Formazione inadeguata nella Babele delle lingue

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la Cassazione ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti per quanto riguarda la presenza, sul posto di lavoro, di operatori stranieri che non parlano, o parlano male, l’italiano. Una presa di posizione che si ispira al testo unico della sicurezza e all’accordo Stato-Regioni

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la di Cassazione, sezione 3 pen. (pres. Rosi; rel. Andronio) ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti sulla di formazione in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare, per quanto riguarda quella dei lavoratori stranieri.
Bisogna subito richiamare, in tal senso, l’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento sia a una serie di nozioni fondamentali (concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) che costituiscono la cosiddetta “formazione generale” sia ai rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione che costituiscono, invece, la cosiddetta “formazione specifica” che, com’è noto, trovano una puntuale regolamentazione nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Proprio grazie all’intensa attività giurisprudenziale degli ultimi anni, i concetti di “adeguatezza” e di “sufficienza” si stanno riempiendo di contenuti e sotto questo profilo, come vedremo, la sentenza in commento riveste una significativa importanza perché la Cassazione ha in questa occasione ancora meglio messo sotto la lente d’ingrandimento la delicata questione dell’efficacia e dell’adeguatezza dei corsi di formazione rivolti ai lavoratori stranieri.

Il fatto
La vicenda affrontata dalla Cassazione riguarda l’infortunio dell’operaio T.M. di un’impresa appaltatrice, inquadrato come preposto, che durante lo sbloccaggio del nastro trasportatore, dovuto ad anomalia, ha perso la vita.
Con la sentenza del 28 marzo 2018, la Corte d’Appello di Milano, a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2016, ha confermato la sentenza emessa nel 2014 dal tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati, D.C. rappresentante legale dell’impresa D. committente, e P. rappresentante legale della P. soc.coop., appaltatore, per i reati di cui agli artt. 41, primo e terzo comma; 42 secondo comma; 43, primo comma e 589, secondo comma, del codice penale, perché, ciascuno mediante condotta colposa di negligenze e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 del codice civile, avevano cagionato la morte di T.M., lavoratore dipendente della «ditta appaltatrice addetta alla manovalanza», attraverso l’inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 3, art. 71, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008, per quanto attiene agli obblighi dell’imputato D.C., e degli artt. 17, 26, comma 2, e 37, comma 7, del D.Lgs. n 81/2008, con riferimento agli obblighi a carico dell’imputato P. Va precisato che la Cassazione aveva annullato, però, la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello nel 2015, rilevando l’insufficienza della motivazione quanto al profilo dell’ampiezza e della serietà dell’obbligo informativo sui rischi lavorativi.
In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la sentenza assolutoria non aveva chiarito quale fosse il livello di approfondimento del documento di valutazione e della formazione in concreto svolta, a fronte del rischio smontaggio dello scivolo cui era addetto il lavoratore, né aveva chiarito se lo smontaggio potesse dirsi come anomalia prevedibile o imprevedibile, anche considerata la circostanza della presenza di un tubo che avrebbe potuto costituire un ostacolo allo spostamento dello scivolo.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello del 2018 sia D.C. sia P. avevano proposto ricorso per Cassazione censurando l’operato dei giudici sotto vari profili; concentrando l’attenzione su quello della formazione, che qui interessa, i ricorrenti avevano lamentato l’omessa valutazione di controprove dichiarative ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, a loro avviso, i giudici del rinvio in contrasto con le indicazioni contenute nella sentenza di annullamento, avrebbero omesso di approfondire i dirimenti aspetti della violazione degli obblighi informativi cui erano tenuti gli imputati e dell’eventuale abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore, facendo rilevare che per quanto riguarda le prove testimoniali gli stessi giudici avrebbero considerato solo parzialmente le dichiarazioni rese dai testimoni M., B. C. e C.E., omettendo qualsivoglia valutazione su profili dirimenti. ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il teste B.C., consulente esterno della sicurezza sul lavoro, aveva dichiarato che i corsi di formazione venivano eseguiti direttamente in azienda ogni tre o quattro mesi, che il lavoratore vittima dell’incidente partecipava ai corsi tenuti in italiano, ma compresi da tutti i lavoratori presenti, e che durante gli stessi veniva espressamente indicata la procedura da seguire in caso di guasto. Aveva precisato, altresì, che la predetta procedura impediva qualsivoglia partecipazione diretta da parte del lavoratore, tenuto a contattare il tecnico della manutenzione, unico incaricato della risoluzione dei guasti dei macchinari.
E ancora, sempre secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valorizzare le dichiarazioni rese dal teste B. (responsabile del reparto) che aveva confermato il regolare svolgimento dei corsi di formazione tenuti dal consulente B.C. e aveva ribadito che il T.M. non era autorizzato allo smontaggio del nastro trasportatore.
Identiche dichiarazioni sarebbero state rese dal teste M., dipendente della P. soc. coop. e unico testimone oculare presente al momento dell’incidente. Quindi, secondo i due imputati, queste dichiarazioni sarebbero idonee a dimostrare il corretto e abituale svolgimento di corsi di formazione rivolti ai dipendenti delle due società coinvolte, nonché l’abnormità della condotta tenuta dal lavoratore, cimentatosi, imprevedibilmente, in un’attività non rientrante nella loro competenza.

La legittimità
La Cassazione ha, tuttavia, respinto i ricorsi ritenendoli infondati. In particolare, per quanto riguarda la formazione, i giudici di legittimità hanno tenuto a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’Appello non ha omesso di valutare le dichiarazioni testimoniali richiamate nel ricorso, ma, pur valutandole, le ha ritenute immeritevoli di prevalere rispetto alle dichiarazioni di senso contrario, specifiche, complete e soprattutto reciprocamente riscontrate.
In particolare, per quanto riguarda i corsi di formazione, i giudici di merito non si sono limitati a riportare la testimonianza del consulente B. C., nella parte in cui lo stesso ha confermato il regolare svolgimento dei corsi all’interno dell’azienda, ma hanno, altresì, richiamato il prosieguo della testimonianza «(…) da cui è emerso con pacifica attendibilità che i corsi di formazione erano tenuti in lingua italiana nonostante i dipendenti impiegati nell’azienda appaltatrice fossero per la maggior parte stranieri».
Sottolineano ancora i giudici che, più precisamente, i corsi di formazione erano tenuti «(…) soltanto in lingua italiana anche se rivolti ad una compagine di lavoratori stranieri per buona parte incapaci di comprendere l’italiano»; di conseguenza sono stati ritenuti inidonei a garantire il necessario livello di preparazione in quanto appare evidente che, anche da un punto di vista metodologico, la formazione così erogata diventa “zoppa” in quanto solo formale e non sostanziale come, invece, richiede la norma.
Sotto questo profilo giova ricordare che il già citato art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga proprio il datore di lavoro a compiere preliminarmente una verifica finalizzata a stabilire il livello di conoscenza della lingua veicolare da utilizzare nei corsi e, quindi, un accertamento in concreto della conoscenza dell’italiano cosa che sembra non sia avvenuta nel caso de quo.

