Il rischio biologico? Affrontatelo così

Gli agenti sono identificati in quattro distinti gruppi, sulla base delle caratteristiche di infettività, patogenicità, virulenza, trasmissibilità e neutralizzabilità. Ma il primo passo è conoscere il problema nei differenti ambienti di lavoro perché molto spesso è del tutto sottostimato

Nessun ambiente può considerarsi esente dalla presenza di agenti biologici. I fattori che possono favorire lo sviluppo e la diffusione di agenti biologici sono infatti molteplici e diversi:

• il tipo di attività;
• il processo o la fase lavorativa;
• le materie utilizzate;
• il contatto con fluidi biologici umani o animali potenzialmente infetti;
• la presenza di polvere;
• la scarsa igiene;
• il cattivo funzionamento e la manutenzione degli impianti aeraulici;
• la presenza e il numero di occupanti;
• il microclima ecc.

La valutazione del rischio da esposizione ad agenti biologici viene affrontata dal titolo X del D.Lgs. 81/2008, in allineamento a quanto precedentemente previsto dalla direttiva 2000/54/Ce.

 

Credits: Ambiente & Sicurezza

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L’accertamento del rischio amianto

Gli obblighi per le varie situazioni “a rischio” in carico a proprietari e operatori

 

Premessa
Il D.Lgs. 81/2008, con il termine amianto indica i seguenti silicati fibrosi:

• actinolite d’amianto;
• grunerite d’amianto (amosite);
• antofillite d’amianto;
• crisotilo;
• crocidolite;
• tremolite d’amianto.

Ciò premesso, come noto, l’amianto è un minerale naturale a struttura fibrosa che ha buone proprietà fonoassorbenti e termoisolanti e che, unitamente all’economicità, è stato ampiamente utilizzato in passato in innumerevoli applicazioni industriali, edilizie e in prodotti di consumo.

Il D.M. Sanità 6 settembre 1994 («Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto ») classifica i manufatti contenenti amianto (Mca) in due categorie distinte: a matrice friabile se le fibre di amianto sono libere o debolmente legate e quindi possono essere facilmente sbriciolati o ridotti in polvere con la semplice azione manuale; a matrice compatta nel caso in cui le fibre di amianto sono fortemente legate in una matrice stabile e solida (come il cemento-amianto o il vinyl-amianto) e quindi possono essere sbriciolati o ridotti in polvere solo con l’impiego di attrezzi meccanici.
Come noto, con il tempo questo materiale si è rivelato nocivo per la salute dell’uomo per la sua proprietà di rilasciare fibre che, se inalate, possono provocare patologie gravi e irreversibili a carico dell’apparato respiratorio (asbestosi, carcinoma polmonare) e delle membrane sierose, principalmente la pleura (mesoteliomi). L’amianto è quindi sicuramente pericoloso soltanto quando può disperdere le sue fibre nell’ambiente circostante per effetto di qualsiasi tipo di sollecitazione meccanica, eolica, da stress termico, dilavamento di acqua piovana.
Per questa ragione l’amianto in matrice friabile, il quale può essere ridotto in polvere con la semplice azione manuale, è considerato più pericoloso dell’amianto in matrice compatta che per sua natura ha una scarsa o scarsissima tendenza a liberare fibre.

Riconosciuta la pericolosità di questo minerale e in attuazione di specifiche direttive Ce, l’Italia con la legge n. 257 del 27 marzo 1992 ha dettato le «Norme per la cessazione dell’impiego e per il suo smaltimento controllato». Questa legge prevede il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. È stata poi emanata una serie di dispositivi legislativi che definiscono le modalità di attuazione dei piani regionali amianto, di valutazione del rischio amianto, di gestione dei manufatti contenenti amianto, sugli obblighi dei proprietari e/o dei responsabili delle attività degli edifici con presenza di questi manufatti, nonché le tipologie di intervento per la bonifica.
Successivamente, sono state emanate nuove norme per lo smaltimento controllato, le regole per la mappatura e gli interventi di bonifica urgenti, è stato introdotto l’obbligo per le imprese di bonifica da amianto dell’iscrizione all’Albo nazionale dei gestori dei rifiuti (attualmente «gestori ambientali») ed è stato emanato il regolamento relativo alla determinazione e disciplina delle attività di recupero dei prodotti e beni di amianto e contenenti amianto.
I manufatti contenenti amianto adottati in edilizia presentano ciascuno un certo grado di friabilità. 

L’iter
I manufatti contenenti amianto sono stati ampiamente utilizzati nel passato e installati almeno fino all’emanazione della legge n. 257/1992, in ambito residenziale, commerciale e in applicazioni industriali.
Pertanto, il sospetto che queste strutture contengano amianto è abbastanza radicato.
In tutti questi i siti è, pertanto, necessario accertare l’eventuale presenza di amianto e quindi occorre conoscere, per quanto possibile, la storia del sito, la data di costruzione e le ristrutturazioni successive, affidandosi a professionisti abilitati ed esperti (come i coordinatori amianto, abilitati ex legge n. 257/1992 e D.P.R. 8 agosto 1994), al fine di riconoscere i manufatti sospetti, chiedendo all’occorrenza informazioni ad hoc a soggetti responsabili (proprietari, datori di lavoro, appaltatori).

L’ampia gamma di manufatti contenenti amianto (si contano circa tremila applicazioni) e la variabilità delle loro tipologie che non consente di accertare la presenza di amianto a occhio nudo o dal semplice esame di un progetto di costruzione. L’unico modo per essere sicuri è sottoporre un campione del manufatto ad accurata analisi da parte di laboratorio autorizzato.
In tutti i luoghi di lavoro oppure strutture in cui sono presenti Mca o almeno sospettati di contenere amianto è necessario predisporre l’inventario dell’amianto, soprattutto quando occorre effettuare lavori specialmente di ristrutturazione o addirittura di demolizione. Infatti, a questo proposito, l’articolo 248 del testo unico della sicurezza (D.Lgs. n. 81/2008) stabilisce non solo che è necessario accertare l’eventuale presenza di amianto nei manufatti, prima di effettuare lavori di demolizione o di manutenzione, ma anche che qualsiasi materiale sospettato di contenere amianto deve essere considerato come contenente amianto fino a quando non viene accertato che ne è privo.

Per molti materiali, la presenza di amianto non può essere esclusa soltanto a seguito di una semplice ispezione visiva perché, molto spesso, il manufatto che contiene amianto è simile a quello che non lo contiene. Pertanto, è necessario ricorrere a tecniche analitiche che identificano la presenza di amianto nel materiale mediante esame visivo al microscopio per identificare le fibre.
L’inventario dei manufatti contenenti amianto deve identificare la loro posizione nel sito, indipendentemente dal fatto che siano sospettati o confermati dal laboratorio.

Sarà necessario accertare:
• la quantità dei Mca (ad esempio superficie, sviluppo lineare ecc.);
• la tipologia di manufatto (ad esempio, lastre di copertura, materia isolante, rivestimento, mattonelle per pavimenti ecc.);
• la percentuale in peso di amianto presente, se nota;
• la friabilità che rappresenta un parametro indicativo del rilascio di fibre nell’aria;
• le condizioni di conservazione (buone, normali, scarse, presenza di detriti, presenza di confinamento, di incapsulante ecc.);
• l’accessibilità dei manufatti (necessario per capire se le persone possono accedervi o venirne in contatto);
• il tipo di amianto presente (ad esempio crisotilo, amosite, crocidolite).

Ciò premesso, il primo obbligo per il proprietario e/o il gestore delle attività di un sito qualsiasi sia esso di proprietà privata o pubblica (terreno, fabbricato residenziale, edificio per uffici, fabbricato industriale, ecc.) consiste nell’accertare la presenza di amianto perché solo così si può essere certi di privilegiare la protezione delle persone e dell’ambiente, senza incorrere in esposizioni inconsapevoli al rischio.
Ai fini dell’accertamento della presenza di amianto nei materiali, innanzi tutto, i manufatti da ispezionare sono quelli sospettati di contenerlo, sia per l’età del manufatto sia per la funzione da esso svolta, qualora la stessa rientri tra quelle svolte dall’amianto.

Questa ricerca dovrebbe essere affidata a personale tecnico esperto e adeguatamente formato, come ad esempio a un “coordinatore amianto” abilitato ex legge n. 257/1992 e D.P.R. 8 agosto 1994 e non a personale qualsiasi dal momento che la normativa non prevede alcun particolare requisito formativo né di esperienza.
L’obbligo dell’accertamento della presenza di amianto va nella stessa direzione del censimento, previsto dalla normativa italiana.
Infatti, ai sensi dell’art. 12, D.P.R. 8 agosto 1994, il censimento degli edifici nei quali sono presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile ha carattere obbligatorio e vincolante per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico e di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti.

Solo poche Regioni hanno istituito l’obbligo della denuncia di tutti i manufatti, compatti e friabili di questo tipo. Pertanto, occorre individuare le strutture sospette e, prima di procedere al campionamento dei materiali, è necessario predisporre uno specifico protocollo che si può così riassumere:

• ricerca della documentazione tecnica disponibile sulla struttura, per accertare i vari tipi di materiali usati nella sua costruzione e per rintracciare, ove possibile, l’impresa costruttrice;
• ispezione diretta dei materiali per identificare quelli friabili e potenzialmente contenenti fibre di amianto, e per riconoscere approssimativamente il tipo di materiale impiegato e le sue caratteristiche;
• verifica dello stato di conservazione dei materiali friabili e valutazione delle condizioni degli eventuali rivestimenti sigillanti o dei mezzi di confinamento, per ottenere una prima stima sul potenziale di rilascio di fibre nell’ambiente;
• acquisizione di documentazione fotografica a colori la più rappresentativa possibile del materiale da campionare, che ne evidenzi la struttura e l’ubicazione rispetto all’ambiente potenzialmente soggetto a contaminazione.

Dopo aver eseguito queste verifiche preliminari, si procede al campionamento propriamente detto mettendo in atto criteri e procedure atte a garantire una sufficiente rappresentatività dei campioni evitando, oltre all’esposizione dell’operatore, la contaminazione dell’ambiente circostante mediante l’adozione delle seguenti procedure operative:

• umidificazione dei materiali da prelevare con acqua nebulizzata;
• impiego di strumenti adeguati che non permettano dispersione di polvere o di fibre nell’ambiente circostante, e che consentano il minimo grado di intervento distruttivo (sono indicati pinze, tenaglie, piccoli scalpelli, forbici, cesoie, ecc., e controindicati trapani, frese, scalpelli grossolani, lime, raspe, frullini e simili; per i campionamenti in profondità è consigliabile l’uso di idonei “carotatori” a tenuta stagna);
• prelievo di una piccola aliquota di materiale, sufficientemente rappresentativo e che non comporti alterazioni significative del materiale in sito;
• inserimento immediato dei campioni in sacchetto o contenitore di plastica ermeticamente sigillabile
• riparazione con adeguati sigillanti del punto di prelievo e pulizia accurata con panni umidi di eventuali residui sottostanti;
• trasmissione del campione, accompagnato da lettera riportante i dati del richiedente, il tipo di analisi richiesta, la descrizione sommaria della struttura da cui è stato prelevato, il luogo e la data di prelievo, (scheda di prelievo), unitamente alla documentazione fotografica, a un laboratorio specialistico riconosciuto come idoneamente attrezzato (qualificato e autorizzato ad effettuare le analisi ex allegati 1, 2 e 3 del D.M. 6 settembre 1994) il quale procederà all’accertamento dell’eventuale presenza di amianto, della tipologia del medesimo (dato qualitativo) ed eventualmente anche del dato quantitativo sul contenuto (percentuale in peso).

I materiali contenenti amianto possono essere omogenei o eterogenei. Tipicamente omogenei sono i prodotti di cemento-amianto, le pannellature isolanti per pareti friabili spruzzati sono in genere omogenei, ma possono anche essere costituiti da strati di diversa composizione, per cui occorre prelevare i campioni con l’ausilio del “carotatore”.
I rivestimenti isolanti di tubi e caldaie sono spesso eterogenei, e quindi necessitano di prelievo tramite carotatura.
Per i materiali omogenei è sufficiente prelevare uno o due campioni rappresentativi di circa cinque centimetri in estensione (o circa 10 gr.).
Per i materiali eterogenei è consigliabile prelevare da due a tre campioni ogni 100 mq circa, avendo cura di campionare anche dove vi siano cambiamenti di colore o dove siano state effettuate nel tempo delle riparazioni.

L’accertamento nell’aria
Per la misura della concentrazione delle fibre aerodisperse per mezzo di monitoraggio ambientale e il successivo conteggio delle fibre sono utilizzate due differenti tecniche analitiche: microscopia ottica in contrasto di fase (Mocf), prevista dal D.M. 6 settembre 1994, allegato 2, punto 1A, la quale rappresenta un metodo di analisi per la determinazione delle fibre aero disperse e per rilevare in maniera qualitativa la presenza di fibre in campioni massivi, unitamente alla tecnica di dispersione cromatica; microscopia elettronica a scansione (Sem), prevista dal D.M. 6 settembre 1994, allegato 2, punto 1B, la quale rappresenta un metodo di analisi per la determinazione della concentrazione delle fibre aero disperse e per rilevare, in maniera qualitativa, la presenza e il tipo di fibre in campioni massivi o in maniera quantitativa negli stessi campioni massivi in caso di presenza di amianto in percentuale inferiore all’1% in peso. È la tecnica prescelta dal D.M. 6 settembre 1994 per la determinazione della concentrazione di fibre aero disperse ai fini della certificazione della restituibilità di ambienti bonificati.

