica, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni adempimento necessario previsto dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro);
• rischi infrastrutturali (connessi alla necessità di conformità legislativa delle infrastrutture, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni necessità prevista dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato IV del D.Lgs.n. 81/2008);
• rischi logistici (connessi alla mancata conformità legislativa delle attrezzature individuando, per ogni attrezzatura, ogni necessità prevista dalla legislazio-ne vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato V del D.L-gs.n.81/2008);
• rischi lavorativi “generici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni);
• rischi lavorativi “specifici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni, ma per i quali esiste uno specifico riferimento legislativo da rispettare per la conduzione della valutazione dei rischi);
Le prime tre tipologie di rischi dovrebbero essere trattate con l’obiettivo di eliminare ogni non conformità legislativa, rilevata a seguito dei controlli, che verranno previsti nel seguito del documento di valutazione stesso.
La quarta tipologia di rischi deve essere trattata, con la applicazione di misure di prevenzione e protezione di vario tipo: comportamenti, dotazioni, sorveglianza sanitaria, procedure, informazione, formazione e addestramento, manutenzione, monitoraggio ecc.

Come fare
Viene definito dalle linee guida Inail «luogo di lavoro confinato» uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture di accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può accadere un incidente importante che può portare a un infortunio grave o mortale, in presenza di agenti chimici pericolosi (per esempio, gas, vapori, polveri).
Un’altra definizione, più schematica, viene introdotta dalla normativa americana Osha 1910.146, «Permit required confined spaces», che ha definito luogo (o spazio) di lavoro confinato come quello spazio che presenta tre caratteristiche:
• abbastanza grande e configurato in modo tale che un lavoratore possa accedervi interamente ed eseguire il lavoro assegnato;
• limitata o ristretta apertura per l’accesso o l’uscita;
• non progettato per un’attività lavorativa continua.

Genericamente, ma non esaustivamente, le caratteristiche di un «luogo confinato» sono:
• difficoltà di accesso tramite aperture di ingresso/uscita (passi d’uomo, pozzetti d’ispezione, boccaporti) dalle dimensioni ridotte e dall’ubicazione ergonomicamente disagevole;
• dimensioni fisiche spesso limitate;
• condizioni di ventilazione sfavorevoli (ricambi d’aria limitati, insufficienti o del tutto assenti; possibilità di ristagno, formazione o adduzione di inquinanti);
• illuminazione scarsa o assente;
• microclima e altre caratteristiche ergonomiche sfavorevoli;
• difficoltà di comunicazione ordinaria e in emergenza.

Per quanto riguarda l’accesso, è possibile desumere dalla norma Uni En 547-3:2009 «Sicurezza del macchinario – Misure del corpo umano- parte 3 – Dati antropometrici» la quale specifica i dati antropometrici, richiesti dalla Uni En 547-1 e dalla Uni En 547-2 per calcolare le dimensioni delle aperture di accesso utilizzate nel macchinario: una persona adulta occupa mediamente lo spazio di una elisse avente asse maggiore di 60 cm e asse minore di 45 cm. Queste dimensioni vanno aumentate qualora si preveda di utilizzare bombole o Dpi che aumentino gli ingombri. All’interno degli «luoghi confinati» si registra tragicamente un elevato numero di infortuni mortali, con varie cause.

Le fasi per la conduzione di una sistematica valutazione dei rischi nei luoghi confinati dovrebbero essere strutturate nel seguente modo:
• individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale;
• individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle competenze del personale che può accedere in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di prevenzione e di protezione adatte, in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato individuato.

La locuzione «ogni luogo confinato individuato» è stata volutamente ripetuta per sottolineare la forte necessita di effettuare una valutazione specifica per ogni fatti-specie di accesso in luogo confinato individuato e non già una semplice generica, quanto sommaria, valutazione dei rischi disconnessa dalla reale situazione, che in genere risulta variabile non solo nello spazio geometrico, ma anche nel tempo: in questo modo risulta più possibile la risoluzione del problema dell’obbligo del committente di cui all’art.3, comma 1 del D.P.R. 177/2011, che così recita: «Prima dell’accesso nei luoghi nei quali devono svolgersi le attività lavorative di cui all’articolo 1, comma 2, tutti i lavoratori impiegati dalla impresa appaltatrice, compreso il datore di lavoro ove impiegato nelle medesime attività, o i lavoratori autonomi devono essere puntualmente e dettagliatamente informati dal datore di lavoro committente sulle caratteristiche dei luoghi in cui sono chiamati a operare, su tutti i rischi esistenti negli ambienti, ivi compresi quelli derivanti dai precedenti utilizzi degli ambienti di lavoro, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività. L’attività di cui al precedente periodo va realizzata in un tempo sufficiente e adeguato all’effettivo completamento del trasferimento delle informazioni e, comunque, non inferiore ad un giorno».È appena il caso di rilevare che, abitualmente, questo obbligo di “informazione” viene assolto in maniera del tutto generica e sommaria da parte del committente, fino a essere addirittura totalmente ignorato (e in tal caso andando a ricadere nel-lo stesso errore, che ha quasi sempre determinato la mole di infortuni mortali negli anni passati).

Individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale
Il Rspp, accompagnato dal datore di la-voro o dal suo incaricato, deve eseguire un accurato sopralluogo dei luoghi di la-voro, al fine di individuare aree definibili come «luoghi confinati» e di individuare per ognuno di quelli individuati tali tutte le attività che sono state svolte in passato e quelle attuali. In occasione dello stesso sopralluogo l’Rspp dovrebbe indagare presso il personale operativo più anziano, con lo scopo di individuare l’elenco di altre attività non riscontrate allo stato attuale (attività poco frequenti e/o attività svolte solo dal personale esterno). Dopo l’individuazione, ogni accesso al luogo confinato dovrebbe essere identificato, tramite l’apposizione di una cartellinistica monitoria, conforme alla norma tecnica Uni En Iso 7010:2012, che limiti l’accesso al-le sole persone autorizzate, riportandolo su una planimetria.

Individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato

In occasione dello stesso sopralluogo, do-vrebbe essere presa ogni possibile informa-zione sulle dimensioni geometriche di ogni luogo confinato individuato, richiedendo una planimetria dell’interno di ogni luogo confinato e rappresentando tutti i dati relativi.

Individuazione delle competenze e specializzazioni del personale che può accedere in ogni luogo confinato
Successivamente, devono essere definite le informazioni.

Individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato
Quindi, in relazione alle attività lavorative da eseguire all’interno del luogo di lavoro confinato, si deve passare all’individuazione dei potenziali pericoli specifici del luogo di lavoro, quali: asfissia (anche meccanica) o intossicazione dovuta a esalazioni di sostanze tossiche o nocive o alla presenza di materiale, intrappolamento, eventuale presenza di elementi meccanici pericolosi, folgorazione, caduta dall’alto ecc., ai quali vanno a sommarsi i rischi propri delle attività lavorative previste.
Per ciascuno dei rischi specifici individuati si deve assegnare alla “gravità del pericolo” (G) un valore da 1 a 3 e alla probabilità di accadimento del pericolo (P) un valore da 1 a 4, elaborando una tabella.
La norma tecnica Uni 10449:2008 stabilisce i casi in cui deve essere predisposto un “Permesso di lavoro” :
• lavoro con divieto d’uso di fiamma o scintilla;
• lavoro implicante l’uso di fiamma – sorgente di calore – gas – liquidi o materiali infiammabili;
• lavoro di scavo;
• lavoro su circuiti e apparecchiature elettriche;
• lavoro negli spazi confinati

Individuazione delle misure di prevenzione e di protezione da adottare in ogni luogo confinato
Successivamente, in relazione ai rischi specifici presenti nel luogo di lavoro confinato, deve essere elaborata una tabella.

Individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato
L’individuazione delle misure di controllo e monitoraggio per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza viene definito in una tabella nella quale viene anche la periodicità dei controlli e dei monitoraggi individuati. Sulla base della precedente valutazione, per ogni punto di accesso deve essere elaborata una procedura di accesso e permanenza nel luogo confinato per poter eseguire le lavorazioni previste durante l’accesso in maniera sicura.

Procedura generale di valutazione e gestione dei rischi:
• valutazione dei rischi in ambienti confinati;
• principi generali per la corretta gestione dei rischi;
• modalità di esecuzione del lavoro

Sistemi e procedure di lavoro sicuri:
• nomina di un supervisore dei lavori e organizzazione con “permessi di lavoro”;
• impiego di operatori idonei al tipo di lavoro;
• localizzazione ed estensione del rischio;
• isolamento dell’ambiente confinato rispetto ad altri ambienti pericolosi;
• verifica dell’idoneità delle vie di accesso/uscita;
• ventilazione dell’ambiente;
• verifica dell’aria contenuta nell’ambiente confinato;
• risanamento/bonifica atmosfera dell’ambiente confinato;
• gestione dell’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi non eliminabili;
• utilizzo di autorespiratori;
• utilizzo di altri Dpi necessari;
• utilizzo di attrezzature di lavoro adegua-te alla specifica situazione e di attrezzature speciali;
• illuminazione;
• sistema di comunicazione;
• controllo e allarme;
• istruzioni di emergenza;
• modalità di accesso all’ambiente confinato;previsione e gestione delle emergenze.

Procedure di emergenza:
• idoneità degli addetti al soccorso;
• comunicazioni.

Equipaggiamenti di soccorso e rianimazione:
• servizio di pubblico soccorso;
• classificazione di pericolosità di ambienti confinati e relative procedure;
• procedura per zone a minimo rischio;
• procedura per zone a elevato rischio.

Gestione degli appalti
Nel caso in cui le lavorazioni previste vengano appaltate a fornitori, ai sensi dell’articolo 3 del D.P.R. n. 177/2011, deve essere loro fornita la valutazione dei rischi relativa al punto di accesso del luogo confinato, in cui deve svolgere le attività in appalto, fermo restando la necessita del preventivo controllo dei requisiti e delle capacità tecniche del fornitore:
• idoneità tecnico professionale;
esperienza attività in spazi confinati (il 30% della forza lavoro deve avere esperienza almeno triennale);
• informazione e formazione sui rischi legati all’attività in spazi confinati (compreso il datore di lavoro nel caso svol-gesse l’attività);
• addestramento per l’uso delle attrezzature utili all’accesso (imbracatura, apparecchi per la protezione delle vie respiratorie Apvr ecc.) secondi il tipo di rischio presente.
Edwards William Deming, il padre della qualità, a chi diceva «abbiamo fatto sempre così», rispondeva che era arrivata l’ora di cambiare.

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FORMAZIONE 4.0: prorogato il credito d’imposta

La legge di bilancio proroga il credito d’imposta per incentivare gli investimenti in formazione del personale dipendente nel settore delle tecnologie abilitanti condivise attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali. Il percorso formativo deve esclusivamente riguardare quelle attività svolte per acquisire o consolidare le conoscenze previste dal piano nazionale impresa 4.0.

Si proroga per tutto il 2019 l’applicazione del credito d’imposta formazione 4.0

Attivata nel 2017 e avviata con Decreto attuativo a maggio 2018, il credito di imposta per la formazione 4.0, è una misura fondamentale per le imprese che investono nella formazione del personale nelle materie aventi a oggetto le tecnologie rilevanti per il processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese previsto dal “Piano Nazionale Impresa 4.0”, cosiddette “tecnologie abilitanti”.

I vantaggi per le imprese dati dal credito di imposta formazione 4.0 è relativa al solo costo aziendale del personale dipendente per il periodo in cui è impegnato nelle attività formative nella misura del 50% per le Piccole imprese, al 40 % per le medie e al 30% per le grandi imprese delle spese. È riconosciuto fino ad un importo massimo annuale di 300mila euro per ciascun beneficiario ad esclusione per le GI in cui il limite massimo è pari a 200 mila euro.

Le agevolazioni sono rivolte a tutte le imprese che effettuano investimenti in formazione senza alcun limite in relazione a:
– Forma giuridica
– Settore produttivo (anche agricoltura)
– Dimensioni
– Regime contabile

Non si applica invece a:
– Soggetti con reddito di lavoro autonomo
– Soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica
– Enti non commerciali

Come si accede al Credito di imposta formazione 4.0?
Si accede a seguito di un piano formativo condiviso con le Parti Sociali e trasmesso alla Direzione Provinciale del Lavoro. E’ obbligatoria una documentazione contabile certificata al termine delle attività formative ed inoltre l’obbligo di conservazione di una relazione che illustri le modalità organizzative e i contenuti delle attività di formazione svolte. A seguito, in fase di redazione del bilancio, si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24 in via esclusivamente telematica all’Agenzia delle Entrate.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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Nel 2018, di nuovo allarme per i morti sul lavoro

Un significativo incremento delle denunce che aumentano del 10,1% rispetto all’anno precedente. In agosto il picco di casi collettivi, complice il disastro del ponte Morandi a Genova e gli incidenti verificatisi in Puglia. Segno “più” anche per le segnalazioni di infortuni e delle patologie di origine professionale. Nel mirino gli uomini

Il quadro che emerge dai dati Inail sugli infortuni sul lavoro per il 2018 conferma l’inversione di tendenza del fenomeno infortunistico rispetto ai due anni precedenti.
Aumentano le denunce di infortunio mortale con 104 casi in più rispetto al 2017, passando da 1029 a 1133. I dati Inail, disponibili al 31 dicembre 2018, sono pubblicati nella sezione «Open data» del portale dell’Istituto e sono provvisori
in quanto l’iter amministrativo e sanitario delle denunce si consoliderà solo a metà del 2019. Dati che saranno pubblicati, come ogni anno, nella «Relazione annuale» dell’Istituto e che forniranno una lettura
dettagliata sulla definizione dell’iter amministrativo delle denunce offrendo un resoconto sui casi denunciati, riconosciuti negativi e in istruttoria.
Il mese di agosto ha registrato un picco di 132 infortuni mortali contro i 78 dell’agosto dell’anno precedente, che in termini percentuali equivale a un aumento del 70% circa, alcuni dei quali causati da incidenti plurimi, ovvero che hanno coinvolto più di un lavoratore. Infatti, nel solo mese di agosto si è contato quasi lo stesso numero di di Valeria Rey, giornalista vittime dell’intero 2017. Tra gli eventi dello scorso anno il crollo del ponte Morandi a Genova ha causato 15 casi mortali sul lavoro e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, hanno provocato la morte di 16 braccianti. Il numero degli incidenti plurimi nel 2018 ha coinvolto più del doppio dei lavoratori dell’anno precedente. Nei 24 incidenti plurimi del 2018 hanno perso la vita 82 lavoratori rispetto ai 15 incidenti plurimi del 2017 che hanno causato 42 morti. Sul piano nazionale i dati rilevati al 31 dicembre 2018 evidenziano un aumento del 5,4% degli incidenti avvenuti in occasione di lavoro, che sono passati da 746 casi a 786 e in particolare di quelli in itinere, ovvero
fuori dall’azienda con o senza mezzo di trasporto, con un aumento del 22,36% che in termini assoluti equivale a 64 casi in più rispetto al 2017 (da 283 a 347).
La gestione «Industria e servizi» ha registrato un incremento di infortuni mortali del 14,9% rispetto al 2017 pari a 128 casi (da 857 a 985); l’«Agricoltura» ha segnato una diminuzione del 7% con 10 casi in meno (da 141 a 131) e la gestione «Conto Stainfortuni to» un decremento del 45% con 14 casi in meno. Il settore di attività economica più colpito è quello del trasporto e magazzinaggio con 28 casi mortali in più seguito dal settore del noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese con 26 casi mortali e dal settore delle costruzioni con 21 casi in più. Sul fronte della distribuzione geografica il Nord-Ovest conferma il trend crescente degli infortuni mortali dell’anno scorso con 47 casi (da 258 a 305), dei quali 24 in Lombardia. Seguono il Nord-Est con 24 casi (da 249 a 273) che riguardano il Veneto, il Centro con tre casi (da 211 a 214) e il Sud con 35 (da 223 a 258) con il record della Campania che ha registrato da sola 27 infortuni mortali.
Rispetto al 2017, l’aumento degli infortuni mortali riguarda in maniera significativa i lavoratori di sesso maschile, i cui casi denunciati sono stati 102 in più (da 927 a 1.029), mentre per la componente femminile si sono registrati due decessi in più (da 102 a 104). L’incremento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, da 861 a 952, pari all’84% del totale, sia quelle dei lavoratori extracomunitari, da 119 a 130 e comunitari (da 49 a 51). Guardando la distribuzione degli infortuni per classi di età emerge che un caso mortale su due ha coinvolto lavoratori di età compresa tra i 50 e i 69 anni, con 85 casi. La fascia maggiormente colpita è quella dai 50-54 anni con 39 casi (da 153 a 192), seguita dalla classe d’età 55-59 con 34 casi (da 211 a 177) e dalla classe 60-64 con 10 casi (da 119 a 129).

Infortuni
In aumento anche le denunce di infortunio che nel 2018 sono cresciute dello 0,9%, vale a dire che rispetto alle 653.433 denunce del 2017 si è passati a 641.261 denunce. Gli incrementi riguardano sia i casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743 (+0.6%), sia quelli in itinere che sono aumentati del 2,8%, da 95.849 casi a 98.518. quella «Conto Stato» dell’1,4%, da 104.393 a 105.898, tre quarti dei casi riguardano studenti delle scuole statali. In «Agricoltura», invece, si registra una diminuzione dell’1,8%, da (33.820 a 33.207).
L’analisi della distribuzione geografica evidenzia un aumento delle denunce nel Nord-Est del 2,2%, nel Nord-Ovest dell’1,1% e al Sud dello 0,8%. Diminuiscono, invece, al Centro dello 0,8% e nelle Isole dell’1%. La Provincia autonoma di Bolzano segna il maggior incremento di denunce con un aumento del 5,4%, seguito dal Friuli Venezia Giulia e Molise con +3,9%, mentre i decrementi maggiori si sono registrati nella Provincia autonoma di Trento con -6,5%, in Valle d’Aosta con -4,5% e in Abruzzo -3%.In aumento dell’1,4% le denunce dei lavoratori maschi (da 406.689 a 412.300) a fronte dello 0,1% di quelle delle donne.L’incremento ha interessato soprattutto i lavoratori extracomunitari con +9,3% di denunce e in misura più contenuta quelli comunitari (+1,2%), mentre le denunce di infortunio dei lavoratori italiani, che rappresentano circa l’84%, del totale sono in calo dello 0,2%.

Malattie professionali
Le denunce per malattia professionale che nel 2017, avevano registrato per la prima volta nell’ultimo quinquennio una diminuzione, tornano a crescere nel 2018 del 2,5%, vale a dire 1.456 casi in più, passando da 58.129 a 59.585. L’incremento maggiore è quello registrato nella gestione «Industria e servizi», pari al 2,8%, da 46.136 denunce a 47.424. Segue l’«Agricoltura» con l’1,8%, da 11.287 a 11.491 denunce, mentre nel «Conto Stato» si è registrata una significativa diminuzione pari al 5,1%, da 706 a Sempre marcata la differenza tra le denunce al maschile e quelle al femminile: 1.328 in più per la componente maschile (da 42.251 a 43.579), pari al 3,1% rispetto alle 128 di quella femminile che segna un aumento dello 0,8% (da 15.878 a 16.006). L’incremento delle denunce dei lavoratori italiani, che rappresentano il 93% sul totale delle denunce, è stato del 2,4% (da 54.348 a 55.659) mentre molto più significativo quello delle denunce dei lavoratori stranieri, pari all’8,6% (da 1.147 a 1.246). Per i lavoratori extracomunitari l’aumento si è attestato all’1,7% (da 2.634 a 2.680).

I dati al 31 dicembre del 2018 evidenziano sul piano nazionale sia un incremento dello 0,6% degli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743, sia di quelli in itinere che hanno fatto registrare un incremento del 2,8%, da 95.849 a 98.518. La gestione «Industria e servizi» registra un aumento degli infortuni dell’1%, dai 497.220 casi del 2017 ai 502.156 del 2018 e L’analisi territoriale evidenzia che gli aumenti maggiori si rilevano nelle Marche (6.039 casi denunciati, +673), in Calabria (2.625 casi denunciati, +411), nel Lazio (3.901 casi, +239), in Toscana (8.009 casi, +227) e in Puglia (3.379 casi, +220). In controtendenza, si evidenziano: il Veneto (3.209 casi, -327), la Sardegna (4.432 casi, -212) e la Campania (2.953 casi, -130). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (36.637 casi), insieme a quelle del sistema nervoso (6.681 con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.574), continuano a essere anche nel 2018 le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio (2.613) e dai tumori (2.461).

