Aggiornamenti sui prossimi corsi

In relazione all’emergenza COVID-19 l’attività di formazione, in materia di sicurezza sul lavoro, per i lavoratori neoassunti e per i cambi di mansione, è stata ripristinata e resa obbligatoria in modalità “videoconference”.

Vi informiamo che, per supportare le imprese, ???????????? ???????????????????????????? ha ATTIVATO una piattaforma ad hoc per la fruizione del corso in videoconference e per rilasciare l’attestato di formazione al fine di adempiere agli obblighi normativi.
Per la PRENOTAZIONE al corso è necessario inviare una mail a formazione@studioasq.it.
Le modalità e i tempi per la fruizione del corso verranno comunicati successivamente.
Per il collegamento è sufficiente un computer, un tablet o uno smartphone e naturalmente un collegamento internet.

La validità dei corsi di aggiornamento (antincendio, primo soccorso, carrellista, lavoratori ecc…) è stata prorogata fino al 15/06/2020 o, comunque, fino ai termini previsti dalla norma.

RICORDIAMO che, in caso di riscontrate irregolarità da parte degli organi ispettivi, la mancata formazione di un lavoratore prevede sanzioni penali.

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Formazione inadeguata nella Babele delle lingue

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la Cassazione ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti per quanto riguarda la presenza, sul posto di lavoro, di operatori stranieri che non parlano, o parlano male, l’italiano. Una presa di posizione che si ispira al testo unico della sicurezza e all’accordo Stato-Regioni

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la di Cassazione, sezione 3 pen. (pres. Rosi; rel. Andronio) ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti sulla di formazione in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare, per quanto riguarda quella dei lavoratori stranieri.
Bisogna subito richiamare, in tal senso, l’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento sia a una serie di nozioni fondamentali (concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) che costituiscono la cosiddetta “formazione generale” sia ai rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione che costituiscono, invece, la cosiddetta “formazione specifica” che, com’è noto, trovano una puntuale regolamentazione nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Proprio grazie all’intensa attività giurisprudenziale degli ultimi anni, i concetti di “adeguatezza” e di “sufficienza” si stanno riempiendo di contenuti e sotto questo profilo, come vedremo, la sentenza in commento riveste una significativa importanza perché la Cassazione ha in questa occasione ancora meglio messo sotto la lente d’ingrandimento la delicata questione dell’efficacia e dell’adeguatezza dei corsi di formazione rivolti ai lavoratori stranieri.

Il fatto
La vicenda affrontata dalla Cassazione riguarda l’infortunio dell’operaio T.M. di un’impresa appaltatrice, inquadrato come preposto, che durante lo sbloccaggio del nastro trasportatore, dovuto ad anomalia, ha perso la vita.
Con la sentenza del 28 marzo 2018, la Corte d’Appello di Milano, a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2016, ha confermato la sentenza emessa nel 2014 dal tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati, D.C. rappresentante legale dell’impresa D. committente, e P. rappresentante legale della P. soc.coop., appaltatore, per i reati di cui agli artt. 41, primo e terzo comma; 42 secondo comma; 43, primo comma e 589, secondo comma, del codice penale, perché, ciascuno mediante condotta colposa di negligenze e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 del codice civile, avevano cagionato la morte di T.M., lavoratore dipendente della «ditta appaltatrice addetta alla manovalanza», attraverso l’inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 3, art. 71, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008, per quanto attiene agli obblighi dell’imputato D.C., e degli artt. 17, 26, comma 2, e 37, comma 7, del D.Lgs. n 81/2008, con riferimento agli obblighi a carico dell’imputato P. Va precisato che la Cassazione aveva annullato, però, la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello nel 2015, rilevando l’insufficienza della motivazione quanto al profilo dell’ampiezza e della serietà dell’obbligo informativo sui rischi lavorativi.
In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la sentenza assolutoria non aveva chiarito quale fosse il livello di approfondimento del documento di valutazione e della formazione in concreto svolta, a fronte del rischio smontaggio dello scivolo cui era addetto il lavoratore, né aveva chiarito se lo smontaggio potesse dirsi come anomalia prevedibile o imprevedibile, anche considerata la circostanza della presenza di un tubo che avrebbe potuto costituire un ostacolo allo spostamento dello scivolo.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello del 2018 sia D.C. sia P. avevano proposto ricorso per Cassazione censurando l’operato dei giudici sotto vari profili; concentrando l’attenzione su quello della formazione, che qui interessa, i ricorrenti avevano lamentato l’omessa valutazione di controprove dichiarative ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, a loro avviso, i giudici del rinvio in contrasto con le indicazioni contenute nella sentenza di annullamento, avrebbero omesso di approfondire i dirimenti aspetti della violazione degli obblighi informativi cui erano tenuti gli imputati e dell’eventuale abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore, facendo rilevare che per quanto riguarda le prove testimoniali gli stessi giudici avrebbero considerato solo parzialmente le dichiarazioni rese dai testimoni M., B. C. e C.E., omettendo qualsivoglia valutazione su profili dirimenti. ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il teste B.C., consulente esterno della sicurezza sul lavoro, aveva dichiarato che i corsi di formazione venivano eseguiti direttamente in azienda ogni tre o quattro mesi, che il lavoratore vittima dell’incidente partecipava ai corsi tenuti in italiano, ma compresi da tutti i lavoratori presenti, e che durante gli stessi veniva espressamente indicata la procedura da seguire in caso di guasto. Aveva precisato, altresì, che la predetta procedura impediva qualsivoglia partecipazione diretta da parte del lavoratore, tenuto a contattare il tecnico della manutenzione, unico incaricato della risoluzione dei guasti dei macchinari.
E ancora, sempre secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valorizzare le dichiarazioni rese dal teste B. (responsabile del reparto) che aveva confermato il regolare svolgimento dei corsi di formazione tenuti dal consulente B.C. e aveva ribadito che il T.M. non era autorizzato allo smontaggio del nastro trasportatore.
Identiche dichiarazioni sarebbero state rese dal teste M., dipendente della P. soc. coop. e unico testimone oculare presente al momento dell’incidente. Quindi, secondo i due imputati, queste dichiarazioni sarebbero idonee a dimostrare il corretto e abituale svolgimento di corsi di formazione rivolti ai dipendenti delle due società coinvolte, nonché l’abnormità della condotta tenuta dal lavoratore, cimentatosi, imprevedibilmente, in un’attività non rientrante nella loro competenza.

La legittimità
La Cassazione ha, tuttavia, respinto i ricorsi ritenendoli infondati. In particolare, per quanto riguarda la formazione, i giudici di legittimità hanno tenuto a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’Appello non ha omesso di valutare le dichiarazioni testimoniali richiamate nel ricorso, ma, pur valutandole, le ha ritenute immeritevoli di prevalere rispetto alle dichiarazioni di senso contrario, specifiche, complete e soprattutto reciprocamente riscontrate.
In particolare, per quanto riguarda i corsi di formazione, i giudici di merito non si sono limitati a riportare la testimonianza del consulente B. C., nella parte in cui lo stesso ha confermato il regolare svolgimento dei corsi all’interno dell’azienda, ma hanno, altresì, richiamato il prosieguo della testimonianza «(…) da cui è emerso con pacifica attendibilità che i corsi di formazione erano tenuti in lingua italiana nonostante i dipendenti impiegati nell’azienda appaltatrice fossero per la maggior parte stranieri».
Sottolineano ancora i giudici che, più precisamente, i corsi di formazione erano tenuti «(…) soltanto in lingua italiana anche se rivolti ad una compagine di lavoratori stranieri per buona parte incapaci di comprendere l’italiano»; di conseguenza sono stati ritenuti inidonei a garantire il necessario livello di preparazione in quanto appare evidente che, anche da un punto di vista metodologico, la formazione così erogata diventa “zoppa” in quanto solo formale e non sostanziale come, invece, richiede la norma.
Sotto questo profilo giova ricordare che il già citato art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga proprio il datore di lavoro a compiere preliminarmente una verifica finalizzata a stabilire il livello di conoscenza della lingua veicolare da utilizzare nei corsi e, quindi, un accertamento in concreto della conoscenza dell’italiano cosa che sembra non sia avvenuta nel caso de quo.

Una parola sui rischi
Secondo la Cassazione, quindi, i corsi di formazione predisposti dagli imputati, sebbene svolti con cadenza trimestrale, non potevano ritenersi sufficienti a garantire ai lavoratori un idoneo livello di competenze anche perché, come emerso dalle testimonianze, avevano «(…) carattere generale e poco approfondito, non prevedevano insegnamenti differenziati per le singole mansioni attribuite ai dipendenti».
Sotto questo profilo viene sottolineato che, in effetti, durante i corsi venivano fornite indicazioni generali sul complesso delle lavorazioni compiute negli stabilimenti, ma secondo i giudici « (…) non erano idonei a formare i lavoratori in ordine allo svolgimento delle specifiche mansioni cui erano preposti e ad informarli in merito al complesso dei rischi connessi non solo alla propria attività, ma anche alle ulteriori operazioni inevitabilmente interferenti con le lavorazioni di propria competenza».
Di conseguenza, per i giudici, la formazione è risultata carente del requisito della specificità, anche in ordine ai rischi da interferenze, e quindi ritenuta anche per questo motivo non adeguata.

Il comportamento abnorme
Per quanto riguarda, poi, l’accertamento dell’abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore T.M. nella sentenza viene precisato che era “non rara” la necessità di intervenire sulle frequenti anomalie del macchinario gestito dall’infortunato. Infatti, sarebbero stati dimostrati frequenti interventi di sbloccaggio del nastro trasportatore che avrebbero richiesto una specifica formazione dei lavoratori o, quanto meno, una concreta informativa in ordine ai rischi connessi allo svolgimento di quell’attività, a prescindere dalla tipologia di intervento da compiere per garantire la ripresa del funzionamento dei macchinari. Per altro si osservi che nella sentenza è anche sottolineato che la Corte d’Appello ha accertato che, in effetti, sussisteva un quadro operativo privo di un’effettiva distinzione di ruoli, di competenze e di mansioni «…tanto che il T.M. era solo formalmente considerato un “preposto”, ma in realtà svolgeva attività di operaio semplice al pari di tutti gli altri lavoratori».

La verifica
In definitiva, quindi, queste omissioni – unitamente ad alcune altre come, ad esempio, la genericità del Duvri – hanno radicato la responsabilità dei due imputati; ma ciò che qui preme di più sottolineare è che con la sentenza n. 16498/2019 la Cassazione ha focalizzato, quindi, forse meglio che in passato 2 una delle più importanti “patologie” della formazione che frequentemente si registrano nella prassi: l’attuazione di un intervento formativo in italiano rivolto a una platea di lavoratori stranieri non in grado, però, di comprendere l’italiano. Bisogna ricordare che, sotto questo profilo, proprio i dati sul fenomeno infortunistico e la massiccia apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri hanno indotto il legislatore nel 2008 a introdurre, con l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 81/2008, il già citato obbligo della verifica preventiva della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo. Secondo questa norma, infatti, il «(…) contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo».
Per altro, giova anche ricordare, infine, che la rilevanza di questa problematica emerge anche dalla disciplina regolamentare dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, che prevede nei corsi rivolti a lavoratori stranieri anche le opzioni dell’ausilio di mediatori interculturali o di traduttori e il ricorso a programmi di formazione preliminare in modalità e-learning.