Per rimarcare la differenza tra le due tecniche analitiche, nel punto 2C del D.M. 6 giugno 1994, in materia di monitoraggi ambientali di fibre aerodisperse, è anche riportato che: «Va ricordato che nel caso della Mocf tutto il materiale fibroso viene considerato mentre, nel caso della Sem, è possibile individuare soltanto le fibre di amianto. Per questo motivo si ritiene che valori superiori a 20 ff/l valutati in Mocf o superiori a 2 ff/l in Sem, ottenuti come valori medi su almeno tre campionamenti, possono essere indicativi di una situazione di inquinamento in atto».
Inoltre, il testo unico sicurezza con riferimento agli ambienti di lavoro, all’articolo 254 «Valore limite», comma 1, stabilisce che «Il valore limite di esposizione per l’amianto è fissato a 0,1 fibre per centimetro cubo di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore.
I datori di lavoro provvedono affinché nessun lavoratore sia esposto a una concentrazione di amianto nell’aria superiore al valore limite».

Nel caso di indagine finalizzata alla valutazione dell’esposizione professionale o al monitoraggio ambientale durante l’intervento di bonifica, i campioni possono essere analizzati in Mocf. Quando essa invece è finalizzata alla restituzione di ambienti bonificati i campioni devono essere obbligatoriamente analizzati in Sem.

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Cancerogeni e mutageni nuovi compiti in arrivo

La recente direttiva (Ue) 2019/130 andrà recepita entro il 20 febbraio 2021

Datore di lavoro e medico competente, unitamente all’intero sistema prevenzionistico, saranno chiamati a rivedere il proprio ruolo per la gestione del rischio in azienda. Punto di partenza: inasprire i controlli del livello di esposizione

Le novità
La nuova direttiva (Ue) 2019/130 del parlamento europeo del 16 gennaio 2019, in vigore dal 20 febbraio 2019, modifica la direttiva 2004/37/Ce sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione
ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro. In Italia sarà recepita nel D.Lgs. n. 81/2008 e modificherà/integrerà il titolo 9, Capo II e gli allegati XLII e XLIII; termine ultimo per il recepimento negli ordinamenti nazionali, il 20 febbraio 2021.
Si tratta della seconda modifica della direttiva 2004/37/Ce (la prima è la direttiva Ue 2017/2398 del Parlamento europeo del 12 dicembre 2017). 

Le principali modifiche che la direttiva (Ue) 2019/130 apporta alla direttiva 2004/37/Ce riguardano:
• l’introduzione dell’articolo 13-bis;
• alcuni emendamenti a carico dell’allegatoI e dell’allegato III.

L’articolo 13-bis «Accordi delle parti sociali», orientato allo sviluppo di politiche di prevenzione, prevede che gli accordi delle parti sociali eventualmente conclusi nell’ambito della presente direttiva siano elencati nel sito web dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) con necessità di aggiornamento periodico. Ciò per ribadire l’importanza della definizione degli accordi delle parti sociali per l’attuazione efficace, oltre alle misure normative, degli obblighi a carico dei datori di lavoro di cui alla stessa direttiva 2004/37/Ce.

Le modifiche dell’allegato I e dell’allegato III coinvolgono, invece, aspetti più tecnici.

L’allegato I alla direttiva 2004/37/Ce, recepito dall’allegato XLII del D.Lgs. n. 81/2008, definisce cancerogena una sostanza, miscela o procedimento, nonchè una sostanza o miscela liberate nel corso di un processo di seguito menzionato:
• produzione di auramina con il metodo Michler;
• i lavori che espongono agli idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame o nella pece di carbone;
• i lavori che espongono alle polveri, fumi e nebbie prodotti durante il raffinamento del nichel a temperature elevate;
• il processo agli acidi forti nella fabbricazione di alcool isopropilico;
• il lavoro comportante l’esposizione a polvere di legno duro;
• i lavori comportanti esposizione a polvere di silice cristallina respirabile generata da un procedimento di lavorazione.

Con la nuova direttiva (Ue) 2019/130 a questi andranno ora aggiunti:
• i lavori comportanti penetrazione cutanea degli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore;
• i lavori comportanti esposizione alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel.

Con la direttiva (Ue) 2019/130 l’allegato III («Valori limite e altre disposizioni direttamente connesse») è sostituito dal testo che figura nell’allegato della direttiva stessa; di fatto, la nuova direttiva apporta all’allegato III l’aggiunta di cinque sostanze cancerogene:
• il tricoloretilene (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• la 4,4’ – metilendianilina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’epicloridrina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dibromuro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dicloruro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008).

Queste sostanze vanno ad aggiungersi:
• alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel;
• alle miscele di idrocarburi policiclici aromatici (categoria 1A o 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008), in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene;
• agli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore.

Per tutti questi composti, ad eccezione degli ultimi due, sono definiti i valori limite che non devono essere superati nel corso dell’esposizione lavorativa. Per le miscele di idrocarburi policiclici aromatici, in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene, e per gli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna non vengono identificati valori limite, ma, essendo noto l’assorbimento anche per via cutanea, è proposta la “skin notation” a raccomandare, nella valutazione del rischio, di considerare anche la capacità di contribuire in modo significativo all’esposizione totale attraverso la via di assorbimento cutanea. Salgono, quindi, ora a ventidue gli agenti cancerogeni per i quali è fissato un limite espositivo (in questa direttiva non è contemplato l’amianto) e sono dodici le sostanze che assumono la “skin notation”.

Le conseguenze per il datore di lavoro…
Da tutto ciò ne deriva che sono importanti le novità che datore di lavoro e medico competente dovranno affrontare. Per il datore di lavoro vi sarà la necessità di ricomprendere nel processo di valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni nuovi composti e, quindi, nuovi ambiti occupazionali. Ne sono importanti esempi i gas di scarico dei motori diesel e gli oli precedentemente (facendo attenzione alle pregresse esposizioni) usati nei motori a combustione interna (maggior parte dei veicoli). Per i primi, classificati dal 2014 come cancerogeni per l’uomo dalla Iarc (categoria 1), andranno considerate le attività comportanti l’impiego di motori diesel on road e off road e alcuni ambiti del trasporto ferroviario e navale.
Per i secondi ne conseguirà la necessità di valutare l’esposizione ad agenti cancerogeni per settori comuni fin qui per questo non valutati (uno per tutti il settore delle autoriparazioni).
Sempre per il datore di lavoro si confermerà con maggior forza l’obbligo di misurare e contenere l’esposizione per via inalatoria degli agenti cancerogeni o mutageni entro i limiti stabiliti dall’allegato III alla direttiva (Ue) 2019/130. Questi limiti sono stabiliti in funzione di un periodo di riferimento di otto ore o, per alcuni agenti cancerogeni o mutageni, di periodi di riferimento per esposizione di breve durata (Stel), normalmente di 15 minuti. Il testo della direttiva (Ue) 2019/130 precisa che l’adozione di valori limite relativamente agli agenti cancerogeni o mutageni non azzera i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dall’esposizione durante il lavoro (rischio residuo). I valori limite di esposizione professionale rientrano, in ogni modo, a pieno titolo nelle misure di gestione del rischio di cui alla direttiva 2004/37/Ce e il rispetto contribuisce, comunque, a una riduzione significativa dei rischi derivanti da questa esposizione. L’osservanza dei limiti non deve, tuttavia, pregiudicare gli altri obblighi dei datori di lavoro ai sensi della direttiva quali, in primis:
• la sostituzione dell’agente cancerogeno o mutageno con una sostanza, una miscela o un procedimento che non sia o sia meno nocivo per la salute del lavoratore;
• il ricorso a un sistema chiuso o altre misure volte a ridurre l’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile;
• la riduzione dell’utilizzazione di agenti cancerogeni e mutageni sul luogo di lavoro, la prevenzione o la limitazione dell’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile.

Già nel 2002 le linee guida per l’applicazione del titolo VII del D.Lgs. n. 626/1994 «Protezione da agenti cancerogeni e/o mutageni», del coordinamento tecnico per la sicurezza nei luoghi di lavoro delle regioni e delle province autonome, ricordavano che il limite non può essere considerato uno spartiacque verso il basso, dato che il rispetto del limite non comporta di per sé rispetto della minimizzazione dell’esposizione, mentre deve essere considerato tale verso l’alto, nel senso che un’attività che comporti superamento del limite non può essere in nessun caso mantenuta in essere.

Nella direttiva (Ue) 2019/130 sono poi fissati alcuni valori limite ai quali l’adeguamento dovrà essere progressivo:
• per le polveri di legno duro il valore limite è fissato a 2 mg/m3 con livello transitorio di 3 mg/m3 fino al 17 gennaio 2023;
• per i composti di cromo VI definiti cancerogeni il valore limite diventa 0,005 mg/m3 (0,010 mg/m3 fino al 17 gennaio 2025; 0,025 mg/ m3 per i procedimenti di saldatura o taglio al plasma o analoghi procedimenti di lavorazione che producono fumi fino al 17 gennaio 2025).

Per questi due agenti, già la direttiva (Ue) 2017/2398 aveva stabilito questi limiti che sono stati quindi ripresi dalla attuale direttiva (Ue) 2019/130.
Per le emissioni di gas di scarico dei motori diesel (misurate sotto forma di carbonio elementare) il limite è per la prima volta posto a 0,05 mg/m3. Il valore limite si applicherà a decorrere dal 21 febbraio 2023. Per le attività minerarie sotterranee e la costruzione di gallerie, il valore limite sarà in vigore a decorrere dal 21 febbraio 2026.
Lo strumento di analisi, a disposizione del datore di lavoro, per la valutazione dell’esposizione e dell’efficacia delle misure preventive per il rispetto dei limiti è, quindi, ancora una volta l’indagine ambientale la cui metodica è indicata dalle norme tecniche.
La valutazione dell’esposizione deve essere eseguita periodicamente. Le indagini devono valutare sia la via inalatoria, che l’esposizione cutanea. Per quest’ultima, vigono, tuttavia, difficoltà maggiori; non esistono, infatti, diffusi metodi di campionamento e analisi, né sono disponibili valori limite di esposizione cutanea con i quali confrontare le valutazioni effettuate.
Per alcuni agenti, segnatamente le emissioni di gas di scarico dei motori diesel, le metodologie di analisi (la già citata misura del carbonio elementare) non sono ancora di pronta disponibilità.

…e il medico competente
Il medico competente:
• avrà, anzitutto, la necessità di esercitare un ruolo attivo nella fase della valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni provenienti da nuovi settori professionali e collaborare attivamente al processo di individuazione e ottimizzazione delle misure di prevenzione;
• ove disponibili, dovrà essere in grado di mettere a disposizione idonei indicatori che quantifichino il livello di esposizione dei lavoratori coinvolti in particolari attività, utilizzando il monitoraggio biologico;
• avrà l’esigenza di perfezionare i protocolli di sorveglianza sanitaria per nuovi gruppi di lavoratori collaborando alla loro informazione e formazione;
• infine, amplierà la compilazione e l’aggiornamento del registro degli esposti aziendale.

Possibili sviluppi e conclusioni
In conclusione, si tratta, quindi, di modifiche rilevanti per datore di lavoro e medico competente, in realtà più diffusamente per tutto il sistema prevenzionistico aziendale, che riguardano molte attività e mansioni che sino a oggi non erano state incluse fra quelle da valutare e sorvegliare.
Per queste, proprio perché esponenti ad agenti cancerogeni o mutageni, si imporrà un più rigido controllo del livello di esposizione. Una terza proposta di revisione della direttiva 37/2004 (documento COM 2018/0171), la cui prima lettura al Parlamento europeo è attesa per dicembre 2019, prevede l’introduzione di ulteriori valori limite di esposizione per cadmio e suoi composti inorganici, acido arsenico e suoi composti inorganici, formaldeide, 4,4’-metilen-bis (2-cloroanilina) (MOCA).
Gli agenti reprotossici non trovano, invece, ancora inclusione, benché auspicata, nella direttiva (ue) 2019/130.