Una parola sui rischi
Secondo la Cassazione, quindi, i corsi di formazione predisposti dagli imputati, sebbene svolti con cadenza trimestrale, non potevano ritenersi sufficienti a garantire ai lavoratori un idoneo livello di competenze anche perché, come emerso dalle testimonianze, avevano «(…) carattere generale e poco approfondito, non prevedevano insegnamenti differenziati per le singole mansioni attribuite ai dipendenti».
Sotto questo profilo viene sottolineato che, in effetti, durante i corsi venivano fornite indicazioni generali sul complesso delle lavorazioni compiute negli stabilimenti, ma secondo i giudici « (…) non erano idonei a formare i lavoratori in ordine allo svolgimento delle specifiche mansioni cui erano preposti e ad informarli in merito al complesso dei rischi connessi non solo alla propria attività, ma anche alle ulteriori operazioni inevitabilmente interferenti con le lavorazioni di propria competenza».
Di conseguenza, per i giudici, la formazione è risultata carente del requisito della specificità, anche in ordine ai rischi da interferenze, e quindi ritenuta anche per questo motivo non adeguata.

Il comportamento abnorme
Per quanto riguarda, poi, l’accertamento dell’abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore T.M. nella sentenza viene precisato che era “non rara” la necessità di intervenire sulle frequenti anomalie del macchinario gestito dall’infortunato. Infatti, sarebbero stati dimostrati frequenti interventi di sbloccaggio del nastro trasportatore che avrebbero richiesto una specifica formazione dei lavoratori o, quanto meno, una concreta informativa in ordine ai rischi connessi allo svolgimento di quell’attività, a prescindere dalla tipologia di intervento da compiere per garantire la ripresa del funzionamento dei macchinari. Per altro si osservi che nella sentenza è anche sottolineato che la Corte d’Appello ha accertato che, in effetti, sussisteva un quadro operativo privo di un’effettiva distinzione di ruoli, di competenze e di mansioni «…tanto che il T.M. era solo formalmente considerato un “preposto”, ma in realtà svolgeva attività di operaio semplice al pari di tutti gli altri lavoratori».

La verifica
In definitiva, quindi, queste omissioni – unitamente ad alcune altre come, ad esempio, la genericità del Duvri – hanno radicato la responsabilità dei due imputati; ma ciò che qui preme di più sottolineare è che con la sentenza n. 16498/2019 la Cassazione ha focalizzato, quindi, forse meglio che in passato 2 una delle più importanti “patologie” della formazione che frequentemente si registrano nella prassi: l’attuazione di un intervento formativo in italiano rivolto a una platea di lavoratori stranieri non in grado, però, di comprendere l’italiano. Bisogna ricordare che, sotto questo profilo, proprio i dati sul fenomeno infortunistico e la massiccia apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri hanno indotto il legislatore nel 2008 a introdurre, con l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 81/2008, il già citato obbligo della verifica preventiva della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo. Secondo questa norma, infatti, il «(…) contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo».
Per altro, giova anche ricordare, infine, che la rilevanza di questa problematica emerge anche dalla disciplina regolamentare dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, che prevede nei corsi rivolti a lavoratori stranieri anche le opzioni dell’ausilio di mediatori interculturali o di traduttori e il ricorso a programmi di formazione preliminare in modalità e-learning.

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PREVENZIONE INCENDI: DAL 21 OTTOBRE 2019 OBBLIGATORIO IL “NUOVO APPROCCIO”

Il decreto 12 aprile 2019, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019, apporta importanti modifiche al decreto 3 agosto 20151, noto come codice di prevenzione incendi. Con il nuovo decreto – che entrerà in vigore il 21 ottobre 2019 anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività soggette ma non normate (prive di regola tecnica verticale) – dovrà essere adottato il nuovo approccio prestazionale.

Prima di esaminare le novità introdotte con il decreto 12 aprile 2019, è opportuno ricordare che il D.M. 3 agosto 2015, oggetto delle modifiche, è un atto di notevole rilevanza in quanto, attraverso l’adozione di un unico testo organico e sistematico di disposizioni e l’introduzione di un nuovo approccio metodologico, si è potuto semplificare e razionalizzare l’impianto normativo in materia di prevenzione incendi.

Di fatto, il D.M. 3 agosto 2015 ha segnato il passaggio da un sistema rigido, caratterizzato da norme prescrittive, a uno che agevola l’approccio prestazionale, che permette di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Il D.M. 3 agosto 2015, entrato in vigore il 19 novembre 2015, è costituito da cinque articoli e un consistente allegato tecnico, 1), nel quale sono contenute le norme di prevenzione incendi. Attraverso l’articolato sono state individuate le attività ricadenti nel campo di applicazione del decreto e indicate le modalità di adozione della nuova metodologia di prevenzione incendi. In particolare, sono state approvate ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. 8 marzo 2006 n. 139, le norme tecniche di cui all’allegato al decreto ed è stata prevista una introduzione graduale del nuovo approccio, che ha permesso, sino ad oggi, che le nuove norme potessero essere applicate in alternativa alle specifiche disposizioni dettate dalle vigenti regole di prevenzione incendi.

Per quanto concerne l’allegato al decreto, nel quale sono contenute le specifiche tecniche, si ricorda la suddivisone in quattro sezioni: generalità, strategia, regole tecniche verticali e metodi. Attraverso queste sezioni sono specificati puntualmente i principi fondamentali per la progettazione della sicurezza antincendio, gli elementi necessari per ideare la strategia antincendio, le regole tecniche di prevenzione incendi applicabili e le metodologie progettuali. In particolare, con la prima sezione dell’allegato 1 (sezione G), suddivisa in tre capitoli, sono descritti la terminologia e i simboli grafici, sono fissati i criteri di progettazione per la sicurezza antincendio e, infine, sono determinati i profili di rischio delle attività.