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La formazione è un obbligo e deve essere verificata

Non è sufficiente trasferire al lavoratore conoscenze teoriche e pratiche: la sua preparazione deve, infatti, basarsi su un’attività meticolosa, specifica, concreta, applicata e sperimentata. Senza dimenticare l’affiancamento di personale più esperto in grado di verificare l’acquisita padronanza da parte dell’addetto delle operazioni che è chiamato a svolgere. Un principio, questo, da non trascurare. Obiettivo: garantire la più elevata sicurezza possibile

Sembrerebbe superfluo, oggi, ribadire, ancora una volta, l’importanza di un’adeguata formazione e informazione per ogni lavoratore che si accinga a intraprendere una nuova mansione, ma in realtà le molteplici situazioni e circostanze che si vengono a incontrare nell’ambiente lavorativo rendono ancora necessario richiamare i principi già espressi da una consolidata giurisprudenza in materia e aggiungere altre direttive che, sulla base di una specifica normativa, riescano a garantire sempre e comunque, la sicurezza di chi lavora.
La suprema Corte, in una recente pronuncia (Cass.pen. sez.IV, n. 54803, del 7 dicembre 2018) ha affermato questo principio,
sottolineando, appunto, l’importanza della formazione dei lavoratori e di quanto essa debba essere meticolosa, specifica e sempre più concreta, applicata e sperimentata.
Il legislatore non ha trascurato questo aspetto: il D.Lgs. n. 626 del 1994, agli articoli 37 e 38, aveva previsto una specifica disciplina che doveva rispondere all’esigenza di «informare, formare ed addestrare» il lavoratore, e questo argomento non è stato trascurato, successivamente, nel D.Lgs. n. 81 del 2008 il cui articolo 37 detta le regole per un’adeguata «formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti» su tutto ciò che concerne la prevenzione e la protezione della salute e della sicurezza dei dipendenti contro i rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Ovviamente, come in tutti i casi, l’efficienza della disciplina dettata dal legislatore incontra e palesa i propri limiti nel momento in cui viene applicata alle esperienze concrete, soprattutto, le più delicate come questa in cui si tratta del “lavoro” che è il centro della quotidianità di tutti noi e della salvaguardia della salute e della vita umana. Passare dalla teoria alla pratica non è semplice, così come, nel caso specifico, fornire al lavoratore tutte le informazioni teoriche sulle mansioni che andrà a svolgere, rendendolo edotto sul corretto funzionamento di tutti i dispositivi che dovrà utilizzare e dei rischi a cui potrà andare incontro, potrebbe risultare non sufficiente se a tutto questo non si affianca un’adeguata preparazione pratica, un vero e proprio “addestramento” a opera di persone esperte, in grado di verificare, concretamente, la “acquisita padronanza”, da parte del lavoratore, delle operazioni da compiere.

Il fatto
Un lavoratore, intento a operare su una pressa di stampaggio a caldo per la produzione di piccoli pezzi metallici, denominati “gomiti”, aveva prelevato un pezzo incandescente dal nastro con le pinze, introducendo la mano sinistra sotto lo stampo e premendo inavvertitamente con il piede il comando a servizio della pressa, permettendo a questa di effettuare un altro ciclo di lavorazione mentre aveva ancora la mano sotto lo stampo, determinando così l’infortunio dal quale erano derivate le lesioni personali. Dall’istruttoria era emerso che la vittima era stata addetta alla pressa solo qualche giorno prima dell’infortunio, che era uno stampatore e non aveva alcuna competenza nello specifico settore; la formazione impartitagli era stata del tutto insufficiente, il corso generale sul funzionamento dei macchinari era durato solo quattro ore e l’addetto era stato avviato a lavorare sul macchinario in questione dopo appena due giorni, senza una previa verifica pratica e in assenza di un vero e proprio affiancamento e di una corretta supervisione. La datrice di lavoro era stata condannata in primo e in secondo grado, per il reato di cui all’articolo 590 del codice penale ai danni del proprio dipendente (per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia) e per la violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (articolo 37 del D.Lgs. n. 81 del 2008).

La legittimità
Il ricorso dell’imputata in questione ha fatto sì che il caso venisse sottoposto al giudizio della suprema Corte che ha, dunque,
ripercorso l’argomento focalizzando e sottolineando alcuni elementi determinanti
in materia. L’unico motivo di ricorso addotto dalla
difesa aveva evidenziato «l’interferenza della condotta della vittima sul nesso causale, che era stato ritenuto abnorme, in considerazione del fatto che il ciclo produttivo prevedeva espressamente che l’operatore non inserisse gli arti
nell’area di lavoro, avendo, inoltre, il dipendente, omesso di utilizzare i dispositivi di sicurezza forniti».
In realtà, il concetto di “abnormità” cui fa ricorso la difesa è molto più preciso e definito di quello che si possa pensare: non indica semplicemente una condotta che, per quanto imperita, imprudente e negligente, possa rientrare, comunque,
nelle mansioni assegnate, dal momento che «la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standard di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro».
L’ atto “abnorme” non consiste nel compimento da parte del lavoratore di un’operazione che, pure inutile e imprudente, non sia, però, eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo. Perché «la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio «contegno abnorme» del lavoratore medesimo, configurabile come un «fatto assolutamente eccezionale» e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (Cass. Pen. Sez. IV, n. 22249, del 14 marzo 2014).
Un “comportamento” di questo tipo è interruttivo, non perché eccezionale, ma perché “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Cass. Pen. sez.IV, n. 49821, del 2012).
In questo caso, e solo in questo caso, si è in presenza di una condotta imprevedibile e, quindi, ingovernabile da parte di chi riveste una posizione di garanzia come il datore di lavoro che è depositario di tutta una serie di obblighi finalizzati a garantire la formazione del lavoratore al fine di preservarne, appunto, la sicurezza.
Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Cass. Pen. sez.IV, n. 39765 del 2015).
Ecco perché addurre, a propria difesa, il fatto che il lavoratore sia stato munito degli opportuni dispositivi di sicurezza e che sia stato informato dei rischi connessi con l’attività che si accinge a svolgere non basta a giustificare l’estraneità del datore di lavoro all’accadimento da cui è derivato l’infortunio.
E tanto meno si può escludere la responsabilità del “garante della sicurezza” qualora risulti che il lavoratore avesse un proprio apprezzabile bagaglio di conoscenze in materia, derivato per e etto di una lunga esperienza operativa o per il travaso di conoscenze che, comunemente, si realizza nella collaborazione tra lavoratori.
L’apprendimento derivante dal vissuto del lavoratore medesimo, dalla condivisione delle esperienze e dalla prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e formazione prevista dalla legge (Cass. Pen. sez. IV, n. 21242, del 2014).

I quattro aspetti irrinunciabili
Tutte queste sfumature della motivazione addotta dall’imputata, nel caso di specie, sono state escluse dalla suprema Corte che ha tenuto a stigmatizzare come «l’obbligo di formazione non si esaurisce nel passaggio di conoscenze teoriche e pratiche al dipendente, dovendo il soggetto obbligato verificare anche che esse siano divenute patrimonio acquisito in concreto, ciò che solo una effettiva prova pratica, sotto la supervisione di un tutor può garantire».
Quattro sono, dunque, i punti cardine dell’adeguata preparazione del lavoratore all’approccio con una nuova mansione da svolgere:
• la formazione intesa come l’opportuna informazione su tutto ciò che riguarda l’attività da svolgere, i tempi e i modi per svolgerla, i rischi connessi a essa e l’uso appropriato dei mezzi di sicurezza e di protezione dati in dotazione per proteggersi e prevenire eventuali danni;
• la verifica intesa come la prova concreta che tutte le conoscenze trasmesse al lavoratore siano state acquisite al punto tale da renderlo edotto su tutti gli aspetti inerenti allo svolgimento della propria mansione e al funzionamento degli apparecchi necessari per lo svolgimento dell’attività;
• la prova pratica intesa come un vero e proprio “addestramento” da cui possa derivare la consapevolezza di ciò che si va a fare, dell’attività che si è chiamati a svolgere e della padronanza di tutte le tecniche necessarie per utilizzare, senza, rischi aggiuntivi, gli attrezzi, i macchinari ed i dispositivi che rientrano nello svolgimento della mansione;
• la supervisione di un tutor, cioè di una persona altamente esperta in materia, che si rende artefice di tutti i suddetti controlli e ne dà la garanzia, se tutto è avvenuto secondo quanto stabilito dalla legge per assicurare al massimo la sicurezza e, dunque, la tutela della salute del lavoratore.

Il punto
Senza alcun dubbio, dunque, questa pronuncia della Cassazione rappresenta un ulteriore passo avanti in materia di protezione e prevenzione nell’ambiente di lavoro.
Ci si allontana da un discorso puramente teorico per avviarsi a un processo di formazione del lavoratore sempre più pratico e concreto dove “l’informazione” rappresenta il primo passo di un progetto di “migliore consapevolezza” per realizzare un ambiente lavorativo il più sicuro possibile, dove si prende coscienza dei rischi esistenti e si cerca di controllarli e di gestirli
senza andare ad aggravare le situazioni con un comportamento “anomalo” e inappropriato che, come nel caso in esame, è derivato proprio dalla mancanza delle conoscenze teoriche e pratiche e della preparazione richiesta per lo svolgimento delle proprie mansioni.

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FORMAZIONE 4.0: prorogato il credito d’imposta

La legge di bilancio proroga il credito d’imposta per incentivare gli investimenti in formazione del personale dipendente nel settore delle tecnologie abilitanti condivise attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali. Il percorso formativo deve esclusivamente riguardare quelle attività svolte per acquisire o consolidare le conoscenze previste dal piano nazionale impresa 4.0.

Si proroga per tutto il 2019 l’applicazione del credito d’imposta formazione 4.0

Attivata nel 2017 e avviata con Decreto attuativo a maggio 2018, il credito di imposta per la formazione 4.0, è una misura fondamentale per le imprese che investono nella formazione del personale nelle materie aventi a oggetto le tecnologie rilevanti per il processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese previsto dal “Piano Nazionale Impresa 4.0”, cosiddette “tecnologie abilitanti”.

I vantaggi per le imprese dati dal credito di imposta formazione 4.0 è relativa al solo costo aziendale del personale dipendente per il periodo in cui è impegnato nelle attività formative nella misura del 50% per le Piccole imprese, al 40 % per le medie e al 30% per le grandi imprese delle spese. È riconosciuto fino ad un importo massimo annuale di 300mila euro per ciascun beneficiario ad esclusione per le GI in cui il limite massimo è pari a 200 mila euro.

Le agevolazioni sono rivolte a tutte le imprese che effettuano investimenti in formazione senza alcun limite in relazione a:
– Forma giuridica
– Settore produttivo (anche agricoltura)
– Dimensioni
– Regime contabile

Non si applica invece a:
– Soggetti con reddito di lavoro autonomo
– Soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica
– Enti non commerciali

Come si accede al Credito di imposta formazione 4.0?
Si accede a seguito di un piano formativo condiviso con le Parti Sociali e trasmesso alla Direzione Provinciale del Lavoro. E’ obbligatoria una documentazione contabile certificata al termine delle attività formative ed inoltre l’obbligo di conservazione di una relazione che illustri le modalità organizzative e i contenuti delle attività di formazione svolte. A seguito, in fase di redazione del bilancio, si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24 in via esclusivamente telematica all’Agenzia delle Entrate.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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Il Rspp tra posizione di vertice e responsabilità

Il punto del giurista alla luce della legislazione e delle pronunce dei giudici

Domanda: in un’azienda di dimensione medio-grandi, il possesso della qualifica di dirigente prevenzionistico è la migliore soluzione per la nomina a titolare del Spp? E nel caso poi il datore di lavoro intendesse conferire a questa figura una delega di funzioni, si tratterebbe di una scelta condivisibile e anche consigliabile?