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I corsi per la sicurezza? Devono essere distinti

La suddivisione riguarda i Rspp, gli Aspp, i coordinatori nei cantieri e i professionisti antincendio. La risposta è partita prendendo come riferimento l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che ha attuato una profonda riforma dell’intera disciplina formativa

Uno dei tratti più caratteristici del D.Lgs. n. 81/2008 è sicuramente l’attribuzione di una valenza fondamentale, ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, alla formazione come processo educativo rivolto a tutti
i soggetti che, a vario titolo, fanno parte del sistema aziendale, fino ad arrivare agli stessi formatori.
Il legislatore, infatti, ha coniato un modello formativo universale che, per certi versi, risulta addirittura più avanzato rispetto a quello adottato da altri Paesi europei, che, tuttavia, se tutto sommato risulta abbastanza cristallino sul piano dei principi generali che lo governano, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la disciplina attuativa che presenta, invero, molteplici lati oscuri.
Sotto alcuni profili, infatti, si potrebbe dire che oggi affrontare la formazione delle
risorse umane sul piano della safety è diventato, ormai, come addentrarsi in una “selva oscura”, luogo misterioso e irto di pericoli e sorprese, capaci di mettere a dura prova anche i professionisti più esperti; fuor di metafora, appare sempre più evidente che l’attuale normativa a carattere regolamentare contenuta nei diversi accordi Stato-Regioni presenta numerose (troppe) criticità che messe su di un foglio una dietro l’altra potrebbero, forse, risultare più lunghe della barba di Ezechiele… Palese indice sintomatico di questo quadro frustante sono, invero, i numerosissimi interventi della Commissione del ministero del Lavoro chiamata continuamente a esprimersi sui quesiti in materia di formazione, presentati da istituzioni di ogni tipo, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008; basti pensare che dal 2013 si contano ben sedici interpelli in materia di formazione, cui da ultimo si aggiunge quello del 31 gennaio 2018, n.1 (pubblicato lo scorso 8 febbraio). nei cantieri sia quale aggiornamento per la qualifica di professionista antincendio . Al tempo stesso ha anche chiesto di sapere se sia possibile erogare questo corso sotto forma, da un lato, di aggiornamento per Rspp, Aspp e coordinatori per la sicurezza
e, contemporaneamente, dall’altro lato, quale convegno o seminario di aggiornamento per i professionisti antincendio. In merito ha fatto anche rilevare che «la particolarità di questi corsi, organizzati da alcuni soggetti formatori, sta dunque nel fatto che attraverso un unico corso formativo, e quindi un’unica sessione, si ottiene l’attestazione valida per diversi obblighi formativi e distinte qualifiche professionali». Nel rispondere ai quesiti sottoposti, la Commissione è partita da quanto prevede l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che, com’è noto, ha operato una profonda riforma della disciplina attuativa sulla formazione obbligatoria e l’aggiornamento
non solo degli Rspp e Aspp, ma anche di altre figure, chiarendo con una maggiore puntualità i vincoli organizzativi dei corsi, specie per quanto riguarda l’e-learning.
Viene osservato preliminarmente che nell’allegato A di questo accordo sono stabiliti la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i Rspp e gli Aspp, con la previsione al punto 9 di una specifica disciplina sul loro “aggiornamento” ; sulla base delle disposizioni in esso contenute, la Commissione ministeriale ritiene, quindi, che ai fini dell’aggiornamento dei Rspp e degli Aspp non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’aggiornamento di qualifiche specifiche diverse.
Fanno eccezione a questo principio generale la partecipazione ai corsi di aggiornamento per formatori per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, e a quelli per coordinatori per la sicurezza (in fase di progettazione e in fase di esecuzione), ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008.
E ancora, viene ulteriormente precisato che, ai fini dell’aggiornamento per coordinatori per la sicurezza, il punto 9 dell’accordo in questione specifica che non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse, con le uniche eccezioni di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

E convegni e seminari? Molto interessante appare anche la risposta fornita alla seconda parte del quesito. Secondo la Commissione non è possibile che il medesimo evento possa essere configurato sia come corso di aggiornamento sia come convegno o seminario. Ciò alla luce di quanto stabilisce il già citato punto 9 dell’allegato A dell’accordo del 7 luglio 2016, che ne differenzia le modalità di attuazione. L’orientamento seguito dalla Commissione appare, quindi, chiaro: l’evento deve essere preventivamente qualificato univocamente come corso o convegno o seminario e ciò, evidentemente, anche in relazione ai vincoli che pone l’efficacia della formazione.

Il meccanismo “bidirezionale”
La posizione assunta dalla Commissione del ministero del Lavoro pur se appare condivisibile non sembra, tuttavia, del tutto chiara è merita qualche ulteriore breve osservazione.

Bisogna evidenziare a scanso di possibili nuovi equivoci, infatti, che il già citato punto 9 dell’allegato A in relazione ai compiti di Rspp e Aspp prevede che l’aggiornamento non deve essere di carattere generale o una mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base, ossia di prima formazione, ma deve trattare evoluzioni, innovazioni, applicazioni pratiche e approfondimenti collegate al contesto produttivo e ai rischi specifici del settore, con riferimento a diverse tematiche: aspetti ti giuridico-normativi e tecnico-organizzativi; sistemi di gestione e processi organizzativi; fonti di rischio specifiche dell’attività lavorativa o del settore produttivo; tecniche di comunicazione. Ora, è pur vero che la stessa norma stabilisce il principio generale in base al quale «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’ottenimento e/o all’aggiornamento di qualifiche specifiche (…) non è da ritenersi valida» ma, come richiamato dalla stessa Commissione, sussistono due deroghe.L’accordo, infatti, recita testualmente che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, è da ritenersi valida e viceversa». Viene stabilito, pertanto, un meccanismo “bidirezionale” tra i corsi di aggiornamento per Rspp e Aspp e quello dei formatori, riprodotto, invero, anche per quanto riguarda il rapporto tra aggiornamento di Rspp e Aspp con quello di Csp e Cse. Infatti, è espressamente previsto che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008, è da ritenersi valida e viceversa». Quindi, è alla luce di quest’ultima disposizione che la Commissione ha ritenuto che nel caso dell’aggiornamento dei coordinatori per la sicurezza nei cantieri non è da ritenersi valida la partecipazione ai corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse (ad esempio, Rls, formatore, addetto antincendio, dirigente ecc.), a eccezione appunto di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

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Assente alla formazione sulla sicurezza? Licenziato

L’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare un po’ rigido ma, sostanzialmente, si pone in sintonia con il decreto legislativo 81/2008, con il quale, per altro, è stato consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore. La mancata partecipazione, inoltre, avrebbe anche messo in crisi il rapporto fiduciario fra il dipendente e il datore, con conseguente risoluzione del contratto

Nel corso dell’ultimo quinquennio, il filone giurisprudenziale sulla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro sta ingrossandosi sempre più e proietta su un quadro a tinte chiaro-scure un datore di lavoro sempre più “nudo” nel momento in cui la sua condotta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dei giudici. Bisogna riconoscere, infatti, che sempre più frequentemente proprio la violazione del dovere formativo è considerata la causa di molti infortuni sul lavoro e comporta l’applicazione di pesanti sanzioni penali in capo al datore di lavoro e allo stesso ente secondo quanto stabilisce il D.Lgs. n. 231/2001. Tuttavia, il dovere formativo grava anche sullo stesso lavoratore il quale, com’è noto, secondo quanto stabilisce l’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli e etti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Un dovere, questo, che si estrinseca nella partecipazione, da parte del prestatore di lavoro, ai corsi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; la sua violazione, però, non ha un rilievo solo sul piano penale ma, come vedremo, anche su quello civilistico in quanto l’assenza ingiustificata ai corsi può legittimare, a determinate condizioni, il licenziamento per motivi disciplinari.
Molto significativa appare in merito la sentenza 7 gennaio 2019, n. 138, con la quale la Corte di Cassazione, sezione “Lavoro” (presidente: Bronzini; relatore: Cinque), ha messo a fuoco diversi profili che inducono anche a compiere alcune riflessioni sul potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro e sugli obblighi di obbedienza e diligenza del lavoratore sul piano della formazione obbligatoria.
Come vedremo, l’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare, invero, un po’ rigido ma tutto sommato si pone in perfetta sintonia con il D.Lgs. n. 81/2008, con il quale per altro è stato definitivamente consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore diventano quest’ultimo, a pieno titolo, un debitore di sicurezza.

Il fatto
La vicenda processuale a rontata dalla suprema Corte risale al 2013: un datore di lavoro aveva contestato al proprio dipendente di non aver partecipato, senza alcuna giustificazione, al corso in materia di salute e di sicurezza sul lavoro organizzato dall’azienda. E aveva deciso, quindi, di recedere dal contratto di lavoro subordinato (art. 2094 del codice civile) intimando il licenziamento per giusta causa motivato, appunto, dal fatto che il lavoratore non aveva «….preso parte alla formazione obbligatoria sull’accordo Stato-Regioni, con contestuale contestazione della recidiva in riferimento a due analoghe condotte sanzionate con provvedimenti di natura conservativa».
Successivamente, il lavoratore era ricorso al giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del licenziamento ritenuto illegittimo.
Tuttavia, la sua tesi difensiva non era stata accolta e il recesso unilaterale del datore di lavoro era stato ritenuto fondato.
Anche la Corte d’Appello aveva confermato in pieno la legittimità del licenziamento disciplinare; il lavoratore aveva così proposto ricorso per Cassazione, censurando l’operato dei giudici di merito sotto molteplici profili. Il dipendente licenziato, infatti, in primo luogo ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 7, comma 8, della legge n. 300/1970 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile per avere la Corte di merito dato valore, ai fini della recidiva, a fattispecie non contestate che avrebbero determinato la fondatezza del licenziamento e la gravità degli addebiti in violazione del “principio di immodificabilità” e di “tipicità della contestazione” in quanto ha ampliato il campo d’indagine dei fatti posti a
base del recesso che erano solo quelli di cui alla lettera del 10 maggio 2013.
Il lavoratore ha, inoltre, anche lamentato la violazione ed errata applicazione degli artt. 71 e 72 del contratto collettivo di lavoro
«Chimici, lavorazione vetro, industria», in relazione all’art. 360, n. 3 codice di procedura civile per avere la corte territoriale, sulla base di una errata interpretazione delle suddette disposizioni, ritenuta sussistente l’ipotesi di recidiva pur non essendo state irrogate, nei dodici mesi precedenti dalla contestazione disciplinare, tre sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Al tempo stesso ha fatto anche rilevare la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 codice di procedura civile, per avere nuovamente affermato la Corte d’Appello la legittimità del licenziamento pur non essendovi, a suo avviso, alcun documento, atto oppure elemento che potesse giustificare questa conclusione. Inoltre, nell’articolato ricorso, è stata anche lamentata la violazione ed errata applicazione dell’art. 2119 del codice civile, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile perché non è dato comprendere da quale elemento di prova la corte di merito ha potuto trarre il suo convincimento circa l’idoneità del comportamento del lavoratore a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro. Infine, il ricorrente ha contestato anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 2 e 13753 del codice civile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato che, per un’unica condotta (assenza dal lavoro dal 12 luglio all’11 settembre 2013) erano stati adottati nei confronti dello stesso due provvedimenti disciplinari e, quindi, a suo avviso uno dei due provvedimenti sanzionatori irrogati era illegittimo e, conseguentemente, le condotte sanzionabili erano due e non tre come sostenuto dall’azienda che, per altro, a suo dire ha seguito un modus operandi in contrasto con l’art. 1375 del codice di procedura civile che impone la buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Cassazione ha, tuttavia, respinto il ricorso ritenendolo infondato, sulla base di un articolato ragionamento che è possibile così sintetizzare. Secondo i giudici di legittimità, un primo elemento di rilievo è che l’assenza ingiustificata al corso di formazione
in materia di sicurezza sul lavoro, che – occorre sottolineare – rientra nell’attività cui si obbliga il lavoratore con il contratto, si affianca ad altre assenze sul lavoro.
La Corte d’Appello, infatti, ha tenuto conto, al fine di valutare la legittimità del recesso datoriale e la sussistenza della recidiva, i due episodi effettivamente ritenendoli con un accertamento in fatto congruamente motivato, autonomi e distinti.
In relazione, invece, agli altri addebiti, non oggetto della lettera di licenziamento, sono stati considerati quali “circostanze confermative” della significatività degli altri (oggetto della contestazione) ai fini di una valutazione complessiva della gravità della condotta, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità del provvedimento sanzionatorio. Secondo la Cassazione ciò non viola, quindi, “il principio d’immutabilità della contestazione” come più volte affermato in sede di legittimità.
Per altro, fanno osservare ancora i giudici, che l’art. 72 del contratto di lavoro di riferimento prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso di recidiva nella “medesima mancanza” di cui all’art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo) nonché nelle fattispecie di cui ai punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti.
La contrattazione collettiva ha distinto l’ipotesi della “recidiva specifica”, che consente al datore di lavoro di procedere al licenziamento senza preavviso in caso di sua eventualità, da quella cosiddetta “plurima/ impropria” che richiede, invece, una pregressa triplice sospensione per particolari e tipizzati illeciti disciplinari. Sotto questo profilo, la ricostruzione esegetica, oltre a essere conforme al dato letterale, è secondo i giudici logica e ragionevole avendo le parti contrattuali voluto prevedere un diverso regime (appunto la necessità delle tre pregresse sospensioni) per alcune tipologie disciplinari ben individuate. Nel caso de quo ricorre, pertanto, l’ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento
a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Per questi motivi, quindi, nel caso di specie è da considerarsi legittimo il licenziamento in quanto, per e etto di quanto stabilito dal citato art. 72, lett. I, del contratto collettivo nazionale di lavoro in questione, non è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa, ma quella espulsiva. I giudici di merito, quindi, si sono adeguati al principio in base al quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario delle sanzioni disciplinari con e etto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore rispetto alle norme di etica o del comune vivere civile.

Lesione del vincolo fiduciario
La Cassazione ha, inoltre, anche posto in risalto che nel caso di specie il fatto che il lavoratore sia stato ingiustificatamente assente al corso di formazione in materia di sicurezza indetto dall’azienda in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 determina anche una grave violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui ai già richiamati artt. 1175 e 1375 del codice civile, tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e da rendere, quindi, proporzionata la sanzione irrogata.

Sotto questo profilo giova anche ricordare che l’art. 20, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce l’obbligo da parte del lavoratore di «osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale»; queste disposizioni sono espressione tipica del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, funzionali all’assolvimento dell’obbligazione di sicurezza (art. 2087 del codice civile).L’inosservanza, quindi, della disposizione aziendale di partecipare a un corso di formazione in materia di sicurezza costituisce, secondo quanto stabilisce l’art. 2119 del codice civile, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Bisogna considerare, infatti, che l’art. 18, comma 1, lett. l) e l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, pongono in capo al datore di lavoro e al dirigente – secondo le attribuzioni e le competenze a esso conferite – l’obbligo di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza. Di conseguenza, questo obbligo non poteva essere rimesso alla discrezionalità del lavoratore e, infatti, il già citato art. 20, comma 2, lett. h), del D.Lgs. n.81/2008, pone in capo allo stesso il dovere di «partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro», con la previsione in caso di violazione della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 245,70 a 737,10 euro (art. 59, comma 1, lett. a)). Questa disposizione, quindi, risulta strettamente funzionale anche alla concreta attuazione, in ambito aziendale, del “modello prevenzione collaborativo”, su cui si fonda il D.Lgs. n. 81/2008. Appare chiaro, quindi, che la condotta tenuta dal lavoratore abbia assunto una gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e lo stesso, in quanto è stato messo seriamente in pericolo il “bene sicurezza” sul lavoro che, per altro, si autonomizza rispetto al titolare (cfr. art. 32 e 41 Cost.). Occorre ricordare in merito che, secondo un’autorevole dottrina, questa disciplina protettiva ha un’alta funzione di garanzia del diritto alla salute del cittadino lavoratore «garanzia che deriva da necessità sociali e trova oggi il suo fondamento principale nella rilevanza costituzionale del lavoro. Essa opera sia di fronte allo Stato, sia nei rapporti intersoggettivi, funzionando – in relazione a questi ultimi – come limite di ordine pubblico all’autonomia privata. In sostanza, poiché lo Stato da un lato ritiene di interesse generale la salute pubblica e dall’altro garantisce l’integrale tutela del lavoro in ogni sua forma, l’integrità fisica del lavoratore assume rilevanza generale; per cui, tutelandola, lo Stato tutela un bene generale, al quale è interessata – nel suo complesso – l’intera collettività».

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Rifiuti speciali pericolosi cosa c’è da sapere

Molti i controlli da effettuare, dall’esatta classificazione, alle condizioni dell’eventuale deposito temporaneo fino alla verifica delle autorizzazioni del trasportatore e del destinatario. Vediamoli tutti in un breve ed essenziale riepilogo

 

l D.Lgs. n. 152/2006, cosiddetto “testo unico ambientale”, all’art. 184 distingue tra rifiuti urbani e rifiuti speciali. Questi ultimi, cioè i rifiuti prodotti da enti e imprese, si dividono a loro volta tra non pericolosi e pericolosi.
Individuare e gestire correttamente rifiuti pericolosi non è un esercizio banale ed è un’attività che riguarda un ampio spettro di realtà non solo strettamente legate ai settori produttivi; giusto per fare un esempio, la sostituzione di un neon o di un monitor in un ufficio si configura come gestione di un rifiuto pericoloso. Vediamo allora gli adempimenti necessari per il produttore.

Codifica e classificazione
I rifiuti pericolosi vanno, innanzitutto, individuati, quindi identificati e classificati, assegnando a essi un codice e una o più caratteristiche di pericolo. Il codice prende il nome di Cer, acronimo di catalogo europeo dei rifiuti, un elenco di codici condiviso a livello europeo, composti da sei numeri ciascuno e divisi in venti capitoli.
Per attribuire il codice corretto, si identifica innanzitutto la fonte che ha generato il rifiuto, cioè l’attività, consultando i capitoli da 1 a 12 e da 17 a 20 all’interno dei quali si va a individuare il codice che meglio descrive il rifiuto. Laddove nessuno dei codici di questi capitoli si addica, si cerca nei capitoli 13, 14, 15. Se anche in questi non si trova un codice adeguato, bisogna definire il rifiuto utilizzando i codici del capitolo Nell’ipotesi in cui non si riesca a codificare un rifiuto neanche con i codici del capitolo 16, si utilizzerà un codice 99 (non specificato altrimenti) del capitolo che si ritiene più idoneo (anche se nella pratica quasi mai viene utilizzato perché raramente presente nelle autorizzazioni). Il codice da attribuire può essere di due tipologie:

• assoluto, cioè con asterisco (*) e senza riferimento a sostanze pericolose contenute;

• speculare o a specchio, con asterisco (*) e riferimento a specifiche o generiche sostanze pericolose ivi contenute. Qualora il processo di attribuzione porti alla scelta di un Cer assoluto, questo può essere attribuito senza alcuna ulteriore indagine. In questa ipotesi, l’attribuzione del codice ha carattere puramente convenzionale e il rifiuto è considerato pericoloso a prescindere dalla reale composizione (se è stata correttamente attribuito). Nel caso in cui, invece, la scelta ricada su un codice “a specchio”, dal 1° giugno 2015, con l’entrata in vigore del regolamento Ue 1357/2014, è necessaria una verifica analitica (ad esempio un’analisi chimica) caso per caso, per stabilire se il rifiuto sia da classificare come pericoloso o meno.

Nell’ipotesi di attribuzione di codice pericoloso assoluto, una volta che questo è stato individuato, devono essere esaminate le concentrazioni di sostanze pericolose contenute per attribuire le corrette classi o caratteristiche di pericolo (HP). Dal 1° giugno 2015, per valutare le caratteristiche di pericolo si applicano i criteri del nuovo allegato III alla direttiva 2008/98/Ce introdotto con il regolamento Ue 1357/2014, che allinea i criteri di classificazione dei rifiuti a quelli di classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele del regolamento Ue 1272/2008 (cosiddetto Clp). In pratica, devono essere prese in considerazione quelle sostanze che, singolarmente o in sommatoria, sono contenute in concentrazioni raggiunte o superate le quali rendono il rifiuto pericoloso. Oltre alle concentrazioni, per alcune sostanze devono essere considerati anche dei valori soglia (cut off values). Quando una sostanza è inferiore al suo valore soglia, non deve essere contemplata nella valutazione (i valori soglia sono previsti solo per le caratteristiche di pericolo HP4, HP6, HP8). Per capire se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni o valori soglia, così da qualificare il rifiuto come pericoloso, ci sono tre possibili percorsi:

• effettuare un’analisi di laboratorio;

• operare un test di prova;

• fare una valutazione attraverso una Sds (scheda sicurezza).

Questi metodi risultano in alcuni casi di difficile o impossibile applicazione, come nell’ipotesi (frequente) in cui non sia nota la composizione del rifiuto oppure la composizione sia così eterogenea da rendere un campionamento non rappresentativo (si pensi ad un rifiuto misto) oppure quando ci si trova dinanzi a un rifiuto solido.