Con la sezione S della regola tecnica sono trattate le misure per comporre la strategia antincendio finalizzata alla riduzione del rischio di incendio. In questa sezione, composta di dieci capitoli, sono specificate le misure antincendio di prevenzione, protezione e gestionali applicabili alle diverse attività. Con la sezione V sono trattate le regole tecniche verticali che si applicano a specifiche attività (o ad ambiti di queste ultime). Le misure tecniche contenute in questa sezione sono complementari o integrative a quelle generali previste nella sezione S «Strategia antincendio». Al riguardo, va ricordato che la loro funzione è quella di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice. Di fatto, l’applicazione di queste regole consente di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Le regole tecniche verticali, i cui contenuti di base sono quelli previsti dal codice, sono caratterizzate dalla stessa struttura: «Campo di applicazione», «Classificazioni», «Profili di rischio», «Strategia antincendio e altre specifiche tecniche». Con il «Campo di applicazione» e le «Classificazioni» sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree, ecc.). Nel punto concernente i «Profili di rischio» (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice («Determinazionedei profili di rischio delle attività»). Con la sezione «Strategia antincendio» sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (S.1 «Reazione al fuoco», S.6 «Controllodell’incendio», S.2 «Resistenza al fuoco»,S.7 «Rivelazione ed allarme», S.3 «Compartimentazione», S.8 «Controllo di fumi e calore», S.4 «Esodo», S.9 «Operatività antincendio», S.5 «Gestione della sicurezza antincendio», S.10 «Sicurezza degli impianti tecnologici e di servizio»). La regola tecnica di prevenzione incendi allegata al decreto 3 agosto 2015 termina con la sezione M «Metodi», attraverso la quale sono definite le disposizioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio, descritte le procedure di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto e, infine, delineata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita.

La metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio (o progettazione antincendio prestazionale) è trattata nella sezione M del codice. Attraverso questa sezione è descritta dettagliatamente la metodologia di progettazione dell’ingegneria della sicurezza antincendio che, di fatto, è la metodologia che consente di definire soluzioni idonee al raggiungimento di obiettivi progettuali mediante analisi di tipo quantitativo. Il primo elemento trattato in questa sezione è quello concernente le fasi del metodo. Al riguardo ricordiamo che la metodologia di progettazione prestazionale si compone di due fasi: analisi preliminare e analisi quantitativa. In particolare, nella prima fase (analisi preliminare) sono formalizzati i passaggi che conducono a individuare le condizioni più rappresentative del rischio al quale l’attività è esposta e quali sono le soglie di prestazione cui riferirsi in relazione agli obiettivi di sicurezza da perseguire, mentre nella seconda fase (analisi quantitativa), impiegando modelli di calcolo specifici, si esegue l’analisi quali-quantitativa degli effetti dell’incendio in relazione agli obiettivi assunti sunti, confrontando i risultati ottenuti con le soglie di prestazione già individuate e definendo il progetto da sottoporre a definitiva approvazione. Nel capitolo M sono inoltre illustrati puntualmente i passaggi (sotto-fasi) necessari per definire i rischi da contrastare e i criteri oggettivi di quantificazione degli stessi, utili per la successiva analisi numerica, e quelli indispensabili per effettuare le verifiche di sicurezza degli scenari individuati. Il codice specifica che la documentazione di progetto deve essere integrata, per la prima fase (analisi preliminare), dal sommario tecnico – nel quale è sintetizzato il processo seguito per individuare gli scenari di incendio di progetto e le soglie di prestazione – e, per la seconda fase (analisi quantitativa), dalla specifica relazione tecnica in cui si presentano i risultati dell’analisi e il percorso progettuale seguito e il programma per la gestione della sicurezza antincendio.
Alla descrizione della metodologia di progettazione dell’ingegneria seguono le specifiche concernenti l’attuazione della gestione della sicurezza antincendio. Al riguardo si segnala che con l’applicazione della metodologia prestazionale devono essere previste specifiche misure di gestione della sicurezza antincendio (Gsa) affinché non possa verificarsi la riduzione del livello di sicurezza assicurato inizialmente.

La sezione M termina con i capitoli concernenti gli scenari di incendio per la progettazione prestazionale e la salvaguardia della vita con la progettazione prestazionale. Di fatto, attraverso questi capitoli sono specificati gli altri aspetti tecnici della progettazione antincendio prestazionale. In particolare, è descritta la procedura di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto che sono impiegati nell’analisi quantitativa da parte del professionista che si avvale dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Sono fornite, inoltre, le indicazioni per eseguire la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sicurezza antincendio per le attività. Infine, è specificata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita, necessaria per assicurare la possibilità per tutti gli occupanti di un’attività di raggiungere o permanere in un luogo sicuro, senza che ciò sia impedito da un’eccessiva esposizione ai prodotti dell’incendio, unitamente alla possibilità per i soccorritori di operare in sicurezza.

Il provvedimento
Il decreto 12 aprile 2019, costituito da cinque articoli, inizialmente sancisce l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 1 del decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015 (articolo 1). Si tratta di una modifica di particolare rilevanza in quanto pone un termine all’introduzione graduale del nuovo approccio contenuta nella prima versione del codice di prevenzione. Il comma abrogato stabiliva, infatti, la possibilità di applicare sia le disposizioni contenute nel codice di prevenzione sia le specifiche disposizioni dettate dalle previgenti regole di prevenzione incendi.
Segue la sostituzione integrale dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 concernente il «Campo di applicazione e modalità applicative ». In particolare, con il nuovo articolo 2 è stabilito che le specifiche tecniche contenute nel codice di prevenzione incendi si applicano alla progettazione, alla realizzazione e all’esercizio delle attività di nuova realizzazione di cui all’allegato I del decreto del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1512, individuate con i numeri 9, 14; da 19 a 40; da 42 a 47; da 50 a 54; 56, 57; 63, 64, 66, a esclusione delle strutture turistico-ricettive all’aria aperta e dei rifugi alpini; 67, a esclusione degli asili nido; da 69 a 71; 73, 75, 76.
Di fatto, con il nuovo articolo 2, sono state comprese nel campo di applicazione la quasi totalità delle attività non normate (prive di regola tecnica verticale) per le quali l’unico riferimento normativo diventa ora il D.M. 3 agosto 2015.

Altra novità apportata dal decreto 12 aprile 2019 riguarda le disposizioni per gli interventi di modifica o di ampliamento alle attività esistenti. Per questi casi, attraverso la rivisitazione dell’articolo 2, è stabilito che le norme si applicano a condizione che le misure di sicurezza antincendio esistenti, nella parte dell’attività non interessata dall’intervento, siano compatibili con gli interventi da realizzare. Invece, per gli interventi di modifica o di ampliamento delle attività esistenti non rientranti in questi ultimi casi, è specificato che si devono applicare le specifiche norme tecniche definite nel nuovo comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto 3 agosto 2015 (di seguito descritto) e, per quanto non disciplinato dalle stesse, i criteri tecnici di prevenzione incendi di cui all’articolo 15 (comma 3) del D.Lgs n.139 del 8 marzo 2006.3. Si segnala che è comunque concessa al responsabile dell’attività, la possibilità di applicare le disposizioni del codice di prevenzione incendi all’intera attività.