 

In base a quanto dispone l’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delle piccole e medie aziende, elencate nell’allegato II al decreto, può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché quelli di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La possibilità che il datore di lavoro accentri su di sé le funzioni direttive, decisionali e di programmazione della sicurezza, è opzione legislativamente consentita principalmente in ragione dell’entità dimensionale dell’azienda (sotto il profilo della forza lavoro occupata) e sempre che non sussistano fattori di rischio professionale elevati (si tratta dei casi elencati all’art. 31, comma 6 del D.Lgs. n. 81/2008: imprese soggette a rischio di rilevante incidente industriale o rientranti nelle seguenti categorie: centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, aziende industriali con oltre 200 lavoratori, aziende estrattive con oltre 50 lavoratori, aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, strutture di ricovero e cura sia pubbliche sia private con oltre 50 lavoratori). Con riguardo alle realtà aziendali di grandi dimensioni o a rischio elevato, il D.Lgs. n. 81/2008 impone senza eccezioni che le due aree funzionali di datore di lavoro e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione siano ricoperte da soggetti diversi – dunque siano e si mantengano distinte – nonché l’obbligo che il Rspp sia un soggetto interno all’organizzazione aziendale.

La distinzione soggettiva tra il datore di lavoro e Rspp è funzionale al modello di impresa compartecipativa, collaborativa e sinergica che è diretta derivazione dallo standard comunitario della direttiva quadro 89/391/Cee, e che assegna ruoli specifici a soggetti diversi, in base al presupposto che dalla loro interazione e confronto derivi e si esprima un valore aggiunto in termini di sicurezza e di salute: un risultato finale, di sintesi superiore alla somma di quelli derivanti dall’azione isolata di ciascuno.

È in questo sistema integrato della sicurezza, rivolto alla valorizzazione nell’ambiente di lavoro delle competenze professionali di ciascuno, quale che ne sia il livello funzionale, che permane nondimeno l’esigenza di mantenere ferma la distinzione tra il momento decisionale, proprio del datore di lavoro, e il momento collaborativo e partecipativo – ma di supporto – svolto dal servizio di prevenzione e protezione.Nei casi in cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può identificarsi con il datore di lavoro, si pone quindi la problematica di individuare la o le qualifiche funzionali compatibili con la designazione a Rspp. Ovviamente la questione assume rilievo solo con riguardo al caso della designazione interna del Rspp (ipotesi contemplata dal combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008), giacché, nel caso di designazione di persona esterna all’organizzazione aziendale, con incarico professionale di lavoro autonomo, non assume rilievo il possesso della qualifica funzionale.

Ciò detto, una prima considerazione è che mentre il servizio di prevenzione e protezione può essere una persona giuridica – sempre che organizzato esternamente all’azienda – (la direttiva 89/391/Cee parla di “servizi esterni”), l’incarico di Rspp può essere conferito solo e necessariamente a una persona fisica. Ciò si ricava inequivocabilmente dalla definizione del’art. 2, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008 («responsabile del servizio di prevenzione e protezione: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi»).

La seconda considerazione è che sussiste una incompatibilità assoluta tra la qualifica di Rspp e quella di lavoratore subordinato (o assimilabile) oggetto della tutela prevenzionistica ai sensi della ampia definizione che ne dà l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Questa incompatibilità – non scritta expressis verbis nelle norme – è ricavabile con certezza dal sistema. Il lavoratore infatti, in quanto primo beneficiario dell’azione di prevenzione e di protezione dai rischi professionali, non può assumersene l’onere in prima persona, così cumulando inaccettabilmente, oltre i limiti indicati dall’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, il duplice profilo di soggetto attivo e passivo della tutela. Inoltre, dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione si pone da un lato in rapporto di collaborazione con il datore di lavoro, e dall’altro lato in rapporto dialettico con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non si può disconoscere che egli abbia la titolarità di interessi diversi e spesso divergenti – seppur auspicatamente componibili – da quelli propri della categoria dei lavoratori subordinati. Ammettere che a svolgere la funzione di Rspp possa essere chiamato un lavoratore (dipendente), significa togliere identità a entrambe le figure, tanto più nei momenti di incontro istituzionale – qual è, ad esempio, quello della riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008 (alla quale i lavoratori partecipano non uti singuli, bensì a mezzo del loro Rls). Per altro verso non può non considerarsi che il compito prevalente del Rspp è quello di collaborare con il datore di lavoro all’attività di valutazione dei rischi e di redazione del correlato documento di valutazione (Dvr); cosa che non attiene in alcun modo allo statuto funzionale del prestatore di lavoro subordinato, a meno di stravolgerne la fisionomia. Per di più, se a responsabile del servizio di prevenzione e protezione potesse essere designato un lavoratore, a questi sarebbe paradossalmente consentito lo svolgimento di un’azione collaborativa con il datore di lavoro che invece è inibita al rappresentante (dei lavoratori) per la sicurezza, prevedendo infatti il testo unico che il Rls, in ambito di valutazione dei rischi, svolga un apporto di tipo meramente consultivo. Quanto all’ipotesi che quale Rspp possa essere designato un preposto, è decisiva la considerazione che, in base alle consolidate acquisizioni dottrinarie e giurisprudenziali, non spetta al preposto adottare le misure di prevenzione e di protezione stabilite dalla normativa di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, essendo suo compito quello (consequenziale) di esercitare la doverosa vigilanza affinché le misure predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti, ricevano concreta ed esatta attuazione (cosiddetta vigilanza oggettiva), nonché di verificare la specifica osservanza, da parte dei lavoratori, delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione (cosiddetta vigilanza soggettiva). Dal momento che questo sistema, correntemente definito del “doppio binario” di responsabilità, delinea due differenti livelli di responsabilità tendenzialmente alternativi tra loro (datore di lavoro e dirigenti da un lato, preposti dall’altro), ne consegue la sostanziale inconciliabilità del coinvolgimento della figura del preposto in attività – quelle proprie del Rspp – che sono di prevalente collaborazione con il datore di lavoro, per di più finalizzate anche all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, il quale deve tra l’altro obbligatoriamente contenere (art. 28, comma 2, lettere b) e c)) «l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione» e “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza». Dal momento che gli obblighi di sicurezza e di salute non gravano direttamente sulla figura del preposto, ne consegue che, pur in assenza di un divieto normativamente codificato o ricavabile dai principi, sussistono evidenti ragioni di opportunità che suggeriscono – senza imporlo – di mantenere la figura del preposto nella sfera esclusiva (o quanto meno preminente) della vigilanza sul luogo di lavoro che funzionalmente gli compete.

Dunque, l’ipotesi più conforme ai principi è che a responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno sia designato un profilo professionale più consono e funzionale, tanto sul piano decisionale, che su quello di autonomia delle funzioni e di competenza professionale, ai compiti del Rspp come definiti dalla legge. Non è necessario che si tratti di un dirigente giuslavoristico, ma è sconsigliabile che venga designato un preposto prevenzionistico.

Ciò chiarito, resta ora da a rontare il secondo spunto di riflessione, inerente alla possibilità di conferire validamente al Rspp (chiunque esso sia, finanche un soggetto esterno all’organizzazione aziendale) una delega di funzioni di ambito prevenzionistico, precisandone, in caso affermativo, i contenuti e l’estensione. Sotto questo profilo la tematica ha indubbiamente una soluzione positiva, salvo delinearne meglio i contorni. Infatti, la semplice nomina a Rspp non comporta di per se stessa alcuna diretta assunzione di responsabilità di ambito contravvenzionale, giacché questa figura assume funzioni meramente collaborative e tecnico-valutative rispetto alle prerogative del datore di lavoro, il quale rimane così unico titolare del potere decisionale e di spesa (sul tema, ex multis, da ultimo Cass. pen. sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321). Dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non rientra, per consapevole scelta legislativa, tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, il suo agire non è dunque direttamente rapportabile a condotte contravvenzionali penalmente sanzionate. Dal che deriva che l’utilizzazione della competenza professionale del Rspp da parte del datore di lavoro, assumendo la forma del cosiddetto “avvalimento funzionale”, determina l’assoluta estraneità, dal profilo funzionale del primo, del fattore di condivisione -e a maggior ragione di assunzione – del profilo di responsabilità contravvenzionale del secondo. Il che non vuol dire che il Rspp non possa essere chiamato a rispondere -in caso di condotta colposa – in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati). Del pari, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, è ipotizzabile una responsabilità penale per colpa del Rspp, ai sensi degli artt. 589 o 590 del codice penale (come la giurisprudenza ha da tempo chiarito: tra le tante Cass. pen. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11492; Cass. pen. sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2011, n. 28779; Cass. pen. sez. IV, 21 dicembre 2010, n. 2814. Da ultimo, si segnalano le pronunce di Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 2406; Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 3313; Cass. pen. Sez. IV, 20 febbraio 2017, n. 8115; Cass. pen. Sez. IV, 19 maggio 2017, n. 24958; Cass. pen. Sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 4941; Cass. pen. Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale.

Ciò che manca è peraltro, come si è già detto, una responsabilità di tipo contravvenzionale. All’opposto, con il conferimento della delega di funzioni, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non limita la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì diventa titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa. Egli è perciò investito iure proprio (sia pure a titolo derivato) di quella quota di responsabilità contravvenzionale corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate.

Il conferimento della delega muta, per così dire, l’obbligazione del Rspp da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato, costituendo in capo al medesimo una posizione di garanzia dell’attuazione degli obblighi e degli adempimenti stabiliti dalla normativa prevenzionale e di igiene del lavoro. In tal modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del Rspp – non in quanto tale, bensì nei limiti in cui essa sia espressione delle funzioni delegate – diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale.

La notazione finale sul tema è che il D.Lgs. n. 81/2008 non contiene l’esplicito divieto a che il Rspp sia dotato di poteri decisionali e di spesa (anche se a tal fine occorre – quanto meno nei casi in cui il Rspp non sia (già) un dirigente aziendale – il conferimento di un atto di delega effifcace).

Deve però essere ulteriormente precisato che il Rspp, quand’anche munito di delega, non può mai sostituirsi al datore di lavoro per quanto riguarda gli adempimenti che dal decreto sono definiti come non delegabili secondo la previsione dell’art. 17 del testo unico. Neppure al Rspp può essere conferita una delega così ampia da farne ritenere il profilo funzionale – ipotesi che può verificarsi solo nelle imprese di grandi dimensioni – assimilabile alla figura del cosiddetto “datore di lavoro delegato” (nozione questa estrapolabile dalla locuzione «o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» contenuta nella definizione di datore di lavoro dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008). Ciò urterebbe infatti contro il divieto di cumulo funzionale ricavabile sul piano interpretativo (uso dell’argomento a contrario) dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale, per le imprese di cui all’allegato II al decreto, postula la necessaria distinzione sia funzionale che soggettiva tra datore di lavoro e Rspp.