Il deposito temporaneo
Una volta classificati, i rifiuti pericolosi devono essere raggruppati nel luogo di origine o produzione, da intendersi quale l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti. Questo raggruppamento non necessita di autorizzazione, a patto che vengano rispettate alcune regole:
• raccolta per categorie omogenee (da leggere “per codice Cer”, secondo la giurisprudenza) e nel rispetto delle norme che regolamentano il deposito delle sostanze pericolose;
• corretti imballaggio ed etichettatura in relazione alle sostanze pericolose contenute;
• limiti temporali o quantitativi, a scelta del produttore: movimentazione con cadenza trimestrale indipendentemente dalle quantità o, in alternativa, al raggiungimento di 10 m3. In questa seconda ipotesi,
il deposito non può, in ogni caso superare, la durata temporale di un anno;
• in caso di inquinanti organici persistenti (Pop) di cui al regolamento Ce n. 850/2004, rispettare le norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l’imballaggio previste dallo stesso regolamento.

La tracciabilità
La registrazione: registri, formulari e Mud I rifiuti pericolosi sono soggetti a registrazione su apposito registro cartaceo, denominato “registro di carico e scarico rifiuti modello A”, numerato, vidimato e gestito con le stesse modalità di un registro Iva.Il registro può essere tenuto anche mediante strumenti informatici e stampato su carta formato A4 numerata e vidimata dalla Camera di commercio. Dal 2008, il registro può essere vidimato solo dalla Camera di commercio territorialmente competente.
Esso deve essere tenuto presso ogni sito di produzione di rifiuti pericolosi e conservato per cinque anni dall’ultima registrazione. Per i piccoli produttori, la cui produzione annua non eccede le 10 tonnellate di rifiuti non pericolosi e le 2 tonnellate di rifiuti pericolosi, è prevista la possibilità di tenere il registro presso le organizzazioni di categoria o loro società di servizi. Un’ulteriore eccezione è prevista per un’altra categoria di piccoli produttori, cioè coloro che non sono inquadrati in un’organizzazione di ente o impresa (ad esempio professionisti in ambito medico quali medici generici o di famiglia) che adempiono alla tenuta del registro semplicemente mediante conservazione cronologica di formulari. Le annotazioni devono rispettare il criterio temporale dei 10 giorni. L’annotazione di carico deve essere effettuata entro 10 giorni dalla produzione del rifiuto mentre quella di scarico entro 10 giorni dal trasporto finalizzato a recupero o smaltimento.

Il trasporto
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere accompagnato, in tutti i casi, dai formulari di identificazione rifiuti (Fir), tranne che per alcune ipotesi particolari, come il trasporto a opera del gestore pubblico o il trasporto di sottoprodotti di origine animale (ad esempio scarti di macelleria), regolamentati da altra normativa. I formulari devono contenere almeno le seguenti informazioni:
a) nome e indirizzo del produttore/detentore
b) origine, tipologia e quantità del rifiuto
c) impianto di destinazione
d) data e perscorso del tragitto
e) nome e indirizzo del destinatario.

I formulari sono prodotti in quattro esemplari:
• uno resta al produttore;
• due vengono trattenuti, rispettivamente, dal trasportatore e destinatario dopo essere stati firmati e datati da quest’ultimo all’arrivo dei rifiuti in impianto;
• una quarta copia, sempre firmata e datata dal destinatario, deve essere restituita al produttore entro 90 giorni; in mancanza, deve essere informata la Provincia.

Questa quarta copia è elemento indispensabile per dimostrare la corretta gestione. I formulari e il registro devono essere, inoltre, interconnessi, riportando nel registro gli estremi identificativi dei formulari in corrispondenza degli scarichi e, viceversa, riportando sulla propria copia del formulario il numero progressivo della relativa annotazione avvenuta sul registro. I Fir devono essere, infine, conservati per cinque anni.
Ultimo tassello della tracciabilità è la comunicazione al catasto dei rifiuti prodotti e smaltiti nell’anno precedente da effettuare, entro il 30 aprile di ogni anno, attraverso il modello unico di dichiarazione ambientale, noto anche come Mud.

Controllo autorizzazioni
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere affidato a terzi autorizzati (trasportatore e destinatario);
tuttavia, la procedura di affidamento non solleva il produttore da responsabilità nella corretta gestione, come recita l’art. 188, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006: «il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste». Il concetto è ribadito anche dalla giurisprudenza, in particolare dalla sentenza della Cassazione n. 29727/2013 con la quale è stato ribadito che il produttore che affida i rifiuti a terzi «ha il dovere di accertare » il possesso dei requisiti e la responsabilità non è esclusa se il terzo è in possesso di autorizzazione, ma per rifiuti diversi da quelli affidati. In caso di omessa verifica, il produttore risponde di concorso con l’affidatario nel reato di illecita gestione. Il produttore deve, dunque, accertarsi del possesso delle relative abilitazioni, che:
• nel caso del trasportatore corrispondono all’iscrizione all’Albo gestori ambientali, nella categoria dei rifiuti che il produttore intende affidargli (categoria 5 e specifico Cer utilizzato) e che questa sia in vigore (durata 5 anni). La verifica può essere effettuata da chiunque, collegandosi al relativo portale on-line dell’Albo, cercando nella sezione “elenchi iscritti”.
• per il destinatario è rappresentata dell’autorizzazione allo stoccaggio e/o trattamento rilasciata da una Provincia o Regione ai sensi dell’art. 208, D.Lgs. n. 152/2006.
In questo caso non c’è ancora una banca dati unica nazionale e occorre, dunque, farsi dare il provvedimento autorizzativo direttamente dall’azienda che ha preso
in consegna i rifiuti. Questa autorizzazione può essere di diversa natura (semplificata, ordinaria, Aia o Aua), deve contenere l’indicazione dei Cer dei rifiuti trattati, tra i quali il produttore deve verificare la presenza dei rifiuti che intende consegnare e deve essere in corso di validità (la durata in genere varia tra 5, 6 o 10 anni, a seconda della tipologia).

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Denominazioni chiare per ciascuna funzione

Dove? Negli incarichi e nei documenti di “sistema”. È quanto suggerisce – fra le righe – la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. IV penale, 7  febbraio 2018, n. 10740 offrendo alcuni utili e significativi spunti di riflessione, nell’interesse di tutta la filiera della sicurezza, dal datore di lavoro fino ai preposti senza dimenticare i dirigenti

 

Con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 10740, la Corte di Cassazione (sez. IV penale) torna a occuparsi di requisiti, caratteristiche e finalità della delega di funzioni.
Pur ribadendo concetti ormai noti in tema di necessaria forma scritta, la sentenza offre – tra le righe – alcuni spunti di riflessione in ordine al necessario utilizzo, negli incarichi e nei documenti di “sistema”, di denominazioni chiare, nonché in ordine all’interazione tra le diverse e compresenti posizioni di datore di lavoro, dirigenti e preposti.

Il fatto
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il datore di lavoro era stato condannato per le lesioni subite da un operaio che, mentre stava sostituendo alcuni isolatori dell’alta tensione su un impianto in quota, aveva perso l’equilibrio scivolando lungo un pendio e rovinando contro una roccia.
Sia in primo che in secondo grado, il datore di lavoro era stato ritenuto colpevole per non aver correttamente valutato e gestito nel Pos le specifiche condizioni ambientali in cui il lavoratore si trovava a operare (art. 71 comma 2 lettere a) e b) e punto n. 3.2.5. allegato 6, D.Lgs. 81/2008).
I giudici di merito, infatti, avevano ritenuto che la previsione di una linea vita di aggancio durante lo svolgimento della mansione, avrebbe evitato l’infortunio. Il datore di lavoro aveva ricorso, quindi, per la Cassazione della sentenza, assumendo (oltre a una non corretta valutazione in fatto delle condizioni ambientali e delle cause dell’incidente) di aver validamente delegato compiti e responsabilità ad altro soggetto, evidenziando che l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello sarebbe consistito:
• nell’aver ritenuto invalida la delega conferita perché carente della forma scritta, mentre la qualifica di “dirigente delegato” sarebbe emersa dai documenti allegati (in particolare, sembra, dal Pos prodotto dal Pm);
• nel non aver considerato e adeguatamente valutato che, in ragione delle dimensioni incaricati sia il dirigente sia il preposto (responsabile della sicurezza nel cantiere) di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere opportunamente aggiornato il Pos.

La legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10740 del 7 febbraio 2018, ha rigettato il ricorso, sulla base dei seguenti rilievi:
• la necessità della forma scritta per la validità della delega di funzioni non è più contestabile (art. 16, D.Lgs. 81/2008) a nulla rilevando i precedenti giurisprudenziali – antecedenti alla normativa in vigore – citati a difesa; aggiunge, però anche, la Corte, che non possono equivalere a una “delega di funzioni” documenti che non abbiano un contenuto chiaramente a essa riconducibile;
• la presenza di ulteriori funzioni, quali quella del dirigente (nella specie qualificato come construction manager) e del preposto (nella specie qualificato come capo cantiere), pur affiancate al datore di lavoro nella gestione della sicurezza, non valgono a esonerarlo dalla propria responsabilità e dai doveri di intervento connessi ai propri poteri. La sentenza in commento offre, allora, l’occasione, non solo per richiamare le caratteristiche e le finalità della delega di funzioni rispetto a quelle connesse alla posizione di dirigente e preposto, ma anche – forse – per sottolineare come, spesso, l’utilizzo di una terminologia espressamente definita dalla norma possa garantire una più chiara ricostruzione della fattispecie e dei diversi ruoli dei soggetti chiamati a gestirla. Quanto al primo aspetto. Come sempre, occorrerebbe conoscere le dinamiche esatte del processo per poter comprendere appieno tutti i passaggi della sentenza e alcune affermazioni che, al lettore del solo provvedimento finale, potrebbero apparire a tratti anche “singolari”. Nelle premesse in fatto, pare infatti di capire che il ricorrente avesse sostenuto la sussistenza, ancora oggi, della possibilità di validamente conferire una delega di funzioni in assenza di forma scritta; ciò, a maggior ragione, in imprese di grandi dimensioni, articolate per settori e funzioni cui sono incaricati specifici soggetti. Pare anche, però, che lo stesso ricorrente facesse riferimento all’esistenza di documenti “equivalenti”, ovvero e nello specifico, a un Pos a firma del datore di lavoro e sottoscritto dal dirigente e dal preposto, nel quale gli stessi era stati formalmente incaricati della gestione della sicurezza.
In relazione alla forma scritta della delega di funzioni, si è già detto molto e non si ritiene necessario soffermarsi troppo anche in considerazione dell’ormai inequivoco contenuto della normativa vigente (art. 16, D.Lgs. 81/2008) che – oltre alla forma scritta – richiede anche la data certa. Il profilo “formale” oggetto di valutazione da parte della sentenza appare invece più interessante se affrontato, non tanto con riferimento alla mera presenza o meno di forma scritta, quanto alla possibilità che a documenti – comunque esistenti nel sistema di gestione della sicurezza sebbene per altre finalità – possano ricondursi, attraverso un esercizio interpretativo dei loro contenuti sostanziali, gli effetti della delega funzioni.
Ipotizzando (per quanto emerge dal testo) che si trattasse di fattispecie sottoposta alla disciplina di cui al titolo IV del D.Lgs. 81/2008 e che, quindi, l’imputato fosse il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, lo stesso avrebbe sostenuto che dal Pos sarebbe emerso (oltre ad altri aspetti sui quali si tornerà in seguito) che «(omissis) era il dirigente delegato alla sicurezza». Secondo la Cassazione invece «i documenti prodotti in atti a firma (omissis) (il datore di lavoro, n.d.a.) con oggetto conferimento dei ruoli di construction manager” a (omissis) del (omissis) e di “capo cantiere” a (omissis) del (omissis), entrambi firmati dai dipendenti (omissis), non hanno in realtà il concreto contenuto della delega di funzioni». Questa conclusione (per quanto molto sintetica) ci può indurre a due riflessioni: non pare, da un lato, che i giudici abbiano escluso a priori la possibilità di qualificare un documento (comunque denominato) come “delega di funzioni” facendone conseguire gli effetti di legge purché lo stesso contenga tutti i requisiti di cui all’art. 16 D. Lgs. 81/2008;
• è altrettanto evidente, dall’altro, che quegli elementi distintivi devono apparire chiaramente nel documento richiamato e che, per evitare che il significato e l’efficacia che vogliamo conferire ai documenti di sistema sia messo in dubbio o sia comunque sottoposto a una valutazione interpretativa a posteriori, dobbiamo dare a quei documenti forma e contenuti chiari.
Questa conclusione risulta condivisibile in ragione degli effetti della delega di funzioni attraverso la quale «(…) il datore di lavoro ha la possibilità (…) di trasferire in capo ad altro soggetto poteri ed obblighi originariamente appartenenti al delegante in materia di sicurezza sul lavoro. In sostanza il datore può trasferire in capo ad altro soggetto la sua posizione di garanzia (…)» (Cassazione penale, sez. IV, 19.07.2012, n. 41063).
Tornando ora alla fattispecie esaminata, il Pos è un documento redatto ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. 81/2008 e, in estrema sintesi, contiene, con riferimento al singolo cantiere, la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione e protezione; è quindi evidente che non è finalizzato, di per sé, all’individuazione di posizioni di garanzia, né tanto meno al conferimento di deleghe. Lo stesso non poteva e non può, pertanto, essere considerato “equivalente” alla delega a meno che non ne contenga ogni elemento sostanziale e formale. Ancora e analogamente, al termine di manager construction non è chiaramente e inequivocabilmente riconducibile – se non attraverso una attività interpretativa e probatoria – una specifica definizione, né alcun specifico obbligo o responsabilità, dalla normativa antinfortunistica previsti.
Quanto al secondo aspetto. La Corte di Cassazione affronta, poi e come anticipato, il tema della compresenza di diverse posizioni di garanzia e della sostanziale
differenza tra la presenza delle figure del dirigente (o del preposto) e di una delega di funzioni. Il datore di lavoro aveva assunto, tra l’altro e infatti, la propria assenza di responsabilità in ragione dell’incarico conferito a due soggetti, rispettivamente come construction manager e capo cantiere, di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere aggiornato il Pos. La Cassazione ricorda che, in assenza di una valida delega di funzioni (i cui requisiti non erano rispettati dalle nomine a construction manager e capo cantiere) questi soggetti sono «figure ipoteticamente concorrenti nel vasto settore della responsabilità ma, in ogni caso, la presenza dei due non esonera (…) il datore di lavoro, siccome incaricato dal consiglio di amministrazione (…) di tutti i poteri e di tutte le responsabilità in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro».
Ciò nel solco del già affermato principio per cui «Il vigente sistema di tutela della sicurezza del lavoro prevede una pluralità di figure di garanti tutti autonomamente responsabili in relazione agli obblighi a ciascuno di loro imposti» (Cassazione n. 51190/2015) non venendo meno «(…) il nesso di causalità tra la condotta omissiva (o commissiva) del titolare di una posizione di garanzia (…) per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’art. 41, comma 1, codice di procedure penale» (Cassazione n. 49349/2015).
Con particolare riferimento, quindi, alla posizione di garanzia del datore e del dirigente (sui quali, in rapporto alle rispettive attribuzioni e competenze, incombono gli obblighi coincidenti di cui all’art. 18 D. Lgs. 81/2008) gli obblighi e le responsabilità del primo possono essere trasferite solo sul secondo unicamente attraverso una valida delega di funzioni, diversamente potendo invece concorrere; analogamente e ancora distinto è il ruolo del preposto, destinatario a sua volta di specifici e autonomi obblighi e responsabilità. In assenza di delega di funzioni, quindi, l’uno può essere esonerato da responsabilità a svantaggio dell’altro nella misura in cui l’evento sia causalmente connesso in via esclusiva al mancato adempimento dell’obbligo riferito alla posizione di garanzia ricoperta. Anche in questa prospettiva, quindi, una corretta rappresentazione delle funzioni di ognuno può facilitare l’accertamento dei reali apporti in sede di giudizio.

Conclusioni
Ciò che forse dalle motivazioni di questa sentenza si può trarre è certamente il consiglio di utilizzare, nella redazione dei documenti, non solo (e ovviamente) le forme richieste dalla legge, ma – quanto più possibile – le categorie e le definizioni in essa presenti e disciplinate espressamente. Molto spesso, infatti, soprattutto nell’ambito di società multinazionali, ma anche per le più svariate ragioni in ambito nazionale, le imprese tendono a utilizzare costruzioni documentali e termini diversi da quelli della norma (construction manager lo abbiamo visto nella sentenza, ma si potrebbero citare molti altri esempi) anche per individuare funzioni specificamente dalla stessa disciplinate. Questo può poi comportare, in caso di evento “patologico”, una diversa interpretazione delle funzioni da parte degli inquirenti e dei giudici e, conseguentemente, la necessità di dover dimostrare (cosa non sempre agevole a posteriori) la riconducibilità delle singole funzioni alle categorie di legge.
Ogni realtà aziendale, poi e soprattutto se di medio-grandi dimensioni, dovrebbe svolgere periodicamente una esame del proprio organigramma della sicurezza e del complessivo sistema di procure, deleghe e nomine, al fine di verificare, da un lato, che le posizioni corrispondano effettivamente ai soggetti individuati (secondo il principio di effettività) e, dall’altro, che ogni soggetto del sistema sia a conoscenza non solo dei compiti lui affidati, ma anche di quelli che competono ad altre figure, così da evitare pericolose sovrapposizioni e ingerenze, garantendo al sistema la maggiore efficienza possibile.

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OBIETTIVO CLICK-DAY

Con il nuovo bando Isi per il 2019, l’Inail ha messo sul piatto 370 milioni di euro di finanziamenti a fondo perduto. Un incremento del 48% rispetto all’edizione precedente.

Fra le altre novità: l’ampliamento della platea di beneficiari e i progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute, alla sicurezza sul lavoro e alla responsabilità sociale. Occhio però alle scadenze.

 

Con il comunicato del 20 dicembre 2018 (in Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 2018, n. 295) l’Inail ha reso noto la pubblicazione del nuovo bando Isi giunto, ormai, alla nona edizione. Le linee strategiche di questo importante incentivo alla prevenzione sono state rese note dallo stesso istituto assicuratore con la delibera Civ 27 novembre 2018, n. 20, e mirano a un più efficace contrasto del preoccupante trend che ha visto chiudere il 2018 con una lunga scia d’infortuni sul lavoro, anche plurimi, nei settori più disparati.
Per il 2019 si apre, quindi, una nuova stagione dove l’Inail ha messo sul piatto qualcosa come 370 milioni di euro circa di nuovi incentivi a fondo perduto, ossia la cifra più alta da quando nel 2010 questo strumento – diventato ormai strutturale – è stato attuato in Italia, con una crescita delle risorse messe in campo di circa +48% rispetto all’edizione precedente.
Proprio questo particolare meccanismo incentivante conferisce all’Italia la palma d’oro di Paese leader a livello europeo in questo campo, grazie soprattutto al grande impegno diffuso in questi anni dall’Inail per cercare di agevolare i datori di lavoro nell’effettuazione degli investimenti in salute e sicurezza sul lavoro. Il dato negativo, purtroppo, è che nella legge 30 dicembre 2018, n. 145 (la legge di bilancio per il 2019) il legislatore ha scelto la strada del depotenziamento di questo strumento, cosa questa che lascia invero alquanto perplessi. Come vedremo, comunque, con questo nuovo bando sono state messe in campo
diverse azioni che vanno accolte molto positivamente, tra cui spiccano l’ampliamento della platea dei beneficiari, attraverso un meccanismo redistributivo più flessibile e ad ampio respiro, e una maggiore attenzione alla diffusione dei modelli organizzativi e di gestione con la scomposizione dell’asse 1 in due sotto assi.

Inclusi ed esclusi
Sono numerosi i profili critici di questo nuovo e complesso bando e concentrando l’attenzione su quelli più significativi occorre precisare, in primo luogo, che per quanto riguarda la platea dei beneficiari possono presentare la domanda di contributo le imprese, anche individuali e di armamento, ubicate su tutto il territorio nazionale iscritte alla Cciaa, che soddisfino i requisiti previsti dagli avvisi regionali/provinciali. Pertanto, anche in questa occasione, restano escluse le attività professionali in considerazione presumibilmente anche del ridotto rilievo In termini di trend infortunistico. Sono altresì escluse le imprese che si trovano in liquidazione volontaria o sono state assoggettate a una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo ecc.).
Da notare, poi, che l’asse 2 di finanziamento è aperto anche gli enti del cosiddetto terzo settore. Nel bando, comunque, sono specificati in dettaglio i soggetti destinatari e quelli esclusi e molteplici condizioni di partecipazione, differenziati per asse di finanziamento.