Con la nuova versione dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 è ribadito che le norme tecniche contenute nel codice possono essere di riferimento anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività che non soggette ai controlli di prevenzione incendi. 

Il decreto 12 aprile 2019 prosegue con l’articolo 3 attraverso il quale è stato introdotto l’articolo 2-bis nel decreto del 3 agosto 2015.
In particolare, con questo nuovo articolo sono indicate le attività per le quali è concesso in alternativa all’approccio definito dal codice, l’uso di norme tecniche indicate del nuovo comma 1-bis dell’articolo articolo 5 introdotto dal decreto 12 aprile 2019 attraverso il quarto articolo. Al riguardo segnaliamo che con l’introduzione del comma 1-bis all’articolo 5 nel decreto del 3 agosto 2015 sono definiti tutti gli atti normativi le cui specifiche non possono più essere adottate per le attività per le quali è previsto solo l’utilizzo delle disposizioni del codice di prevenzione incendi.

Si evidenzia che attraverso l’art. 4 del decreto 12 aprile 2019 è stato introdotto nell’art. 5 del decreto 5 agosto 2015 anche il comma 2, necessario per specificare che per le attività in regola con gli adempimenti previsti per la valutazione dei progetti, per i controlli di prevenzione incendi e per quelle che hanno potuto usufruire dell’istituto della deroga, il decreto 03 agosto 2015 non comporta adempimenti.
Il decreto 12 aprile 2019 termina con l’art. 5 attraverso il quale sono definite le disposizioni transitorie e quelle finali. In particolare, è stabilito che le modifiche introdotte al decreto 5 agosto 2015 si applicano alle attività interessate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il provvedimento entra in vigore il 21 ottobre 2019 (centottantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019).

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Consulenti responsabili? La parola alla Cassazione

Infortuni sul lavoro: il punto della sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018

 

Se i professionisti esterni, di regola, non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa prevenzionistica? Un’articolata e interessante pronuncia della suprema Corte chiarisce alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione

 

Il fatto
La sentenza in esame è stata emessa nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di due consulenti esterni di una azienda in relazione all’infortunio sul lavoro occorso a tre operai. Per il medesimo infortunio era stata accertata, in un procedimento gemello, la responsabilità del datore di lavoro, nonché Rspp, in particolare, per non aver valutato in modo adeguato i rischi aziendali e aver realizzato empiricamente, quale progettista, una macchina centrifuga caratterizzata da anomalie e carenze strutturali quali il sottodimensionamento dei meccanismi di bloccaggio della flangia.
Nel corso della realizzazione di un getto di lega di acciaio inossidabile, tre dipendenti del reparto fonderia dell’azienda che produce acciai speciali centrifugati erano stati investiti in varie parti del corpo dalla massa di acciaio liquido fuoriuscito dalla conchiglia rotante nella quale quest’ultima era contenuta. Durante la fase di solidificazione del processo di colata, infatti, il coperchio della conchiglia, detto “flangia”, si era sollevato a causa del cedimento di due dei tre dei dispositivi meccanici di bloccaggio – cedimento dovuto alla pressione generata dal metallo fuso in essa contenuto che, sottoposto a una spinta verso l’alto a causadel movimento centrifugo della conchiglia – ed era fuoriuscito improvvisamente.
L’investimento degli operai aveva determinato la morte di due lavoratori e il ferimentograve di uno.

Il merito
Nell’ambito del giudizio di merito erano stati giudicati corresponsabili due consulenti, entrambi professionisti esterni all’azienda e legati al datore di lavoro da autonomi contratti d’opera intellettuali in virtù dei quali all’uno (tale F.) era stato assegnato l’incarico di collaborare alla valutazione dei rischi all’altro (tale S.), quello
di occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario. Ai consulenti era stato contestato di non aver in particolare valutato il rischio meccanico di proiezione a distanza del metallo fuso, di aver predisposto barriere balistiche laterali e dispositivi di protezione individuali tutti inidonei.
Il presupposto sul quale è stata ritenuta, secondo la Corte di Appello, la «corresponsabilità» di:
• F. deriva dal suo inserimento ex contractu, ancorché si tratti di “consulenza generalizzata” in relazione alla messa in sicurezza delle macchine, nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda. Ciò avrebbe comportato l’assunzione di una posizione di garanzia in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, giudicata nel caso di specie inadeguata (così ha argomentato il giudice di primo grado: se un soggetto, come il F, «si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (..) non è esente da (co) responsabilità»);
• S. deriva dalla sua investitura ex contractu in relazione agli adempimenti di certificazione del macchinario che sarebbero stati connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.