Neppure, infine, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere delegato a rappresentare il datore di lavoro nella riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008, potendo bensì il datore di lavoro farsi rappresentare in questa sede, ma da persona comunque diversa da quelli che sono i partecipanti necessari alla riunione. E siccome sia il datore di lavoro sia il Rspp sono figure a partecipazione necessaria, la loro presenza fisica deve essere distintamente incarnata, per poter compiutamente garantire l’esprimersi di quel confronto dialettico cui la riunione periodica è funzionale.

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Formazione alla sicurezza si può fare di meglio

Una proposta che parte dal Documento di Valutazione dei Rischi per essere più vicini alle esigenze dei lavoratori

 

Una legislazione divenuta corposa con l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 stabilisce una regola poco consona alla moltitudine di diversità organizzative esistenti, attraverso la sommaria suddivisione delle aziende in tre gruppi di rischio. E divenendo inefficace anche ai fini della gestione di quanto definito nel documento di valutazione

 

La sicurezza sul lavoro, relativamente all’obbligo di informazione, formazione e addestramento, fin dal 1955, con il punto b. dell’unico comma dell’articolo 4 del D.P.R. 547 del 27 aprile 1955 ha posto, fra gli obblighi del datore di lavoro (nonché dei dirigenti e dei preposti, forse troppo genericamente) l’obbligo di “rendere edotti i lavoratori”.
La locuzione “rendere edotti” è stata posta, pertanto, fra i tre capisaldi del comportamento virtuoso per la gestione della sicurezza di un datore di lavoro. Con l’approvazione del D.Lgs. 626 del 19 settembre 1994, questo approccio è stato confermato e sono stati introdotti due articoli, che specificavano le modalità di gestione della informazione (art. 21) e della formazione (art. 22). Inoltre, il D.Lgs. n .626/1994 conteneva specifici articoli, che richiedevano l’obbligo della formazione e informazione per quasi ognuna (mancava quella relativa ai Dpi e ai campi elettromagnetici) delle tipologie di rischi trattati:

  • art. 37 – Informazione (per uso delle attrezzature di lavoro);
  • art. 38 – Formazione ed addestramento (per uso delle attrezzature di lavoro);
  • art. 49 – Informazione e formazione (per movimentazione manuale dei carichi);
  • art. 49-nonies – Informazione e formazione dei lavoratori (per protezione da agenti fisici);
  • art. 56 – Informazione e formazione (per uso di attrezzature munite di videoterminali);
  • art. 59-terdecies. – Informazione dei lavoratori (per protezione da esposizione ad amianto);
  • art. 59-quaterdecies. – Formazione dei lavoratori (per protezione da esposizione ad amianto);
  • art. 66 – Informazione e formazione (per protezione da agenti cancerogeni);
  • art. 60-octies – Informazione e formazione (per protezione da agenti chimici);
  • art. 85 – Informazione e formazione (per protezione da agenti biologici).

Tuttavia, nelle aule di formazione sulla sicurezza dell’epoca, si soleva definire “informazione” un’attività di comunicazione “monodirezionale” finalizzata a trasmettere un contenuto (ad esempio, opuscoli informativi, poster, video, manuali di istruzione ecc.), mentre la “formazione” una attività di comunicazione “bidirezionale” ovvero finalizzata a ottenere un comunicazione di ritorno da parte del ricevente pressoché contemporanea (riunioni, conferenze ecc.).
Con il D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008, finalmente, sono state introdotte, all’articolo 2 commi aa), bb), cc), le definizioni di:

  • aa) «formazione»: processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi;
  • bb) «informazione»: complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili all’identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro;
  • cc) «addestramento»: complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro.

Inoltre, nel D.Lgs. 81/2008, all’articolo 33 è stata introdotta, fra i compiti del servizio di prevenzione e protezione, la necessità di specificare una proposta di informazione e formazione dei lavoratori, presumibilmente in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione di cui all’articolo 17 dello stesso decreto, nonché di fornire (inteso come “elaborare”) le informazioni di cui all’articolo 36 dello stesso decreto, sempre presumibilmente in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione di cui all’articolo 17. Fortemente innovativi sono stati i due articoli 36 e 37, con i quali sono state introdotte specifiche modalità per rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici, suddividendo la previsione di questo obbligo nelle due fattispecie della “informazione” (art. 36) e della “formazione” (art. 37).
Per quanto riguarda l’obbligo di informazione, nell’articolo 36, era stato esplicitato dettagliatamente che l’informazione ai lavoratori dovesse riguardare alcuni contenuti minimi “formali” (rischi per la salute e sicurezza connessi all’attività dell’impresa, procedure di emergenza, nominativi degli addetti alle emergenze, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente). Successivamente, al comma 2 dello stesso articolo 36, sono stati esplicitati meglio alcuni contenuti minimi legati all’attività svolta (rischi specifici, normative di sicurezza e disposizioni aziendali in materia, pericoli connessi all’uso delle sostanze e delle miscele pericolose, misure di protezione e prevenzione adottate). Mentre, per quanto riguarda la formazione, all’articolo 37, era stato esplicitato genericamente che la formazione ai lavoratori dovesse essere “sufficiente e adeguata” alle necessità aziendali, sulla gestione della sicurezza e salute (in termini di organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) e sui rischi e sulle misure di prevenzione e protezione conseguenti, rinviando a un successivo provvedimento legislativo la definizione di durata e contenuti minimi e di modalità di erogazione della formazione.

Dal comma 3 dell’articolo 37 in poi vengono “snocciolate” (in una maniera fin troppo caotica) tutta una serie di disposizioni su:

  • introduzione del concetto di addestramento;
  • occasione in cui deve avvenire la formazione e l’addestramento;
  • ripetizione della formazione;
  • criteri di formazione di dirigenti e preposti (ex lett. d) ed e) dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2008;
  • obbligo di formazione e (generico) aggiornamento degli addetti alle emergenze;
  • formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;
  • collaborazione degli organismi paritetici;
  • comprensibilità dei contenuti della formazione;
  • libretto formativo del cittadino.

Inoltre, ancora il D.Lgs. 81/2008 ha ampliato il numero degli specifici articoli che richiedono l’obbligo della formazione e informazione per quasi ognuna delle fattispecie di rischio:

  • art. 73 – Informazione, formazione e addestramento (contro i rischi da uso di attrezzature di lavoro);
  • art. 77 comma 4 e 5 – Obblighi del datore di lavoro (sulla formazione e l’addestramento all’uso dei Dpi);
  • art. 136 comma 6, 7 e 8 – (formazione e addestramento per il montaggio e smontaggio di ponteggi sulla base dell’allegato XXI);
  • art. 145 comma 1 – (formazione per il disarmo delle armature);
  • art. 164 – Informazione e formazione (sulla segnaletica di sicurezza);
  • art. 169 – Informazione, formazione e addestramento (sulla movimentazione manuale dei carichi);
  • art. 177 – Informazione e formazione (per uso di videoterminali);
  • art. 184 – Informazione e formazione dei lavoratori (per esposizione ad agenti fisici – rumore e vibrazioni);
  • art. 195 – Informazione e formazione dei lavoratori (su rischi da esposizione a rumore);
  • art. 203 comma 1 lettera f) – Misure di prevenzione e protezione (su rischi da esposizione a vibrazioni);
  • art. 227 – Informazione e formazione per i lavoratori (per esposizione ad agenti chimici);
  • art. 239 – Informazione e formazione (per esposizione ad agenti cancerogeni);
  • art. 258 – Formazione dei lavoratori (per esposizione ad amianto);
  • art. 278 – Informazioni e formazione (per esposizione ad agenti biologici);
  • art. 286-sexies comma 1 – Misure di prevenzione specifiche (formazione sull’uso dei dispositivi medici taglienti);
  • art. 294-bis – Informazione e formazione dei lavoratori (sul rischio esplosione).La situazione attuale

Solo il 21 dicembre 2011, dopo lunghe operazioni preparatorie, ha visto la luce l’accordo tra i ministri del Lavoro e della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la formazione dei lavoratori, annunciato dal comma 2 dell’articolo 37 del D.Lgs. 81/2008. Questo accordo ha decliato l’argomento nei seguenti capitoli:

  • requisiti dei docenti;
  • organizzazione della formazione;
  • metodologia di insegnamento/apprendimento;
  • articolazione del percorso formativo dei lavoratori e dei soggetti di cui all’art. 21, comma 1 del D.Lgs. 81/2008;
  • formazione particolare aggiuntiva per il preposto;
  • formazione dei dirigenti;
  • attestati;
  • crediti formativi;
  • aggiornamento;
  • disposizioni transitorie;
  • riconoscimento della formazione pregressa;
  • aggiornamento dell’accordo.

Il problema su cui è interessante soffermare l’attenzione è al punto 4 dell’accordo, nel quale, prendendo a riferimento i settori Ateco viene introdotta una classificazione delle attività in tre macroaree, in relazione a tre classi di rischio (appositamente coniate: basso, medio alto) e viene stabilito un numero di ore di formazione minimo, costituito da una “formazione generica” di quattro ore, comune per tutte le classi di rischio e una “formazione specifica” di quattro ore oppure otto oppure 16 ore, secondo l’appartenenza della attività a una classe di rischio bassa o media o alta, «in funzione dei rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda» di cui ai titoli del D.Lgs. 81/2008. Da qui la “bagarre” fra gli interpreti circa l’applicazione in quanto nell’accordo, non essendo stati posti i contenuti e le durate della formazione strettamente posti in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione, di cui all’art. 17 del D.Lgs. 81/2008, il modello di gestione della formazione “minima” da erogare ai lavoratori appare di genericità estrema e largamente carente a perseguire l’obiettivo primario: la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, soprattutto in quelle aziende con una numerosità e gravità dei singoli rischi particolarmente importante. Infatti, la maggior parte dei documenti di valutazione nemmeno contiene il capitolo riguardante l’indicazione della informazione e formazione dei lavoratori (la cui proposta, peraltro, risulta essere un obbligo per il Rspp, ai sensi dell’articolo 33 comma 1 lettera d) oppure vengono previsti generici contenuti slegati dai rischi individuati nello stesso documento e dalla loro gravità. È appena il caso di ricordare, ma non commentare, che successivamente si assistette a un fiorire di ulteriori provvedimenti e interventi riguardanti la formazione sulla sicurezza sul lavoro, contribuendo a chiarire o forse a complicare:

  • circolare 13/2012 del 05/06/2012 – Nozione organismi paritetici nel settore edile – Soggetti legittimati all’attività formativa;
  • decreto interministeriale 6 marzo 2013 – Criteri di qualificazione della figura del formatore per la salute e sicurezza sul lavoro;
  • decreto interministeriale 27 marzo 2013
    – Semplificazione in materia di informazione, formazione e sorveglianza sanitaria dei lavoratori stagionali del settore agricolo;
  • interpello n. 10/2013 del 24 ottobre 2013
    – Formazione addetti emergenze;
  • interpello n. 11/2013 del 24 ottobre 2013
    – Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011;
  • interpello n. 13/2013 del 24 ottobre 2013
    – Lavoro a domicilio;
  • circolare del 27 novembre 2013 prot. 37/0020791/MA008.A001 – Nozione di “trasferimento” ex art. 37, comma 4, lett. b), D.Lgs. 81/2008;
  • interpello n. 18/2013 del 20 dicembre 2013 – Obbligo di formazione, ai sensi dell’art. 37, dei lavoratori che svolgono funzioni di Rspp;
  • interpello n. 12/2014 del 11 luglio 2014
    – Formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, verifica finale dei corsi erogati in modalità e-learning;
  • interpello n. 4/2015 del 24 giugno 2015
    – Formazione e valutazione dei rischi per singole mansioni ricomprese tra le attività di una medesima figura professionale; 
  • interpello n. 13/2015 del 29 dicembre 2015 – Esonero del medico competente dalla partecipazione ai corsi di formazione per i lavoratori;
  • interpello n. 4/2016 del 21 marzo 2016
    – Formazione specifica dei lavoratori;
  • interpello n. 19/2016 del 25 ottobre 2016
    – Obbligo di designazione e relativa informazione e formazione degli addetti al primo soccorso.