I requisiti generali
Questi soggetti, inoltre, devono soddisfare anche i numerosi requisiti previsti dai bandi regionali/provinciali che, si badi bene, devono essere mantenuti anche successivamente alla presentazione della domanda, fino alla realizzazione del progetto e alla sua rendicontazione.
In particolare, è richiesto che il soggetto partecipante deve avere attiva nel territorio della Regione (o Provincia autonoma) l’unità produttiva per la quale s’intende realizzare il progetto. Nel bando è precisato che, in virtù di quanto dispone l’art. 2, comma 1, lett. t) del D.Lgs. n. 81/2008, per “unità produttiva” s’intende lo stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.
Le imprese assicurate presso l’Inail devono indicare nella domanda la posizione assicurativa di riferimento. Per le imprese di armamento, invece, relativamente a progetti riguardanti navi e imbarcazioni, è considerata unità produttiva la nave/ imbarcazione per la quale deve essere predisposto il piano di sicurezza (cfr. D.Lgs. n. 271/1999); la sede Inail competente è quella nel cui ambito territoriale insiste la sede legale dell’armatore. Inoltre, trattandosi di un beneficio normativo, anche in questo caso il soggetto partecipante dovrà essere in regola con i versamenti contributivi dovuti all’Inps e alla cassa edile, nonché con premio assicurativo contro gli infortuni e le malattie professionali dovuto all’Inail, attestati dal documento unico di regolarità contributiva (Durc).

Il nuovo modello di “Patto d’integrità”
In questo quadro così complesso di requisiti e condizioni per la partecipazione, una menzione particolare merita l’obbligo da parte del partecipante di sottoscrivere il modello di “Patto d’integrità” (modulo G),
che manda in soffitta quello del 2014; l’Istituto assicuratore, infatti, con la determina presidenziale 17 dicembre 2018, n. 524, ha approvato il nuovo schema che ha una precisa finalità: mettere nero su bianco l’impegno reciproco di lealtà, correttezza, trasparenza nei rapporti, nonché contrastare nelle procedure concorsuali l’illegalità e le infiltrazioni criminali. Nel modello è previsto, quindi, che il soggetto partecipante è tenuto ad attestare di non aver concluso contratti di lavoro dipendente o autonomo e comunque di non aver attribuito incarichi ed ex dipendenti dell’Inail, che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’Istituto nei propri confronti, per il triennio successivo alla cessazione del rapporto, così come espresso nell’orientamento Anac n. 24/2015 (il cosiddetto divieto di pantouflage o revolving doors).
Analogamente nel caso di ricorso ad aziende di consulenza per l’assistenza nella procedura lo stesso soggetto partecipante ha altresì l’espresso divieto di avvalersi di quelle nelle quali, per quanto a sua conoscenza, operano a qualsiasi titolo ex dipendenti Inail che abbiano interrotto il proprio rapporto da meno da tre anni e che durante la loro attività di servizio abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali nelle materie oggetto della selezione. Occorre, inoltre, sottolineare che con la presentazione del modello il soggetto partecipante si impegna anche a garantire la tracciabilità dei movimenti finanziari legati alla fruizione del beneficio e a non porre in essere alterazioni del regolare svolgimento delle gare in accordo con altre aziende.
Il modulo G deve essere sottoscritto dal titolare o dal legale rappresentante dell’impresa/ ente; questo patto sarà successivamente controfirmato dal responsabile della sede Inail competente ed «…è da considerarsi parte integrante del provvedimento di concessione del finanziamento, anche se non materialmente allo stesso allegato, in quanto conservato agli atti della pratica»; nella predisposizione della domanda occorrerà, quindi, porre molto attenzione a questo modello in quanto la mancata presentazione determina un effetto molto grave: l’esclusione dalla procedura di concessione del beneficio.

Così la ripartizione
Concentrando ora l’attenzione su alcuni dei profili procedurali fondamentali, occorre rilevare che il meccanismo di attribuzione di base delle risorse è rimasto sostanzialmente invariato, con la concessione
di un contributo in conto capitale che può coprire fino al 65% delle spese sostenute per ogni progetto ammesso, sulla base dei parametri e degli importi minimi e massimi specificati dal bando per ciascun asse di finanziamento, erogato dopo la verifica tecnico-amministrativa e la realizzazione del progetto. Rispetto al bando precedente, è rimasta ferma anche la classica struttura basata su cinque assi di finanziamento, ossia:
• asse 1 (Isi “Generalista”) – progetti di investimento (1.1) e progetti per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale (1.2);

• asse 2 (Isi “Tematica”) – progetti per la riduzione del rischio da movimentazione manuale di carichi (Mmc);

• asse 3 (Isi “Amianto”) – progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;

• asse 4 (Isi “Micro e piccole imprese”) progetti per micro e piccole imprese operanti in specifici settori di attività (Ateco 2007 A03.1, C13, C14, C15);

• asse 5 (Isi “Agricoltura”) – progetti per le micro e piccole imprese operanti nel settore della produzione agricola primaria dei prodotti agricoli. Si osservi che, come nei bandi precedenti, anche in questa occasione i soggetti destinatari possono presentare una sola domanda di finanziamento in una sola Regione o Provincia autonoma, per una sola tipologia di progetto tra quelle sopra indicate riguardante una sola unità produttiva; come in passato le risorse sono distribuite a livello regionale.

Investimenti per il miglioramento di salute e sicurezza
Alcune riflessioni merita in particolare l’asse 1 che, come accennato, quest’anno è stato scisso in due sotto assi; da rilevare che ancora una volta la parte più consistente delle risorse messe a disposizione, pari a 180.308.344 euro, è destinata ai progetti d’investimento del sotto asse 1.1, relativi a tutti i settori merceologici e profili di rischio, volti al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori e rigorosamente funzionali alla riduzione, eliminazione e/o prevenzione della medesima causa d’infortunio o del fattore di rischio indicata dall’impresa nella domanda; il bando prevede dieci tipologie d’intervento
ammissibili con punteggi differenziati che unitamente ad alcuni altri parametri concorrono alla determinazione del punteggio e occorre sottolineare che sono ammissibili a finanziamento progetti relativi a una sola tipologia di intervento prevista.
Molto articolato è il quadro delle spese ammissibili al finanziamento e quelle escluse; in particolare quelle considerate come ammissibili sono sia le spese di progetto che quelle tecniche e assimilabili. Le prime sono tutte le spese direttamente necessarie all’intervento, nonché quelle accessorie o strumentali funzionali alla sua realizzazione e indispensabili per la sua completezza; viceversa, le spese accessorie o strumentali sono quelle funzionali alla realizzazione del progetto e indispensabili per la sua completezza che non siano direttamente riconducibili alla riduzione del rischio di cui alla tipologia d’intervento indicata nella domanda e non devono essere prevalenti rispetto a quelle direttamente riconducibili alla riduzione del rischio.
Non sono, invece, finanziabili né le spese sostenute per l’aggiornamento della valutazione dei rischi (art. 17, 28 e 29 D.Lgs. n. 81/2008) né quelle relative alla compilazione della domanda di finanziamento, nonché quelle espressamente richieste dalle direttive di prodotto a carico del fabbricante.
Viceversa, per i progetti di cui alle tipologie di intervento c), d) e h), per i quali è prevista la vendita o la permuta dei trattori agricoli o forestali e/o delle macchine sostituiti nell’ambito del progetto, nella presentazione della domanda on line, l’importo del finanziamento ammissibile è calcolato operando, sulla quota a carico di Inail, la decurtazione della somma pari al 50% dell’importo preventivato per la vendita o permuta; in fase istruttoria, l’importo concedibile sarà valutato con riferimento all’importo effettivo di vendita o di permuta. In ogni caso, l’importo concesso con provvedimento emesso a seguito della verifica tecnico/amministrativa di cui all’art. 19 del bando non potrà superare il valore del finanziamento ammissibile; parimenti, l’ammontare del finanziamento erogabile a seguito della verifica della documentazione attestante la realizzazione del progetto (art. 22) non potrà superare l’importo precedentemente concesso con il predetto provvedimento. Nel caso, invece, di acquisto di trattori agricoli o forestali e/o di macchine, le spese ammissibili per l’acquisto devono essere calcolate, al netto dell’Iva, con riferimento ai preventivi presentati e, comunque, nei limiti dell’80% del prezzo di listino di ciascun trattore agricolo o forestale o macchina. Da rilevare, poi, che le spese tecniche e assimilabili sono finanziabili entro la percentuale massima del 10% rispetto ai costi di cui al punto A (spese di progetto), con un importo massimo complessivo di 10 mila euro, a eccezione del mero acquisto di macchine per il quale la percentuale massima ammissibile è pari al 5% rispetto ai costi di cui al punto A, con un importo massimo complessivo di 5 mila euro; l’importo massimo concedibile per la perizia asseverata è pari a 1.200 euro.

La condivisione con le parti sociali con le parti sociali
Ancora una volta sarà importante anche la condivisione del progetto con le parti sociali.
Infatti, la condivisione con gli organismi paritetici o gli enti bilaterali comporta l’attribuzione di ben 13 punti che scendono a 10 se la condivisione è con due o più parti sociali di cui almeno una di rappresentanza delle aziende e una di rappresentanza dei lavoratori.
Da notare, inoltre, che nel bando sono previsti anche gli enti bilaterali che, invero, non sono però contemplati dal D.Lgs. n. 81/2008; inoltre, occorre tener presente che secondo quanto stabilisce l’art. 2, comma 1, lett. ee) del predetto decreto gli organismi paritetici sono quelli costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lo “zoccolo duro” del Dvr
L’intervento per cui si richiede il finanziamento deve, però, essere necessariamente anche riscontrabile nel documento di valutazione dei rischi (artt. 17 e 28, D.Lgs. n. 81/2008) da presentare in fase di conferma e completamento della domanda (cfr. tipologie d’intervento a, b, c, d, e, h, i). Il bando, infatti, prevede espressamente che il fattore di rischio relativo alla tipologia di intervento del sotto asse 1.1 deve essere coerente con l’attività aziendale di cui alla voce di tariffa selezionata nella domanda e, quindi, coerente e rilevabile nel citato Dvr nei casi previsti dall’allegato 1.1.
Nel caso in cui sia stato redatto il Dvr standardizzato ai sensi dell’art. 29, comma 5 e 6 del D.Lgs. n. 81/2008, il soggetto partecipante dovrà inviare copia della modulistica relativa alle procedure standardizzate, di cui al D.M. 30 novembre 2012, avente data certa o attestata ai sensi dell’art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008 1; l’uso di questo strumento, tuttavia, non appare molto consigliato in quanto essendo basato più sul concetto di pericolo che su quello di rischio potrebbe generare difficoltà in fase di controllo e, per altro, alla fine dei conti non apporta molti benefici rispetto alla compilazione del Dvr “ordinario”.
Nel bando, inoltre, è precisato che i soggetti non tenuti alla redazione del Dvr neanche nella forma prevista dalle procedure standardizzate possono inviare una relazione sottoscritta dal titolare dell’impresa (rappresentante legale se ente del terzo settore) nella quale siano descritti: il ciclo produttivo, gli ambienti di lavoro e la disposizione dei macchinari (layout) e i rischi aziendali. Per le imprese del settore “pesca”, invece, il riferimento è il piano di sicurezza in cui deve essere riscontrabile il fattore di rischio corrispondente alla tipologia d’intervento selezionata (cfr. D.LBOX gs. 17 agosto 1999, n. 298). Il progetto d’intervento dovrà trovare, quindi, una specifica corrispondenza in termini di rischio e di misure nel Dvr: è questo il classico zoccolo duro che caratterizza da sempre il bando Isi e sul quale occorre sempre riflettere attentamente prima di presentare investimenti che potrebbero non trovare – come spesso accade – quell’indispensabile e coerente collegamento con gli esiti della valutazione dei rischi formalizzati appunto nel Dvr o in documenti equivalenti.

Mog e responsabilità sociale spunta la nuova Iso 45001
Sempre nell’asse 1, come accennato, fa il suo debutto anche il nuovo sotto asse 1.2, relativo ai progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute e la sicurezza sul lavoro (cfr. art. 30 D.Lgs. n. 81/2008) e di responsabilità sociale. Bisogna ricordare che nella già citata delibera Civ n. 20/2018, è stato posto un particolare accento sulla rilevanza del finanziamento di questi interventi; sul piatto ci sono ben due milioni di euro che dovrebbero servire da stimolo a molte imprese a dotarsi di sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (Sgssl); per altro non va nemmeno dimenticato che questa strada rappresenta, ormai, un passaggio obbligato anche in chiave di responsabilità amministrativa delle società e degli enti in genere del D.Lgs. n. 231/2001, in caso d’infortunio sul lavoro o malattia professionale in dipendenza dei reati di lesioni gravi o gravissime e di omicidio colposo (artt. 589, 590 del codice penale ).
La novità prevista dal bando è il debutto dei Sgssl realizzati seguendo la nuova Iso 45001:2018, che comporta l’attribuzione di ben 90 punti se il sistema è certificato, che è l’innovativo standard internazionale su cui conformare questi sistemi di nuova generazione, integrati con qualità (Iso 9001:2015) e ambiente (Iso 14001:2015). Inoltre, come precisato nell’allegato 1.2 sono finanziabili anche i progetti di adozione di un Sgssl previsto da accordi Inail-parti sociali, nonché i progetti di adozione di un Sgssl non certificato, ma conforme alle linee guida Uni-Inail del 2001 o alla Uni Iso 45001:2018; un punteggio più basso è, invece, previsto per i Mog non asseverati, realizzati in base alle procedure semplificate di cui al decreto del ministero del Lavoro 3 febbraio 2014, e per l’adozione di un sistema di responsabilità sociale certificato Sa 8000. Come per il sotto asse 1.1 è prevista anche la norma premiale che riconosce un punteggio aggiuntivo a quei progetti che sono condivisi con gli organismi paritetici e gli enti bilaterali o che prevedono l’asseverazione del Sgssl secondo quanto stabilisce l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008; al momento gli unici due settori dove è “praticabile” l’asseverazione sono l’edilizia (cfr. Uni/PdR 2:2013) e quello dei servizi ambientali territoriali (cfr. Uni/PdR 22:2016). Sul piano procedurale, i progetti possono riguardare tutti i lavoratori facenti capo a un unico datore di lavoro anche se operanti in più sedi o più regioni; in questo caso la domanda di contributo potrà essere presentata o presso una sola delle sedi Inail nel cui territorio opera almeno una parte dei lavoratori coinvolti nell’intervento o dove è situata la sede legale dell’impresa. Da rilevare, poi, che l’impresa dovrà mantenere il Mog per i tre anni successivi alla data di erogazione del saldo del finanziamento e in caso di certificazione la stessa va mantenuta per un triennio a decorrere dalla data della certificazione stessa.

I limiti
Alcune considerazioni devono essere compiute, inoltre, per quanto riguarda i limiti degli incentivi. Per gli assi 1, 2, 3 sull’importo delle spese ritenute ammissibili è concesso un finanziamento in conto capitale nella misura del 65% ed entro il tetto massimo pari a 130 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a cinque mila euro. Tuttavia, per le imprese fino a 50 dipendenti che presentano progetti per l’adozione di Mog e di responsabilità sociale non è fissato il limite minimo di finanziamento; la stessa misura dell’agevolazione è prevista per l’asse 4, ma in questo caso il finanziamento massimo erogabile è pari a 50 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a due mila euro. Per l’asse 5, invece, il finanziamento in conto capitale è nella misura del 40% per i soggetti destinatari dell’asse 5.1 (generalità delle imprese agricole) che sale al 50% per i soggetti destinatari dell’asse 5.2 (giovani agricoltori), con un tetto massimo di finanziamento erogabile pari a 60 mila euro e uno minimo è pari a mille euro.

Spese ammesse e no
Come in passato si tratta, quindi, di un incentivo molto appetibile e per quanto riguarda le spese ammesse il principio generale che rientrano nell’agevolazione le spese documentate direttamente necessarie alla realizzazione del progetto, le eventuali spese accessorie o strumentali funzionali alla realizzazione dello stesso e indispensabili per la sua completezza, nonché le eventuali spese tecniche, così come previste negli allegati 1.1, 1.2, 2, 3, 4 e 5 dei bandi regionali, al netto dell’Iva; inoltre, le spese ammesse a finanziamento devono essere riferite a progetti non realizzati e non in corso di realizzazione alla data del 30 maggio 2019. Lo stesso bando, poi, prevede anche un lungo elenco di spese non ammissibili, alcune già viste per il sotto asse 1.1 come, ad esempio, quelle per l’hardware, software e sistemi di protezione informatica (fatta eccezione per quelli dedicati all’esclusivo funzionamento d’impianti o macchine oggetto del progetto di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza), i mobili e arredi ecc.

Assegnazione del contributo e regola “de minimis”
Resta fermo che, come detto, i finanziamenti sono erogati dall’Istituto assicuratore a fondo perduto e vengono assegnati fino a esaurimento, secondo l’ordine cronologico d’invio e sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (ad esempio gestiti dal fondo di garanzia delle Pmi e da Ismea); agli stessi si applica anche la regola del cosiddetto de minimis. Inoltre, il bando stabilisce ancora che per le domande di finanziamento che non prevedono il noleggio con patto di acquisto, il soggetto destinatario il cui progetto comporti un finanziamento di ammontare pari o superiore a 30 mila euro può richiedere un’anticipazione fino al 50% dell’importo del finanziamento stesso, compilando l’apposita sezione del modulo di domanda on line.

Regime di contrasto agli abusi
Interessante è notare, poi, che oltre l’obbligo per il soggetto richiedente di presentare il modello di “patto d’integrità” e il Dvr nei casi previsti, nonché essere in regola con il Durc, sulla base delle pregresse esperienze – non sempre positive – maturate nel corso di questi anni il bando Isi è anche disseminato da molteplici altri vincoli introdotti per prevenire possibili abusi dei benefici. Sotto questo profilo, a mero titolo esemplificativo, i progetti devono essere realizzati nei luoghi di lavoro nei quali è esercitata l’attività lavorativa al momento della presentazione della domanda e l’eventuale variazione del luogo di lavoro è ammissibile solo qualora sia debitamente motivata e non comporti la modifica dei parametri i cui punteggi hanno consentito il raggiungimento della prevista soglia di ammissione. Al tempo stesso, non può trattarsi di progetti che comportino un ampliamento della sede produttiva con la costruzione di un nuovo fabbricato o l’ampliamento della cubatura preesistente, né possono comportare l’acquisto di beni usati o l’acquisto di beni indispensabili per avviare l’attività dell’impresa.
Inoltre, il progetto deve essere realizzato in immobili già nella disponibilità dell’impresa (in proprietà, locazione o comodato) alla data di pubblicazione del bando, ossia il 20 dicembre 2018.

Procedure e verifiche
Resta da compiere, poi, alcune precisazioni sulle tappe procedurali e il quadro delle verifiche che saranno effettuate sulle domande presentate.
A partire dalla data dell’11 aprile 2019 le imprese avranno a disposizione, tramite il sito www.inail.it, una procedura informatica che consentirà loro, attraverso un percorso guidato, d’inserire la domanda di contributo con le modalità indicate negli avvisi regionali; la chiusura di questa prima fase è prevista per ore 18 del 30 maggio 2019. Nella sezione “Servizi online”, le imprese registrate al sito Inail avranno a disposizione l’applicativo per la compilazione della domanda, che consentirà di effettuare simulazioni relative al progetto da presentare – e, quindi, di verificare il raggiungimento del “punteggio soglia” di ammissibilità – e di salvare la domanda inserita; se le caratteristiche del progetto sono in linea con quelle richieste dal bando e viene raggiunta la “soglia minima di ammissibilità” per la presentazione della domanda (120 punti), è possibile partecipare alla fase successiva d’invio telematico della stessa. Dal 6 giugno 2019 le imprese che avranno raggiunto o superato la soglia minima di ammissibilità, salvato definitivamente la propria domanda e soddisfatti i requisiti previsti per il rilascio del “codice identificativo” (Ci), potranno accedere all’interno della procedura informatica per effettuare il download del proprio Ci che li identificherà in maniera univoca; la stessa procedura, mediante un’apposita funzionalità, rilascerà un documento contenente questo codice che dovrà essere custodito dall’impresa e utilizzato nel giorno dedicato all’inoltro telematico.
La terza fase, poi, è quella dell’invio della domanda (click-day); come in passato le imprese potranno inviare tramite lo sportello informatico la domanda di ammissione al finanziamento, utilizzando il Ci attribuito alla propria domanda; il Ci, dopo l’invio telematico della relativa domanda, sarà annullato dallo sportello informatico e, quindi, non sarà più utilizzabile.
Le domande pervenute saranno, così, poste in ordine cronologico di arrivo e al termine di ogni singola registrazione l’utente visualizzerà un messaggio che attesta la corretta presa in carico dell’invio.
Ancora una volta per conoscere le date e gli orari dell’apertura e della chiusura dello sportello informatico per l’invio delle domande sarà necessario, però, attendere la pubblicazione, a partire dal 6 giugno 2019 sul sito dell’Inail, della relativa comunicazione.
Appare opportuno sottolineare che occorre prestare molta attenzione al fattoche le suddette date potranno essere differenziate, per ambiti territoriali o assi di finanziamento, in base al numero di domande pervenute e alla loro distribuzione. Sarà poi l’Inail a effettuare entro il termine di 120 giorni (decorrenti dalla scadenza dei 30 giorni per la presentazione della documentazione ex art.18) la verifica tecnico-amministrativa finalizzata all’accertamento dell’effettiva sussistenza di tutti gli elementi dichiarati nella domanda on line e la corrispondenza con i parametri che hanno determinato l’attribuzione dei punteggi. In caso di ammissione al finanziamento, il progetto deve essere realizzato e rendicontato entro 365 giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione di esito positivo della verifica, fermo restando quanto stabilito dall’art. 9 con riferimento ai progetti che hanno inizio a partire dal 31 maggio 2019. Ai fini del riscontro del termine di 365 giorni fa fede la data della predetta comunicazione e nello stesso sono ricompresi i tempi necessari per l’ottenimento delle autorizzazioni o certificazioni richieste. Inoltre, il termine per la realizzazione del progetto e per la rendicontazione è prorogabile su richiesta motivata per un periodo non superiore a sei mesi.
Nel caso di concessione della proroga, il soggetto destinatario che ha beneficiato dell’anticipazione del finanziamento dovrà presentare, a copertura dell’ulteriore periodo concesso, un’integrazione della garanzia fideiussoria già costituita per l’anticipazione del finanziamento stesso.