 

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Autorizzazione unica ambientale: richiesta e modifica

Di cosa si tratta

L’autorizzazione unica ambientale (Au-a) è un provvedimento abilitativo istituito con D.P.R. 29 maggio 2013, n. 591 al fine di semplificare gli adempimenti autorizzativi per le imprese. L’Aua, infatti, costituisce un “contenitore” all’interno del quale so-no confluite più autorizzazioni e comunicazioni ambientali che, in precedenza, dove-vano essere richieste singolarmente. Sono sette le categorie di autorizzazioni sostituite dall’Aua. Il gestore di un impianto deve oggi richiedere questa “nuova” autorizzazione per ottenere anche solo una delle “vecchie”.
Relativamente al momento dal quale diventa obbligatorio il regime Aua, è necessario fare una precisazione. Se l’obbligatorietà di questo regime inizia chiaramente a decorrere dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 59/2013, tuttavia per le attività già avviate prima dell’introduzione della disciplina Aua, «l’autorizzazione unica ambientale può essere richiesta alla scadenza del primo titolo abilitativo da essa sostituito», così come disposto dall’art. 10, comma 2, D.P.R. n. 59/2013. Con la circolare del ministero dell’Ambiente 7 novembre 2013, n. 00498013 è stato successivamente chiarito che, con questa indicazione, il Legislatore non ha inteso rendere facoltativo il regime Aua, bensì solo posticipare l’obbligo per il gestore di presentare domanda di Aua alla scadenza del primo titolo abilitativo sostituito dalla stessa. Nella medesima circolare si è, inoltre, chiarito che il gestore non debba attendere la scadenza del titolo sostituito, ma presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito (ad esempio, in materia di scarichi l’art. 124, D.L-gs. n. 152/2006, prevede che il rinnovo sia chiesto un anno prima della scadenza). Ciò al fine di poter continuare l’attività anche in caso di mancata risposta, nei termini di legge, sulla richiesta di primo rilascio dell’Aua.

Chi può richiederla
L’art. 1, D.P.R. n. 59/2013, al momento di determinare l’ambito di applicazione della disciplina Aua, fa esplicito riferimento alle sole piccole e medie imprese (Pmi), come individuate dal D.M. 18 aprile 2005. Tutta-via, con la circolare del ministero dell’Am-biente 7 novembre 2013, n. 0049801 sopra citata, il dicastero ha precisato che questa disciplina trova, in realtà, applicazione anche nei confronti delle grandi imprese, qualora non soggette ad autorizzazione in-tegrata ambientale. In altre parole, l’ambito di applicazione della disciplina Aua è determinabile per sottrazione, nel senso che ne sono esclusi solo:
• gli impianti soggetti ad Aia;
• i progetti che siano già sottoposti a valutazione di impatto ambientale, laddove la normativa statale o regionale preveda che la stessa Via comprenda e sostituisca tutti gli atti di assenso in mate-ria ambientale. In soli due casi la richiesta di Aua è facoltativa:
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette a sole comunicazioni;
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette solo all’autorizzazione generale di cui all’art. 272, D.Lgs. n. 152/20064.In questi casi, il gestore può optare tra il “vecchio” regime autorizzativo e l’Aua.
Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’Aua ad altri provvedimenti autorizzativi; è stato, tuttavia, chiarito in linee guida dedicate5 che il D.P.R. n. 59/2013 non dovrebbe trovare applicazione per quei procedimenti che già si caratterizzano per l’“unicità”, tra i quali, ad esempio, l’autorizzazione unica per impianti di gestione rifiuti (art. 208, D.Lgs. n. 152/2006).

Contenuto, durata e costi
Entrando nel merito dei contenuti del provvedimento, il D.P.R. n. 59/2013 rimanda alle discipline di settore, disponendo che «l’autorizzazione unica ambientale contiene tutti gli elementi previsti dalle normative di settore per le autorizzazioni e gli altri at-ti che sostituisce» (art. 3, comma 5).
In altre parole il D.P.R. ribadisce come l’Aua sia solamente un provvedimento “contenitore” che sostituisce formalmente le singole autorizzazioni e comunicazioni, ma che, dal punto di vista sostanziale, continuano a trovare applicazione le discipline settoriali, anche sul piano sanzionatorio. Ai sensi dell’art. 3, l’autorizzazione deve poi definire «le modalità per lo svolgimento delle attività di autocontrollo, ove previste, individuate dall’Autorità competente, tenendo conto della dimensione dell’impresa e del settore di attività». Ad esempio, i gesto-ri degli impianti autorizzati in Aua che possiedono scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006) so-no chiamati a presentare, sempre ai sensi dell’art. 3, comma 5, D.P.R. n. 59/2013, una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo all’autorità competente, con cadenza quadriennale.

L’autorità può, quindi, procedere all’aggiornamento/modifica dell’autorizzazione stessa qualora alla comunicazione emerga che l’inquina-mento provocato dall’attività e dall’impianto è tale da renderlo necessario, senza che ciò modifichi la durata dell’autorizzazione.Venendo alla durata, l’autorizzazione unica ambientale ha validità di quindici anni a decorrere dalla data del rilascio. Questa scadenza sostituisce quelle diverse pre-viste dalle discipline settoriali delle singole ipotesi autorizzatorie confluite nell’Aua. Decorsi i quindici anni, l’autorizzazione può essere rinnovata presentando, almeno sei mesi prima della scadenza, apposita istanza contenente la documentazione aggiornata (con la possibilità di limitarsi a richiamare quanto già in possesso dell’autorità, se le informazioni non sono variate nel tempo). Presentata l’istanza di rinnovo nei termini, fatta salva diversa previsione contenuta nel-la specifica normativa di settore, l’impianto potrà continuare a operare sino all’ottenimento del relativo provvedimento. Come già per l’Aia, peraltro, anche il D.P.R. n. 59/2013 dispone che l’autorità competente possa imporre al gestore una revisione dell’Aua prima della scadenza quando:
• le prescrizioni stabilite nella stessa impediscono o pregiudicano il conseguimento degli obiettivi di qualità ambientale stabiliti dagli strumenti di pianificazione e programmazione di settore;
• nuove disposizioni legislative comunitarie, statali o regionali lo esigono.Infine, con riferimento ai costi della stessa, il soggetto richiedente sostiene le spese e i costi dei diritti connessi ai provvedimenti racchiusi nell’autorizzazione unica ambientale.
Possono essere previsti ulteriori oneri istruttori, ma la somma dei costi non può superare quanto complessivamente si pagava prima dell’avvento dell’Aua per i singoli titoli abilitativi da essa sostituiti.

Presentazione della domanda di Aua

Il modello
In linea con quanto sopra illustrato, la stessa domanda per ottenere il provvedimento autorizzativo deve contenere tutte le infor-mazioni richieste dalle relative discipline di settore. A questo fine, come richiesto dall’art. 10, comma 3, D.P.R. n. 59/2013, con D.P.C.M. 8 maggio 2015 è stato predisposto un modello unico nazionale ad hoc al quale le regioni hanno dovuto adeguarsi. Si tratta di un modulo funzionale, appunto, a uniformare i modelli già utilizzati dalle diver-se amministrazioni regionali e a sostituire i sette moduli, relativi alle altrettante autorizzazioni rimpiazzate dall’Aua, con un unico modello più snello, chiaro e intuitivo da presentare attraverso i sistemi telematici.
Il modello si compone di una parte generale e di otto schede da allegare all’istanza, relative alle diverse autorizzazioni sostituite dall’Aua per le quali si fa richiesta. Non è, invece, necessario allegare queste schede qualora le condizioni di esercizio dell’impianto non siano mutate rispetto al precedente titolo autorizzativo, essendo in tal caso sufficiente predisporre una dichiarazione di invarianza. È di fondamentale importanza – per le imprese e, soprattutto, per chi materialmente sottoscrive la domanda di autorizzazione unica ambientale – tener conto che queste dichiarazioni hanno valore di “autocertificazione” ai sensi degli artt. 46 e 47, D.P.R. n. 445/2000. Di conseguenza, un’eventuale dichiarazione non veritiera può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha e ettuato tale “autocertificazione”.Si rileva, inoltre, che, ove espressamente in-dicato nel modello, le sezioni da compilare e le informazioni da inserire possono variare sulla base delle specifiche discipline regionali, conformemente alla possibilità data alle Regioni di estendere l’ambito di appli-cazione dell’Aua ad altri titoli autorizzativi o comunicazioni. Si segnala, infine, che, a pagina 41 del modello unificato, é riepilogata la documentazione da accludere a cia-scuna delle schede tecniche previste, a cui si rimanda per i contenuti di dettaglio. Solo con riferimento ad alcune schede tecniche sono proposti degli schemi per la predisposizione della relazione tecnica.

La procedura
Quanto alla procedura da seguire, la domanda deve essere presentata per via telematica al Suap (sportello unico attività produttive) del Comune ove si trova l’impianto.
Il Suap ne cura poi la trasmissione, sempre per via telematica, all’autorità competente – ovvero la provincia, salvo che la disciplina regionale attribuisca competenza a una diversa autorità – che gestisce la fase di autorizzazione, adottando il provvedimento finale e trasmettendolo al Suap che poi rilascia il titolo. Allo sportello unico è, quindi, attribuito un importante ruolo di coordinamento; è, pertanto, fondamentale che l’attività dello stesso sia svolta tempestivamente, in quanto i termini procedimentali decorrono dalla domanda presentata dall’istante indipendentemente da eventuali ritardi del Suap nella trasmissione della documentazione agli altri enti.
Il procedimento è diversificato in funzione della durata dei procedimenti per il rilascio dei provvedimenti sostituiti (inferiore o superiore a 90 giorni) nonché in funzione della necessità di acquisire o meno altri titoli abilitativi oltre all’autorizzazione unica ambientale (laddove sia necessario acquisire diversi titoli abilitativi, il ruolo del Suap diviene più rilevante). La disciplina del procedimento è scandita dai commi 4 e 5 dell’arti-colo 4, D.P.R. n. 59/2013, recentemente modificati dal D.Lgs. n. 127/2016, che ha ampliato i casi di obbligatoria indizione della conferenza di servizi7. Quanto, infine, alle eventuali modifiche previste per l’impianto nel regime di validità dell’Aua, la disciplina dettata dall’art. 6, D.P.R. n. 59/2013, ricalca in larga parte quella propria dell’A-ia ed è illustrata nella figura 5. Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di definire, nel rispetto delle norme di settore vigenti, ulteriori criteri per la qualificazione delle modifiche sostanziali e indi-care modifiche non sostanziali per le quali non vi è nemmeno l’obbligo di effettuare la comunicazione.

Consigli finali per le aziendeIn definitiva, l’azienda che voglia presentare domanda di Aua deve:
• prepararsi per tempo, ovvero non attendere la scadenza del titolo sostituito, bensì presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito;
• qualora sia in possesso di scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006), provvedere con cadenza quadriennale alla presentazione all’autorità competente di una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo;
• compilare attentamente la stessa consapevoli che, in caso di predisposizione di una dichiarazione di invarianza, l’eventuale non veridicità della stessa può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha effettuato questa “autocertificazione”;
• successivamente alla presentazione del-la prima domanda di Aua, quando altre autorizzazioni sostituite dall’Aua giungo-no in scadenza, far confluire le stesse in Aua (ricordandosi sempre di presentare la domanda nel termine preventivo di cui al primo punto).

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Acque reflue industriali: le caratteristiche base

Non devono mancare determinati requisiti di “natura” e di “gestione”

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale,9 novembre 2018, n. 51006, pur escludendola gestione non a norma e l’abbandono di rifiuti,ha comunque condannato un titolare di un’impresa agricola per il reato di cui all’articolo 137,D.Lgs. n. 152/2006 (scarichi illeciti). E nel farlo,si è pronunciata da una prospettiva diversa rispetto a precedenti orientamenti, su un elemento indicato come potenzialmente discriminante. Vediamo quale

La corte di Cassazione è stata chiamata, ancora una volta, a doversi esprimere relativamente a un caso in cui si pone la necessità di dover «distinguere tra scarichi e rifiuti», ovvero quando le acque reflue siano da fare rientrare in una tipologia piuttosto che nell’altra, con la conseguente applicazione della relativa disciplina. Nel caso specifico, la Corte ha definito scarichi industriali, oltre i reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti dove si svolgono attività artigianali e di prestazione di servizi, qualora le caratteristiche qualitative di questi siano diverse da quelle delle acque domestiche. La conclusione, però, è stata che, anche qualora si possa essere in presenza di scarichi di acque reflue, con la conseguente applicazione della relativa disciplina e sottrazione dall’ambito dei rifiuti, non devono mancare determinati requisiti e caratteristiche di “natura” e di “gestione” dello scarico.

Fatto
La vicenda in esame ha portato la suprema Corte a esprimersi e a ribadire le proprie posizioni su determinate questioni su cui, negli anni, si è andata consolidando una specifica giurisprudenza. Il titolare di un’azienda agricola era stato dichiarato, in primo e in secondo grado, colpevole del reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. 152/2006, per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini. L’imputato, nel proporre ricorso in Cassazione, avverso la pronuncia dei giudici dell’appello, ha addotto l’insussistenza del reato di cui sopra a causa della mancanza di un siste-ma stabile di collettamento da cui sarebbe derivato il carattere occasionale dell’operazione; oltre al fatto che sarebbe stata incerta anche la qualificazione delle acque provenienti dal lavaggio del capannone come “industriali”, potendo contenere, a giudizio del ricorrente, al massimo residui di materia organica e non certo sostanze chimiche che potessero connotare la pericolosità delle acque reflue.