La proposta

È necessario un caposaldo irrinunciabile: il fabbisogno formativo per la sicurezza dei lavoratori dovrebbe derivare dalla tipologia dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro cui vanno incontro nello svolgimento della loro attività lavorativa. Questi rischi non possono che essere individuati e descritti nel documento di valutazione di cui all’art. 17 del D.Lgs. 81/2008. Conseguentemente, fra le misure di prevenzione e protezione (o in un capitolo apposito) in esso contenute, dovrebbe essere definiti sia il tipo di informazione da praticare che il tipo e il quantitativo di formazione da erogare per ogni tipologia di rischio individuata e valutata per le varie fattispecie di attività lavorativa o le varie mansioni individuate. L’esempio di questa procedura potrebbe prevedere le seguenti fasi:

  • fase 1: individuazione dei rischi generici e dei rischi specifici per le varie mansioni;
  • fase 2: per ogni tipologia di rischio individuato, definizione della specifica formazione e della sua durata

Ovviamente la quantità delle ore risulta essere funzione del grado di rischio individuato (in precedenti fasi della valutazione).
Nel caso dei rischi organizzativi dei dirigenti e preposti, si è voluto rimanere conformi al dettato dell’accordo Stato-Regioni.
Mentre nel caso dell’aggiornamento obbligatorio, si è rimodulata la periodicità senza definire di più, ma è possibile definire un quantitativo di aggiornamento per ogni specifica fattispecie di rischio individuato. Il tutto a totale discrezione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale dovrebbe istituzionalmente possedere la competenza e la conoscenza idonee a potere definire il piano di gestione della formazione per la specifica azienda. Analogamente, si potrebbe procedere per la gestione dell’informazione, per la quale il Rspp, come recita la lettera f) del comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. 81/2008, avrebbe addirittura l’obbligo fornire le informazioni necessarie.
Per completezza dovrebbe essere pianificato anche il tipo di addestramento a cui dovrebbe essere sottoposto il personale.

Conclusioni
La proposta nasce dalla constatazione della necessità di una più coerente modalità di organizzazione della informazione e formazione per la sicurezza e salute sul lavoro, in relazione ai rischi individuati nel documento di valutazione, di cui all’art.17 del D.Lgs. 81/2008 aziendale.
Infatti, normalmente, l’attuale modalità viene improntata sul modello fornito dall’accordo Stato- Regioni del 21 dicembre 2011, che definisce la formazione per la sicurezza e salute sul lavoro in relazione semplicemente a una generica classe di appartenenza dell’azienda, limitandone l’estensione della durata al massimo a 12 ore, anche nei casi in cui i rischi presenti consiglierebbero maggiore approfondimento. Nulla impedisce che ogni Rspp, all’interno del documento di valutazione possa estendere la “proposta” di informazione e formazione (obbligatoria in base alla lettera d del comma 1 dell’art.1 del D.Lgs. 81/2008), rendendola più correlata con i rischi che ha individuato nella specifica azienda, ottenendo così una maggiore “copertura” sia delle esigenze di sicurezza del lavoratore nello svolgimento delle sue attività lavorative sia delle garanzie di sicurezza del datore di lavoro verso i lavoratori impiegati nelle proprie attività.

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E-learning sì o no? La parola al Ministero del Lavoro

L’interpello n. 7/2018 formulato dal Consiglio nazionale delle ricerche.

Il Cnr ha presentato un articolato quesito, facendo notare che l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 e l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 sono chiari: la formazione per i lavoratori costituisce un obbligo per il datore, il quale può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi secondo criteri e condizioni stabilite nell’allegato I. La risposta della Commissione, invece, è stata molto netta e di segno contrari.

Con l’interpello del 21 settembre 2018, n.7, il ministero del Lavoro è tornato nuovamente sulla spinosa normativa attuativa relativa alla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, fornendo questa volta alcuni importanti chiarimenti sull’e-learning; l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, infatti, da un lato ha concesso una parziale (e molto discussa) apertura verso questa particolare modalità di erogazione della formazione, mentre dall’altro ha apportato anche alcune importanti modifiche alla disciplina previgente, introducendo numerosi vincoli finalizzati a garantire, almeno potenzialmente, un livello di qualità formativa pari a quella classica erogata in aula.

In effetti, bisogna ricordare che questo nuovo e più rigido approccio nasce dalle numerose criticità che, invero, sono emerse in sede di prima applicazione della disciplina sull’e-learning contenuta nell’accordo Stato- Regioni del 21 dicembre 2011, relativo alla formazione dei lavoratori, dei dirigenti e dei preposti. L’allegato I di questo provvedimento, infatti, era parso subito a maglie larghe, incentrato più su alcuni elementi tecnici che su quelli di progettazione dei contenuti che, viceversa, in una modalità del genere rappresentano lo zoccolo duro con cui confrontarsi. Per altro veniva concessa al datore di lavoro anche una piena autonomia circa l’organizzazione e l’erogazione dei corsi in e-learning che, tuttavia, con la riforma operata dal già citato accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 ha subito un netto giro di vite. Malgrado questo riassetto, però, la disciplina non è parsa ben coordinata, soprattutto in ordine ai soggetti che sono abilitati a erogare i corsi per lavoratori in e-learning; il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), quindi, ha presentato un articolato quesito in merito, facendo rilevare che l’art. 37 del D.Lgs n. 81/2008, e il già citato accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 indicano «chiaramente che la formazione per i lavoratori costituisce un obbligo per il datore di lavoro che può essere esso stesso soggetto organizzatore dei corsi sia in modalità frontale sia in modalità e-learning secondo i criteri e le condizioni stabilite nell’allegato I». L’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, tuttavia, nello stabilire la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) e gli addetti a questo servizio (Aspp), secondo il Cnr ha operato un ampliamento delle «possibilità di formazione in modalità e-learning al modulo A, all’aggiornamento per Rspp e Aspp e alla formazione specifica per lavoratori delle aziende inserite nel rischio basso, secondo i criteri previsti nell’allegato II dello stesso accordo».

Secondo il Cnr, quindi, sembra sussistere una contraddizione e per questo motivo ha chiesto di sapere se le disposizioni dell’allegato II dell’accordo Stato-Regioni del 7 luglio del 2016 trovano applicazione esclusivamente per i corsi per Rspp e Aspp e, di conseguenza, se il datore di lavoro può organizzare direttamente i corsi per i lavoratori in modalità e-learning, senza essere tenuto a dover ricorrere necessariamente a uno dei soggetti.

Quando è a distanza

La risposta della Commissione a questo è stata, invero, abbastanza netta; nell’interpello, infatti, viene fatto rilevare in via preliminare che l’accordo del 7 luglio 2016, nel definire la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per Rspp e Aspp ravvisa in modo esplicito «la necessità di procedere alla sostituzione dell’allegato I all’accordo del 21 dicembre 2011 per la formazione dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008, con l’allegato II al presente accordo, relativo alla formazione in modalità e-learning, al fine di superare le incertezze applicative in tema di formazione emerse in sede di prima applicazione della pertinente disciplina». Come già accennato le «incertezze applicative » cui fa riferimento la Commissione sono evidentemente quelle richiamate pocanzi, certamente importanti in quanto determinavano un regime molto “fragile” in quanto non assicurava un adeguato livello di qualità soddisfacente dell’azione formativa, con possibili pesanti ricadute sul versante dell’efficacia.

Sotto questo profilo non vanno dimenticate le tante polemiche sulla validità della stessa modalità in e-learning per formare le risorse umane in un ambito così delicato come quello della salute e della sicurezza sul lavoro, caratterizzato da un preoccupante trend infortunistico e dalla necessità obiettiva di assicurare un corretto approccio andragogico.

Un’eccezione al modello tradizionale

Alla luce, quindi, di queste criticità la conferenza Stato-Regioni, dopo un lungo percorso, con l’accordo del 7 luglio 2016 ha messo a punto un rinnovato regime applicativo di portata “universale” in quanto applicabile non solo ai corsi in e-learning degli Rspp e degli Aspp ma anche a quelli per i lavoratori, i preposti e i dirigenti. Un pilastro fondamentale di questo regime è certamente il principio in base al quale «(…) per i corsi in materia di salute e sicurezza la modalità e-learning e da ritenersi valida solo se espressamente prevista da norme e accordi Stato-Regioni o dalla contrattazione collettiva (…) »; questa norma, quindi, ribadisce che il modello di formazione comune è quello in aula, mentre l’e-learning ne rappresenta solo un’eccezione sottoposta, per altro, a numerosi vincoli in quanto deve essere erogata «(…) con le modalità disciplinate dal presente accordo e nel rispetto delle disposizioni di cui all’allegato II».

L’obbligatorietà del ricorso ai soggetti formatori abilitati

Ecco, quindi, che la Commissione ministeriale sulla base di questi principi ha messo in chiaro che il datore di lavoro non può direttamente erogare ai propri dipendenti la formazione in e-learning e «ritiene che i soggetti formatori siano solo quelli individuati al punto 2 dell’allegato A (individuazione dei soggetti formatori e sistema di accreditamento) e che, pertanto, soltanto i soggetti ivi previsti possano erogare la formazione in modalità e-learning, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’allegato II».

Di conseguenza, qualora il datore di lavoro intenda formare tramite l’e-learning i propri lavoratori – e gli altri soggetti ove consentito – dovrà fare ricorso esclusivamente ai soggetti formatori riportati in questo elenco che è da considerarsi tassativo. Si tratta, quindi, delle Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, anche mediante le proprie strutture tecniche operanti nel settore della prevenzione (aziende sanitarie locali ecc.) e della formazione professionale di diretta emanazione regionale o provinciale, dell’Inail, degli enti di formazione accreditati e di numerosi altri soggetti.

Si osservi, in particolare, che tra questi sono compresi anche le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e gli organismi paritetici quali definiti all’art. 2, comma 1, lett. ee), del D.Lgs. n. 81/2008, per lo svolgimento delle funzioni di cui all’art. 51 dello stesso decreto, limitatamente allo specifico settore di riferimento.

Gli estensori di questa norma hanno, quindi, operato una precisa scelta di campo: la legittimazione a erogare questi corsi non spetta a una qualsiasi associazione sindacale, ma solo a quelle che soddisfano questo requisito e come precisato nella nota in calce all’allegato A «le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e gli organismi paritetici possono effettuare le attività formative e di aggiornamento direttamente o avvalendosi di strutture formative di loro diretta ed esclusiva emanazione. Queste ultime strutture devono essere accreditate secondo i modelli definiti dalle Regioni e Province autonome ai sensi dell’intesa sancita in data 20 marzo 2008 e pubblicata sulla Guri del 23 gennaio 2009».