Redistribuzione delle risorse
All’interno di questo articolato quadro, occorre anche segnalare la particolare rilevanza del meccanismo di redistribuzione delle risorse: gli importi dello stanziamento iniziale attribuiti alla direzione regionale potranno, infatti, subire variazioni in aumento o diminuzione in relazione all’entità delle domande inviate on line e confermate con l’invio della documentazione a completamento della domanda stessa. Quindi, l’eventuale nuovo stanziamento a seguito della redistribuzione sarà approvato con determina del direttore centrale prevenzione dell’Inail.

Considerazioni conclusive
La strada seguita dall’Inail deve essere accolta molto positivamente in quanto il bando Isi è stato rimodulato espansivamente, come si è visto sia per la notevole entità delle risorse messe in campo e sia per le iniziative ammesse che promuovono azioni specie nei settori critici dove, negli ultimi mesi, la sensazione è che si sia un po’ allentata l’attenzione al tema della salute e dalla sicurezza sul lavoro.
Si tratta, quindi, di un’importante occasione da non sprecare che, per altro, come accennato arriva in un momento molto delicato in quanto per effetto dell’art.1, comma 1122, della legge n. 145/2018, il legislatore per compensare le minori entrate derivanti dalla revisione delle tariffe dei premi assicurativi dovuti all’Inail ha previsto per il triennio 2019-2021 una riduzione complessiva delle risorse da destinare al bando Isi di circa trecento milioni.

 

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SOLI IN VETTA

Nella scelta del modello ricontrollo è necessario prendere in considerazione l’idoneità specifica alle condizioni e alle circostanze e la definizione di procedure per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità

 

LAVORO IN SOLITARIO: COME VALUTARE I RISCHI

Che il lavoro sia cambiato negli ultimi anni è ormai fuori discussione; assieme a esso, sono mutate la percezione e le aspettative legate a esso. Ciò che più legittimamente ci si aspetta è che il lavoro non sia pericoloso per le persone che lo eseguono e che queste siano tutelate verso i potenziali pericoli che incontrano. Negli ultimi anni queste rinnovate sensibilità hanno portato ad analizzare aspetti del lavoro in modi che non erano mai stati presi in considerazione, come nel caso della sicurezza del lavoro in solitario.
Si tratta di una condizione che è sempre esistita (si pensi ai postini, agli autisti, agli agricoltori eccetera); tuttavia, solo recentemente si è sviluppata una particolare sensibilità verso i problemi connessi a lavorare
da soli, spesso in zone isolate, con il pericolo di non essere soccorsi tempestivamente o a atto, o di essere soggetti a condizioni ambientali inaspettate, trovandosi quindi impreparati a proteggersi. Il datore di lavoro ha il dovere di considerare anche questi aspetti nella sua valutazione di tutti i rischi lavorativi, anche perché si tratta dei “rischi particolari” previsti all’articolo 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Solo per alcune attività la norma e gli standard individuano precise strategie per la gestione del rischio.
Solo alcuni Paesi hanno a rontato in maniera sistematica questo problema, come si vedrà nel seguito.

SVIZZERA
L’istituto che gestisce l’assicurazione obbligatoria per i lavoratori in Svizzera, la Suva,
nel suo Lavorare da soli può essere pericoloso – Guida per i datori di lavoro e gli addetti alla sicurezza stabilisce che «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». In particolare, l’istituto specifica che «Si raccomanda di verificare di volta in volta se, eventualmente, un’altra persona in contatto visivo non possa essere assegnata contemporaneamente a un altro incarico. Se questo non è possibile, la persona tenuta a lavorare da sola deve avere la possibilità di chiedere aiuto in qualsiasi momento in caso di emergenza, ad esempio usando il telefono fisso, il telefono cellulare, la radiotrasmittente, l’allarme via radio o tramite l’eventuale impianto di sorveglianza in dotazione nell’azienda. Per “caso di emergenza” si intende, ad esempio, una situazione critica, un infortunio, un disturbo di salute imprevisto o uno stato d’ansia».
Per valutare il rischio dei lavoratori «tenuti a lavorare da soli», Suva definisce una valutazione dei rischi “PxD” (probabilità x danno) con una matrice 5×5, da basare su un campione standard di 1.000 lavoratori.
Lavori che possono essere svolti da soli, purché in contatto visivo o vocale con altre persone
Per la maggior parte dei lavori che non devono essere eseguiti da una persona sola, è sufficiente che l’operatore abbia un contatto visivo o vocale con altre persone.
Un contatto visivo o a voce con altre persone è indispensabile, ad esempio, nelle seguenti attività:

• lavori su macchine in cui esiste il pericolo che alcune parti del corpo finiscano nelle zone di imbocco o si impiglino in utensili o elementi rotanti (ad esempio macchine utensili);
• lavori su sistemi tecnici in esercizio particolare, ad esempio regolazione di macchine utensili od operatrici, riparazione di guasti o eliminazione di intoppi nella produzione, interventi di manutenzione;
• lavori forestali connessi a pericoli particolari;
• lavori in zone pericolose solitamente inaccessibili e di conseguenza non protette;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori con Dpi anticaduta (sistema di arresto caduta).

Lavori che richiedono la sorveglianza diretta da parte di un’altra persona
Certi lavori sono talmente critici che la persona in servizio deve essere sempre sorvegliata direttamente da un’altra persona (ad esempio quando si entra nei pozzi), che ha unicamente l’incarico di sorvegliare la persona e non può svolgere altri compiti. Per questi lavori critici bisogna elaborare un concetto di salvataggio con la collaborazione di specialisti della sicurezza sul lavoro (Mssl). I mezzi di soccorso necessari devono essere messi a disposizione sul posto prima di iniziare i lavori.
In caso d’infortunio o di fronte a una situazione critica, il sorvegliante deve dare immediatamente l’allarme. A questo proposito, il sorvegliante deve essere istruito, prima di iniziare i lavori, sui possibili pericoli, sui compiti di sorveglianza e su come prestare i primi soccorsi.

Lavori regolamentati da disposizioni particolari
Alcuni lavori, secondo la normativa svizzera, richiedono tassativamente la presenza di una terza persona, quali, senza obbligo di esaustività:
• lavori su installazioni elettriche sotto tensione;
• utilizzo di sorgenti radioattive al di fuori di locali di irradiazione;
• verniciatura a spruzzo all’interno di recipienti;
• lavori all’interno di recipienti e locali stretti;
• lavori di smantellamento;
• impianti termici e camini di fabbrica;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori in canalizzazioni;
• lavori forestali particolarmente pericolosi;
• lavori sulle ferrovie;
• lavori sui piloni dell’alta tensione;
• lavori in aria compressa e d’immersione subacquea.

Requisiti relativi alle «persone tenute a lavorare da sole»
I lavoratori classificati come «persone tenute a lavorare da sole» devono:
• avere compiuto 18 anni di età;
• essere in possesso di idoneità psichica.
Non sono idonee o lo sono solo a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono insicure nei lavori di gruppo;
– hanno paura in posti di lavoro in cui devono lavorare da sole;
– soffrono di disturbi psichici o malattie mentali;
– presentano disturbi della concentrazione;
• essere in possesso di idoneità fisica. Non sono idonee o lo sono a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono soggette a capogiri, svenimento, crisi epilettiche, paralisi, dispnea, asma eccetera;
– sono a ette da malattie dell’apparato circolatorio o metaboliche (malattie cardiache, ipertensione, diabete);
– hanno una dipendenza patologica da alcool, farmaci, droghe;
– sono sotto l’e etto di farmaci sedativi o stimolanti;
– so rono di determinate allergie (ad esempio alle punture di insetti);
• sono in possesso di idoneità intellettuale.
Nella valutazione, dice la norma, occorre tenere in considerazione i fattori psicosociali derivanti, ad esempio, dalla difficoltà a mantenere i contatti con altre persone nel tempo libero a causa dell’orario o del posto di lavoro, in caso di lavoro notturno o di posti di lavoro isolati.

Criteri per la sorveglianza del lavoratore

Campo 1 della matrice della valutazione dei rischi
La sorveglianza tecnica non sostituisce in alcun caso la presenza di una seconda persona. Resta vietato svolgere questi compiti da soli.

Campo 2 della matrice della valutazione dei rischi
A determinate condizioni, la sorveglianza diretta può essere sostituita con un sistema di sorveglianza continua, indipendente dalla volontà, mediante un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme.
La sorveglianza continua per mezzo di un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme può essere adatta alle seguenti attività:
• lavori di trasporto e immagazzinamento da eseguire a piedi, con gru o carrelli automatici nel settore della produzione, in un deposito o in una cella frigorifera
• giri d’ispezione all’interno di impianti di vaste dimensioni, ad esempio in stabilimenti chimici, discariche, impianti di depurazione delle acque e incenerimento dei rifiuti.

Campo 3 della matrice della valutazione dei rischi
Per le attività ricadenti in questo campo, la sorveglianza può essere svolta secondo questi criteri:
• sorveglianza periodica. La sorveglianza periodica viene eseguita da una persona o tramite un impianto di sorveglianza;
• sorveglianza periodica effettuata da un’altra persona. La persona in questione (ad esempio superiore, custode o guardiano) sorveglia la persona tenuta a lavorare da sola a intervalli di tempo prestabiliti;
• sorveglianza periodica tramite un impianto di sorveglianza. L’impianto di sorveglianza monitora periodicamente la persona tenuta a lavorare da sola e fa scattare automaticamente l’allarme in caso di emergenza;
• sorveglianza attiva del posto tramite Gps.
Un apparecchio di allarme dotato di un sistema Gps può essere localizzato individualmente da una centrale di sorveglianza situata a pochi metri di distanza.

 

STATI UNITI
L’occupational safety and health administration Ohsa Usa non a ronta direttamente
il tema del lavoro in solitario nella sua Part 1910 — Occupational Safety and Health Standards, facendone piuttosto l’oggetto di prescrizioni negli standard specifici per attività.

Lavori elettrici
La Part 1910.269(l)(2), riguardante la generazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, stabilisce che una serie di attività devono essere svolte solo in presenza di almeno due persone.

Cantieri navali
La Part 1915, che si occupa di regolare le attività nei cantieri navali, al numero
1915.84.

Attività in sotterraneo
La Part 1926, che norma le attività di costruzioni civili, al numero 1926.800.

 

REGNO UNITO
Il Health and safety at work act britannico del 1974 e il The management of health and safety at work regulations del 1999 non affrontano direttamente l’argomento del lavoro in solitario. Ai datori di lavoro, comunque, è richiesto di valutare con cura e definire le modalità con cui affrontare
i rischi dal lavoro in solitario. I datori di lavoro hanno il dovere di esaminare i rischi per i lavoratori in solitario e adottare misure per evitare o controllare i rischi, quando necessario.
Norme specifiche regolano alcune attività ad alto rischio dove è necessaria la presenza di almeno due persone. Queste sono ad esempio:
• lavori in spazio confinati;
• lavori in prossimità di conduttori elettrici esposti;
• lavori nel settore sociale o sanitario, dove si può avere a che fare con persone e situazioni imprevedibili;
• trasporto di esplosivi;
• operazioni in immersione;
• lavori di fumigazione.

Lo standard Bs 8484:2016
Il British standard institute (Bsi), sotto la sollecitazione del consiglio nazionale dei capi della polizia (National police chiefs council, Npcc, a quei tempi denominato Acpo) ha prodotto lo standard Bs 8484:2016, alla sua seconda versione, che disciplina la fornitura di servizi per lavoratori solitari (Provision of lone worker services). Singolare è stato l’antefatto che ha portato all’emanazione dello standard: nel Regno Unito, il Npcc è responsabile della gestione dei servizi di primo intervento (l’equivalente del 112 italiano); sulla base della loro esperienza con l’industria degli allarmi antintrusione, è emersa come la mancanza di controllo in una fase iniziale del mercato abbia portato a un enorme numero di falsi allarmi con conseguente spreco di preziose risorse. Per questo motivo, gli operatori del Npcc hanno valutato come essenziale l’emissione di uno standard per gestire il tasso di falsi allarmi dovuti a lavoratori in solitario. L’introduzione della Bs 8484 nelle fasi iniziali dell’industria dei servizi alle organizzazioni che impiegano lavoratori in solitario ha evitato gli anni di duro lavoro che sono stati, invece, necessari all’industria degli allarmi antintrusione, per ridurre i falsi allarmi alla gestibile quota attuale dello 0,1%.

La Bs 8484:2016 stabilisce requisiti:
• per le organizzazioni che forniscono i servizi di monitoraggio dei lavoratori in solitario;
• per le attrezzature da utilizzare per dare l’allarme;
• per le centrali che rilevano l’allarme;
• per le organizzazioni che forniscono soccorso.

 

ITALIA
Il lavoratore in solitario può essere definito come colui che si trova a svolgere la sua attività, per una organizzazione, senza la presenza personale di almeno un collega. L’attività può essere eseguita sia all’interno che all’esterno dello stabilimento aziendale, definito come il perimetro all’interno del quale il datore di lavoro esercita le proprie prerogative.
Gli obblighi a carico del datore di lavoro, in relazione ai lavoratori in solitario, sono diversi.
Il campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008 al riguardo è molto ampio:
• art. 15, comma 1), lettera a): «Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza»;
• art. 17, comma 1), lettera a) «Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28».
Peraltro, la necessità, per il datore di lavoro, di organizzare un e icace sistema di gestione delle emergenze che si adatti alle e ettive condizioni di lavoro, è già direttamente presente nel testo unico: «Il datore di lavoro, tenendo conto della natura
dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o della unità produttiva, sentito il medico competente ove nominato, prende
i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati» (art. 45, comma 1).
All’interno del corpus delle norme applicabili alle attività lavorative, diverse prescrivono la presenza di due o più persone in situazioni particolari. Ad esempio, il regio decreto del 9 gennaio 1927, n. 147 «Approvazione del regolamento speciale
per l’impiego dei gas tossici» prescrive al dello stabilimento in cui sono manipolati gas tossici «di curare che il proprio personale abilitato, adibito alla esecuzione delle operazioni inerenti all’impiego del gas tossico (…) sia di idato: ad entrare nei locali nei quali viene utilizzato il gas tossico se non per gruppi di due persone».
Il D.Lgs. n. 81/2008 proibisce sia in maniera indiretta che diretta che una serie di attività siano svolte da personale isolato.

Formazione
Le procedure di operatività e di soccorso riguardanti attività da svolgere in solitario devono essere oggetto di particolare formazione che il datore di lavoro deve somministrare ai lavoratori, secondo quanto previsto dall’art. 36, D.Lgs. n. 81/2008.

Il processo di valutazione dei rischi
Elemento chiave del sistema per la prevenzione dell’ordinamento italiano e internazionale so di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno. è la valutazione dei rischi, che significa, letteralmente, considerarli.
Il datore di lavoro deve, quindi considerare i rischi cui può essere esposto un lavoratore in solitario.
Questi possono essere:
• il pericolo derivante dalla possibilità di non potere essere soccorsi, sia in caso di infortunio lavorativo che di malore o evento accidentale;
• il pericolo che questo malore possa accadere;
• il pericolo di operare in un ambiente estraneo, non conosciuto;
• le conseguenze, non trascurabili, del disagio psicologico e sociale del lavoratore, conseguente alla sua particolare condizione.

Non tutte le condizioni lavorative dovranno essere sottoposte a valutazione dei rischi per decidere se farle svolgere a un lavoratore solitario; la norma nazionale è, infatti, ben chiara su quali operazioni debbano essere svolte da almeno due lavoratori.

Per quanto riguarda la definizione dei criteri di accettabilità da adottare nel processo di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno.

Pericolo di non potere essere soccorso
Nel valutare il pericolo di non potere essere soccorso, avranno spazio rilevante considerazioni relative a:
• tipologia e magnitudo del rischio lavorativo cui è esposto il lavoratore in solitario;
• condizione di salute dello stesso, con particolare considerazione della combinazione tra le richieste fisiche della prestazione lavorativa e l’età del soggetto;
• condizioni delle aree di lavoro, intese sia come accessibilità delle stesse e condizioni fisiche delle aree e delle vie di accesso, sia come presenza o meno di altre persone anche se non appartenenti all’organizzazione lavorativa;
• distanza dai presidi di primo soccorso aziendali o pubblici, se questi siano facilmente accessibili, o se, a causa della distanza e delle vie di comunicazione, il soccorso possa non essere tempestivo.
A questo riguardo, è necessario segnalare che la norma già mette in carico al datore di lavoro l’obbligo di organizzare in maniera efficace le comunicazioni con il sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale. A questo proposito, il D.M. n. 388/2003 a erma: «Nelle aziende o unità produttive che hanno lavoratori che prestano la propria attività in luoghi isolati, diversi dalla sede aziendale o unità produttiva, il datore di lavoro è tenuto a fornire loro un mezzo di comunicazione idoneo per raccordarsi con l’azienda al fine di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 5). E ancora: «Nelle aziende o unità produttive di gruppo A e di gruppo B, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature (…) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 2).

Considerazioni relative all’idoneità psicofisica del lavoratore
Nel processo di valutazione dei rischi l’idoneità psicofisica del lavoratore ha uno spazio rilevante: in collaborazione con il medico competente aziendale occorrerà effettuare considerazioni relative ai criteri
di idoneità dei lavoratori impegnati in solitario. Queste considerazioni dovranno prendere in considerazione almeno:
• le condizioni generali di salute del lavoratore, anche considerando fattori permanenti – quali, ad esempio, l’età – o transitori, come ad esempio lo stato di gravidanza della lavoratrice/lavoratore;
• la domanda fisica delle attività da svolgere;
• le conseguenze dello stress psicologico cui può essere soggetto il lavoratore in conseguenza del lavoro in solitario.

Pericolo di operare in un ambiente sconosciuto
Un lavoratore solitario può operare sempre all’interno del medesimo ambiente, ad esempio un presidio, una guardiania o recarsi periodicamente in una posizione definita, al di fuori dello stabilimento lavorativo. Qualora ciò non fosse, doversi recare in un ambiente non conosciuto può costituire un fattore di aggravio del rischio; occorre, infatti, prendere in considerazione la possibilità che si debbano affrontare rischi per i quali non si era preparati né attrezzati.

Conseguenze del disagio psicologico e sociale del lavoratore
La valutazione di questo aspetto è opportuno prenda in considerazione:
• l’eventuale disagio del lavoratore conseguente a non potere avere rapporti con alcuno durante le ore di lavoro. Questo nel caso il lavoratore solitario presti la sua opera continuativamente in zone remote, senza alcuna presenza umana;
• il rischio che può correre il lavoratore che si trovi, senza supporto alcuno, a operare in situazioni di disagio sociale. Questo rischio è sia di carattere psicologico (spavento) che fisico (aggressione).
La valutazione dello stress lavoro-correlato – e quindi anche di quello indotto da quella particolare situazione lavorativa che è il lavoro in solitario – è un obbligo previsto dall’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.

Valutazione dei rischi
I rischi cui sono soggetti i lavoratori in solitario derivano da condizioni eterogenee. Un fattore discriminante importante è quello relativo ai posti di lavoro in cui il lavoratore presta il proprio servizio, che possono essere:
• interni allo stabilimento aziendale, in postazioni fisse come, ad esempio, posti di monitoraggio, guardianie, sale controllo o in movimento, ad esempio mansioni di vigilanza;
• esterni allo stabilimento aziendale, ma comunque nella disponibilità più o meno totale del datore di lavoro, come cabine, impianti, comunque in aree segregate;
• esterni allo stabilimento aziendale, al di fuori della disponibilità del datore di lavoro, come ad esempio tutti gli spazi pubblici.
Negli ultimi due casi, la valutazione del rischio dovrà prendere necessariamente in considerazione anche tutte le attività svolte dal lavoratore a partire dal momento in cui lascia lo stabilimento aziendale. Il criterio per il processo di valutazione dei rischi potrebbe partire prendendo in considerazione subito il problema centrale del lavoro in solitario: il rischio di non essere soccorso. L’analisi della correlazione tra questo rischio e l’esito degli incidenti cui è ragionevole pensare possano essere esposti i lavoratori sarà la base del meccanismo di decision-making che definirà i criteri di accettabilità della valutazione del rischio.