La sentenza della suprema Corte

Acque reflue industriali: dalla definizione…
Al contrario, come accennato in precedenza, la Corte non ha avuto dubbi nel qualificare come “acque reflue industriali” quelle provenienti e scaricate dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, facendo opportuno riferimento a precedenti pronunce secondo cui «nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive». In questa accezione, inoltre, devono ricomprendersi «tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, e che non si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali inquinanti on connessi con le attività esercitate nello stabilimento» (Cassazione penale, sez. III, 5 febbraio 2009, n.12865). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2015, n. 3199).

…alla qualificazione come scarichi
Una volta assodato il fatto che nella nozione di acque reflue industrialirientrano anche quelle provenienti – come nel caso di specie – dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, la questione è stata incentrata sulla qualificazione di queste acque reflue come “scarichi”. L’imputato aveva addotto, in propria difesa, l’occasionalità delle immissioni di cui, facendo riferimento alle fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo, non esisteva una prova chiara. Il suddetto motivo di impugnazione, però, non ha convinto i giudici della suprema Corte che hanno confermato la colpevolezza dell’imputato per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006 e hanno colto l’occasione per confermare l’orientamento espresso in materia. In particolare, facendo riferimento a una precedente pronuncia, i giudici hanno ribadito che «non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando, invece, ai fini della sua configurabilità, l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo», di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo» (sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45634).

Il nesso funzionale e diretto

Quando esclude una disciplina…
Un altro aspetto sottolineato dai giudici della suprema Corte al fine della configurabilità del reato in questione è l’esistenza di «uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo». In una recente sentenza, la Corte ha definito la sottile distinzione tra i casi in cui le acque reflue devono essere considerate “scarichi” o “rifiuti”.
Sulla base di quanto afferma l’articolo 74, D.Lgs. n. 152/2006, per scarico deve intendersi «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo acque superficiali» da cui ne consegue che «in tutti i casi in cui non sussista un nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore debba applicarsi la disciplina sui rifiuti, che secondo l’articolo 185 del D.Lgs. n. 152/2006, opera anche in relazione alle acque di scarico». La pronuncia ha affermato che «in caso di raccolta di reflui in vasche, con successivo sversamento in un terreno e ruscellamento in un torrente, non potesse trovare applicazione la disciplina sugli scarichi, non potendo il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale essere considerato diretto e non essendo lo stesso attuato senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento» (Cassazione pena-le, sez. III, n. 38848/2017). In questo caso, dunque, l’imputato, che svolgeva attività di pulitura e confezionamento di ortaggi e raccoglieva le acque reflue derivanti in vasche senza autorizzazione, era stato stato condannato per gestione illecita e abbandono di rifiuti ex articoli 192, 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006.

… e quando ne ammette un’altra
Diverso è apparso il caso in esame nel quale, come sopra accennato, i giudici hanno confermato la colpevolezza del titolare dell’azienda agricola per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006, avendo effettuato scarichi di acque reflue industriali, derivanti dalle operazioni di lavaggio dei capannoni. Nella fattispecie, come in altri casi citati, è stata messa in evidenza l’esistenza del «nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore» che la Corte aveva sempre sottolineato come l’elemento che, qualora assente, avrebbe determinato l’applicazione della disciplina sui rifiuti (articolo 185, D.Lgs.152/2006) anche in relazione alle acque di scarico; in questo caso, però, lo stesso elemento è stato posto in senso positivo, non più a escludere, ma ad ammettere l’applicazione della disciplina sugli scarichi. La configurabilità del reato di cui all’articolo 137 citato, nel caso di specie, è derivata proprio dalla constatazione dell’esistenza di uno «stabile sistema di collettamento che univa il ciclo produttore del refluo con il suolo», costituito dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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Rifiuti speciali pericolosi cosa c’è da sapere

Molti i controlli da effettuare, dall’esatta classificazione, alle condizioni dell’eventuale deposito temporaneo fino alla verifica delle autorizzazioni del trasportatore e del destinatario. Vediamoli tutti in un breve ed essenziale riepilogo

 

l D.Lgs. n. 152/2006, cosiddetto “testo unico ambientale”, all’art. 184 distingue tra rifiuti urbani e rifiuti speciali. Questi ultimi, cioè i rifiuti prodotti da enti e imprese, si dividono a loro volta tra non pericolosi e pericolosi.
Individuare e gestire correttamente rifiuti pericolosi non è un esercizio banale ed è un’attività che riguarda un ampio spettro di realtà non solo strettamente legate ai settori produttivi; giusto per fare un esempio, la sostituzione di un neon o di un monitor in un ufficio si configura come gestione di un rifiuto pericoloso. Vediamo allora gli adempimenti necessari per il produttore.

Codifica e classificazione
I rifiuti pericolosi vanno, innanzitutto, individuati, quindi identificati e classificati, assegnando a essi un codice e una o più caratteristiche di pericolo. Il codice prende il nome di Cer, acronimo di catalogo europeo dei rifiuti, un elenco di codici condiviso a livello europeo, composti da sei numeri ciascuno e divisi in venti capitoli.
Per attribuire il codice corretto, si identifica innanzitutto la fonte che ha generato il rifiuto, cioè l’attività, consultando i capitoli da 1 a 12 e da 17 a 20 all’interno dei quali si va a individuare il codice che meglio descrive il rifiuto. Laddove nessuno dei codici di questi capitoli si addica, si cerca nei capitoli 13, 14, 15. Se anche in questi non si trova un codice adeguato, bisogna definire il rifiuto utilizzando i codici del capitolo Nell’ipotesi in cui non si riesca a codificare un rifiuto neanche con i codici del capitolo 16, si utilizzerà un codice 99 (non specificato altrimenti) del capitolo che si ritiene più idoneo (anche se nella pratica quasi mai viene utilizzato perché raramente presente nelle autorizzazioni). Il codice da attribuire può essere di due tipologie:

• assoluto, cioè con asterisco (*) e senza riferimento a sostanze pericolose contenute;

• speculare o a specchio, con asterisco (*) e riferimento a specifiche o generiche sostanze pericolose ivi contenute. Qualora il processo di attribuzione porti alla scelta di un Cer assoluto, questo può essere attribuito senza alcuna ulteriore indagine. In questa ipotesi, l’attribuzione del codice ha carattere puramente convenzionale e il rifiuto è considerato pericoloso a prescindere dalla reale composizione (se è stata correttamente attribuito). Nel caso in cui, invece, la scelta ricada su un codice “a specchio”, dal 1° giugno 2015, con l’entrata in vigore del regolamento Ue 1357/2014, è necessaria una verifica analitica (ad esempio un’analisi chimica) caso per caso, per stabilire se il rifiuto sia da classificare come pericoloso o meno.

Nell’ipotesi di attribuzione di codice pericoloso assoluto, una volta che questo è stato individuato, devono essere esaminate le concentrazioni di sostanze pericolose contenute per attribuire le corrette classi o caratteristiche di pericolo (HP). Dal 1° giugno 2015, per valutare le caratteristiche di pericolo si applicano i criteri del nuovo allegato III alla direttiva 2008/98/Ce introdotto con il regolamento Ue 1357/2014, che allinea i criteri di classificazione dei rifiuti a quelli di classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele del regolamento Ue 1272/2008 (cosiddetto Clp). In pratica, devono essere prese in considerazione quelle sostanze che, singolarmente o in sommatoria, sono contenute in concentrazioni raggiunte o superate le quali rendono il rifiuto pericoloso. Oltre alle concentrazioni, per alcune sostanze devono essere considerati anche dei valori soglia (cut off values). Quando una sostanza è inferiore al suo valore soglia, non deve essere contemplata nella valutazione (i valori soglia sono previsti solo per le caratteristiche di pericolo HP4, HP6, HP8). Per capire se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni o valori soglia, così da qualificare il rifiuto come pericoloso, ci sono tre possibili percorsi:

• effettuare un’analisi di laboratorio;

• operare un test di prova;

• fare una valutazione attraverso una Sds (scheda sicurezza).

Questi metodi risultano in alcuni casi di difficile o impossibile applicazione, come nell’ipotesi (frequente) in cui non sia nota la composizione del rifiuto oppure la composizione sia così eterogenea da rendere un campionamento non rappresentativo (si pensi ad un rifiuto misto) oppure quando ci si trova dinanzi a un rifiuto solido.

Il deposito temporaneo
Una volta classificati, i rifiuti pericolosi devono essere raggruppati nel luogo di origine o produzione, da intendersi quale l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti. Questo raggruppamento non necessita di autorizzazione, a patto che vengano rispettate alcune regole:
• raccolta per categorie omogenee (da leggere “per codice Cer”, secondo la giurisprudenza) e nel rispetto delle norme che regolamentano il deposito delle sostanze pericolose;
• corretti imballaggio ed etichettatura in relazione alle sostanze pericolose contenute;
• limiti temporali o quantitativi, a scelta del produttore: movimentazione con cadenza trimestrale indipendentemente dalle quantità o, in alternativa, al raggiungimento di 10 m3. In questa seconda ipotesi,
il deposito non può, in ogni caso superare, la durata temporale di un anno;
• in caso di inquinanti organici persistenti (Pop) di cui al regolamento Ce n. 850/2004, rispettare le norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l’imballaggio previste dallo stesso regolamento.

La tracciabilità
La registrazione: registri, formulari e Mud I rifiuti pericolosi sono soggetti a registrazione su apposito registro cartaceo, denominato “registro di carico e scarico rifiuti modello A”, numerato, vidimato e gestito con le stesse modalità di un registro Iva.Il registro può essere tenuto anche mediante strumenti informatici e stampato su carta formato A4 numerata e vidimata dalla Camera di commercio. Dal 2008, il registro può essere vidimato solo dalla Camera di commercio territorialmente competente.
Esso deve essere tenuto presso ogni sito di produzione di rifiuti pericolosi e conservato per cinque anni dall’ultima registrazione. Per i piccoli produttori, la cui produzione annua non eccede le 10 tonnellate di rifiuti non pericolosi e le 2 tonnellate di rifiuti pericolosi, è prevista la possibilità di tenere il registro presso le organizzazioni di categoria o loro società di servizi. Un’ulteriore eccezione è prevista per un’altra categoria di piccoli produttori, cioè coloro che non sono inquadrati in un’organizzazione di ente o impresa (ad esempio professionisti in ambito medico quali medici generici o di famiglia) che adempiono alla tenuta del registro semplicemente mediante conservazione cronologica di formulari. Le annotazioni devono rispettare il criterio temporale dei 10 giorni. L’annotazione di carico deve essere effettuata entro 10 giorni dalla produzione del rifiuto mentre quella di scarico entro 10 giorni dal trasporto finalizzato a recupero o smaltimento.

Il trasporto
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere accompagnato, in tutti i casi, dai formulari di identificazione rifiuti (Fir), tranne che per alcune ipotesi particolari, come il trasporto a opera del gestore pubblico o il trasporto di sottoprodotti di origine animale (ad esempio scarti di macelleria), regolamentati da altra normativa. I formulari devono contenere almeno le seguenti informazioni:
a) nome e indirizzo del produttore/detentore
b) origine, tipologia e quantità del rifiuto
c) impianto di destinazione
d) data e perscorso del tragitto
e) nome e indirizzo del destinatario.

I formulari sono prodotti in quattro esemplari:
• uno resta al produttore;
• due vengono trattenuti, rispettivamente, dal trasportatore e destinatario dopo essere stati firmati e datati da quest’ultimo all’arrivo dei rifiuti in impianto;
• una quarta copia, sempre firmata e datata dal destinatario, deve essere restituita al produttore entro 90 giorni; in mancanza, deve essere informata la Provincia.

Questa quarta copia è elemento indispensabile per dimostrare la corretta gestione. I formulari e il registro devono essere, inoltre, interconnessi, riportando nel registro gli estremi identificativi dei formulari in corrispondenza degli scarichi e, viceversa, riportando sulla propria copia del formulario il numero progressivo della relativa annotazione avvenuta sul registro. I Fir devono essere, infine, conservati per cinque anni.
Ultimo tassello della tracciabilità è la comunicazione al catasto dei rifiuti prodotti e smaltiti nell’anno precedente da effettuare, entro il 30 aprile di ogni anno, attraverso il modello unico di dichiarazione ambientale, noto anche come Mud.