La legittimità
La suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza di condanna agli e etti civili pronunciata nei confronti di S. ritenendo impossibile accertare al di là di ogni ragionevole dubbio un’eventuale responsabilità a suo carico per gli infortuni occorsi. La Corte ha cassato, invece, con rinvio la sentenza di condanna di F. rispetto alla posizione del quale dovrà essere celebrato un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale si uniformerà
ai principi di diritto affermati. Con la sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018, in sostanza, la suprema Corte nell’affrontare lo specifico tema della responsabilità in materia di sicurezza dei «consulenti» del
datore di lavoro statuisce che:
• i consulenti, in quanto soggetti estranei alla compagine aziendale e destinatari di un incarico di consulenza generale, non sono destinatari “in linea generale” della normativa prevenzionistica e, come tale, di posizioni di garanzia. E ciò a differenza del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ai quali la disciplina è formalmente e direttamente rivolta;
• ferma la sopracitata regola, i consulenti possono assumere la veste di «corresponsabili» a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale. A tal fine è necessario che, in relazione alle circostanze del caso concreto sia possibile, in alternativa, affermare che abbiano acquisito la veste di garante «di fatto» oppure abbiano realizzato una condotta cooperativa causalmente connessa all’evento e nella consapevolezza dell’altrui condotta.
Tra i destinatari della normativa prevenzionistica non vi sono (di regola) i consulenti.
Con riguardo al primo punto, la Corte è chiara nell’affermare come i consulenti esterni che non sono riconducibili all’organizzazione aziendale non sono tra i destinatari diretti della normativa sulla sicurezza. La disciplina prevenzionistica è, infatti, rivolta anzitutto nei confronti del datore di lavoro che è il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile e, quindi, dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e di assumere direttamente le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazionidi rischio. Al datore di lavoro si aggiungono, altresì, come destinatari il “dirigente” (art. 18, D.Lgs. cit.) «che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso» e il “preposto” (art. 19, D.Lgs. cit.) «colui che attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione».
La suprema Corte, sotto questo profilo, afferma «il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel Rspp ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica».
Ciò comporta che i consulenti anche qualora si inseriscano nel processo di valutazione dei rischi aziendali non sono perciò solo automaticamente «corresponsabili» unitamente alle figure istituzionali e questo perché l’avvalimento di soggetti tecnici esterni non implica necessariamente e automaticamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro. Ma se dunque i consulenti esterni, di regola,
non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa sulla sicurezza?
«Corresponsabilità» dei consulenti esterni: sì, se ricorre in concreto il cosiddetto intreccio cooperativo. La natura colposa dei delitti in materia di infortuni sul lavoro (omicidio colposo e lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro) impone di ricorrere – nel caso in cui gli illeciti siano riconducibili a una pluralità di soggetti – all’istituto della cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale che si caratterizza, a differenza del concorso di cui all’art. 110 del codice penale dal difetto della volontà di partecipare con altri alla realizzazione del delitto. Non a caso di parla di cooperazione in luogo di concorso.
A questo fine, oltre alla pluralità di soggetti, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, il contributo causale alla realizzazione dell’evento e la consapevolezza
(e non la volontà) da parte ci ciascun partecipe di agire in concomitanza con l’azione di altri. Si tratta di un istituto cui è assegnato il compito di estendere la responsabilità penale colposa a condotte astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto.
La Corte, per assegnare contenuto a questo istituto, richiama un precedente del 2013 (Cass. pen. sez. IV – ud. 3 ottobre 2013; 18 ottobre 2013, sent. n. 43083) nel quale si afferma che la rilevanza penale del contributo
anche atipico si coglie “in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori del delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione e alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia».
In quella occasione, la Cassazione aveva confermato la sentenza di condanna per cooperazione in omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza nei confronti dell’amministratore
della società subaffittuaria di una stalla in relazione al decesso del soggetto incaricato dalla proprietà del fabbricato e committente dei lavori (quindi di un soggetto diverso) alla rimozione di alcune lastre di fibrocemento poste a copertura del tetto. Il giudizio aveva confermato che l’operazione, infatti, avvenne nella consapevolezza da parte dell’imputato, per quanto rileva, dell’omessa predisposizione da parte del committente di misure di protezione a tutela dell’operatore a fronte del rischio evidente di caduta dall’alto (consapevolezza
cooperazione) e addirittura fornendo il mezzo di elevazione delle lastre sostitutive al livello della copertura (condotta agevolatrice causalmente connessa).
In sostanza, la Corte ha ricostruito in capo all’agente/cooperante un “dovere giuridico di astensione” – pur in difetto di posizione di garanzia – allorché si trovi a operare in una situazione di rischio “immediatamente e distintamente percepibile”: in questo contesto, qualora la mancata astensione (condotta cooperativa) si traduca in un’agevolazione o aggravamento del rischio che poi si concretizza (l’infortunio) e il contributo causale alla realizzazione dell’evento sia giuridicamente apprezzabile (e provato) l’agente ne risponderà penalmente ex art. 113 del codice penale.
In sintesi, la condotta di “cooperazione”, di per sé penalmente a contenuto neutro, riceve la qualifica di condotta colposa, quindi penalmente rilevante, soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, a cui ci si limita volontariamente ad aderire. L’istituto della cooperazione colposa, pertanto, estende l’area del penalmente rilevante anche alle condotte dei cooperanti le quali di per sé non violino alcuna regola cautelare ma siano adesive all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta «assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento».
Afferma, infatti, la Corte che anche quando il coinvolgimento integrato di più soggetti non sia imposto dalla legge o da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, e sia contingenza oggettivamente definita
senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza «l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte queste situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così
un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Questa pretesa “d’interazione prudente” individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v.Cass., sez. 4, n. 1428/2011, Rv. 252940)».

Questo principio è stato ribadito anche successivamente in un caso nel quale è stata confermata, a titolo di cooperazione colposa, la responsabilità dell’amministratore di una società gerente un complesso sciistico per l’infortunio mortale occorso a un bambino rimasto incastrato in un gonfiabile, allestito nell’area di proprietà del complesso, ma sradicatosi a seguito di vento di burrasca ampiamente previsto (Cass. pen. sez. feriale, ud. 25 agosto 2015 – 13 ottobre 2015 n. 41158). La suprema Corte, peraltro, ha ricondotto all’istituto previsto dall’art. 113 del codice penale la fonte di «corresponsabilità» anche del responsabile del serviziodi prevenzione e protezione di un’azienda sanitaria per l’infortunio occorso a seguito di una sovratensione dell’impianto elettrico a un paziente della struttura in terapia elettromedicale (Cass. pen. sez. IV – ud. 24 gennaio 2013 – 11 marzo 2013, n. 11492). Pur affermando che il Rspp «non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica» operando quale “consulente” del datore di lavoro «nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori» e, come tale, operando in mancanza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, egli può nondimeno “concorrere” con la responsabilità del datore di lavoro.
Nel dettaglio «anche il Rspp (…) può essere ritenuto (co)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
La mancata doverosa segnalazione di un rischio da parte del Rspp è stata dunque qualificata come concausa dell’evento dannoso consapevolmente connessa all’azione posta in essere dal garante. Quindi, se è vera la conclusione (rassicurante per i professionisti esterni coinvolti in materia di sicurezza aziendale) che questi non sono tra i destinatari diretti della normativa cautelare di settore è vero, altresì, che il rischio di un coinvolgimento a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale è ugualmente effettivo.
Ogni procedimento penale nel quale verranno chiamati a rispondere a questo titolo richiederà peraltro, la Corte lo ribadisce con forza, un accertamento probatorio mirato a verificare e ricostruire in concreto i termini della condotta cooperativa fornita. Tenuto conto che la «corresponsabilità» del consulente potrà trovare fondamento tanto nel caso dell’assunzione di “fatto” di una posizione di garanzia quanto nel caso, come visto, di una condotta cooperativa anche solo agevolatrice ma causalmente rilevante e consapevole all’azione altrui, l’accertamento probatorio potrà assumere complessità variabile. Ciò tenendo, peraltro, conto che i delitti in materia si caratterizzano per essere per lo più reati colposi omissivi impropri caratterizzati cioè dal punire non già il semplice mancato compimento di un’azione doverosa bensì l’evento cagionato dall’omissione del comportamento doveroso finalizzato a prevenirlo (la morte o le lesioni). Ne consegue che alla complessità dell’accertamento deriva a cascata il rischio di esposizione dell’imputato all’alea di una ricostruzione della “verità processuale” lontana da quella fattuale, ferma l’evidenza che già ordinariamente i due concetti non sono pienamente e necessariamente sovrapponibili. La Corte con la sentenza in commento cerca di offrire coordinate rassicuranti al fine di consentire agli operatori del diritto di navigare senza incognite e non perdersi nel mare dell’accertamento probatorio.