Altri fattori ricordati, quali:
• i rischi derivanti da dovere operare in ambienti estranei,
• il disagio psicologico e sociale del lavoratore in solitario,
• considerazioni relative l’idoneità psicofisica del lavoratore, dovuta a condizioni permanenti o temporanee saranno considerati come fattori aggiuntivi della valutazione.

Rischio di non essere soccorso
La prima discretizzazione da eseguire riguarda l’analisi dell’esito del potenziale incidente che può occorrere al lavoratore, in conseguenza di un infortunio lavorativo, evento accidentale o malore; analisi che deriva dalla valutazione dei rischi aziendale.

Analisi delle possibilità di essere soccorso (S)
Le possibilità di essere soccorso, in relazione con le caratteristiche dell’area, possono essere definite in questo modo:
• nell’area sono presenti altre persone, anche se non appartenenti alla medesima organizzazione del lavoratore o non impegnate nelle medesime aree lavorative, che possono attivare sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale o prestare la prima assistenza in caso di incidente. Questa condizione, tipicamente, è quella di coloro che lavorano senza il supporto di colleghi in aree pubbliche, frequentate. Le attività sono quelle di autisti, fattorini e simili;

• nell’area non sono presenti altre persone, ma i presidi di primo soccorso possono essere facilmente raggiunti. Un esempio può essere quello di un lavoratore che svolge un servizio di vigilanza in solitario, all’interno di uno stabilimento, in cui le attrezzature di primo soccorso sono disponibili solo in alcune posizioni;
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore con l’uso di mezzi ordinari.
Si tratta delle attività che vengono svolte in aree remote, che però sono raggiungibili con le strade ordinarie.
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore solo utilizzando veicoli speciali. Sono le attività che vengono svolte in aree remote, dove però l’assenza di strade ordinarie rende necessario l’utilizzo di mezzi fuoristrada o elicotteri per prestare il soccorso e procedere all’evacuazione medicale.

Analisi dell’incidente (I)
Tralasciando per un attimo la possibilità del lavoratore di essere colpito da un malore, analisi che sarà fatta in seguito, le categorie possono essere:
• incidente lieve, i cui esiti sono recuperati da parte del lavoratore in un arco di tempo che va da qualche minuto a qualche ora, non ne pregiudicano la capacità lavorativa e per i quali un soccorso ritardato non provoca particolari ripercussioni sulla salute del lavoratore;
• incidente medio, le cui conseguenze vengono recuperate dal lavoratore in qualche giorno. il lavoratore ha pregiudicate le capacità lavorative, ma non la mobilità o almeno non in misura tale da non potersi allontanare da luogo di lavoro normalmente accessibile. un soccorso tempestivo è auspicabile anche se un moderato ritardo non è un fattore rilevante di aggravamento delle sue condizioni di salute;
• incidente grave. Il lavoratore può recuperarne dalle conseguenze nel giro di settimane, solo con l’ausilio di un appropriato trattamento medico. Sia le capacità lavorative che la mobilità sono fortemente pregiudicate ed è necessario un soccorso immediato per evitare il rapido aggravamento delle condizioni di salute dell’infortunato;
• incidente mortale o che conduce alla morte nel giro di qualche ora.

Valutazione del rischio (R=SxI)
Assegnando un peso da 1 a 4 sia alla valutazione delle conseguenze dell’incidente che della possibilità di essere soccorso, dove 1 è la situazione meno e 4 quella più gravosa, e correlando le analisi, si ottiene la base per una valutazione dei possibili scenari.

Valutazione dei pericoli aggiuntivi
Il primo passo della valutazione dei rischi viene eseguito correlando in astratto il pericolo di non essere soccorso con il potenziale esito di un incidente che può occorrere durante l’attività lavorativa. Queste considerazioni, però, devono essere integrate dalla valutazione di altre condizioni che possono aggravare la situazione in caso di incidente occorso a un lavoratore
solitario.

Malori
La possibilità che al lavoratore occorra un malore che possa diventare un fattore di criticità in caso di lavoro in solitario, deve essere valutata dal medico competente.
Il lavoratore può essere:
• pienamente idoneo al lavoro in solitario;
• non idoneo, in conseguenza delle condizioni di salute, temporanee o permanenti, che possono essere un fattore che può causare o aggravare gli esiti di un incidente occorso lavorando in solitario.
È opportuno che il medico competente, al momento della redazione di una limitazione di idoneità di questo genere, specifichi esaurientemente gli ambiti delle condizioni di lavoro: se relativa al lavoro solitario interno all’azienda o al suo esterno, in posizione fissa o mobile.

Ambiente sconosciuto
Operare in un ambiente sconosciuto può portare a doversi confrontare con situazioni che si manifestano improvvisamente o per le quali non si era preparati e attrezzati.
Un ambiente sconosciuto diventa conosciuto dopo che si è provveduto a ispezionarlo.

Disagio psicologico e sociale
Il disagio psicologico e sociale affrontato dal lavoratore può essere:
• dovuto alle particolari condizioni dell’azienda e della mansione, da valutare secondo quanto previsto dall’ art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. 81/2008;
• dovuto alla necessità di trascorrere lunghi periodi di tempo (definibili in via di prima approssimazione in settimane) senza contatti con altri;
• indotto alla necessità di operare in ambienti con particolari condizioni di stress psicologico e sociale, anche con pericolo di aggressione.

Valutazione finale dei rischi (Rf)
Il processo di valutazione del rischio da lavoro in solitario, viene completata integrandola con la valutazione dei pericoli aggiuntivi.
Potrebbe essere accettabile:
• attribuire dei pesi (coe icienti) da 1 a 4 a ciascuna delle situazioni, secondo la politica dell’azienda;
• moltiplicare l’esito del processo di valutazione preliminare dei rischi con il maggiore dei coefficienti dei pericoli aggiuntivi;
• confrontare il risultato ottenuto con la griglia di accettabilità predisposta.

Misure di mitigazione
Di erenti tecniche per la mitigazione dei rischi del lavoro in solitario possono essere
individuate. Tipicamente, a seconda delle circostanze:
• non sarà possibile il lavoro in solitario, e all’operatore dovrà essere affiancato un collega, con mansioni di collaborazione o di assistenza, recupero e salvataggio. Tipico il caso del lavoratore in assistenza all’esterno dei luoghi confinati, variamente formato e attrezzato per il recupero;
• il lavoratore solitario sarà controllato attraverso processi attivi, tipo dovere telefonare o dare una voce o eseguire un’operazione a scadenze temporali prefissate;
• il lavoratore in solitario potrà essere controllato attraverso processi passivi, indipendenti dalla sua volontà. Negli anni sono stati sviluppati sistemi con riprese video, segnalatori di accesso/uscita, dispositivi uomo-morto, che segnalano l’allarme per posture particolari o periodi di immobilità continuati, programmabili, così come rilevatori Gps per indicare la posizione del lavoratore, e tutte le possibili combinazioni di questi sistemi.
Il collegamento con il sistema di governo e di vigilanza può essere assicurato da onde radio e dispositivi a radiofrequenza per spazi limitati, telefonia cellulare o satellitare per aree più estese.
È importante ricordare che le misure di prevenzione e protezione dovranno essere adottate nel rispetto dell’articolo 15 «Misure generali di tutela», D.Lgs. n. 81/2008, rispetto della politica aziendale in materia di tutela del lavoro, e possono essere:
• la limitazione delle attività per le quali è previsto l’impiego di lavoratori in solitario;
• la predisposizione di procedure per il controllo degli ambienti di lavoro in cui si trovano a prestare la loro opera i lavoratori in solitario;
• la limitazione del numero dei lavoratori esposti ai rischi conseguenti al lavoro in solitario, definendone i requisiti di idoneità sanitaria e di formazione;
• l’utilizzo di tecniche e apparecchiature per il controllo e il soccorso remoto dei lavoratori in solitario.
È, inoltre, necessario ricordare come il controllo del lavoratore debba rispettare le norme del contratto di lavoro e quelle sulla privacy.

Conclusioni
Non esiste un sistema universale per il controllo del lavoratore in solitario e tutti i sistemi finora ideati sono soggetti a problemi più o meno critici che non ne assicurano una funzionalità al 100%. Nella scelta del sistema di controllo è necessario prendere in considerazione:
• l’idoneità specifica, della soluzione e delle attrezzature utilizzate, alle condizioni di lavoro e alle circostanze in cui questo viene eseguito;
• la definizione di un sistema di procedure, regole e strategie per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità, sia quelle ineliminabili proprie del sistema sia quelle relative sempre alle condizioni di lavoro e alle condizioni al contorno.

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Per le scale portatili una marcatura ad hoc

Dispositivi non coperti da una direttiva specifica e non garantiti dal Ce

La recente norma Uni En 131-3: 2018 fornisce consigli sull’utilizzo in sicurezza di questo tipo di attrezzature contemplate nello scopo e nel campo di applicazione della Uni En 131-1 e conformi ai requisiti della Uni En 131-1 e della Uni En 131-2. Obiettivo: informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoli potenziali e descrivere le precauzioni di sicurezza o le azioni richieste a fini prevenzionistici

 

Le scale portatili devono riportare la marcatura Uni En 131 e/o il riferimento alla conformità al D.Lgs. n. 81/2008, se sono impiegate in un così chiamato “non luogo di lavoro” (Uni En 131) o in un “luogo di lavoro” (Uni En 131/D.Lgs. n. 81/2008). La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura costituisce una sorta di carta di indentità del dispositivo atta a informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoll potenziali e a descrivere le precauzioni di sicurezza e/o le azioni richieste o per evitare questo tipo di pericolo (Iso 17724:2003, definizione 3.58 modificata).
Il fabbricante deve immettere sul mercato prodotti intrinsecamente sicuri che vanno utilizzati correttamente dal lavoratore facendo riferimento ai pittogrammi apposti su di essi, eventualmente corredati da istruzioni scritte.
La norma Uni En 131-3: 2018 – che rispetto a quella precedente appare più snella, schematica e di facile lettura – ha introdotto novità che permettono una marcatura più agevole. La norma infatti prevede tra l’altro la distinzione tra le disposizioni relative alla marcatura di sicurezza, che devono essere riportate sulla scala, le istruzioni per l’utilizzatore presenti nell’apposito libretto e la descrizione dettagliata dei segnali fondamentali di sicurezza in conformità alla Iso 3864-2 e dei simboli delle informazioni di sicurezza supplementari.

Riduzione del rischio

L’eliminazione e/o la riduzione dei rischi è uno dei cardini fondamentali del D.Lgs 81/2008 che nell’art. 15 individua le misure per «la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza» (comma a), «l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico» (comma c), «la riduzione dei rischi alla fonte» (comma e) e «la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso» (comma f).

La Uni En 131-3:2018 contiene un elenco, non esaustivo, dei pericoli e degli esempi delle relative cause che costituiscono ragioni frequenti per gli incidenti che si verificano durante l’uso delle scale e su cui si basano le informazioni contenute nella norma stessa. Le cause sono le seguenti:
• perdita di stabilità causata, fra l’altro, da posizione non corretta della scala (come angolazione non corretta di una scala di appoggio o apertura non completa di una scala doppia);
• condizione della scala (per esempio, piedini antiscivolamento mancanti per scale dí appoggio) e condizioni climatiche avverse (quali il vento);
• movimentazione (ad esempio, trasferimento della scala nella posizione di lavoro);
• scivolamento, inciampo e caduta dell’utilizzatore causati tra l’altro da azioní non sicure dell’utilizzatore (come salire la scala a due pioli per volta, scendere scivolando lungo i montanti);
• cedimento strutturale della scala dovuto, ad esempio, al sovraccarico della scala;
• pericoli di natura elettrica dovuti fra l’altro a operazionì inevitabili su parti sotto tensione (per esempio, ricerca guasti) o a collocazione delle scale troppo vicino ad apparecchiature elettriche sotto tensione (come linee elettriche aeree).

Contenuti
Secondo la Uni En 131-1: 2015 la scala è un dispositivo con gradini o pioli sulla quale una persona può salire o scendere. Una scala portatile è una scala che può essere trasportata e installata a mano.

Marcatura di base sulla scala
Le informazioní di base della marcatura possono essere fornite sotto forma di segnali di sicurezza o testo. La marcatura deve comprendere:
1. identità e indirizzo del produttore e/o del distributore, incluso l’indirizzo del sito web per le informazioni relative alla scala;
2. tipo di scala e modi possibili di utilizzo (descrizione del tipo, numero e lunghezza delle parti, lunghezza massima della scala in uso, altezza massima di appoggio misurata nella posizione di utilizzo secondo le raccomandazioni dei fabbricante);
3. classificazione di uso “professionale” o “non professionale” come specificato nella Uni En 131-2;
4. numero della norma generale Uni En 131 o, qualora esista una norma dedicata (per esempio una scala multiposizione con cerniere secondo la Uni En 131-4) il numero di tale norma (per esempio Uni En 131-4);
5. mese e anno di produzione e/o numero di serie (può essere anche stampigliato); peso della scala (in kg) e carico massimototale (in kg);
6. isolamento, se previsto.

Le informazioni di cui ai punti 1., 2., 3. e 5. devono comparire anche sull’imballaggio o devono essere altrimenti chiaramente visibili al consumatore prima dell’acquisto.

La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura che indichi il piolo/gradino più elevato che deve essere utilizzato per sostarvi deve essere posta sul montante della scala adiacente o sull’ultimo/consentito o sul primo/non consentito piolo/gradíno o sull’etichetta della marcatura dì sicurezza. I segnali di sicurezza si distinguono fra segnali di base e supplementari. I segnali di sicurezza di base hanno forma rotonda, triangolare o quadrata in conformità alla Iso 3864-1, Iso 3864-3 e si deve basare sul modello per i segnali di sicurezza della Uni En Iso 7010 con una dimensione minima d e h di 15 mm. I segnali di sicurezza supplementari hanno forma quadrata e istruiscono l’utilizzatore di una scala su ciò che è necessario e ciò che non è ammesso per un uso sicuro, al fine di evitare incidenti, per esemplo la caduta dalla scala. “Richiesto” è indicato da un segno di spunta verde e “Non ammesso” da una X rossa.
Rispetto ai segnali di sicurezza di base i simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza possono includere numeri, lettere e simboli più dettagliati (più precisi). L’altezza minima h dei simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza è di 15 mm.
La norma Uni En 131-3 al prospetto 1 illustra i requisiti minimi per la marcatura di sicurezza, le istruzioni per l’utilizzatore e
i simboli obbligatori per tutte le tipologie di scale portatili. A tal fine, il fabbricante deve fornire nelle istruzioni tutte le informazioni riportate nella tabella 1 che costituisce un estratto del citato prospetto 1.
La scala movibile con piattaforma è quella prevista nella Uni En 131-7:2013.

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Il Rspp tra posizione di vertice e responsabilità

Il punto del giurista alla luce della legislazione e delle pronunce dei giudici

Domanda: in un’azienda di dimensione medio-grandi, il possesso della qualifica di dirigente prevenzionistico è la migliore soluzione per la nomina a titolare del Spp? E nel caso poi il datore di lavoro intendesse conferire a questa figura una delega di funzioni, si tratterebbe di una scelta condivisibile e anche consigliabile?

 

In base a quanto dispone l’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delle piccole e medie aziende, elencate nell’allegato II al decreto, può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché quelli di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La possibilità che il datore di lavoro accentri su di sé le funzioni direttive, decisionali e di programmazione della sicurezza, è opzione legislativamente consentita principalmente in ragione dell’entità dimensionale dell’azienda (sotto il profilo della forza lavoro occupata) e sempre che non sussistano fattori di rischio professionale elevati (si tratta dei casi elencati all’art. 31, comma 6 del D.Lgs. n. 81/2008: imprese soggette a rischio di rilevante incidente industriale o rientranti nelle seguenti categorie: centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, aziende industriali con oltre 200 lavoratori, aziende estrattive con oltre 50 lavoratori, aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, strutture di ricovero e cura sia pubbliche sia private con oltre 50 lavoratori). Con riguardo alle realtà aziendali di grandi dimensioni o a rischio elevato, il D.Lgs. n. 81/2008 impone senza eccezioni che le due aree funzionali di datore di lavoro e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione siano ricoperte da soggetti diversi – dunque siano e si mantengano distinte – nonché l’obbligo che il Rspp sia un soggetto interno all’organizzazione aziendale.

La distinzione soggettiva tra il datore di lavoro e Rspp è funzionale al modello di impresa compartecipativa, collaborativa e sinergica che è diretta derivazione dallo standard comunitario della direttiva quadro 89/391/Cee, e che assegna ruoli specifici a soggetti diversi, in base al presupposto che dalla loro interazione e confronto derivi e si esprima un valore aggiunto in termini di sicurezza e di salute: un risultato finale, di sintesi superiore alla somma di quelli derivanti dall’azione isolata di ciascuno.

È in questo sistema integrato della sicurezza, rivolto alla valorizzazione nell’ambiente di lavoro delle competenze professionali di ciascuno, quale che ne sia il livello funzionale, che permane nondimeno l’esigenza di mantenere ferma la distinzione tra il momento decisionale, proprio del datore di lavoro, e il momento collaborativo e partecipativo – ma di supporto – svolto dal servizio di prevenzione e protezione.Nei casi in cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può identificarsi con il datore di lavoro, si pone quindi la problematica di individuare la o le qualifiche funzionali compatibili con la designazione a Rspp. Ovviamente la questione assume rilievo solo con riguardo al caso della designazione interna del Rspp (ipotesi contemplata dal combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008), giacché, nel caso di designazione di persona esterna all’organizzazione aziendale, con incarico professionale di lavoro autonomo, non assume rilievo il possesso della qualifica funzionale.

Ciò detto, una prima considerazione è che mentre il servizio di prevenzione e protezione può essere una persona giuridica – sempre che organizzato esternamente all’azienda – (la direttiva 89/391/Cee parla di “servizi esterni”), l’incarico di Rspp può essere conferito solo e necessariamente a una persona fisica. Ciò si ricava inequivocabilmente dalla definizione del’art. 2, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008 («responsabile del servizio di prevenzione e protezione: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi»).

La seconda considerazione è che sussiste una incompatibilità assoluta tra la qualifica di Rspp e quella di lavoratore subordinato (o assimilabile) oggetto della tutela prevenzionistica ai sensi della ampia definizione che ne dà l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Questa incompatibilità – non scritta expressis verbis nelle norme – è ricavabile con certezza dal sistema. Il lavoratore infatti, in quanto primo beneficiario dell’azione di prevenzione e di protezione dai rischi professionali, non può assumersene l’onere in prima persona, così cumulando inaccettabilmente, oltre i limiti indicati dall’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, il duplice profilo di soggetto attivo e passivo della tutela. Inoltre, dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione si pone da un lato in rapporto di collaborazione con il datore di lavoro, e dall’altro lato in rapporto dialettico con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non si può disconoscere che egli abbia la titolarità di interessi diversi e spesso divergenti – seppur auspicatamente componibili – da quelli propri della categoria dei lavoratori subordinati. Ammettere che a svolgere la funzione di Rspp possa essere chiamato un lavoratore (dipendente), significa togliere identità a entrambe le figure, tanto più nei momenti di incontro istituzionale – qual è, ad esempio, quello della riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008 (alla quale i lavoratori partecipano non uti singuli, bensì a mezzo del loro Rls). Per altro verso non può non considerarsi che il compito prevalente del Rspp è quello di collaborare con il datore di lavoro all’attività di valutazione dei rischi e di redazione del correlato documento di valutazione (Dvr); cosa che non attiene in alcun modo allo statuto funzionale del prestatore di lavoro subordinato, a meno di stravolgerne la fisionomia. Per di più, se a responsabile del servizio di prevenzione e protezione potesse essere designato un lavoratore, a questi sarebbe paradossalmente consentito lo svolgimento di un’azione collaborativa con il datore di lavoro che invece è inibita al rappresentante (dei lavoratori) per la sicurezza, prevedendo infatti il testo unico che il Rls, in ambito di valutazione dei rischi, svolga un apporto di tipo meramente consultivo. Quanto all’ipotesi che quale Rspp possa essere designato un preposto, è decisiva la considerazione che, in base alle consolidate acquisizioni dottrinarie e giurisprudenziali, non spetta al preposto adottare le misure di prevenzione e di protezione stabilite dalla normativa di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, essendo suo compito quello (consequenziale) di esercitare la doverosa vigilanza affinché le misure predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti, ricevano concreta ed esatta attuazione (cosiddetta vigilanza oggettiva), nonché di verificare la specifica osservanza, da parte dei lavoratori, delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione (cosiddetta vigilanza soggettiva). Dal momento che questo sistema, correntemente definito del “doppio binario” di responsabilità, delinea due differenti livelli di responsabilità tendenzialmente alternativi tra loro (datore di lavoro e dirigenti da un lato, preposti dall’altro), ne consegue la sostanziale inconciliabilità del coinvolgimento della figura del preposto in attività – quelle proprie del Rspp – che sono di prevalente collaborazione con il datore di lavoro, per di più finalizzate anche all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, il quale deve tra l’altro obbligatoriamente contenere (art. 28, comma 2, lettere b) e c)) «l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione» e “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza». Dal momento che gli obblighi di sicurezza e di salute non gravano direttamente sulla figura del preposto, ne consegue che, pur in assenza di un divieto normativamente codificato o ricavabile dai principi, sussistono evidenti ragioni di opportunità che suggeriscono – senza imporlo – di mantenere la figura del preposto nella sfera esclusiva (o quanto meno preminente) della vigilanza sul luogo di lavoro che funzionalmente gli compete.