Controllo autorizzazioni
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere affidato a terzi autorizzati (trasportatore e destinatario);
tuttavia, la procedura di affidamento non solleva il produttore da responsabilità nella corretta gestione, come recita l’art. 188, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006: «il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste». Il concetto è ribadito anche dalla giurisprudenza, in particolare dalla sentenza della Cassazione n. 29727/2013 con la quale è stato ribadito che il produttore che affida i rifiuti a terzi «ha il dovere di accertare » il possesso dei requisiti e la responsabilità non è esclusa se il terzo è in possesso di autorizzazione, ma per rifiuti diversi da quelli affidati. In caso di omessa verifica, il produttore risponde di concorso con l’affidatario nel reato di illecita gestione. Il produttore deve, dunque, accertarsi del possesso delle relative abilitazioni, che:
• nel caso del trasportatore corrispondono all’iscrizione all’Albo gestori ambientali, nella categoria dei rifiuti che il produttore intende affidargli (categoria 5 e specifico Cer utilizzato) e che questa sia in vigore (durata 5 anni). La verifica può essere effettuata da chiunque, collegandosi al relativo portale on-line dell’Albo, cercando nella sezione “elenchi iscritti”.
• per il destinatario è rappresentata dell’autorizzazione allo stoccaggio e/o trattamento rilasciata da una Provincia o Regione ai sensi dell’art. 208, D.Lgs. n. 152/2006.
In questo caso non c’è ancora una banca dati unica nazionale e occorre, dunque, farsi dare il provvedimento autorizzativo direttamente dall’azienda che ha preso
in consegna i rifiuti. Questa autorizzazione può essere di diversa natura (semplificata, ordinaria, Aia o Aua), deve contenere l’indicazione dei Cer dei rifiuti trattati, tra i quali il produttore deve verificare la presenza dei rifiuti che intende consegnare e deve essere in corso di validità (la durata in genere varia tra 5, 6 o 10 anni, a seconda della tipologia).

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Registro degli esposti così la trasmissione

Adempimenti: la comunicazione telematica all’Inail finalizzata alla tutela

Uno strumento indispensabile agli organismi pubblici della prevenzione per conoscere il tipo di rischio al quale gli operatori sono stati sottoposti nel corso della loro attività lavorativa. Ecco come procedere

Il registro degli esposti all’amianto rappresenta uno strumento informativo che permette agli enti pubblici di prevenzione di conoscere tutte le persone che, durante la loro attività lavorativa, sono state esposte al rischio amianto; deve riportare informazioni quali l’attività svolta dai lavoratori, i dati relativi agli agenti cancerogeni o mutageni utilizzati e il valore dell’esposizione a questi agenti, se noto, in termini di intensità, frequenza e durata. Queste informazioni possono essere utilizzate dagli utenti per scopi sanitari, assicurativi e previdenziali. Infatti, è facoltà del datore di lavoro richiedere agli stessi enti copia delle annotazioni individuali, contenute nel registro, in caso di assunzione di lavoratori che abbiano in precedenza esercitato attività che comportavano esposizione ad amianto. Recentemente è stato introdotto l’obbligo di trasmissione del registro di esposizione unicamente per via telematica.

Le precedenti norme di riferimento
L’ormai abrogato D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (recante «Attuazione delle direttive 89/391/Cee, 89/654/Cee, 89/655/Cee, 89/656/Cee, 90/269/Cee, 90/270/Cee, 90/394/Cee, 90/679/Cee, 93/88/Cee, 95/63/Ce, 97/42/Ce, 98/24/Ce, 99/38/Ce, 99/92/ Ce, 2001/45/Ce, 2003/10/Ce, 2003/18/Ce e 2004/40/Ce riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro») all’articolo 59-sexiesdecies. «Registro di esposizione e cartelle sanitarie e di rischio» prevedeva, tra l’altro:
• l’obbligo, per il medico competente, di provvedere a istituire e aggiornare una cartella sanitaria e di rischio per ciascuno dei lavoratori esposti ad amianto;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, di iscrivere i lavoratori esposti in un registro;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, in caso di cessione del rapporto di lavoro, di trasmettere all’Ispels la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.
Il successivo articolo 70 «Registro di esposizione e cartelle sanitarie”, inoltre, specificava in particolare i contenuti del registro nonché i relativi obblighi del datore di lavoro e del medico competente.

I modelli
Il D.M. Salute 12 Luglio 2007, n. 155, recante il «Regolamento attuativo dell’articolo 70, comma 9, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626. Registri e cartelle sanitarie dei lavoratori esposti durante il lavoro ad agenti cancerogeni» ha definito le modalità e i modelli per la tenuta del registro e delle cartelle sanitarie e di rischio dei lavoratori esposti ad agenti cancerogeni e la creazione da parte del medico competente della cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, prevedendo che i dati relativi agli accertamenti e la conseguente registrazione degli stessi possano essere trattati esclusivamente per le finalità di igiene e sicurezza del lavoro.
Questi modelli di tenuta del registro sono i seguenti:

• modello C626/1: dati anagrafici del datore di lavoro, sintesi delle principali caratteristiche dell’azienda (attività produttiva, agente utilizzato, addetti ecc.);

• modello C626/2: registrazione delle informazioni riguardanti i dati anagrafici di ogni lavoratore, l’attività svolta, l’agente utilizzato, l’intensità, la frequenza e la durata dell’esposizione;

• modello C626/3: comunicazione di variazioni intervenute nelle informazioni che caratterizzano l’azienda;

• modello C626/4: (qualora il lavoratore non ne sia in possesso): richiesta delle “annotazioni individuali” in caso di assunzione di lavoratori che hanno in precedenza esercitato attività con esposizione ad agenti cancerogeni presso altra azienda;

• Il decreto ha anche elaborato le specifiche per la compilazione dei modelli dei suddetti modelli, cui occorre fare pedissequo riferimento. Analogamente, il decreto in questione ha introdotto il modello per la compilazione delle cartelle sanitarie e di rischio.

Il rapporto con il D.Lgs. 81/2008
Come noto, il testo unico scurezza, vale a dire il D.Lgs n. 81/2008 recante «Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro», ha abrogato molte norme relative a numerosi precedenti dispositivi legislativi in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, secondo principi di uniformità, riunione e armonizzazione. Ciò premesso, ai sensi degli articoli 242 e 243 del capo II «Protezione da agenti cancerogeni e mutageni», del titolo IX «Sostanze pericolose» del testo unico sicurezza, i lavoratori per i quali la valutazione dei rischi ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti a sorveglianza sanitaria e sono iscritti in un registro nel quale è riportata, per ciascuno di essi, l’attività svolta, l’agente cancerogeno o mutageno utilizzato e, ove noto, il valore dell’esposizione a questo agente. Il suddetto registro è istituito e aggiornato dal datore di lavoro che ne cura la tenuta per il tramite del medico competente. Il responsabile del servizio di prevenzione e i rappresentanti per la sicurezza hanno accesso a questo registro. Il medico competente, per ciascuno di questi lavoratori, provvede a istituire e ad aggiornare una cartella sanitaria e di rischio.

Che cosa sono le Esedi
Innanzitutto, ai sensi dell’articolo 249 del capo III «Protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto» del medesimo titolo IX, è ribadito che, ai sensi dell’articolo 28, il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi dovuti alla polvere proveniente dall’amianto e dai materiali contenenti amianto, al fine di stabilire la natura e il grado dell’esposizione e le misure preventive e protettive da attuare. Inoltre, sempre ai sensi del suddetto 249, purché si sia in presenza di esposizioni sporadiche dei lavoratori e di debole intensità e si possa desumere dalla stessa valutazione dei rischi che il valore limite di esposizione all’amianto (0,1 fibre/c.c.), misurata in rapporto a una media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore, non sia superato nell’aria dell’ambiente di lavoro, si può prescindere dalla notifica dei lavori, dall’obbligo del ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori alla polvere proveniente dall’amianto o dai materiali contenenti amianto nel luogo di lavoro e, in ogni caso, al di sotto del valore limite, dalla sorveglianza sanitaria dei lavoratori e dall’iscrizione dei lavoratori nel registro degli esposti ad amianto, nel caso delle seguenti attività:
• manutenzioni di breve durata, non continuative, che interessano unicamente i materiali contenenti amianto in matrice non friabile (come, per esempio, coperture e canne fumarie in cemento amianto, pavimenti in vinyl amianto ecc.);
• rimozione che non comporti deterioramento di materiali non degradati in cui le fibre di amianto sono fermamente legate a una matrice (quindi, per i manufatti indicati al punto precedente);
• incapsulamento e confinamento di materiali contenenti amianto che si trovano in buono stato;
• sorveglianza, controllo dell’aria e prelievo di campioni ai fini dell’accertamento
della presenza di amianto in un determinato materiale.
Il testo unico sicurezza prevede poi, al comma 4 del medesimo articolo 249, che la commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza, istituita presso il ministero del Lavoro per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, deve provvedere a definire orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità relative alle attività indicate.
Inoltre, l’articolo 253 precisa che, per garantire il rispetto del valore limite di 0,1 fibre/ c.c. di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore e in funzione dei risultati della valutazione iniziale dei rischi, il datore di lavoro deve effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, aggiungendo, però, rispetto alle precedenti disposizioni, che questo vale tranne nei casi di esposizioni sporadiche e di debole intensità. Da un lato, poi, il legislatore estende l’obbligo dell’uso dei Dpi delle vie respiratorie anche alle attività con esposizioni sporadiche e di debole intensità, come indicato all’articolo 251, e, d’altro canto, per queste stesse attività, il datore di lavoro non è tenuto a effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, come previsto dall’articolo 253, quindi, in questi casi non si saprà mai se il valore limite è eventualmente ed eccezionalmente superato.
Successivamente, con la circolare, prot. n. 15/segr/0001940, del 25 gennaio 2011, «in ordine all’approvazione degli orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità (Esedi) all’amianto nell’ambito delle attività previste dall’art. 249 commi 2 e 4, del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 come modificato e integrato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106», il ministero del Lavoro, Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro ,ha disciplinato le attività Esedi introdotte dall’ormai abrogato D.Lgs. n. 257/2006 e ora riportate nel testo unico sicurezza.
Questa circolare identifica le Esedi, di cui all’articolo 249 comma 2 del D.Lgs. 81/2008, nelle attività che vengono effettuate per un massimo di 60 ore l’anno, per non più di quattro ore per singolo intervento e per non più di due interventi al mese, e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/L calcolate rispetto a un periodo di riferimento di otto ore.
La durata dell’intervento si intende comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore. All’intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile. Pertanto, la commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza, tramite il comitato n. 9, ha stabilito che le su indicate attività Esedi devono avere al massimo:

• una durata giornaliera di quattro ore per ciascun intervento;

• una durata mensile di otto ore pari a due interventi di, al massimo, quattro ore ciascuno;

• una durata annua di 60 ore, corrispondente a 15 interventi al massimo di quattro ore ciascuno, nell’ipotesi di non più di due interventi al mese;

• e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/l = 0,01 fibre/cm3, determinato in un periodo di riferimento di otto ore, pari quindi a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/cm3.

La commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza precisa altresì che la durata dell’intervento, definita in quattro ore, deve essere comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore e che a ciascun intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile, che del resto è precisato dall’articolo 251 del testo unico sicurezza, comma 1, lettera a) («il numero dei lavoratori esposti o che possono essere esposti alla polvere proveniente dall’amianto o da materiali contenenti amianto deve essere limitato al numero più basso possibile»).
In base alle procedure utilizzate dall’Inail per attuare gli indirizzi valutativi dell’esposizione, così come fissati dal ministero del Lavoro, è possibile procedere al calcol della presunta esposizione all’amianto da parte del singolo lavoratore identificato. I presupposti di questo calcolo sono i seguenti:

• la durata di un turno giornaliero è posta pari a otto h;

• in un anno si hanno 240 giornate lavorative.

Inoltre, ponendosi in una situazione estrema, vale a dire considerando nella fattispecie 15 esposizioni occasionali in un anno di durata non superiore a quattro ore (ovviamente non più di due interventi mensili di quattro ore ciascuno), pari a un’esposizione massima annuale di 60 ore, come previsto dalla commissione, si avrebbe una concentrazione media giornaliera di fibre di amianto alla quale il lavoratore sarebbe stato esposto durante l’anno pari a una concentrazione media giornaliera delle fibre molto al di sotto del valore limite di legge, pari a 0,1 fibre/cm3, pertanto il lavoratore, secondo i canoni Inail, non potrebbe essere considerato “esposto all’amianto”, ai sensi e per gli effetti delle leggi vigenti, anche se questo contrasta con quanto riportato al punto 4b) del D.M. 06 settembre 1994: «ai sensi delle leggi vigenti, il personale addetto alle attività di manutenzione e di custodia deve essere considerato professionalmente esposto ad amianto».