Nella stessa nota, inoltre, viene richiamato quanto previsto dal già citato art. 2, comma 1, lett. ee), del D.Lgs. n. 81/2008, che definisce ai fini dell’applicazione della disciplina ivi contenuta gli organismi paritetici «organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quali sedi privilegiate per: la programmazione di attività formative e l’elaborazione e la raccolta di buone prassi a fini prevenzionistici; lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; la l’assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento»; al tempo stesso nella nota in questione sono riportati anche i criteri per stabilire il possesso del requisito della rappresentatività. Occorre rilevare, inoltre, che nell’elenco contenuto nell’allegato A non sono compresi gli enti bilaterali.

Le tipologie

Alla luce, pertanto, di questo indirizzo interpretativo è necessario ricordare brevemente che le tipologie di formazione per i lavoratori erogabili dai soggetti abilitati attraverso l’e-learning sono quella generale, di almeno quattro ore, e quella specifica per le aziende inserite nel rischio basso, così come riportato nella tabella di cui all’allegato II del già citato accordo del 21 dicembre 2011, nel rispetto ovviamente delle disposizioni di cui all’allegato II dell’accordo del 7 luglio 2016, e a condizione che i discenti abbiano: la possibilità di accesso alle tecnologie impiegate; familiarità con l’uso del computer; buona conoscenza della lingua utilizzata.

Questa “agevolazione” è prevista anche per la formazione specifica dei lavoratori che, a prescindere dal settore di appartenenza, non svolgono mansioni che comportino la loro presenza, anche saltuaria, nei reparti produttivi, cosi come indicato al primo periodo del paragrafo 4 «Condizioni particolari» dell’accordo del 21 dicembre 2011; la formazione specifica per lavoratori deve essere riferita, in ogni caso, all’effettiva mansione svolta dal lavoratore e deve essere pertanto erogata rispetto agli aspetti specifici scaturiti dalla valutazione dei rischi. Pertanto, per le aziende inserite nel rischio basso non è consentito il ricorso alla modalità e-learning per tutti quei lavoratori che svolgono mansioni che li espongono a un rischio medio o alto (punto 12.7); inoltre, la modalità in questione è utilizzabile anche per l’aggiornamento della formazione prevista dall’accordo del 21 dicembre 2011.

Divieti

Da sottolineare, inoltre, che l’allegato VI dell’accordo 7 luglio 2016 vieta espressamente l’e-learning per gli addetti al primo soccorso e per gli addetti alla prevenzione incendi; inoltre, per quanto riguarda la formazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) nell’allegato V dello stesso accordo è precisato che non è consentita la formazione in e-learning, fatto salvo diverse indicazioni dei Ccnl.

Se è in aula

Per quanto riguarda, invece, la formazione classica dei lavoratori in aula, dei dirigenti e dei preposti resta fermo quanto stabilisce il punto 2 dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2001, che inserisce direttamente – e non poteva fare altrimenti visto il tenore dell’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008 – il datore di lavoro tra i soggetti organizzatori dei corsi.

Considerazioni conclusive

La posizione assunta dal ministero del Lavoro con l’interpello n. 7/2018 appare, quindi, molto netta e condivisibile; purtroppo, però, potrebbe avere ricadute in termini sanzionatori per quei datori di lavoro che hanno seguito una strada diversa.
È pur vero, tuttavia, che l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016, non ha operato un convincente coordinamento con le disposizioni previgenti dell’Accordo del 21 dicembre 2011, visto che solo un’attenta lettura sistematica ha consentito di giungere a questa interpretazione; il quesito proposto testimonia ancora una volta che la mancanza di chiarezza nell’attività di normazione genera solo zone d’ombra che rende frustante per i datori di lavoro stabilire ex ante qual è la condotta corretta da seguire e questo stato patologico tutto italiano mette a dura prova chi ogni giorno deve gestire la safety aziendale.

 

BOX 1

Chi sta sulla “cattedra” dell’e-learning

(Allegati A, punto 2, e II accordo Stato-Regioni 7 luglio 2016) *

  1. a) Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, anche mediante le proprie strutture tecniche operanti nel settore della prevenzione (aziende sanitarie locali, ecc.) e della formazione professionale di diretta emanazione regionale o provinciale;
  2. b) gli enti di formazione accreditati in conformità al modello di accreditamento definito in ogni Regione e Provincia autonoma ai sensi dell’intesa sancita in data 20 marzo 2008 e pubblicata sulla Guri del 23 gennaio 2009;
  3. c) le università;
  4. d) e scuole di dottorato aventi a oggetto le tematiche del lavoro e della formazione;
  5. e) le istituzioni scolastiche nei confronti del personale scolastico e dei propri studenti;
  6. f) l’Inail;
  7. g) il corpo nazionale dei vigili del fuoco o i corpi provinciali dei vigili del fuoco per le Province autonome di Trento e Bolzano;
  8. h) amministrazione della Difesa;
  9. i) le amministrazioni statali e pubbliche di seguito elencate, limitatamente al personale della pubblica amministrazione sia esso allocato e livello centrale che dislocato a livello periferico:

– ministero del Lavoro e delle politiche sociali;
– ministero della Salute;
– ministero dello Sviluppo economico;
– ministero dell’Interno: Dipartimento per gli affari interni e territoriali e Dipartimento della pubblica
– sicurezza;
– Formez;
– Sna (Scuola nazionale dell‘amministrazione);

  1. l) le associazioni sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e gli organismi paritetici quali definiti all’art. 2, comma 1, lettera ee), del D.Lgs. n. 81/2008 per lo svolgimento delle funzioni di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008, limitatamente allo specifico settore di riferimento;
  2. m) i fondi interprofessionali di settore nel caso in cui, da statuto, si configurino come erogatori diretti di formazione;
  3. n) gli ordini e i collegi professionali.

* Ulteriori soggetti formatori che operano a livello nazionale possono essere eventualmente individuati, in sede di conferenza Stato-Regioni congiuntamente dalle amministrazioni statali interessate e dalle Regioni e Province autonome, ai sensi dell’art. 32, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008.

_______________________________

BOX2

Criteri per stabilire la rappresentatività delle associazioni sindacali, datoriali e degli organismi paritetici

(Nota al punto 2, lett. l), allegato A, accordo Stato-Regioni 7 luglio 2016)

Il requisito principale che gli organismi paritetici devono soddisfare è la rappresentatività, in termini comparativi sul piano nazio-nale, delle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro che la costituiscono, individuata attraverso una va-lutazione complessiva del seguenti criteri:

  1. consistenza numerica degli associati delle singole organizzazioni sindacali;
  2. ampiezza e diffusione delle strutture organizzative;
  3. partecipazione alla formazione e stipulazione dei contratti nazionali collettivi di lavoro (con esclusione nei casi di sottoscrizione per mera adesione);
  4. partecipazione alla trattazione delle controversie di lavoro.

I suddetti criteri devono essere soddisfatti anche dalle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori che decidono di effettuare le attività formative e di aggiornamento.

 

 

 

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Scuola-lavoro e tirocini: chiarito il regime di tutela

La risposta della Commissione Interpelli a un quesito della Provincia di Trento.

Il soggetto ospitante, anche se è un autonomo, deve assumere, a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore per la sicurezza con tutto quanto consegue come, ad esempio, l’obbligo – fra gli altri – di effettuare la valutazione dei rischi, di redigere il Dvr e nominare il Rspp. Tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani interessati a percorsi di questo tipo.

Nel corso degli ultimi, anni in svariate occasioni è finito al centro dell’attenzione il tema dell’inserimento lavorativo dei giovani e la tutela dalla loro salute e sicurezza sul lavoro. Bisogna riconoscere che il modello contrattuale “principe” dell’apprendistato – pur se oggetto di continui rimaneggiamenti, da ultimo con il D.Lgs. n. 81/2015 – in Italia, purtroppo, stenta ancora a decollare a differenza di quello che accade in Germania e in altri Paesi europei.

A tutto ciò si aggiunge, poi, la legge n. 977/1967 sul lavoro minorile che al fine di assicurare una tutela più intensa delle condizioni di lavoro dei giovani prevede numerosi vincoli, spesso però vissuti dai datori di lavoro come un autentico zoccolo duro che esercita una forte azione disincentivante. Questo quadro consente di spiegare, almeno in parte, perché nel corso dell’ultimo biennio appare sempre più crescente la disponibilità che stanno dimostrando soprattutto le aziende nell’ospitare studenti inseriti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, rivitalizzati dalla legge n. 107/2015 (la cosiddetta legge sulla “buona scuola”).

Questo strumento si affianca, per altro, a un altro istituto affine come il tirocinio che nei primi anni del nuovo millennio ha subito un vero e proprio boom, soprattutto poco prima dell’emanazione della legge n. 92/2012, che ha riformato la materia con l’obiettivo di frenare il loro utilizzo spesso in modo distorto «come uno strumento di fuga dal lavoro subordinato». La massiccia diffusione di queste due forme di primo ingresso dei giovani in ambito aziendale ha sollevato, però, anche numerose criticità sul piano gestionale, soprattutto in ordine al tipo di regime della salute e della sicurezza sul lavoro applicabile.

Per questo motivo il ministero del Lavoro è stato costretto a intervenire nuovamente con l’interpello n. 4 del 25 giugno 2018, in cui ha fornito alcune indicazioni in risposta allo specifico quesito presentato dalla Provincia autonoma di Trento, che aveva chiesto di sapere «se, nei casi di tirocini formativi da svolgersi presso lavoratori autonomi non configurabili come datori di lavoro, sia applicabile l’articolo 21 del D.Lgs. 81/2008, individuando particolari modalità per garantire la tutela e sicurezza del tirocinante o se invece il decreto vada applicato interamente, con conseguente e non indifferente aggravio di oneri a carico dell’imprenditore e possibili effetti sulla realizzabilità del tirocinio stesso». La Commissione ministeriale ha espresso, così, alcune indicazioni interpretative che, come vedremo, si pongono in piena sintonia con gli orientamenti dottrinali in materia rispondendo, sia pure indirettamente, al quesito sullo specifico caso deilavoratori autonomi prospettato dalla Provincia autonoma di Trento.

Si tratta, invero, di un indirizzo molto interessante che dovrebbe sopire definitivamente (si spera) ogni incertezza circa il tipo di regime generale applicabile, anche per gli stessi organi di controllo (Asl, Inl ecc.) nei confronti dei quali bisogna ricordare che le indicazioni fornite dalla Commissione nelle risposte ai quesiti costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza.

Regime ordinario del D.Lgs. 81/2008

Nell’interpello n. 4/2018, la Commissione del ministero del Lavoro, dopo aver ricostruito puntualmente l’evoluzione normativa che ha caratterizzato questi due strumenti, si è soffermata sui tirocinanti richiamando l’orientamento già assunto dallo stesso ministero in una risposta a un quesito pubblicato sul proprio sito istituzionale il 1° ottobre 2012, in cui ha tenuto a precisare che se un’azienda o uno studio professionale fa ricorso a soggetti che svolgano stage o tirocini formativi dovrà osservare gli stessi obblighi previsti per i lavoratori subordinati (informazione, formazione, addestramento, sorveglianza sanitaria ecc.) in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, che prevede un’equiparazione per effetto della quale il titolare dello studio o l’amministratore di un’impresa assume nei confronti anche di questi soggetti la posizione di datore di lavoro per la sicurezza.