Dunque, l’ipotesi più conforme ai principi è che a responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno sia designato un profilo professionale più consono e funzionale, tanto sul piano decisionale, che su quello di autonomia delle funzioni e di competenza professionale, ai compiti del Rspp come definiti dalla legge. Non è necessario che si tratti di un dirigente giuslavoristico, ma è sconsigliabile che venga designato un preposto prevenzionistico.

Ciò chiarito, resta ora da a rontare il secondo spunto di riflessione, inerente alla possibilità di conferire validamente al Rspp (chiunque esso sia, finanche un soggetto esterno all’organizzazione aziendale) una delega di funzioni di ambito prevenzionistico, precisandone, in caso affermativo, i contenuti e l’estensione. Sotto questo profilo la tematica ha indubbiamente una soluzione positiva, salvo delinearne meglio i contorni. Infatti, la semplice nomina a Rspp non comporta di per se stessa alcuna diretta assunzione di responsabilità di ambito contravvenzionale, giacché questa figura assume funzioni meramente collaborative e tecnico-valutative rispetto alle prerogative del datore di lavoro, il quale rimane così unico titolare del potere decisionale e di spesa (sul tema, ex multis, da ultimo Cass. pen. sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321). Dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non rientra, per consapevole scelta legislativa, tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, il suo agire non è dunque direttamente rapportabile a condotte contravvenzionali penalmente sanzionate. Dal che deriva che l’utilizzazione della competenza professionale del Rspp da parte del datore di lavoro, assumendo la forma del cosiddetto “avvalimento funzionale”, determina l’assoluta estraneità, dal profilo funzionale del primo, del fattore di condivisione -e a maggior ragione di assunzione – del profilo di responsabilità contravvenzionale del secondo. Il che non vuol dire che il Rspp non possa essere chiamato a rispondere -in caso di condotta colposa – in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati). Del pari, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, è ipotizzabile una responsabilità penale per colpa del Rspp, ai sensi degli artt. 589 o 590 del codice penale (come la giurisprudenza ha da tempo chiarito: tra le tante Cass. pen. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11492; Cass. pen. sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2011, n. 28779; Cass. pen. sez. IV, 21 dicembre 2010, n. 2814. Da ultimo, si segnalano le pronunce di Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 2406; Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 3313; Cass. pen. Sez. IV, 20 febbraio 2017, n. 8115; Cass. pen. Sez. IV, 19 maggio 2017, n. 24958; Cass. pen. Sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 4941; Cass. pen. Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale.

Ciò che manca è peraltro, come si è già detto, una responsabilità di tipo contravvenzionale. All’opposto, con il conferimento della delega di funzioni, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non limita la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì diventa titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa. Egli è perciò investito iure proprio (sia pure a titolo derivato) di quella quota di responsabilità contravvenzionale corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate.

Il conferimento della delega muta, per così dire, l’obbligazione del Rspp da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato, costituendo in capo al medesimo una posizione di garanzia dell’attuazione degli obblighi e degli adempimenti stabiliti dalla normativa prevenzionale e di igiene del lavoro. In tal modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del Rspp – non in quanto tale, bensì nei limiti in cui essa sia espressione delle funzioni delegate – diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale.

La notazione finale sul tema è che il D.Lgs. n. 81/2008 non contiene l’esplicito divieto a che il Rspp sia dotato di poteri decisionali e di spesa (anche se a tal fine occorre – quanto meno nei casi in cui il Rspp non sia (già) un dirigente aziendale – il conferimento di un atto di delega effifcace).

Deve però essere ulteriormente precisato che il Rspp, quand’anche munito di delega, non può mai sostituirsi al datore di lavoro per quanto riguarda gli adempimenti che dal decreto sono definiti come non delegabili secondo la previsione dell’art. 17 del testo unico. Neppure al Rspp può essere conferita una delega così ampia da farne ritenere il profilo funzionale – ipotesi che può verificarsi solo nelle imprese di grandi dimensioni – assimilabile alla figura del cosiddetto “datore di lavoro delegato” (nozione questa estrapolabile dalla locuzione «o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» contenuta nella definizione di datore di lavoro dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008). Ciò urterebbe infatti contro il divieto di cumulo funzionale ricavabile sul piano interpretativo (uso dell’argomento a contrario) dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale, per le imprese di cui all’allegato II al decreto, postula la necessaria distinzione sia funzionale che soggettiva tra datore di lavoro e Rspp.

Neppure, infine, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere delegato a rappresentare il datore di lavoro nella riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008, potendo bensì il datore di lavoro farsi rappresentare in questa sede, ma da persona comunque diversa da quelli che sono i partecipanti necessari alla riunione. E siccome sia il datore di lavoro sia il Rspp sono figure a partecipazione necessaria, la loro presenza fisica deve essere distintamente incarnata, per poter compiutamente garantire l’esprimersi di quel confronto dialettico cui la riunione periodica è funzionale.

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Documenti della privacy maneggiare con cura

Con il Gdpr è necessario porre al tema particolare attenzione

Soltanto atti burocratici? Niente di più sbagliato. L’applicazione del regolamento generale europeo, al contrario, ha l’obiettivo di spingere le aziende verso una maggiore consapevolezza e una più e efficace
cultura della protezione dei dati. Alcune pratiche indicazioni possono aiutare a muoversi con sicurezza nei nuovi adempimenti richiesti dalla legislazione

 

L’applicazione del regolamento generale europeo 679/2018 (Gdpr) non può essere a rontata come un compito burocratico da assolvere spendendo il meno possibile. Sarebbe un grave errore, non solo per via delle elevate sanzioni amministrative collegate al mancato rispetto delle regole, ma anche perché uno degli obiettivi più
ambiziosi del regolamento è promuovere una nuova cultura della protezione dei dati personali nelle aziende e fra i cittadini europei.
Non è un caso che uno dei pilastri più importanti del Gdpr sia la responsabilizzazione di chi svolge attività di trattamento dei dati personali; le aziende hanno la piena responsabilità delle scelte compiute in merito ai trattamenti dei dati personali e rispondono di quello che fanno (o che non fanno). Le scelte sono libere e completamente autonome, nel rispetto delle indicazioni fornite dalla normativa.
È previsto che ogni scelta e ogni decisione tenga conto dello specifico contesto in cui opera l’azienda e sia “documentata” – il che significa che deve essere messa nero su bianco e archiviata opportunamente – per essere esibita in caso di verifiche o controlli.
È necessario, quindi, che le aziende considerino la protezione dei dati personali un tema che non può rimanere confinato sul tavolo del consulente legale o sulla scrivania dell’ufficio dell’information technology ma che richiede, per essere affrontato, la sinergia e la collaborazione di tutte le componenti aziendali.
Piuttosto complicato, quindi, pensare che soluzioni standard possano soddisfare adeguatamente i requisiti normativi e possano essere la base di un efficace sistema di protezione dei dati personali.

Passiamo adesso all’esame dei documenti, distinguendo tra quelli destinati agli interessati – quindi agli individui di cui si stanno trattando i dati – e quelli che l’azienda deve produrre internamente per poter documentare di aver agito responsabilmente.
Parleremo inoltre brevemente dei documenti non “obbligatori” ma, per così dire, “consigliati” per una corretta gestione del sistema di protezione dei dati personali.

I passi obbligatori
Il rispetto del principio di trasparenza passa per una comunicazione corretta e veritiera.
I dati personali non passano di proprietà perché appartengono alla persona che identificano; è bene che le aziende lo ricordino sempre e siano consapevoli del fatto che gli individui hanno la libertà di decidere in merito al loro utilizzo da parte di terzi.
È un diritto degli interessati ricevere dal titolare informazioni chiare, trasparenti, dettagliate e comprensibili in merito alle operazioni di trattamento relative ai loro dati personali. È un obbligo preciso del titolare e non rispettarlo significa incorrere in sanzioni potenzialmente pesantissime. Inoltre, nei casi in cui il trattamento è basato sul loro consenso, gli interessati hanno sempre il diritto di esprimerlo in maniera libera, consapevole, specifica e informata.
I documenti obbligatori verso gli interessati- escludendo da questi le comunicazioni dovute in caso di violazioni di dati personali che presentino un rischio elevato per i loro diritti e libertà – sono sostanzialmente due:
• l’informativa;
• il modulo per la raccolta del consenso.
È necessario acquisire il consenso per ogni tipo di trattamento che non sia:
• funzionale all’esecuzione di un contratto o di un pre-contratto di cui l’interessato è parte;
• necessario per la salvaguardia di interessi vitali dell’interessato;
• rispondente al e ettuato per adempiere a un compito di pubblico interesse o in connessione all’esercizio di pubblici poteri;
• necessario per perseguire la necessità di adempiere a un preciso obbligo legale in capo al titolare del trattamento;
• il legittimo interesse del titolare.
In nessun caso il consenso può essere implicito o tacito; per questo motivo, il titolare del trattamento deve sempre poter dimostrare che l’interessato abbia e effettivamente prestato il proprio consenso al trattamento che sta e effettuando e deve quindi conservarne l’evidenza.
È essenziale, perciò, che il titolare del trattamento si organizzi (con un archivio elettronico o cartaceo specificamente predisposto o mediante la modifica degli applicativi esistenti) per la registrazione delle scelte e effettuate dagli interessati; e poiché, per sua natura, il consenso può essere sempre revocato, gli strumenti di cui si dota devono permettergli di tenere traccia di eventuali ripensamenti degli interessati e di ogni variazione intercorsa durante il rapporto con loro.

Il registro dei trattamenti
Come recentemente indicato dall’autorità Garante nelle Faq dell’8 ottobre 2018, la compilazione del registro dei trattamenti è obbligatoria anche per liberi professionisti ed esercizi commerciali, pubblici o artigianali con almeno un dipendente (bar, ristoranti, officine, negozi, piccola distribuzione ecc.) e/o che trattino dati sanitari dei clienti (ad esempio parrucchieri, estetisti, odontotecnici, tatuatori, commercialisti, avvocati, notai, farmacisti, medici, osteopati, fisioterapisti): molte piccole aziende dovranno quindi redigere un proprio registro dei trattamenti, anche se potranno farlo in forma semplificata (limitandosi alla descrizione delle sole specifiche attività di trattamento sopra menzionate).
Il registro dei trattamenti è un documento che descrive gli elementi essenziali dei trattamenti e effettuati dal titolare e/o dal responsabile e che deve essere mantenuto nel tempo, recependo eventuali variazioni di trattamenti e processi che dovessero intercorrere.
Esempi di registro del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento sono stati mostrati nell’articolo dal titolo «Privacy e safety la parola agli esperti» di Silvana Bresciani e Sabastiano Plutino.
Il registro del titolare è più ricco di dettagli rispetto a quello del responsabile, ma la gran parte delle informazioni da annotare sono desumibili dal contenuto dell’informativa messa a disposizione degli interessati: se l’informativa è ben costruita e pensata – quindi se il titolare del trattamento o il consulente che lo ha supportato hanno condotto una buona fase di analisi – la redazione di questo documento è abbastanza veloce.
I responsabili del trattamento, invece, devono prestare particolare attenzione alle operazioni di trattamento svolte per conto terzi; le aziende che curano il servizio di prevenzione e prevenzione o che svolgono servizi di medicina del lavoro dovranno redigerlo includendo in esso tutti i trattamenti svolti per i propri clienti. Il registro deve essere redatto in forma scritta – cartacea o elettronica – e deve essere tenuto a disposizione per eventuali verifiche. È molto probabile che sarà il primo documento a essere visionato in caso di ispezioni dell’autorità Garante, perché è quello che, più di tutti, offre la possibilità di comprendere velocemente quali siano le caratteristiche essenziali delle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.

Strumenti di gestione
Quali sono gli altri documenti di cui è necessario dotarsi? Dalla lettura attenta della normativa si evince che il titolare del trattamento non può fare a meno di predisporre alcuni documenti essenziali per dimostrare di aver ottemperato al principio di responsabilizzazione e di aver rispettato i principi applicabili a ogni trattamento di
dati personali, così come imposto dal Gdpr.

Individuare e gestire i rischi
Individuare e gestire i rischi connessi al trattamento dei dati personali è uno degli obblighi principali del titolare del trattamento; anzi, nessuna operazione di trattamento può essere e effettuata senza una
preventiva e documentata analisi dei rischi. Documentata, appunto. Se i rischi sono stati valutati – e devono esserlo – sono state anche individuate soluzioni per mitigarli o eliminarli; di tutto questo occorre lasciare traccia. Allo stesso modo, devono essere tracciati gli esiti dei successivi controlli che devono essere programmati per la verifica periodica delle attività di trattamento o per il miglioramento delle misure di sicurezza tecniche e organizzative implementate.
Per soddisfare questo requisito normativo, è sufficiente applicare i comuni strumenti di valutazione e gestione del rischio alle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.
In ogni caso, è bene che l’azienda documenti tutte le analisi e effettuate e tutte le azioni implementate per migliorare la sicurezza del trattamento.

Gestire le violazioni
Un altro obbligo stringente che il Gdpr pone sulle spalle del titolare è la comunicazione al Garante, e in alcuni casi particolari anche agli interessati, delle violazioni di dati personali accertate all’interno del proprio perimetro di trattamento; questo include anche le aree affidate a terzi, per esempio in outsourcing.
La stampa specializzata ci informa che le violazioni di dati sono in preoccupante aumento e gli analisti prevedono che gli attacchi ai sistemi informativi delle aziende continueranno a crescere. Escludendo gli eventi di violazione legati ad azioni mirate, una buona parte di esse è causata da negligenze, disattenzioni o dalla mancata o ritardata adozione di misure di protezione, anche delle più elementari.
In ogni caso, il Gdpr impone che la comunicazione di una violazione, corredata da una serie di informazioni obbligatorie, sia inoltrata all’Autorità entro 72 ore dal suo accertamento. Se il titolare non ha predisposto una procedura per la gestione di questi eventi, non è semplice raccogliere le informazioni per strutturare coerentemente la comunicazione nei tempi previsti.
Per questo motivo, è necessario che il titolare del trattamento predisponga una procedura per governare gli eventi di violazione e che la porti a conoscenza di tutte le componenti aziendali.
Nella malaugurata ipotesi che si verifichi, per qualunque motivo, una perdita o una sottrazione di dati, l’intera organizzazione deve sapere come comportarsi e come cooperare con le strutture aziendali incaricate di gestire l’evento.
La procedura per la gestione delle violazioni, la cui complessità o semplicità dipende dal modo di funzionare dell’impresa, deve illustrare in modo chiaro compiti e responsabilità delle risorse aziendali coinvolte nella corretta gestione di questo delicato momento e deve, quindi, diventare patrimonio condiviso.

Rispondere agli interessati
Il titolare del trattamento deve inoltre organizzarsi al meglio per rispondere alle eventuali richieste che gli interessati possono sottoporgli in riferimento all’esercizio dei diritti loro riconosciuti dalla normativa.
I beni (i dati personali), i diritti inalienabili – cioè dei singoli individui – sono “al centro” del Gdpr e tutti coloro che svolgono operazioni di trattamento di dati personali devono tenerlo ben presente.
Quando gli interessati chiedono, il titolare deve rispondere, al massimo entro un mese.
«Stai trattando mie informazioni personali? Quali dati relativi alla mia persona sono in tuo possesso? Perché li hai e per cosa li Se si è lavorato correttamente per prepararsi alla scadenza del 25 maggio 2018, data di applicabilità del Gdpr, sarà stata fatta un’analisi della situazione corrente e sarà stata colta l’opportunità di mettere ordine ed eliminare le informazioni vecchie e non più utilizzabili; sarà stata fatta anche una mappatura di processi e applicazioni per comprendere dove e come sono conservati i dati (incluse eventuali copie di sicurezza. In ogni caso, qualunque richiesta degli interessati comporta oneri per il titolare del trattamento che deve, lo ricordiamo, riscontrare la richiesta in modo tempestivo dopo essersi accertato dell’identità del richiedente; e per essere sicuri di intercettare tutte le richieste e di evaderle nella maniera corretta con il minor impiego possibile di risorse (persone e mezzi) è bene che i titolari del trattamento implementino una procedura che permetta loro di governare efficacemente i rapporti con gli interessati. risorsa alla quale è affidata la responsabilità di rispondere; chi ha ricevuto l’incarico di svolgere questo compito all’interno dell’azienda deve conoscere le possibili implicazioni, anche tecniche e legali, di simili richieste e può essere agevolato dalla disponibilità di modelli di risposta adatti alla maggior parte delle casistiche che potranno presentarglisi.
La procedura per la gestione delle richieste degli interessati è, quindi, un documento utilissimo per consentire all’organizzazione di rispondere alle richieste in modo efficiente e di dimostrare il rispetto del Gdpr.
Non disporne significa non aver compreso quanta attenzione sia dovuta agli interessati e soprattutto quanto l’adozione di misure organizzative efficaci renda più agevole la conformità alla legislazione vigente.
Tutte le componenti aziendali, anche in questo frangente, devono essere informate sul comportamento da tenere e sulle modalità di collaborazione con la funzione/ usi?». Le aziende potrebbero sentirsi porre questa domanda sempre più spesso, e rispondere potrebbe non essere così semplice o immediato. Molte sono le aziende che hanno le idee “confuse” sulla quantità di dati in loro possesso o sul luogo di memorizzazione; se pensiamo alla quantità di carta spesso conservata per anni in armadi che nessuno più apre, ci rendiamo conto della portata di una simile richiesta (sì, anche conservare documenti cartacei che contengono dati personali è un’attività di trattamento.)

In che modo occorre procedere con i documenti obbligatori
Va sottolineato che la vita delle aziende non è “immobile”, anzi è soggetta a continui mutamenti, che possono essere dettati a novità normative, da esigenze di business o cambiamenti del mercato, da modifiche dei processi. Tutti questi mutamenti possono comportare – e spesso comportano – la necessità di apportare modifiche ai documenti di cui s’è parlato. Si tratta, quindi, di documentazione “viva”, che richiede verifiche periodiche e, quando necessario, aggiornamenti.
La “storia” dev’essere conservata, per documentare la correttezza delle azioni del titolare del trattamento in presenza di determinate condizioni e in un determinato momento della vita dell’azienda; le vecchie versioni dei documenti destinati agli interessati, del registro dei trattamenti e/o delle procedure interne devono essere mantenute con indicazione del periodo di validità. Il titolare del trattamento fa dunque in modo che gli interessati abbiano sempre a disposizione la versione più recente dell’informativa; nei riguardi dei dipendenti, li rende consapevoli delle modifiche apportate alle le procedure in vigore e della necessità di fare riferimento ai documenti aggiornati.
Per quanto riguarda il registro dei trattamenti, potrebbe essere direttamente il Garante a chiedere che le siano mostrate le precedenti versioni del documento. È quindi necessario gestire i documenti della privacy e le aziende devono organizzarsi per farlo in modo efficiente. Le decisioni in merito al “come” fare sono lasciate al titolare del trattamento, ma è fondamentale che questo si organizzi per la conservazione delle evidenze che gli consentiranno di dimostrare di aver agito nel rispetto della normativa.

Altri adempimenti
Un’azienda con un buon livello di sensibilità rispetto al tema della protezione dei dati personali può decidere di predisporre altra documentazione per facilitare la corretta applicazione del Gdpr.
È quindi evidente che ci sono ancora molte cose che un’azienda può fare per diffondere la cultura della protezione dei dati personali e aumentare la consapevolezza dei propri addetti al trattamento. Le misure “organizzative”, insieme a quelle tecniche, rientrano nell’insieme più ampio delle misure di sicurezza che i soggetti che svolgono attività di trattamento di dati personali sono tenuti a implementare; tra le misure organizzative è possibile includere sia le istruzioni che il titolare del trattamento impartisce ai propri collaboratori per aiutarli a svolgere correttamente le proprie mansioni sia gli impegni che il titolare del trattamento assume nei confronti dei propri interessati. Predisporre un documento di politica che illustra alle parti interessate gli impegni che l’azienda assume in riferimento alla protezione dei dati personali a lei affidati; redigere un regolamento interno che indica con chiarezza quali sono i doveri e i comportamenti richiesti ai dipendenti quando svolgono trattamenti di dati personali; programmare periodicamente, anche su base annuale, un seminario per dipendenti allo scopo di “rinfrescare” le istruzioni chiave e accertarsi che siano ben comprese: si tratta di ulteriori opzioni che il titolare del trattamento ha a disposizione per contribuire al salto culturale di cui si è parlato all’inizio di questo intervento. C’è ampia libertà, insomma, e ampio spazio per la fantasia.
Ancora una volta è importante ribadire che tutti questi documenti sono soggetti allo stesso tipo di gestione dei documenti che abbiamo definito obbligatori. Tutto quello che l’azienda fa in questo ambito deve essere documentato e mantenuto aggiornato.