Lo strumento
Ai sensi dell’articolo 260 del suddetto apo III del medesimo Tu, il datore di lavoro deve iscrivere nel registro degli esposti i lavoratori per i quali, nonostante le misure di contenimento della dispersione di fibre nell’ambiente e l’uso di idonei Dpi, nella valutazione dell’esposizione abbia accertato che l’esposizione è stata superiore, all’interno del Dpi, a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/c.c. di aria, vale a dire 0,01 f/c.c., pari a 10 f/litro, e qualora si verifichino eventi non prevedibili o incidenti che possono comportare un’esposizione anomala di lavoratori per cui gli stessi devono abbandonare immediatamente l’area interessata. Una volta iscritti i lavoratori nel registro, il datore di lavoro deve trasmettere una copia dello stesso registro agli organi di vigilanza delle aziende sanitarie locali o territoriali e all’ex Ispesl (la legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione con modificazioni del decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, prevede l’attribuzione all’Inail delle funzioni già svolte dall’Ispels).
Generalmente, i servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (Spsal) delle aziende sanitarie verificano la completezza della documentazione e possono eventualmente richiedere integrazioni o effettuare un sopralluogo ispettivo. Il suddetto testo unico ribadisce altresì in modo chiaro che l’iscrizione nel registro deve intendersi come temporanea, poiché deve essere perseguito l’obiettivo della non permanente condizione di esposizione superiore a quella consentita.
A questo punto, è doveroso esprimere un parere personale, reso più volte pubblico2, osservando pertanto che la precisazione introdotta dal legislatore, già con la prima versione del D.Lgs. n. 81/2008, sulla temporaneità dell’iscrizione degli operatori amianto nel registro degli esposti, rappresenta una novità sia rispetto alle precedenti norme dell’abrogato decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 257, recante «Attuazione della direttiva 2003/18/Ce relativa alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti dall’esposizione all’amianto durante il lavoro», sia rispetto al contenuto del D.M. Salute 12 luglio 2007, n. 155. All’opposto, dovrebbe essere un diritto dei lavoratori della bonifica e smaltimento dell’amianto essere iscritti, sempre e comunque, nel registro degli esposti, a prescindere dal livello di esposizione, poiché non sempre è possibile accertare in modo deterministico quale sia stata la loro effettiva esposizione nel corso dei diversi anni. Inoltre, questa “temporaneità d’iscrizione nel registro degli esposti” contrasta apertamente con la notoria constatazione che l’effetto neoplastico non ha, teoricamente, valori di soglia (sono proprio i docenti medici che, nei corsi per operatori e coordinatori amianto, affermano spesso che «è sufficiente una fibra per contrarre la patologia», anche se è più corretto e accettabile ragionare in termini di durata e grado di esposizione.

Il D.Lgs. n. 81/2008, invece, non garantisce pienamente gli operatori e i coordinatori amianto, in particolar modo quelli addetti alle operazioni di bonifica da amianto compatto che, notoriamente, sono soggetti a bassi valori di concentrazione di fibre d’amianto. Infatti, in base all’attuale testo unico sicurezza, questi lavoratori potrebbero non essere mai iscritti nel registro degli esposti perché sarà agevole accertare, da parte del datore di lavoro, che gli stessi non hanno mai subito un’esposizione superiore al limite di legge e, quindi, non avranno più nemmeno il diritto alla sorveglianza sanitaria, a discrezione del medico competente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, come invece prevedeva la norma precedente (art. 59-quinquiesdecies D.Lgs. n. 626/1994, introdotto dal D Lgs. n. 257/2006).
In base al testo unico sicurezza altresì, il datore di lavoro, su richiesta, deve fornire, agli organi di vigilanza e all’Inail, una copia del registro. In caso di cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve trasmettere, per il tramite del medico competente, all’Inail la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.

L’Inail è tenuto a conservare i documenti sanitari per un periodo di quarant’anni dalla cessazione dell’esposizione. Pertanto, in base alla normativa attuale, si è tenuti a iscrivere i lavoratori nel registro degli esposti solo se ricorrono le condizioni suddette e, nel caso di iscrizione, il datore di lavoro è tenuto a trasmettere copia del registro agli organi di vigilanza e all’Inail e fornirlo su richiesta degli stessi enti, ma non è prevista una cadenza annuale di presentazione del registro.
La conservazione dei dati sanitari raccolti deve poi essere assicurata, come detto, per 40 anni dalla cessazione del lavoro comportante esposizione ad agenti cancerogeni, oppure per 30 anni ove cessi un lavoro comportante esposizione a radiazioni ionizzanti, e dovranno essere cancellati successivamente a questo termine dalla cartella sanitaria solo nel caso in cui questi dati non risultano indispensabili, quale fonte d’informazione polivalente in relazione alla relativa esposizione anche ad agenti cancerogeni.

Si fa altresì presente che la responsabilità dell’invio della documentazione è sempre del datore di lavoro perché il medico competente ne rappresenta soltanto il “tramite” per l’invio (articolo 260, comma 3, D.Lgs. 81/2008: «Il datore di lavoro, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, trasmette all’Ispels, per il tramite del medico competente, la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro di cui al comma 1»).
Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, nell’eventualità di mancata trasmissione all’Inail, tramite il medico competente, della cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro degli esposti, il datore di lavoro e il dirigente dell’impresa sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 1.800 euro.

La modalità telematica
Il decreto interministeriale 25 maggio 2016 n. 183, recante il «Regolamento recante regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del Sinp, nonché le regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81», tratta appunto delle regole tecniche per il funzionamento del sistema informativo per la prevenzione degli infortuni (Sinp) e prevede l’acquisizione telematica da parte dell’Inail dei dati contenuti nei Registri di esposizione, a partire dal 12 ottobre 2017. A tale scopo, è stato realizzato un servizio informatizzato per la trasmissione, da parte del datore di lavoro, dei registri di esposizione, accessibile tramite i servizi online del portale istituzionale dell’Inail.
L’introduzione del registro online consente di rendere immediatamente disponibili, oltre che all’Inail, ai servizi di prevenzione delle Asl territoriali, le informazioni contenute nei registri di esposizione delle singole imprese.

La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43
La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43, riportale informazioni più dettagliate sulle modalità di trasmissione telematica dei registri.
In particolare, ai fini dell’adempimento di quanto previsto dalla normativa vigente nei confronti di Inail e delle aziende sanitarie locali competenti per territorio, in una prima fase, a decorrere dal 12 ottobre 2017, con questo provvedimento l’Inail ha reso possibile al datore di lavoro titolare di posizione assicurativa territoriale (Pat), nonché ai soggetti abilitati dal datore di lavoro stesso, di utilizzare il nuovo servizio telematico “registro di esposizione”.
Gli altri datori di lavoro pubblici e privati, comunque assoggettati al medesimo obbligo, fino al 13 maggio 2018, hanno avuto la possibilità di inoltrare i dati afferenti al registro di esposizione tramite Pec, utilizzando il modello disponibile sul sito istituzionale dell’Inail, procedendo a un unico invio contestuale tramite posta certificata all’istituto, (all’indirizzo dmil@postacert. INAIL.it) e all’indirizzo di posta certificata
della Asl (Ast) territorialmente competente, sulla base dell’unità produttiva. Inoltre, la circolare in questione precisa che i dati contenuti nei registri di esposizione cartacei trasmessi entro l’11 ottobre 2017, così come i dati dei registri di esposizione ricevuti tramite Pec dopo la suindicata data, sono inseriti all’interno del precedente archivio informatico e che sarebbero stati resi disponibili nel registro online entro il mese di marzo 2018.
Il datore di lavoro e i suoi delegati possono inserire, modificare, visualizzare i dati e trasmettere il registro mentre il medico competente, qualora abilitato dal datore di lavoro all’utilizzo del nuovo servizio online può inserire, modificare e visualizzare i dati ma non può effettuare la trasmissione del Registro che rimane in carico al datore di lavoro e ai suoi delegati.
È inoltre possibile preimpostare i dati anagrafici delle aziende e delle unità produttive, al fine di agevolare i datori di lavoro nel processo di compilazione e trasmissione del registro. Sono poi state inserite funzioni
di facilitazione nella selezione per il settore economico (Ateco) e per la scelta e inserimento della professione e mansione del lavoratore esposto. È stata, altresì, prevista una funzione specifica per consentire di aggiungere le annotazioni individuali per singolo lavoratore esposto, prestante servizio per l’unità produttiva selezionata.

La circolare Inail 15 maggio 2018, n. 22
Con la circolare 15 maggio 2018, n. 22, a decorrere dal 14 maggio 2018, l’Inail ha consentito anche ai datori di lavoro, non titolari di posizione assicurativa territoriale (Pat), la trasmissione telematica alla stessa Inail e alla Asl (Ast) territorialmente competente sulla base dell’unità produttiva, al posto della Pec, di modo che il registro online è immediatamente accessibile ai funzionari dei servizi di prevenzione delle aziende sanitarie locali tramite l’inserimento delle credenziali in loro possesso nell’area dei servizi online del sito web dell’Inail.
Inoltre, questa seconda circolare precisa che l’Istituto sta progressivamente rendendo disponibili, nel relativo applicativo informatico registro di esposizione, i dati dei registri che i datori di lavoro hanno trasmesso in formato cartaceo e che saranno progressivamente inseriti anche i dati dei registri di esposizione pervenuti all’Istituto tramite Pec entro la data del 13 maggio 2018.

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Emissioni inquinanti: al via le nuove misure

Qualità dell’aria e salvaguardia della salute umana e dell’ambiente prioritarie. Previste anche disposizioni finalizzate a una partecipazione più efficace dei cittadini ai processi decisionali. Rinnovati gli impegni nazionali di riduzione, il contenuto dei programmi di controllo, nonché le metodologie per l’elaborazione e l’aggiornamento degli inventari e delle proiezioni.

Migliorare la qualità dell’aria, salvaguardare la salute umana e dell’ambiente e assicurare una partecipazione più efficace dei cittadini ai processi decisionali. Sono le finalità del decreto legislativo 30 maggio 2018, n. 81 [«Attuazione della direttiva (UE) 2016/2284, concernente la riduzione delle emissioni nazionali di determinati inquinanti atmosferici, che modifica la direttiva 2003/35/Ce e abroga la direttiva2001/81/CE»] 1, emanato in base all’ articolo 1, legge 25 ottobre 2017, n. 163 («Legge di delegazione europea 2016-2017»). Il nuovo provvedimento abroga il decreto legislativo 31 maggio 2004, n. 171, recante attuazione della direttiva 2001/81/Ce in materia di limiti nazionali delle emissioni; materia che la direttiva (Ue) 2016/2284 ha rielaborato «al fine di tendere al conseguimento di livelli di qualità dell’aria che non comportino significativi impatti negativi e rischi significativi per la salute umana e l’ambiente »

Il provvedimento

Gli articoli che compongono il decreto legislativo 30 maggio 2018, n. 81 sono:

  • articolo 1 – Finalità;
  • articolo 2 – Definizioni;
  • articolo 3 – Impegni nazionali di riduzione delle emissioni;
  • articolo 4 – Elaborazione e adozione del programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • articolo 5 – Attuazione dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • articolo 6 – Inventari e proiezioni delle emissioni;
  • articolo 7 – Monitoraggio degli impatti dell’inquinamento atmosferico su ecosistemi;
  • articolo 8 – Comunicazioni;
  • articolo 9 – Sanzioni;
  • articolo 10 – Informazioni al pubblico;
  • articolo 11 – Norme finali;
  • articolo 12 – Clausola di invarianza.

Negli allegati sono, invece, riportati:

  • monitoraggio e comunicazione delle emissioni atmosferiche (allegato I);
  • impegni nazionali di riduzione delle emissioni (allegato II);
  • contenuto dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico (allegato III), a sua volta suddiviso in:

– contenuto minimo dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;

– misure di riduzione delle emissioni del settore agricolo;

  • metodologie per elaborazione e aggiornamento di inventari e proiezioni nazionali delle emissioni, relazioni di inventario e inventari nazionali rettificati (allegato IV), a sua volta suddiviso in:

– inventari nazionali delle emissioni annue;

– proiezioni nazionali delle emissioni;

– relazioni di inventario;

  • rettifica degli inventari delle emissioni nazionali.

Finalità

L’articolo 1 dispone che le finalità del decreto legislativo (miglioramento della qualità dell’aria, salvaguardia della salute umana e dell’ambiente e partecipazione dei cittadini ai processi) siano perseguite mediante:

  • impegni nazionali di riduzione delle emissioni [la cui definizione è riportata all’articolo 2, comma 1, lettera l), D.Lgs. n. 81/2018; di origine antropica di biossido di zolfo (SO2), ossidi di azoto (NOx), ammoniaca (NH3) composti organici volatili non metanici (Covnm) e particolato fine (PM2,5)3;
  • elaborazione, adozione e attuazione di programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico;
  • obblighi di monitoraggio delle emissioni di sostanze inquinanti;
  • obblighi di monitoraggio degli impatti dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi;
  • obblighi di comunicazione alla Commissione degli atti e delle informazioni connessi;
  • una più efficace informazione ai cittadini.

Ciò al fine ultimo di perseguire gli obiettivi di qualità dell’aria auspicati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)4 e quelli fissati dal settimo programma di azione per l’ambiente.

Definizioni

L’articolo 2 opera in due ambiti:

  • riproduce il corrispondente elenco contenuto nella direttiva (Ue) 2016/2284:

– emissione;

– emissioni di origine antropica;

– impegno nazionale di riduzione delle emissioni;

– cicli di atterraggio e di decollo degli aeromobili;

– traffico marittimo internazionale;

– zona di controllo dell’inquinamento;

– normativa europea sul controllo dell’inquinamento atmosferico alla fonte;

– strumenti di settore;

– precursori dell’azoto;

– biossido di zolfo;

– ossidi di azoto;

– composti organici volatili non metanici;

– particolato fine;

– particolato carbonioso;

– obiettivi di qualità dell’aria6;

  • introduce, a integrazione di questa direttiva, le definizioni di «Strumenti di settore e «Convenzione di Ginevra sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza» (convenzione Lrtap);

Impegni nazionali di riduzione delle emissioni

L’articolo 3 prevede la riduzione delle emissioni entro il 2020 e il 2030 nella misura indicata dall’allegato II, fermo restando l’obbligo di applicare il livello previsto per il 2020 sino al 2029. Stabilisce, inoltre, che queste emissioni siano ridotte nel 2025 «a livelli da fissare secondo una traiettoria lineare di riduzione stabilita fra i livelli definiti dagli impegni di riduzione delle emissioni per il 2020 e il 2030»; obiettivo, questo, che può essere conseguito anche con una traiettoria non lineare di riduzione, purché:

  • a partire dal 2025 questa converga progressivamente con la traiettoria lineare di riduzione e non sia pregiudicato alcun obbligo di riduzione delle emissioni per il 2030;
  • questa traiettoria non lineare e le relative motivazioni siano individuate nei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico.