Lo stesso principio, ha precisato la Commissione, trova applicazione anche nel caso degli studenti impegnati nei percorsi di alternanza scuola-lavoro previsti dalla legge n. 107/2015, in quanto il già citato art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, equipara esplicitamente ai lavoratori subordinati anche gli studenti impegnati secondo questo regime.

Ripartizione degli obblighi formativi

In ordine all’alternanza scuola-lavoro la stessa Commissione, poi, ha anche puntualizzato che la disciplina del D.Lgs. n. 81/2008 dovrà essere applicata tenendo presente anche di quanto prevede il decreto interministeriale 3 novembre 2017,

  1. 195, che oltre a prevedere la «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti» ribadisce in modo fermo l’essenza dello strumento – introducendo anche un tetto massimo al numero degli studenti impiegabili a livello di singola struttura ospitante – e detta all’art. 5 norme specifiche finalizzate alla tutela antinfortunistica degli studenti in alternanza, soprattutto per quanto riguarda la formazione e la sorveglianza sanitaria.

In particolare, per quanto riguarda la formazione, l’art. 5, comma 1, 2 e 3 del decreto n. 195/2017 prevede un meccanismo di ripartizione dell’obbligazione formativa, di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, tra istituzione scolastica e soggetto promotore.
L’obbligo della formazione generale in materia di sicurezza, infatti, di almeno quattro ore secondo quanto stabilisce l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 n. 221/Csr, ricade sull’istituzione scolastica. Sulla struttura ospitante, invece, ricade l’obbligo della formazione specifica da erogare all’ingresso dello studente nella stessa struttura: quindi le aziende non possono avvalersi della contestatissima disposizione contenuta nell’accordo del 21 dicembre 2011, che in caso di difficoltà stabilisce che il «percorso formativo deve essere completato entro e non oltre60 giorni dalla assunzione».

Nella convezione è possibile, comunque, stabilire «(…) il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri conseguenti». Questa disposizione appare, invero, poco chiara in quanto non si comprende se il ministero faccia riferimento agli oneri economici della formazione specifica o la possibilità che la formazione specifica possa essere erogata direttamente dalla scuola. In effetti al comma 2 è stabilito che è di competenza dei dirigenti scolastici l’organizzazione dei corsi di formazione.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, ciò non può che essere riferito alla formazione generale in quanto per quella specifica entra in gioco il Dvr delle singole strutture ospitanti le quali, per altro, durante la permanenza dello studente assumono la posizione di datore di lavoro per la sicurezza ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008.

Sorveglianza sanitaria

Per quanto, invece, riguarda la sorveglianza sanitaria occorre sottolineare che l’art. 5, comma 5, del decreto n. 195/2017, stabilisce che agli studenti in regime di alternanza è garantita la sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, nei casi previsti dalla normativa vigente3, attraverso le aziende sanitarie locali, con la possibilità di stabilire in un’apposita convenzione tra queste ultime e l’istituzione scolastica il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri a essa conseguenti.

Questa previsione sta creando non poche incertezze sul piano operativo e pone un problema di fondo: si tratta di una soluzione che mette fuori gioco il medico competente aziendale, ossia proprio il soggetto che ha una conoscenza approfondita del documento di valutazione dei rischi (Dvr) dell’azienda ospitante. Appare interessante far osservare, poi, che

su questo tema così delicato si è espresso recentemente anche l’ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna, che nella nota 8 maggio 2018, prot. 860, ha tenuto a precisare che riveste «(….) natura eccezionale – previa valutazione caso per caso – la necessità di attivare la sorveglianza sanitaria, considerate le peculiarità di questo tipo di metodologia didattica, lo sviluppo temporale delle attività previste, nonché lo svolgimento da parte dello studente di esperienze lavorative in affiancamento a personale della struttura ospitante e sotto la supervisione del tutor aziendale e scolastico, sulla base di un progetto personalizzato condiviso” e «In base alla esperienza e ai limiti imposti dalla norma, considerati i compiti che vengono richiesti agli studenti in alternanza scuola lavoro (affiancamento e non svolgimento diretto) e la limitata permanenza degli studenti nelle strutture, la predetta valutazione dovrebbe portare a escludere livelli di rischio tali da giustificare la sorveglianza sanitaria».

Minorenni e stage formativi

Si osservi, inoltre, che nello stesso interpello n. 4/2018 è anche richiamata molto opportunamente anche la risposta all’interpello del 2 maggio 2013, n. 1, in cui la Commissione ha fornito indicazioni in merito al quesito relativo alla visita medica preventiva nei confronti di studenti minorenni Partecipanti a stage formativi, precisando in particolare che «l’obbligatorietà della visita di cui all’art. 8 della legge 977/1967 vige solo nei casi in cui vi sia un rapporto di lavoro, anche speciale, circostanza che non sussiste per “l’adolescente stagista” e “lo studente minorenne” che dovranno pertanto essere sottoposti a sorveglianza sanitaria solo nei casi previsti dalla normativa vigente».

Abusi e limiti

L’interpello n. 4/2018 deve essere letto congiuntamente, comunque, anche con le importanti indicazioni espresse dal ministero dell’Istruzione (Miur) nella poco nota lettera circolare 28 marzo 2017, prot. n. 3355, nella quale vengono forniti alcuni chiarimenti interpretativi in merito al già citato decreto n. 195/2017, oltre che a numerosi altri aspetti legati alla gestione degli studenti in alternanza (buoni pasto, compensi a esperti aziendali per opera legata alle attività di alternanza scuola-lavoro ecc.).

In particolare, il Miur ha tenuto a precisare, tra l’altro, che gli studenti in alternanza scuola-lavoro devono essere costantemente guidati nelle varie esperienze da una o più figure preposte alla realizzazione del percorso formativo (tutor interno, tutor formativo esterno) e non possono essere impegnati nelle fasce notturne. Sotto questo profilo è opportuno ricordare che gli studenti vanno impiegati esclusivamente per le attività coerenti con le finalità didattiche-educative e ciò costituisce un limite invalicabile. Da rilevare ancora che nella stessa lettera circolare viene molto opportunamente sottolineato che l’accoglimento degli studenti minorenni per i periodi di apprendimento in situazione lavorativa non fa acquisire agli stessi la qualifica di “lavoratore minore” di cui alla già citata legge n. 977/1967.

Il caso dei lavoratori autonomi

Tornando all’interpello n. 4/2018, alcune doverose osservazioni conclusive devono essere svolte sul caso specifico dell’impiego di tirocinanti e studenti in alternanza da parte dei lavoratori autonomi a cui fa particolare riferimento la Provincia autonoma di Trento nel quesito presentato. Si tratta di artigiani, professionisti e, più in generale, di prestatori d’opera che, secondo quanto prevede l’art. 2222 del Codice civile, svolgono un’attività intellettuale o manuale con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, che ai fini antinfortunistici diventano datori di lavoro per la sicurezza quando occupano almeno un dipendente o un equiparato a esso dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008. Com’è noto, ai lavoratori autonomi si applica sostanzialmente solo l’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale gli stessi sono tenuti a utilizzare le attrezzature di lavoro e i Dpi conformi alla vigente normativa e il tesserino identificativo, con la facoltà relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali, nonché di frequentare corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37 dello stesso decreto.

Alla luce di quanto evidenziato più in generale dalla Commissione si può desumere, quindi, che questo regime di tutela più limitata dell’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, non è applicabile né ai tirocinanti né agli studenti in alternanza con il risultato che il questi casi il soggetto ospitante anche se è un lavoratore autonomo assume a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza con tutto ciò che ne consegue come, ad esempio, l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di redigere il Dvr, nominare il Rspp ecc, e tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani.

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La Cassazione insiste “Sì alla formazione”

Le attività di formazione e informazione dei lavoratori costituiscono un processo educativo mediante il quale sono affidati ai lavoratori e a tutti i soggetti operanti nel sistema della prevenzione e della protezione aziendale le conoscenze e le procedure necessarie per svolgere, nella massima sicurezza, i rispettivi compiti, riducendo e gestendo i possibili rischi.

In una recentissima pronuncia 2 dicembre 2016, n. 51540, la Cassazione, sezione IV, ha sottolineato e affermato che «il datore di lavoro è tenuto a rendere edotti i lavoratori dai rischi specifici cui sono esposti ed a fornire loro un’adeguata formazione in relazione alle mansioni a cui sono assegnati». Altrettanto recentemente la Cassazione (sentenza 26 maggio 2016, n. 22147) ha affermato che «In tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’adempimento degli obblighi di informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non è escluso né surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro». «Il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi ai lavori in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni». Queste pronunce hanno meglio delineato quello che oggi è il quadro di una normativa sempre più dettagliata e attenta al problema della sicurezza dei lavoratori che, essendo “attori” e non soggetti passivi nella gestione della protezione e della prevenzione degli infortuni, devono essere sempre più edotti e preparati ad affrontare le emergenze e i rischi legati allo svolgimento delle proprie mansioni.

Il caso in esame

La suprema Corte è stata chiamata a esprimersi relativamente alla condanna di un imputato riconosciuto, in primo e in secondo grado, responsabile dell’omicidio colposo di un lavoratore, in seguito alla violazione delle norme in materia di infortuni sul lavoro. L’imputato era stato riconosciuto responsabile per non aver fornito ai dipendenti l’attrezzatura necessaria per l’esecuzione corretta dei tagli forestali e per l’atterramento delle piante rimaste impigliate; per avere omesso di porre in essere un’adeguata attività di controllo e, soprattutto, per aver omesso di formare e informare adeguatamente i lavoratori sull’attività da svolgere e sui rischi connessi alla stessa. Dalle prove testimoniali era emersa l’imperizia del lavoratore che, nel procedere al taglio della pianta, non aveva proceduto secondo la tecnica corretta, aveva utilizzato una motosega in pessime condizioni, non aveva predisposto vie di fuga e non aveva praticato un taglio direzionale nell’albero, cosiddetta cerniera, che avrebbe consentito la caduta controllata della pianta. Se tutte le operazioni svolte nel corso del diradamento di un bosco, alle dipendenze dell’impresa datrice di lavoro, fossero state svolte in maniera corretta, si sarebbe potuto evitare che un abete alto circa 26 metri investisse il lavoratore che perse la vita per le gravi lesioni riportate. Tutta la difesa del datore di lavoro, ricorrente, è stata incentrata su:

  • l’incertezza espressa dai giudici dell’appello relativamente alla dinamica dell’incidente;
  • il fatto che non sarebbe stato obbligato a redigere un documento di valutazione dei rischi, avendo soltanto cinque dipendenti assunti regolarmente e, quindi, sarebbe rientrato in quella particolare categoria di datori di lavoro esentati dal D.Lgs. n. 626/1994, articolo 4, comma 11, e tenuti a effettuare solo un’autocertificazione della valutazione dei rischi;
  • il fatto che avrebbe assolto ai propri obblighi di informazione dei dipendenti sui rischi specifici derivanti dal taglio degli alberi e, anche se si fosse voluto ritenere il contrario, non sarebbe stato possibile sostenere, fondatamente, la sussistenza di un nesso eziologico tra l’omissione colposa e il decesso del lavoratore.

In effetti, i giudici d’appello avevano rilevato la possibilità di una ricostruzione della dinamica dell’incidente letale diversa da quella prospettata dal tribunale, ma la circostanza è stata ritenuta del tutto indifferente in ordine all’accertamento della responsabilità dell’imputato.