Un discrimine da considerare
Qualora il coinvolgimento del “consulente” avvenga sulla base dell’acquisizione di una posizione di garanzia riconducibile all’esercizio “di fatto” delle funzioni tipiche di una delle diverse figure di garante, la ricostruzione degli obblighi cautelari deve essere operata «accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro».
Nel caso di specie la suprema Corte ha scrutinato la sentenza impugnata per verificare se e come la Corte territoriale avesse in concreto ricostruito la posizione di garanzia ascritta di fatto agli imputati. L’esito negativo di questa verifica deriverebbe dal fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare in modo accurato «le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato» pur avendo accertato il difetto di delega (investitura formale) e dell’attribuzione specifica di compiti, non ricostruibile sulla base della “consulenza sia pure generalizzata”.

La cooperazione causalmente rilevante e consapevole
Come anticipato, qualora il coinvolgimento del “consulente” non derivi dall’assunzione anche di fatto di una posizione di garanzia, l’accertamento giuridico del contributo cooperativo fornito nei termini rigorosamente descritti assume profili di complessità probatori- giuridici non indifferenti.
In questo caso, del pari, occorre infatti – afferma la Corte – che «una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che di adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento».
Nel caso di specie questa complessità si è tradotta in un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per il consulente S., incaricato di collaborare con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare il macchinario al cui utilizzo erano intenti gli operai infortunati. Afferma la Corte che «i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità».
Al contrario, quanto alla posizione di F., questa necessità di accertamento ha condotto, come anticipato, a una sentenza di annullamento con rinvio affinché la Corte territoriale verifichi, dandone conto, alla luce dei principi affermati dalla suprema Corte se il coinvolgimento di F. sia riconducibile a una condotta di cooperazione rilevante ai sensi dell’art. 113 del codice penale. Ciò significa che all’esito del giudizio ben potrebbe esserne affermata la penale responsabilità in relazione all’infortunio occorso ai tre dipendenti. Il rischio, non solo del coinvolgimento nel processo penale ma delle conseguenze da esso derivanti nel caso di condanna, inducono pertanto a ritenere necessario, nella fase prodromica del rapporto di collaborazione delineare con precisione e attenzione i contenuti della prestazione professionale richiesta.
Se una “consulenza generalizzata”, infatti, consente di escludere in linea generale in capo ai professionisti esterni all’azienda l’assunzione formale di garanti delle norme cautelari in materia di sicurezza non altrettanto consente di mettere al riparto gli interessati da rischi di una chiamata in causa a titolo di «corresponsabilità» in caso di infortuni. Di più. Una tale falsa partenza implicherebbe la necessità di valutare globalmente gli elementi fattuali della vicenda per come concretamente avvenuta i quali potrebbero condurre a una ricostruzione diversa (rispetto agli accordi contrattuali) e più gravosa a danno dell’interessato.

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Rspp, elemento cardine della sicurezza in azienda

Quali sono i compiti e i limiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione?
Dal “vecchio” D.Lgs. 626/1994 in poi il perimetro di questa figura si è via via sempre più delineato e il suo profilo, soprattutto grazie alla giurisprudenza, meglio precisato. Ma alcuni aspetti sul versante
penale devono ancora essere messi a fuoco con maggiore puntualità. Vediamo quali sono

Figura di riferimento nella gestione della sicurezza sul lavoro, unico organo collegiale della sicurezza, il Rspp ha spesso suscitato l’attenzione della Corte di Cassazione che più volte si è espressa a riguardo, richiamando e sottolineando le funzioni del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nel coordinamento di tutte le misure idonee a evitare i rischi presenti nell’ambiente di lavoro.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura introdotta in Italia con il D.Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, emanato in attuazione di alcune direttive europee relative al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e confermata dal D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 – Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tutta la sezione III del D.Lgs. n. 81/2008 è dedicata a questa figura chiave nell’ambito della sicurezza sul lavoro, necessaria in azienda e nei cantieri civili e industriali e indispensabile per realizzare la prevenzione.
«Il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici» che «devono possedere le capacità e i requisiti professionali di cui all’articolo 32 del decreto, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati».
La nomina del Rspp è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro, prevista dall’art. 17, comma 1 lettera b) del D.Lgs. 81/2008 e deve essere nominato un Rspp obbligatoriamenteinterno all’azienda nei casi previsti dall’ art. 31 comma 6 del D.Lgs. 81/2008.
Gli addetti al servizio devono essere «in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore, nonché di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative».
In alcuni casi, singolarmente indicati nella tabella 1 dell’articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, «il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza» e in questi casi deve seguire uno specifico percorso formativo e di aggiornamento i cui contenuti sono stati individuati con accordo nell’ambito della conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011.

Le regole d’ingaggio
I compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono elencati nell’articolo 33 del D. Lgs. 81/2008 e sono così sintetizzabili:
• individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
• elaborazione, per quanto di competenza, delle misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di queste misure;
• elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
• proposizione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
• partecipazione alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
• “fornitura” ai lavoratori delle informazioni di cui all’articolo 36.
In linea generale, il responsabile coordina il servizio di prevenzione e protezione cioè «l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori» (art. 2 comma, 1 lettera l), del D.Lgs. 81/2008), collaborando con il datore di lavoro, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla realizzazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr).

Collegamento di funzioni
L’articolo 2 del “testo unico” sulla sicurezza definisce il responsabile del servizio di prevenzione e protezione come una «persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi».
Da questa definizione emerge l’intenzione del legislatore di avvicinare queste due figure portanti nel sistema della sicurezza, in modo tale da creare tra loro un vero e proprio “collegamento di funzioni”.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione trasmette al datore di lavoro le competenze tecniche e organizzative necessarie a garantire la predisposizione di tutte le misure idonee per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma non è assolutamente tenuto a controllare l’effettiva applicazione delle misure stesse, non essendo titolare di quella posizione di garanzia che la normativa ha riservato in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto.
Come stabilisce l’articolo 17, comma 1, letterab), «la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi» è uno degli obblighi propri del datore di lavoro che non può delegare e il Rspp deve rispondere del suo operato al datore di lavoro e a nessun altro soggetto con cui viene a interagire nella normale pratica aziendale.
Il Rspp opera per conto del datore di lavoro che è la «persona giuridicamente posta nella posizione di garanzia, poiché l’obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il Rspp fa capo a lui stesso». Il Rspp, come affermato dalla Cassazione, «è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come avviene in qualsiasi altro settore dell’azienda, devono essere fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che è quest’ultimo che viene comunque chiamato a rispondere delle sue eventuali negligenze».
La nomina del Rspp non equivale, sicuramente, a una «delega di funzioni» tale da far venir meno, in capo al datore di lavoro, la responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica il quale non può delegare la posizione di garanzia che riveste nei confronti dei lavoratori, ma questo non esclude che il Rspp possa, in alcuni casi specifici, avere una propria responsabilità responsabilità, concorrente, nel verificarsi di un evento lesivo. Questa sembra essere la tendenza della suprema Corte che già in una pronuncia risalente a diversi anni fa aveva affermato che: «Il Rspp risponde, insieme al datore di lavoro, per il verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare» (Cass. Pen, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 2814).