I benefici attesi da queste riduzioni, rispetto a quelli fissati dal previgente D.Lgs. n. 171/2004, elaborata dalla Camera dei deputati e dal Senato, sulla base dei dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

Completa l’articolo 3 la disciplina riguardante il mancato rispetto dei suindicati obiettivi e le procedure da seguire al verificarsi dei seguenti casi:

  • cambiamenti nella metodologia di stima delle emissioni dovuti allo sviluppo delle conoscenze scientifiche;
  • condizioni meteorologiche eccezionali;
  • perdite improvvise e eccezionali di capacità nel sistema di produzione o di fornitura di elettricità e di calore.

Elaborazione e adozione del programma nazionale

L’articolo 4 reca norme in materia di adozione del programma nazionale di controllo dell’inquinamento, disponendo che all’elaborazione e all’aggiornamento del programma provveda il ministero dell’Ambiente e della tutela del mare e del territorio (Mattm), entro il 30 settembre 2018, sulla base del supporto tecnico dell’Ispra e dell’ Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea), e nel rispetto delle indicazioni contenute nell’allegato III. Sempre l’articolo 4 stabilisce, inoltre, che l’elaborazione e l’aggiornamento del programma debba avvenire secondo i seguenti criteri:

  • considerare tutti i settori responsabili di emissioni, con particolare riferimento a trasporti, industria, agricoltura, energia e riscaldamento civile;
  • coerenza tra le politiche e le misure del programma stesso e gli strumenti di settore;
  • proporzionalità tra costi da sostenere e l’ entità delle riduzione delle emissioni attesa;
  • rispetto della qualità dell’aria nel territorio nazionale e, se opportuno, in quello degli Stati membri limitrofi;
  • priorità alle riduzioni di emissioni di particolato fine, in particolare a quelle che hanno effetti specifici sulle emissioni di black carbon.

Attuazione dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico

L’articolo 5 revede la costituzione, presso la presidenza del Consiglio dei ministri, di un tavolo di coordinamento che ha il compito di elaborare atti di indirizzo per coordinare i tempi e le modalità di adozione degli atti attuativi del programma nazionale (commi 1-5). Lo stesso articolo stabilisce, inoltre, che il ministero dell’Ambiente trasmetta al Parlamento, entro il 31 dicembre di ciascun anno (a decorrere dal 2019), una relazione sullo stato di attuazione del programma nazionale, e assicuri «una corretta conoscenza del pubblico in merito alla procedura di attuazione del programma nazionale» (comma 7).

Inventari e proiezioni delle emissioni

L’articolo 6 dispone che l’Ispra elabori e aggiorni:

  • ogni anno, gli inventari nazionali delle emissioni nazionali per gli inquinanti dell’allegato I, nel rispetto delle prescrizioni di questo allegato e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • ogni 4 anni, gli inventari nazionali delle emissioni geograficamente disaggregati, nonché gli inventari delle grandi fonti puntuali, per gli inquinanti indicati nell’allegato I, tabella C, nel rispetto delle prescrizioni del medesimo e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • una relazione di inventario che accompagna gli inventari, predisposta nel rispetto delle prescrizioni dell’allegato I e sulla base delle metodologie dell’allegato IV;
  • ogni due anni, le proiezioni nazionali dei consumi energetici e dei livelli delle attività produttive responsabili delle emissioni per gli inquinanti dell’allegato I.

Sempre l’articolo 6 stabilisce, inoltre, che l’Enea elabori e aggiorni ogni due anni le proiezioni delle emissioni per gli inquinanti di cui alla citata tabella C e che provveda a comunicarne gli esiti al ministero dell’Ambiente.

Monitoraggio degli impatti su ecosistemi

L’articolo 7 stabilisce che il monitoraggio degli impatti negativi dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi sia assicurato da una «rete rappresentativa delle relative tipologie di habitat di acqua dolce, habitat naturali e seminaturali ed ecosistemi forestali», da individuare con decreto del ministero dell’Ambiente, da adottare, entro il (decorso) 30 giugno 2018, sentite le regioni interessate e il sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa). Lo stesso articolo stabilisce, inoltre, che il monitoraggio sia effettuato attraverso forme di coordinamento e integrazione con altri programmi di previsti dalla normativa vigente:

  • parte terza del testo unico dell’ambiente22;
  • decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 155 («Attuazione della direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa»);
  • decreto del presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 («Regolamento recante attuazione della direttiva habitat»);
  • convenzione Lrtap

Comunicazioni

L’articolo 8 prevede che il ministero dell’Ambiente invii alla Commissione europea:

  • il primo programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico (entro il 1° aprile 2019);
  • il programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico aggiornato (entro due mesi da ciascun aggiornamento);
  • le proiezioni nazionali delle emissioni per gli inquinanti (entro il 15 marzo di ogni anno);
  • entro il 1° luglio 2018 e, successivamente, ogni quattro anni, l’ubicazione dei siti di monitoraggio e gli indicatori di monitoraggio utilizzati;
  • entro il 1° luglio 2019 e, successivamente, ogni quattro anni, i dati del monitoraggio degli impatti negativi dell’inquinamento atmosferico sugli ecosistemi.

Sanzioni

L’articolo 9 prevede che alla violazione delle disposizioni adottate dalle amministrazioni statali, regionali e locali responsabili per l’attuazione delle misure del programma nazionale, si applichino le sanzioni fissate dalla normativa vigente, fatte salve specifiche sanzioni introdotte con successivi provvedimenti legislativi.

Informazioni al pubblico

L’articolo 10 dispone che il ministero dell’Ambiente e il sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (Snpa) assicurino, anche con la pubblicazione sul proprio sito internet, una attiva e sistematica informazione del pubblico, in relazione ai programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico, ai relativi aggiornamenti e agli inventari delle emissioni nonché alle informazioni comunicate alla Commissione europea.

Norme finali

L’articolo 11 abroga il D.Lgs. n. 171/2004 introducendo una norma transitoria per l’applicazione (fino al 31 dicembre 2019) dei limiti nazionali di emissione indicati dall’articolo 1 e dall’allegato I dello stesso decreto legislativo. Stabilisce, inoltre, che tutti gli allegati al D.Lgs. n. 81/2018 possano essere modificati con decreto del ministero dell’Ambiente, ai sensi dell’articolo 36, legge 24 dicembre 2012, n. 234 («Norme generali sulla partecipazione dell›Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea»)

Aspetti applicativi

I termini ristretti previsti dal decreto legislativo ai fini della concreta applicazione della direttiva (Ue) n. 2016/2284 impongono lo sforzo di tutte le amministrazioni interessate, pena l’avvio di una procedura di infrazione. Rischio che dovrebbe essere evitato se si considera che sono pendenti procedure d’infrazione in materia analoga e, precisamente:

  • procedura d’infrazione 10 luglio 2014, n. 2014/2147, avviata per mancata attuazione della direttiva 2008/50/Ce relativa alla qualità dell’aria ambiente – Superamento dei valori limite di PM10;
  • procedura d’infrazione 29 maggio 2015, n. 2015/2043, avviata per mancata applicazione in della direttiva 2008/50/Ce relativa alla qualità dell’aria e per un’aria più pulita in Europa, con riferimento ai valori limite di NO2;
  • procedura d’infrazione 23 gennaio 2017, n. 2017/130, avviata per mancato recepimento della direttiva 2015/1480/Ue che modifica vari allegati delle direttive 2004/107/Ce e 2008/50/Ce recanti le disposizioni relative ai metodi di riferimento, alla convalida dei dati e all’ubicazione dei punti di campionamento per la valutazione della qualità dell’aria ambiente.

Allegato III

L’allegato III («Contenuto dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico») si articola in due parti:

  • la prima («Contenuto minimo dei programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico»);
  • la seconda («Misure di riduzione delle emissioni del settore agricolo»), a sua volta suddivisa in tre sezioni:

– «Misure di riduzione delle emissioni di ammoniaca» (sezione A);

– «Misure per la riduzione di emissioni di particolato e black carbon» (sezione B);

– «Prevenzione degli impatti sulle piccole aziende agricole» (sezione C ).

In base alla parte prima, il programma nazionale, oltre a essere in possesso dei requisiti minimi previsti dal comma 4, deve contenere, se necessario:

  • una spiegazione dei motivi per cui i livelli delle emissioni al 2025 possono essere raggiunti solo mediante misure che comportino costi non proporzionati;
  • un rendiconto in merito all’applicazione delle procedure adottate per il mancato rispetto dei limiti di emissione causato dall’aggiornamento delle metodologie e conoscenze scientifiche, da un inverno eccezionalmente rigido o da un’estate eccezionalmente secca, condizioni meteo eccezionali o perdite improvvise ed eccezionali di capacità nel sistema di produzione/ fornitura di elettricità/ calore.

Più particolareggiata e corposa è la parte seconda (sezione A), che prevede :

  • l’elaborazione di un codice nazionale indicativo delle buone pratiche agricole per controllare le emissioni di ammoniaca che tenga conto del codice quadro dell’Unece del 2014 (decisione ECE/ EB.AIR/127, paragrafo 36-sexies), e che riguardi i seguenti aspetti:

– gestione dell’azoto;

– strategie di alimentazione del bestiame;

– tecniche di spandimento/stoccaggio del letame;

– sistemi di stabulazione che comportano emissioni ridotte, limitazione delle emissioni di ammoniaca derivanti dall’impiego di fertilizzanti minerali;

  • il divieto di utilizzo di fertilizzanti al carbonato di ammonio; • la possibilità di ridurre le emissioni di

ammoniaca provenienti dai fertilizzanti inorganici mediante la sostituzione dei fertilizzanti a base di urea con quelli

a base di nitrato di ammonio, ovvero promuovendo la sostituzione dei fertilizzanti inorganici con quelli organici;

  • la riduzione delle emissioni di ammoniaca dagli effluenti di allevamento con i seguenti metodi:

– riduzione delle emissioni di liquami e di letame solido sui seminativi e sui prati con pratiche che riducano le emissioni di almeno il 30% rispetto al metodo descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca, adottato con decisione 2012/11, ECE/EB/ AIR/113/Add. 1 (di seguito “documento di orientamento sull’ammoniaca”);

– riduzione delle emissioni prodotte dallo stoccaggio di letame al di fuori degli edifici di stabulazione mediante la copertura dei depositi di letame, l’utilizzo di sistemi e tecniche di immagazzinamento a basse emissioni che riducano le emissioni di ammoniaca di almeno il 40% per i depositi di liquame esistenti;

  • riduzione delle emissioni prodotte dai locali di stabulazione degli animali con sistemi che abbiano dimostrato di ridurre le emissioni di ammoniaca di almeno il 20% rispetto al metodo descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca;
  • riduzione delle emissioni provenienti dal letame, a mezzo di strategie di alimentazione a ridotto contenuto proteico che abbiano dimostrato di ridurre e emissioni di ammoniaca di almeno il 10% rispetto al metodo di riferimento descritto nel documento di orientamento sull’ammoniaca.

Misure altrettanto stringenti sono contemplate dalla sezione B, dove è stabilito che, fatto salvo quanto previsto dall’allegato II al regolamento Ue n. 1306/2013 («Finanziamento, gestione e monitoraggio della politica agricola comune»), può essere vietata la combustione dei rifiuti agricoli, dei residui del raccolto e dei rifiuti forestali, «anche in relazione alle ipotesi di combustione ammesse dalla normativa vigente». Con l’effetto che le deroghe a questo divieto «devono limitarsi ai programmi per la prevenzione degli incendi di incolto, per la lotta contro i parassiti o per la protezione della biodiversità». Il tutto – recita l’allegato III – in attesa dell’elaborazione di un codice nazionale delle buone pratiche agricole per la corretta gestione dei residui del raccolto, basato sui seguenti principi:

  • miglioramento della struttura dei suoli attraverso l’incorporazione dei residui del raccolto;
  • utilizzo di tecniche per l’incorporazione e/o di questi residui;
  • miglioramento del tenore di nutrienti e della struttura dei suoli mediante l’incorporazione del letame ai fini di una crescita ottimale dei vegetali in modo da evitare la combustione del letame.

Infine, nella sezione C, l’allegato III stabilisce che le piccole e micro aziende agricole possano essere in tutto o in parte essere esentate dalle misure sopradescritte, ove ciò sia possibile alla luce degli impegni di riduzione applicabili.