La formazione
Un’ultima importante notazione: il titolare e il responsabile del trattamento hanno l’obbligo di formaretutti coloro che trattano dati sotto la loro autorità.
La formazione può avvenire mediante documenti, seminari, corsi in aula o strumenti per la formazione a distanza; la decisione è libera e ciascuno sceglierà il mezzo che meglio soddisfa le proprie esigenze. L’evidenza di aver formato dipendenti e collaboratori deve però essere conservataper dimostrare di aver ottemperato agli obblighi normativi.

 

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Registro degli esposti così la trasmissione

Adempimenti: la comunicazione telematica all’Inail finalizzata alla tutela

Uno strumento indispensabile agli organismi pubblici della prevenzione per conoscere il tipo di rischio al quale gli operatori sono stati sottoposti nel corso della loro attività lavorativa. Ecco come procedere

Il registro degli esposti all’amianto rappresenta uno strumento informativo che permette agli enti pubblici di prevenzione di conoscere tutte le persone che, durante la loro attività lavorativa, sono state esposte al rischio amianto; deve riportare informazioni quali l’attività svolta dai lavoratori, i dati relativi agli agenti cancerogeni o mutageni utilizzati e il valore dell’esposizione a questi agenti, se noto, in termini di intensità, frequenza e durata. Queste informazioni possono essere utilizzate dagli utenti per scopi sanitari, assicurativi e previdenziali. Infatti, è facoltà del datore di lavoro richiedere agli stessi enti copia delle annotazioni individuali, contenute nel registro, in caso di assunzione di lavoratori che abbiano in precedenza esercitato attività che comportavano esposizione ad amianto. Recentemente è stato introdotto l’obbligo di trasmissione del registro di esposizione unicamente per via telematica.

Le precedenti norme di riferimento
L’ormai abrogato D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (recante «Attuazione delle direttive 89/391/Cee, 89/654/Cee, 89/655/Cee, 89/656/Cee, 90/269/Cee, 90/270/Cee, 90/394/Cee, 90/679/Cee, 93/88/Cee, 95/63/Ce, 97/42/Ce, 98/24/Ce, 99/38/Ce, 99/92/ Ce, 2001/45/Ce, 2003/10/Ce, 2003/18/Ce e 2004/40/Ce riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro») all’articolo 59-sexiesdecies. «Registro di esposizione e cartelle sanitarie e di rischio» prevedeva, tra l’altro:
• l’obbligo, per il medico competente, di provvedere a istituire e aggiornare una cartella sanitaria e di rischio per ciascuno dei lavoratori esposti ad amianto;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, di iscrivere i lavoratori esposti in un registro;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, in caso di cessione del rapporto di lavoro, di trasmettere all’Ispels la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.
Il successivo articolo 70 «Registro di esposizione e cartelle sanitarie”, inoltre, specificava in particolare i contenuti del registro nonché i relativi obblighi del datore di lavoro e del medico competente.

I modelli
Il D.M. Salute 12 Luglio 2007, n. 155, recante il «Regolamento attuativo dell’articolo 70, comma 9, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626. Registri e cartelle sanitarie dei lavoratori esposti durante il lavoro ad agenti cancerogeni» ha definito le modalità e i modelli per la tenuta del registro e delle cartelle sanitarie e di rischio dei lavoratori esposti ad agenti cancerogeni e la creazione da parte del medico competente della cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, prevedendo che i dati relativi agli accertamenti e la conseguente registrazione degli stessi possano essere trattati esclusivamente per le finalità di igiene e sicurezza del lavoro.
Questi modelli di tenuta del registro sono i seguenti:

• modello C626/1: dati anagrafici del datore di lavoro, sintesi delle principali caratteristiche dell’azienda (attività produttiva, agente utilizzato, addetti ecc.);

• modello C626/2: registrazione delle informazioni riguardanti i dati anagrafici di ogni lavoratore, l’attività svolta, l’agente utilizzato, l’intensità, la frequenza e la durata dell’esposizione;

• modello C626/3: comunicazione di variazioni intervenute nelle informazioni che caratterizzano l’azienda;

• modello C626/4: (qualora il lavoratore non ne sia in possesso): richiesta delle “annotazioni individuali” in caso di assunzione di lavoratori che hanno in precedenza esercitato attività con esposizione ad agenti cancerogeni presso altra azienda;

• Il decreto ha anche elaborato le specifiche per la compilazione dei modelli dei suddetti modelli, cui occorre fare pedissequo riferimento. Analogamente, il decreto in questione ha introdotto il modello per la compilazione delle cartelle sanitarie e di rischio.

Il rapporto con il D.Lgs. 81/2008
Come noto, il testo unico scurezza, vale a dire il D.Lgs n. 81/2008 recante «Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro», ha abrogato molte norme relative a numerosi precedenti dispositivi legislativi in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, secondo principi di uniformità, riunione e armonizzazione. Ciò premesso, ai sensi degli articoli 242 e 243 del capo II «Protezione da agenti cancerogeni e mutageni», del titolo IX «Sostanze pericolose» del testo unico sicurezza, i lavoratori per i quali la valutazione dei rischi ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti a sorveglianza sanitaria e sono iscritti in un registro nel quale è riportata, per ciascuno di essi, l’attività svolta, l’agente cancerogeno o mutageno utilizzato e, ove noto, il valore dell’esposizione a questo agente. Il suddetto registro è istituito e aggiornato dal datore di lavoro che ne cura la tenuta per il tramite del medico competente. Il responsabile del servizio di prevenzione e i rappresentanti per la sicurezza hanno accesso a questo registro. Il medico competente, per ciascuno di questi lavoratori, provvede a istituire e ad aggiornare una cartella sanitaria e di rischio.

Che cosa sono le Esedi
Innanzitutto, ai sensi dell’articolo 249 del capo III «Protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto» del medesimo titolo IX, è ribadito che, ai sensi dell’articolo 28, il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi dovuti alla polvere proveniente dall’amianto e dai materiali contenenti amianto, al fine di stabilire la natura e il grado dell’esposizione e le misure preventive e protettive da attuare. Inoltre, sempre ai sensi del suddetto 249, purché si sia in presenza di esposizioni sporadiche dei lavoratori e di debole intensità e si possa desumere dalla stessa valutazione dei rischi che il valore limite di esposizione all’amianto (0,1 fibre/c.c.), misurata in rapporto a una media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore, non sia superato nell’aria dell’ambiente di lavoro, si può prescindere dalla notifica dei lavori, dall’obbligo del ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori alla polvere proveniente dall’amianto o dai materiali contenenti amianto nel luogo di lavoro e, in ogni caso, al di sotto del valore limite, dalla sorveglianza sanitaria dei lavoratori e dall’iscrizione dei lavoratori nel registro degli esposti ad amianto, nel caso delle seguenti attività:
• manutenzioni di breve durata, non continuative, che interessano unicamente i materiali contenenti amianto in matrice non friabile (come, per esempio, coperture e canne fumarie in cemento amianto, pavimenti in vinyl amianto ecc.);
• rimozione che non comporti deterioramento di materiali non degradati in cui le fibre di amianto sono fermamente legate a una matrice (quindi, per i manufatti indicati al punto precedente);
• incapsulamento e confinamento di materiali contenenti amianto che si trovano in buono stato;
• sorveglianza, controllo dell’aria e prelievo di campioni ai fini dell’accertamento
della presenza di amianto in un determinato materiale.
Il testo unico sicurezza prevede poi, al comma 4 del medesimo articolo 249, che la commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza, istituita presso il ministero del Lavoro per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, deve provvedere a definire orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità relative alle attività indicate.
Inoltre, l’articolo 253 precisa che, per garantire il rispetto del valore limite di 0,1 fibre/ c.c. di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore e in funzione dei risultati della valutazione iniziale dei rischi, il datore di lavoro deve effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, aggiungendo, però, rispetto alle precedenti disposizioni, che questo vale tranne nei casi di esposizioni sporadiche e di debole intensità. Da un lato, poi, il legislatore estende l’obbligo dell’uso dei Dpi delle vie respiratorie anche alle attività con esposizioni sporadiche e di debole intensità, come indicato all’articolo 251, e, d’altro canto, per queste stesse attività, il datore di lavoro non è tenuto a effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, come previsto dall’articolo 253, quindi, in questi casi non si saprà mai se il valore limite è eventualmente ed eccezionalmente superato.
Successivamente, con la circolare, prot. n. 15/segr/0001940, del 25 gennaio 2011, «in ordine all’approvazione degli orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità (Esedi) all’amianto nell’ambito delle attività previste dall’art. 249 commi 2 e 4, del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 come modificato e integrato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106», il ministero del Lavoro, Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro ,ha disciplinato le attività Esedi introdotte dall’ormai abrogato D.Lgs. n. 257/2006 e ora riportate nel testo unico sicurezza.
Questa circolare identifica le Esedi, di cui all’articolo 249 comma 2 del D.Lgs. 81/2008, nelle attività che vengono effettuate per un massimo di 60 ore l’anno, per non più di quattro ore per singolo intervento e per non più di due interventi al mese, e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/L calcolate rispetto a un periodo di riferimento di otto ore.
La durata dell’intervento si intende comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore. All’intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile. Pertanto, la commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza, tramite il comitato n. 9, ha stabilito che le su indicate attività Esedi devono avere al massimo:

• una durata giornaliera di quattro ore per ciascun intervento;

• una durata mensile di otto ore pari a due interventi di, al massimo, quattro ore ciascuno;

• una durata annua di 60 ore, corrispondente a 15 interventi al massimo di quattro ore ciascuno, nell’ipotesi di non più di due interventi al mese;

• e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/l = 0,01 fibre/cm3, determinato in un periodo di riferimento di otto ore, pari quindi a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/cm3.

La commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza precisa altresì che la durata dell’intervento, definita in quattro ore, deve essere comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore e che a ciascun intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile, che del resto è precisato dall’articolo 251 del testo unico sicurezza, comma 1, lettera a) («il numero dei lavoratori esposti o che possono essere esposti alla polvere proveniente dall’amianto o da materiali contenenti amianto deve essere limitato al numero più basso possibile»).
In base alle procedure utilizzate dall’Inail per attuare gli indirizzi valutativi dell’esposizione, così come fissati dal ministero del Lavoro, è possibile procedere al calcol della presunta esposizione all’amianto da parte del singolo lavoratore identificato. I presupposti di questo calcolo sono i seguenti:

• la durata di un turno giornaliero è posta pari a otto h;

• in un anno si hanno 240 giornate lavorative.

Inoltre, ponendosi in una situazione estrema, vale a dire considerando nella fattispecie 15 esposizioni occasionali in un anno di durata non superiore a quattro ore (ovviamente non più di due interventi mensili di quattro ore ciascuno), pari a un’esposizione massima annuale di 60 ore, come previsto dalla commissione, si avrebbe una concentrazione media giornaliera di fibre di amianto alla quale il lavoratore sarebbe stato esposto durante l’anno pari a una concentrazione media giornaliera delle fibre molto al di sotto del valore limite di legge, pari a 0,1 fibre/cm3, pertanto il lavoratore, secondo i canoni Inail, non potrebbe essere considerato “esposto all’amianto”, ai sensi e per gli effetti delle leggi vigenti, anche se questo contrasta con quanto riportato al punto 4b) del D.M. 06 settembre 1994: «ai sensi delle leggi vigenti, il personale addetto alle attività di manutenzione e di custodia deve essere considerato professionalmente esposto ad amianto».

Lo strumento
Ai sensi dell’articolo 260 del suddetto apo III del medesimo Tu, il datore di lavoro deve iscrivere nel registro degli esposti i lavoratori per i quali, nonostante le misure di contenimento della dispersione di fibre nell’ambiente e l’uso di idonei Dpi, nella valutazione dell’esposizione abbia accertato che l’esposizione è stata superiore, all’interno del Dpi, a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/c.c. di aria, vale a dire 0,01 f/c.c., pari a 10 f/litro, e qualora si verifichino eventi non prevedibili o incidenti che possono comportare un’esposizione anomala di lavoratori per cui gli stessi devono abbandonare immediatamente l’area interessata. Una volta iscritti i lavoratori nel registro, il datore di lavoro deve trasmettere una copia dello stesso registro agli organi di vigilanza delle aziende sanitarie locali o territoriali e all’ex Ispesl (la legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione con modificazioni del decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, prevede l’attribuzione all’Inail delle funzioni già svolte dall’Ispels).
Generalmente, i servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (Spsal) delle aziende sanitarie verificano la completezza della documentazione e possono eventualmente richiedere integrazioni o effettuare un sopralluogo ispettivo. Il suddetto testo unico ribadisce altresì in modo chiaro che l’iscrizione nel registro deve intendersi come temporanea, poiché deve essere perseguito l’obiettivo della non permanente condizione di esposizione superiore a quella consentita.
A questo punto, è doveroso esprimere un parere personale, reso più volte pubblico2, osservando pertanto che la precisazione introdotta dal legislatore, già con la prima versione del D.Lgs. n. 81/2008, sulla temporaneità dell’iscrizione degli operatori amianto nel registro degli esposti, rappresenta una novità sia rispetto alle precedenti norme dell’abrogato decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 257, recante «Attuazione della direttiva 2003/18/Ce relativa alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti dall’esposizione all’amianto durante il lavoro», sia rispetto al contenuto del D.M. Salute 12 luglio 2007, n. 155. All’opposto, dovrebbe essere un diritto dei lavoratori della bonifica e smaltimento dell’amianto essere iscritti, sempre e comunque, nel registro degli esposti, a prescindere dal livello di esposizione, poiché non sempre è possibile accertare in modo deterministico quale sia stata la loro effettiva esposizione nel corso dei diversi anni. Inoltre, questa “temporaneità d’iscrizione nel registro degli esposti” contrasta apertamente con la notoria constatazione che l’effetto neoplastico non ha, teoricamente, valori di soglia (sono proprio i docenti medici che, nei corsi per operatori e coordinatori amianto, affermano spesso che «è sufficiente una fibra per contrarre la patologia», anche se è più corretto e accettabile ragionare in termini di durata e grado di esposizione.

Il D.Lgs. n. 81/2008, invece, non garantisce pienamente gli operatori e i coordinatori amianto, in particolar modo quelli addetti alle operazioni di bonifica da amianto compatto che, notoriamente, sono soggetti a bassi valori di concentrazione di fibre d’amianto. Infatti, in base all’attuale testo unico sicurezza, questi lavoratori potrebbero non essere mai iscritti nel registro degli esposti perché sarà agevole accertare, da parte del datore di lavoro, che gli stessi non hanno mai subito un’esposizione superiore al limite di legge e, quindi, non avranno più nemmeno il diritto alla sorveglianza sanitaria, a discrezione del medico competente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, come invece prevedeva la norma precedente (art. 59-quinquiesdecies D.Lgs. n. 626/1994, introdotto dal D Lgs. n. 257/2006).
In base al testo unico sicurezza altresì, il datore di lavoro, su richiesta, deve fornire, agli organi di vigilanza e all’Inail, una copia del registro. In caso di cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve trasmettere, per il tramite del medico competente, all’Inail la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.

L’Inail è tenuto a conservare i documenti sanitari per un periodo di quarant’anni dalla cessazione dell’esposizione. Pertanto, in base alla normativa attuale, si è tenuti a iscrivere i lavoratori nel registro degli esposti solo se ricorrono le condizioni suddette e, nel caso di iscrizione, il datore di lavoro è tenuto a trasmettere copia del registro agli organi di vigilanza e all’Inail e fornirlo su richiesta degli stessi enti, ma non è prevista una cadenza annuale di presentazione del registro.
La conservazione dei dati sanitari raccolti deve poi essere assicurata, come detto, per 40 anni dalla cessazione del lavoro comportante esposizione ad agenti cancerogeni, oppure per 30 anni ove cessi un lavoro comportante esposizione a radiazioni ionizzanti, e dovranno essere cancellati successivamente a questo termine dalla cartella sanitaria solo nel caso in cui questi dati non risultano indispensabili, quale fonte d’informazione polivalente in relazione alla relativa esposizione anche ad agenti cancerogeni.

Si fa altresì presente che la responsabilità dell’invio della documentazione è sempre del datore di lavoro perché il medico competente ne rappresenta soltanto il “tramite” per l’invio (articolo 260, comma 3, D.Lgs. 81/2008: «Il datore di lavoro, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, trasmette all’Ispels, per il tramite del medico competente, la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro di cui al comma 1»).
Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, nell’eventualità di mancata trasmissione all’Inail, tramite il medico competente, della cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro degli esposti, il datore di lavoro e il dirigente dell’impresa sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 1.800 euro.

La modalità telematica
Il decreto interministeriale 25 maggio 2016 n. 183, recante il «Regolamento recante regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del Sinp, nonché le regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81», tratta appunto delle regole tecniche per il funzionamento del sistema informativo per la prevenzione degli infortuni (Sinp) e prevede l’acquisizione telematica da parte dell’Inail dei dati contenuti nei Registri di esposizione, a partire dal 12 ottobre 2017. A tale scopo, è stato realizzato un servizio informatizzato per la trasmissione, da parte del datore di lavoro, dei registri di esposizione, accessibile tramite i servizi online del portale istituzionale dell’Inail.
L’introduzione del registro online consente di rendere immediatamente disponibili, oltre che all’Inail, ai servizi di prevenzione delle Asl territoriali, le informazioni contenute nei registri di esposizione delle singole imprese.

La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43
La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43, riportale informazioni più dettagliate sulle modalità di trasmissione telematica dei registri.
In particolare, ai fini dell’adempimento di quanto previsto dalla normativa vigente nei confronti di Inail e delle aziende sanitarie locali competenti per territorio, in una prima fase, a decorrere dal 12 ottobre 2017, con questo provvedimento l’Inail ha reso possibile al datore di lavoro titolare di posizione assicurativa territoriale (Pat), nonché ai soggetti abilitati dal datore di lavoro stesso, di utilizzare il nuovo servizio telematico “registro di esposizione”.
Gli altri datori di lavoro pubblici e privati, comunque assoggettati al medesimo obbligo, fino al 13 maggio 2018, hanno avuto la possibilità di inoltrare i dati afferenti al registro di esposizione tramite Pec, utilizzando il modello disponibile sul sito istituzionale dell’Inail, procedendo a un unico invio contestuale tramite posta certificata all’istituto, (all’indirizzo dmil@postacert. INAIL.it) e all’indirizzo di posta certificata
della Asl (Ast) territorialmente competente, sulla base dell’unità produttiva. Inoltre, la circolare in questione precisa che i dati contenuti nei registri di esposizione cartacei trasmessi entro l’11 ottobre 2017, così come i dati dei registri di esposizione ricevuti tramite Pec dopo la suindicata data, sono inseriti all’interno del precedente archivio informatico e che sarebbero stati resi disponibili nel registro online entro il mese di marzo 2018.
Il datore di lavoro e i suoi delegati possono inserire, modificare, visualizzare i dati e trasmettere il registro mentre il medico competente, qualora abilitato dal datore di lavoro all’utilizzo del nuovo servizio online può inserire, modificare e visualizzare i dati ma non può effettuare la trasmissione del Registro che rimane in carico al datore di lavoro e ai suoi delegati.
È inoltre possibile preimpostare i dati anagrafici delle aziende e delle unità produttive, al fine di agevolare i datori di lavoro nel processo di compilazione e trasmissione del registro. Sono poi state inserite funzioni
di facilitazione nella selezione per il settore economico (Ateco) e per la scelta e inserimento della professione e mansione del lavoratore esposto. È stata, altresì, prevista una funzione specifica per consentire di aggiungere le annotazioni individuali per singolo lavoratore esposto, prestante servizio per l’unità produttiva selezionata.

La circolare Inail 15 maggio 2018, n. 22
Con la circolare 15 maggio 2018, n. 22, a decorrere dal 14 maggio 2018, l’Inail ha consentito anche ai datori di lavoro, non titolari di posizione assicurativa territoriale (Pat), la trasmissione telematica alla stessa Inail e alla Asl (Ast) territorialmente competente sulla base dell’unità produttiva, al posto della Pec, di modo che il registro online è immediatamente accessibile ai funzionari dei servizi di prevenzione delle aziende sanitarie locali tramite l’inserimento delle credenziali in loro possesso nell’area dei servizi online del sito web dell’Inail.
Inoltre, questa seconda circolare precisa che l’Istituto sta progressivamente rendendo disponibili, nel relativo applicativo informatico registro di esposizione, i dati dei registri che i datori di lavoro hanno trasmesso in formato cartaceo e che saranno progressivamente inseriti anche i dati dei registri di esposizione pervenuti all’Istituto tramite Pec entro la data del 13 maggio 2018.

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