Affermare che la persona offesa sia stata colpita dalla caduta diretta di un albero o dalla caduta dello stesso albero rimasto impigliato nelle chiome degli altri alberi, in precedenza tagliato dalla medesima persona offesa, non esclude assolutamente la responsabilità del ricorrente per i suoi inadempimenti in materia cautelare infortunistica. Inoltre, indipendentemente dall’obbligo legale di redigere il documento di valutazione dei rischi, quello che i giudici hanno sottolineato è il fatto che il rischio trattato non era stato assolutamente previsto, neanche da quella autocertificazione alla quale fa riferimento il ricorrente: il documento è risultato essere carente in molti suoi aspetti per cui, effettivamente, non esistevano tassative prescrizioni in materia di sicurezza che fossero state imposte dal datore di lavoro e alla cui osservanza i lavoratori fossero stati debitamente addestrati. Ecco perché, escludendo che l’evento si sarebbe verificato, come sostenuto dal ricorrente, per errore del lavoratore, non potendo questo errore essere ritenuto imprevedibile, quello che è stato ritenuto rilevante è, invece, il fatto inequivocabile che l’errore ha trovato la sua essenziale spiegazione nel difetto di organizzazione del cantiere e nella carenza di formazione e di informazione dei lavoratori.

L’evoluzione della normativa

Dunque, nell’esaminare il caso, la suprema Corte, che ha confermato la correttezza della sentenza impugnata, rigettando il ricorso ha preso lo spunto per tratteggiare i contorni e i contenuti dell’obbligo di informazione e di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni, ripercorrendo le varie fasi attraversate dalla normativa in materia. Dopo l’emanazione dei primi provvedimenti normativi finalizzati alla realizzazione di un corpus legislativo diretto alla tutela preventiva della salute dei lavoratori (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547;

D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164; D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303) che hanno portato allo sviluppo di una tutela preventiva dell’integrità psico–fisica dei lavoratori, la svolta normativa si è avuta con il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, con il quale, recependo importanti direttive comunitarie, il legislatore ha introdotto una tutela prevenzionistica “soggettiva”, programmata e organizzata. È stata introdotta una nuova forma di tutela in cui ogni figura dirigenziale e ogni lavoratore partecipa all’organizzazione e alla gestione del lavoro con precisi diritti e doveri che rendono necessaria un’adeguata conoscenza di tutti i meccanismi all’interno dell’ambiente lavorativo: il lavoratore non ha più un ruolo passivo, ma ha un ruolo partecipativo alla realizzazione della prevenzione sulla base di tutta una serie di doveri e di diritti di cui deve essere a conoscenza.

Il D.Lgs. n. 626/1994 aveva previsto, tra le misure generali di tutela, l’«informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentati, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro». Successivamente, il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ha ripreso, sottolineato e ampliato il tema in maniera più dettagliata e completa D.Lgs. n. 106/2009, ha previsto la formazione, l’informazione e l’addestramento come dei percorsi necessari che i lavoratori devono sostenere per riuscire a fare proprie le regole e le metodologie del sistema di prevenzione (articoli 36, 37 e 73, D.Lgs. n. 81/2008). I lavoratori non svolgono un ruolo passivo, ma sono essi stessi i fautori della propria sicurezza: una volta informati e formati adeguatamente dal datore di lavoro e dai loro rappresentanti, dovrebbero riuscire a gestire opportunamente i rischi connessi allo svolgimento delle proprie mansioni.

Informare, formare e addestrare gli addetti

Risulta evidente, dunque, come al centro di tutta la normativa di prevenzione e protezione dei lavoratori si pone l’obbligo di informare, formare e addestrare i dipendenti. L’articolo 37, D.Lgs. n. 81/2008, parla di «formazione sufficiente ed adeguata » che il datore di lavoro deve garantire i lavoratori e ai loro rappresentanti, da ripetersi nel tempo a seconda dell’evoluzione e dell’insorgere dei nuovi rischi presenti nell’ambiente di lavoro.

Il comma 11, articolo 37, è espressamente diretto alla formazione del RLS che si fa portatore del diritto alla sicurezza e alla salute dei lavoratori e che non può venir meno alla frequenza di specifici corsi di formazione e di aggiornamento all’interno dell’azienda in cui espleta le proprie funzioni. Stesso obbligo, sempre a carico del datore di lavoro, riguarda la formazione dei preposti e dei dirigenti (art. 37, comma 7) che devono ricevere, appunto, una formazione specifica e periodicamente aggiornata, sia all’interno dell’azienda, ma anche fuori (come introdotto dal D.Lgs. n.106/2009). Anche i lavoratori autonomi, come disposto dall’articolo 21, D.Lgs. n. 81/2008, hanno l’obbligo di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37. Questo è un aspetto fondamentale nello svolgimento della propria attività perché, nel caso il lavoratore autonomo non si attenesse a questo obbligo, non partecipando ai corsi di formazione previsti, il committente potrebbe legittimamente non affidargli i lavori. Dalla lettura di queste disposizioni, che contengono i principali dettami in materia, è possibile dedurre quale sia stato l’intento del legislatore: disporre una serie di figure aziendali che sono deputate a svolgere un ruolo di formatori per i lavoratori, senza mai mettere in secondo piano la figura del datore di lavoro, che rimane il principale garante della sicurezza dei propri dipendenti, dovendo assicurarsi che ciascun lavoratore riceva un’adeguata formazione.

Il datore di lavoro è obbligato a utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso per tutelare la sicurezza dei lavoratori attraverso un continuo scambio di informazioni con il medico competente e con i servizi di prevenzione e protezione, circa i rischi presenti in azienda e che riguardano il lavoro svolto dai dipendenti, e attraverso continue informazioni relative alle possibili esposizioni a pericoli gravi e immediati e che riguardano, di conseguenza, le operazioni di emergenza da eseguire. «La condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione ed informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche» (Cassazione penale, sezione IV, 23 ottobre 2008, n. 39888). «Il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, deve operare un controllo continuo e pressante per ottenere che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi, anche instaurando prassi di lavoro non corrette» (Cassazione penale, sezione IV, 23 ottobre 2008, n. 39888). Il 7 luglio 2016 è stato approvato il nuovo accordo della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, «Accordo finalizzato alla individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i responsabili e gli addetti dei servizi di prevenzione e protezione, ai sensi dell’articolo 32 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni». L’accordo 7 luglio 2016 è nato con l’obiettivo di riallineare la normativa relativa alla formazione degli rspp e degli aspp al D.Lgs. n. 81 /2008, ai successivi accordi Stato Regioni sulla formazione e al decreto del ministero del Lavoro e del ministero della Salute 6 marzo 2013 che delinea i criteri di qualificazione del formatore per la salute e la sicurezza sul lavoro. In particolare, l’accordo 7 luglio 2016 modifica il percorso formativo per i responsabili e gli addetti al servizio di prevenzione e protezione, inserisce nuovi requisiti per i docenti dei corsi di formazione (in linea con quanto disciplinato dal D.I. 6 marzo 2013), fa riferimento alla possibilità dell’impiego dell’e-learning per la specifica formazione e sottolinea il riconoscimento della formazione del medico competente e la formazione dei lavoratori somministrati.

Conclusioni

Appare evidente, quindi, la finalità primaria di tutta la normativa che è quella di garantire, sempre e comunque, la massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente possibile. L’obiettivo è quello di evitare e, comunque, ridurre il numero degli infortuni sul lavoro, individuando e prevedendo i possibili rischi a cui il lavoratore andrebbe incontro nello svolgimento delle proprie mansioni. Tuttavia, il rischio di una disciplina cosi attenta e dettagliata è quello di creare una “sovrabbondanza” di obblighi sostenuti a fatica dai destinatari. Gli adempimenti sono tanti e anche dispendiosi per tante aziende che, alle volte, vivono la prevenzione e, in particolare, la formazione più come una “minaccia” che come una “salvezza”.

Basta immaginare la situazione di una piccola azienda, con pochi dipendenti, che è sottoposta alla stretta e scrupolosa osservanza di tutti gli obblighi prescritti dalla legge e necessari per non incorrere nelle previste sanzioni. Potrebbe risultare particolarmente oneroso, per una piccola azienda, sostenere tutti i costi previsti per la formazione e l’addestramento dei dipendenti, considerando anche l’obbligo di redazione del dvr, che la legge impone anche alla presenza di un solo dipendente. Senza mai escludere, certamente, l’importanza che ha la sicurezza nell’ambiente di lavoro e senza mai dimenticare la priorità che, in ogni caso, bisogna riconoscere alla tutela della salute umana, sarebbe auspicabile trovare alcune soluzioni alternative che riuscirebbero a garantire tutto questo, senza “soffocare”, però, le piccole realtà aziendali che, a fatica, sopravvivono in un periodo non proprio florido dal punto di vista economico. In tema di formazione, per esempio, da parte di qualche esperto del settore, è stato proposto un corso di formazione generale, che abbracci tutti i settori della sicurezza, gestito dagli organi pubblici, come le Asl, che riesca a garantire una sufficiente informazione in materia, ma che possa contenere i costi, alle volte troppo onerosi per le più piccole realtà lavorative.

In breve, bisognerebbe cercare di compensare la necessità e l’importanza di tutelare i dipendenti, nel proprio ambiente di lavoro, con la necessità di rispettare le reali possibilità delle singole realtà in cui prestano il proprio servizio, in modo tale che tutta la normativa, giustamente evolutasi per andare incontro alle più specifiche esigenze di prevenzione, sia applicata da tutti gli interessati come una indispensabile risorsa e non soltanto come un obbligo supportato dalle tanto temute sanzioni.

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19 settembre: corso per addetti antincendio

Martedì 19 settembre 2017, presso la sede di Studio ASQ di Latina in via Piave angolo via Magra, si terrà il corso di formazione per addetti anticendio.

L’addetto antincendio è una figura chiave all’interno di un’azienda e obbligatoria dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro D.Lgs 81/08 e dal D.M 10/03/1998 “Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell’emergenza nei luoghi di lavoro“.

Può essere un dipendente o il titolare dell’azienda stessa ed ha il compito di mettere in pratica tutte le attività di prevenzione degli incendi, di evacuazione dei luoghi di lavoro, in caso di emergenza e di salvataggio degli altri lavoratori, in coordinamento con i responsabili di primo soccorso.

Il corso prevede una lezione teorica in aula, che toccherà i temi riguardanti l’incendio in generale, la prevenzione dello stesso e tutto quello che concerne la protezione e le procedure da adottare in caso di emergenza. Al termine della parte teorica si terrà una sezione di esercitazione pratica nel piazzale antistante la sede di Studio ASQ.

In particolare il corso si articolerà nelle seguenti modalità:

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1. Incendio e prevenzione
• principi di combustione
• prodotti della combustione
• sostanze estinguenti in relazione all’incendio
• effetti dell’incendio sull’uomo
• divieti e limitazioni di esercizio
• misure comportamentali

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2. Protezione antincendio e procedure
• principali misure di protezione antincendio
• evacuazione in caso di incendio
• chiamate ai soccorsi

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3. Esercitazioni pratiche
• presa visione e chiarimenti sugli estintori portatili
• istruzioni sull’uso degli estintori portatili
• pratica nell’uso di estintori

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Per maggiori informazioni su questo corso e sugli altri corsi di formazione e abilitazione di Studio ASQ, clicca QUI.

 

 

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