Allegato IV

L’allegato IV («Metodologie per elaborazione e aggiornamento di inventari e proiezioni nazionali delle emissioni, relazioni di inventario e inventari nazionali rettificati») stabilisce che per gli inquinanti di cui all’allegato I gli inventari nazionali delle

emissioni geograficamente disaggregati per regioni, gli inventari delle grandi fonti di inquinamento localizzabili geograficamente (cosiddette “fonti puntuali”), gli inventari nazionali delle emissioni rettificati e le relazioni di inventario siano essere elaborati secondo quanto prevede la nomenclatura per la comunicazione dei dati-NFR (nomenclature for reporting) stabilita dalla convenzione Lrtap e la guida dell’Agenzia europea per l’ambiente per gli inventari degli inquinanti atmosferici (guida Emep/Eea). Di qui l’obbligo di ottemperare alle condizioni di sotto indicate, come contemplate dalle Parti

1, 2, 3 e 4 dello stesso allegato IV:

  • le emissioni oggetto degli inventari devono essere calcolate in conformità alla guida Emep/Aea e in funzione dell’applicazione di un metodo di livello 2 o di un livello più elevato, tenendo conto che il calcolo delle emissioni del settore dei trasporti deve essere effettuato in coerenza con i bilanci energetici nazionali trasmessi a Eurostat ( per le emissioni relative al trasporto su strada si computano i quantitativi di carburante venduti);
  • le proiezioni nazionali delle emissioni (calcolate anch’esse in conformità alla Guida EMEP/AEA) devono essere coerenti con l’inventario delle emissioni annue nazionali e con le proiezioni comunicate di cui al regolamento (UE) n. 525/2013

(«Meccanismo di monitoraggio e comunicazione delle emissioni di gas a effetto serra») e comprendere «una chiara individuazione delle politiche e delle misure adottate [nonché], i risultati dell’analisi di sensibilità effettuata [e] la descrizione delle metodologie, dei modelli, delle ipotesi di base e dei principali parametri di input e output»;

  • la relazione di inventario deve essere elaborata utilizzando le metodologie del programma europeo di sorveglianza e valutazione (Emep) e contenere una serie di elementi, tra cui:

– la descrizione, i riferimenti e le fonti di informazione in merito a metodologie specifiche, ipotesi, fattori di emissione e dati sulle attività, nonché i motivi della scelta;

– la descrizione delle disposizioni previste per la compilazione degli inventari;

– le informazioni sulle procedure adottate al verificarsi di: cambiamenti nella metodologia di stima delle emissioni, condizioni meteorologiche eccezionali o di perdite improvvise e eccezionali di capacità nel sistema di produzione o di fornitura di elettricità e di calore;

  • la rettifica degli inventari delle emissioni nazionali deve essere corredata dai seguenti elementi:

– la prova che uno o più impegni nazionali di riduzione delle emissioni non sono rispettati;

– la prova della misura in cui la rettifica riduce il superamento dei livelli e contribuisce al rispetto di questi impegni;

– una stima della data in cui l’impegno o gli impegni di riduzione sarebbero rispettati in base alle proiezioni delle emissioni nazionali prima della rettifica;

– la prova che la rettifica deve essere coerente con una delle circostanze contemplate ai punti 1, 2 e 3 della parte 4 dello stesso allegato IV, ovvero: nuove categorie di fonti di emissione, fattori di emissione molto diversi per la determinazione delle emissioni provenienti da categorie di fonti specifiche o metodologie molto diverse per la determinazione delle emissioni provenienti da categorie di fonti specifiche (nel primo caso, ad esempio, occorre provare che la nuova categoria di fonti emissione non è inclusa nell’inventario nazionale delle emissioni, e che le emissioni provenienti dalla nuova categoria di fonte di emissione impediscono di rispettare gli impegni di riduzione).

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Emissioni: tutte le novità a riforma della legislazione

Al via il recepimento della direttiva sugli impianti medi di combustione.

Il D.Lgs. n. 183/2017 precisa anche gli aspetti di coordinamento con la normativa sulle autorizzazioni ambientali, ovvero l’Aia e l’Aua, e introduce, per la prima volta, una disciplina specifica e dettagliata per le fuoriuscite odorigene in atmosfera causate dagli stabilimenti

Sulla Gazzetta Ufficiale del 16 dicembre 2017, n. 293 è stato pubblicato il decreto legislativo 15 novembre 2017, n. 183 relativo agli impianti di combustione medi, nonché al complessivo riordino del quadro normativo riguardante gli stabilimenti che producono emissioni nell’atmosfera. Il provvedimento è stato emanato dal Governo a seguito della delega parlamentare contenuta nell’art. 17, legge 12 agosto 2016, n. 170.

Visione d’insieme del provvedimento

Tre diversi gruppi di disposizioni sono contenuti nel decreto legislativo 15 novembre 2017, n. 183:

  • con il primo gruppo è stata recepita la direttiva 2015/2193 del Parlamento europeo e del Consiglio sugli impianti medi di combustione;
  • con un secondo gruppo è stata rivisitata nel suo complesso la disciplina degli impianti che possono emettere emissioni in atmosfera;
  • un ultimo gruppo riguarda gli impianti termici civili di potenza termica nominale inferiore a MW 3.

La definizione

«gg-bis) medio impianto di combustione: impianto di combustione di potenza termica nominale pari o superiore a 1 MW e inferiore a 50MW, inclusi i motori e le turbine a gas alimentato con i combustibili previsti all’allegato X alla Parte Quinta o con le biomasse rifiuto previste all’allegato II alla Parte Quinta.

Un medio impianto di combustione è classificato come:

1) esistente: il medio impianto di combustione messo in esercizio prima del 20 dicembre 2018 nel rispetto della normativa all’epoca vigente o previsto in una autorizzazione alle emissioni o in una autorizzazione unica ambientale o in una autorizzazione integrata ambientale che il gestore ha ottenuto o alla quale ha aderito prima del 19 dicembre 2017 a condizione che sia messo in esercizio entro il 20 dicembre 2018;

2) nuovo: il medio impianto di combustione che non rientra nella definizione di cui al punto 1)».

La nuova specifica disciplina per le emissioni odorigene

Per la prima volta, il provvedimento in esame introduce una nuova e dettagliata disciplina delle emissioni odorigene. Il (completamente nuovo) art. 272-bis, D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce, infatti, che «La normativa regionale o le autorizzazioni possono prevedere misure per la prevenzione e la limitazione delle emissioni odorigene degli stabilimenti di cui al presente titolo». Si riconosce, dunque, il rilievo del problema, pur affidandone la concreta regolamentazione alla disciplina regionale (sono curiosamente dimenticate le province autonome) o alla disciplina contenuta, caso per caso, nell’autorizzazione. L’art. 272-bis, tuttavia, fornisce alcuni esempi in merito ai possibili contenuti della disciplina regionale o delle prescrizioni autorizzatorie in tema di odori. Esse possono perciò contenere, ove opportuno anche alla luce delle caratteristiche degli impianti, delle attività presenti nello stabilimento e delle caratteristiche della zona interessata:

a) valori limite di emissione espressi in concentrazione (mg/NmÑ) per le sostanze odorigene;
b) prescrizioni impiantistiche e gestionali e criteri localizzativi per impianti e per attività aventi un potenziale impatto odorigeno, incluso l’obbligo di attuazione di piani di contenimento;
c) procedure volte a definire, nell’ambito del procedimento autorizzativo, criteri localizzativi in funzione della presenza di ricettori sensibili nell’intorno dello stabilimento;
d) criteri e procedure volti a definire, nell’ambito del procedimento autorizzativo, portate massime o concentrazioni massime di emissione odorigena espresse in unità odorimetriche per le fonti di emissioni odorigene dello stabilimento;
e) specifiche portate massime o concentrazioni massime di emissione odorigena espresse in unita’ odorimetriche per le fonti di emissioni odorigene dello stabilimento».

Se si pensa che, sino ad oggi, le emissioni odorigene si consideravano disciplinate prevalentemente da una arcaica disposizione del codice penale (art. 674 c.p. «Getto pericoloso di cose»), si può comprendere la portata di questa innovazione.

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Bando INAIL ISI 2017

Scadenza: Dal 19 Aprile 2018 ed entro e non oltre le ore 18.00 del 31 Maggio 2018

Destinatari dei finanziamenti:

  1. Progetti di investimento;
  2. Progetti per l’adozione di sistemi per la riduzione del rischio da movimentazione manuale dei carichi;
  3. Progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;
  4. Progetti per micro e piccole imprese operanti in settori specifici, quali lavorazioni del legno e materiali ceramici;
  5. Progetti per le micro e piccole imprese agricole, e giovani agricoltori

Tutte le imprese, anche in forma di ditte individuali, ubicate su tutto il territorio nazionale ed iscritte alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura”. Le aziende del punto 4 possono partecipare soltanto con progetti inerenti il proprio settore, come il comparto agricolo può aderire al solo al settore specificato nel punto 5.

Finanziamento: I finanziamenti previsti dal bando INAIL 2017 vengono concessi in conto capitale e sono pari al 65% dell’investimento ammesso, al netto dell’ IVA, nel limite minimo di 5000€ e massimo di 130.000 euro (finanziato per una spesa totale di 200000€) per impresa, mentre per i progetti del punto 4 il limite minimo è di 2000€ ed un massimo erogabile di 50.000 euro. Per il punto 5 il limite minimo è di 2000€ mentre il massimo erogabile è pari a 60.000 euro.

Requisiti richiesti: Al fine di accedere ai finanziamenti INAIL 2017 per gli investimenti in spese sulla salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, è previsto che i soggetti richiedenti soddisfino i seguenti requisiti:

  • essere in possesso delle credenziali INAIL per l’accesso ai servizi on line
  • possesso dell’unità produttiva per la quale si richiede il finanziamento nel territorio della Regione/Provincia presso cui viene fatta domanda (per le imprese di armamento la sede produttiva coincide con la nave e la sede INAIL sarà la sede regionale);
  • iscrizione presso il Registro delle Imprese o all’albo degli artigiani;
  • essere nel libero e pieno esercizio dei propri diritti;
  • essere in regola con gli obblighi contributivi ed assicurativi previsti dal DURC;
  • non aver richiesto, per lo stesso progetto, altri contributi finanziari di natura pubblica salvo che si tratti di interventi pubblici di garanzia sul credito (vedi, ad esempio, quelli relativi alla legge 6625/1996);
  • non aver superato il tetto di aiuti «de minimis» nell’ arco dei tre esercizi precedenti.

Soluzioni tecniche:

  • Ristrutturazione o modifica degli ambienti di lavoro, compresi gli eventuali interventi impiantistici collegati,
  • Acquisto di macchine (con sostituzione laddove richiesto dalla specifica tipologia intervento)
  • Acquisto di dispositivi per lavoro in ambienti confinati
  • Acquisto e installazione di sistemi di ancoraggio anche permanenti
  • Installazione, modifica o adeguamento di impianti elettrici, aspirazione o trattamento acque reflue

 

 

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Raee: la classifica italiana dei primi 500 sottoscrittori

La raccolta nazionale ha fatto segnare un +7,49% nel primo semestre 2017.

I dati del rapporto annuale a cura del “Centro di Coordinamento RAEE”, hanno evidenziato, nel 2016, una crescita a doppia cifra pari al 14%.

Nel mese di marzo è stata pubblicata la nona edizione del rapporto annuale sul ritiro e trattamento dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, nel quale il Centro di Coordinamento RAEE (CdC RAEE) ha evidenziato una crescita a doppia cifra (+14%) della raccolta 2016. I dati del primo semestre 2017 confermano l’andamento positivo della raccolta, registrando un aumento del 7,49% rispetto allo stesso periodo del 2016.

A seguire è presentata la classifica dei primi 500 sottoscrittori iscritti al Cdc raee che, nel primo semestre del 2017, si sono distinti per i quantitativi raee raccolti per ognuno dei 5 raggruppamenti (vedi figura sotto), dando evidenza della variazione percentuale rispetto all’anno precedente.

Nel complesso i 500 soggetti iscritti al CdC RAEE hanno raccolto kg 125.836.026 di apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vi ta, a fronte dei 140.634.192 totali raccolti sul territorio italiano sempre nello stesso periodo gennaio – giugno 2017.
I sottoscrittori sono coloro che hanno perfezionato l’iscrizione al CdC RAEE e assicurano la disponibilità dei propri centri di raccolta al conferimento dei rifiuti elettrici ed elettronici giunti a fine vita da parte dei cittadini, distributori, installatori e centri di assistenza tecnica.

In particolare, i sottoscrittori si impegnano a ricevere tutti i raee provenienti da utenze domestiche indipendentemente dalla loro provenienza territoriale, a condizione che rispettino le normative vigenti. Pur trattandosi di dati parziali, limitati ai primi sei mesi dell’anno, le performance di raccolta dei sottoscrittori risultano soddisfacenti e coerenti con l’andamento della raccolta 2017, di cui si auspica un ulteriore incremento nella seconda parte dell’anno.

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