Che cosa è cambiato
La giurisprudenza di legittimità si è espressa, negli ultimi anni, a favore di una maggiore responsabilizzazione del Rspp che è stato disegnato dal legislatore e rimane una figura puramente consultiva e propulsiva al fianco del datore di lavoro, ma questo non esclude che sia ipotizzabile, nei suoi confronti, una responsabilità penale «qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, trascuri di segnalare una situazione di rischio, inducendo così, il datore di lavoro, a omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo». Questa possibilità non escluderebbe l’innegabile responsabilità del datore di lavoro, ma darebbe spazio a una responsabilità “concorrente” del Rspp. In questo senso si è espressa la Cassazione penale nella sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 con cui è stata confermata la responsabilità penale anche del Rspp in ordine all’omicidio colposo aggravato in danno di un dipendente. L’imputato in questione, prima consulente e poi Rspp dell’azienda, non poteva esimersi dal valutare dove e come venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti alcuni materiali liquidi altamente infiammabili che erano stati travasati nelle cisterne presenti sul piazzale dell’azienda, talmente grandi da non poter essere non notate. L’esistenza di questo deposito esterno all’azienda, invece, non è stato menzionato nel documento di valutazione dei rischi da parte del responsabile che ha dimostrato, così, una grave negligenza nell’assolvimento dei propri obblighi.
Nel caso in esame è stato confermato il principio secondo cui: «il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica, lo stesso opera, piuttosto, quale “consulente”, in questa materia, del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio» (Cass.pen. n. 11492/2013).
La designazione del Rspp non equivale a «delega di funzioni» utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori.
«L’indiscussa responsabilità del datore dilavoro, che rimane, comunque, titolare della propria posizione di garanzia relativamente all’osservanza della normativa antinfortunistica, non esclude che possa profilarsi lo spazio per una responsabilità concorrente del Rspp: anche il Rspp, che è privo di poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizza detta situazione».
Nel caso specifico, dunque, l’imputato – prima consulente esterno del datore di lavoro per l’elaborazione del documento di valutazione e Rspp successivamente nominato – non poteva assolutamente ignorare e non segnalare l’esistenza del deposito esterno di cisterne contenenti materiale infiammabile, dopo aver valutato l’effettiva situazione di rischio che si era creata nell’ambiente di lavoro, e se lo ha fatto, ciò è ascrivibile a colpa.

Una responsabilità “concorrente”…
Questa tendenza è stata confermata dalla suprema Corte in una successiva pronuncia, relativa a una fattispecie in cui sarebbe stata ammessa una corresponsabilità del Rspp se quest’ultimo non avesse osservato i propri obblighi e non avesse svolto adeguatamente i propri compiti come è, invece, avvenuto.
Ecco, quindi, che il dettato della Cassazione ha affermato che «non è configurabile la responsabilità penale in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione per il reato di lesioni colpose, aggravato dalla violazione antinfortunistica ex articolo 590, comma 2, del codice penale, qualora questo abbia diligentemente valutato e, conseguentemente segnalato, tramite un documento di valutazione rischi (Dvr) completo e idoneo, i fattori di rischio presenti in azienda, con ciò adempiendo all’obbligo, sullo stesso gravante in forza della posizione di garante ascrittagli, di impedire l’evento» (Cassazione penale, sezione IV, 10 maggio 2017, n. 27516).
In questo caso specifico il Rspp aveva adeguatamente segnalato, tramite il Dvr, il rischio per la pericolosità intrinseca delle presse presenti in azienda, aggravato dall’inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge, e, dunque, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di proscioglimento del reato di cui all’articolo 590, comma 2, del codice penale, emessa in favore dello stesso.

…e l’ipotesi di una “esclusiva”
La Cassazione torna sull’argomento con la sentenza n. 4941 del 1° febbraio 2018 in cui si “osa” un po’ di più e si ipotizza una responsabilità “esclusiva” del Rspp che va oltre quella “concorrente” ormai consolidata.
Nel caso in questione, viene sottoposto all’esame dei giudici di legittimità un infortunio avvenuto nel corso di opere di disboscamento, a seguito al quale era deceduto un lavoratore, colpito al capo da un ramo che egli stesso aveva provveduto a tagliare. Imputati sono sia il datore di lavoro, sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per aver omesso di eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; per aver omesso di vigilare opportunamente sulle operazioni di disboscamento; per avere omesso di informare e formare adeguatamente il lavoratore sui rischi connessi all’attività che si accingeva a svolgere.
La Corte ribadisce le linee guida in materia, confermando che:
• «il datore di lavoro si avvale dell’ausilio del Rspp per la valutazione dei rischi aziendali e per la redazione del relativo documento (Dvr);
• che “la designazione del Rspp costituisce, per il datore di lavoro, un obbligo il cui inadempimento è penalmente sanzionato”;
• che i compiti del Rspp non rientrano nelle funzioni delegabili di cui all’articolo 16 del D.Lgs n. 81/2008 e che ha l’obbligo di assolvere ai compiti indicati nell’articolo 33 del decreto”.
Rimane, dunque, fuori da ogni dubbio, il fatto che «i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici “ausiliari” del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, ma sempre eventualmente in concorso con il datore di lavoro, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.
Sono soltanto “consulenti” e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera
si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario…»
Tutto ciò, però, come su accennato, non esclude che possa delinearsi una responsabilità penale del Rspp, per infortuni sul lavoro o tecnopatie, «sempre in concorso con il datore di lavoro» ai sensi dell’articolo 113 del codice penale, quando l’evento lesivo sia derivato da alcuni suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio».
La suprema Corte, però, nel caso in questione, si spinge un po’ avanti nel momento in cui si pone il dubbio se possa essere prospettabile «una responsabilità anche esclusiva del Rspp ogni qual volta gli infortuni e/o le malattie professionali siano riconducibili a situazioni di pericolo che il Rspp avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro.
Ciò, in particolare, se è vero «che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
I giudici di legittimità si sono domandati quale sarebbe la regola o il principio di diritto applicabile nel caso in cui il datore di lavoro avesse nominato un Rspp, altamente qualificato, ne avesse seguito sempre le direttive e i suggerimenti, ma quest’ultimo avesse omesso di segnalare una situazione di rischio specifica e sofisticata, che il datore di lavoro non sarebbe stato in grado di riconoscere.
Sicuramente il datore di lavoro avrebbe mantenuto la propria posizione di garante della sicurezza con tutti gli impegni che ne derivano a cui non ha potuto tener fede per una condotta omissiva del Rspp di cui non è stato colpevole.
In questo caso si potrebbe prospettare l’ipotesi di «una responsabilità esclusiva del Rspp, laddove si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia il frutto dell’omissione colposa di un compito professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (Cass. Pen. sez. IV, 15 luglio 2010, n. 32195).

Una questione rimasta ancora in sospeso
I giudici, però, non si spingono oltre, non generalizzano all’intera materia antinfortunistica: le affermazioni contenute nella pronuncia in esame, relative a uno specifico caso di infortunio sul lavoro e non elaborano, dunque, un principio di diritto che modifichi radicalmente i cardini della responsabilità penale in materia.
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione: non vi è uno specifico sistema di pene che vada a sanzionare il comportamento di un Rspp che non svolga adeguatamente i propri compiti. Tutto ciò non sta a significare, come abbiamo detto, che il Rspp sia esente da responsabilità penale per reati anche gravi: nel caso in cui si verifichi un infortunio derivante da una situazione pericolosa che aveva il dovere di individuare e di segnalare, in modo tale che il datore di lavoro potesse predisporre le misure di sicurezza adeguate, sarà, comunque, co-responsabile con il datore di lavoro per l’evento l’evento lesivo.
È il passo in più che non è stato, in un certo senso, ancora “codificato”: l’ipotesi in cui al Rspp possa riconoscersi una responsabilità “esclusiva”, per colpa professionale, che vada a esonerare persino il datore di lavoro, perché l’infortunio sia derivato da una specifica situazione di rischio che solo il Rspp aveva la capacità di scorgere e di rendere nota e che il datore di lavoro non era in grado di vedere e di valutare.

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Piccoli trabattelli a prova di sicurezza

Attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto. Hanno ingombri in pianta limitati e raggiungono altezze non elevate.
Le fiancate possono essere realizzate utilizzando le scale portatili come componenti. L’accesso alla piattaforma può avvenire dall’esterno o dall’interno. Nelle attività per cui è previsto il ricorso, il lavoratore, però, è esposto ai rischi di instabilità e di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.
Non sono coperte da direttiva specifica e non possono essere marcate Ce, ma sono soggette, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il cosiddetto codice del consumo)

In alcuni contesti lavorativi, l’utilizzo di trabattelli “normali” è assai difficoltoso per cui vengono frequentemente impiegati “piccoli trabattelli”, attrezzature provvisionali di lavoro diverse da quelle previste nella Uni En 1004. Sono sono generalmente destinati a lavori di breve durata e possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente.
Gli ambienti ove più spesso vengono impiegati sono gli spazi ristretti e/o i luoghi ad altezza ridotta. I “piccoli trabattelli” assomigliano anche ad altri “dispositivi”: le scale mobili con piattaforma secondo la Uni En 131-7. Considerate le ridotte dimensioni, i piccoli trabattelli vengono generalmente usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende l’utilizzatore, gli utensili, le attrezzature e il materiale. Non vanno utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto e devono essere conformi a quanto previsto dal D.Lgs. 81/2008 e nello specifico all’art. 140. L’utilizzo di trabattelli per lavori in quota è previsto nell’art. 111 del D.Lgs 81/2008 al comma 2: «Il datore di lavoro sceglie il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego. Il sistema di accesso adottato deve consentire l’evacuazione in caso di pericolo imminente».
Il comma 5 prevede che «Il datore di lavoro, in relazione al tipo di attrezzature di lavoro adottate in base ai commi precedenti, individua le misure atte a minimizzare i rischi per i lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione, prevedendo, ove necessario, l’installazione di dispositivi di protezione contro le cadute. I predetti dispositivi devono presentare una configurazione ed una resistenza tali da evitare o da arrestare le cadute da luoghi di lavoro in quota e da prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori». I dispositivi di protezione collettiva contro le cadute possono presentare interruzioni soltanto nei punti in cui sono presenti scale a pioli o a gradini». I requisiti essenziali che i piccoli trabattelli debbono possedere sono:

• la stabilità al ribaltamento laterale;
• la sicurezza durante il montaggio e lo smontaggio;
• la sicurezza durante l’uso.

Per stabilità al ribaltamento laterale si intende la capacità che ha un piccolo trabattello a opporsi alle azioni che ne determinano il ribaltamento laterale con una rotazione intorno a un asse passante per la base dei due montanti; è dovuta al comportamento del lavoratore che si pone lateralmente al piccolo trabattello per cui il suo baricentro cade fuori dalla base di appoggio o che esercita forze sostanzialmente parallele all’impalcato (quando per esempio adopera un trapano) pur avendo il baricentro entro la base di appoggio del trabattello.

Riguardo alla stabilità, l’articolo 140 del D.Lgs. 81/2008 prevede che «I ponti su ruote devono avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai carichi ed alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati» (art. 140, comma 1).

Ulteriore risvolto su cui il legislatore pone l’attenzione ai fini della stabilità è il bloccaggio delle ruote che «devono essere saldamente bloccate con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso dispositivi appropriati devono impedire lo spostamento involontario dei ponti su ruote durante l’esecuzione dei lavori in quota» (art. 140, comma 2). Per quanto riguarda la sicurezza durante il montaggio, lo smontaggio e l’uso si deve far riferimento alle indicazioni obbligatorie del fabbricante che conosce esattamente le caratteristiche delle attrezzature e i vincoli nell’utilizzo. Queste istruzioni obbligatorie devono essere esaurienti.

I requisiti
I requisiti ai quali il piccolo trabattello deve soddisfare possono essere distinti in requisiti dimensionali e requisiti di sicurezza. I requisiti dimensionali sono legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie e alle modalità di accesso.

La Uni En 1004
La Uni En 1004: 2005 («Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestazionali») fu elaborata dal Cen TC 5 «Attrezzature di lavoro provvisionali» tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

Il Cen Tc 53 deliberò, nel 1980, di unificare la produzione di torri mobili di accesso e di lavoro parallelamente all’unificazione a livello europeo di ponteggi di servizio e di lavoro prefabbricati, Uni En 12810-2 («Ponteggi di facciata realizzati con componenti prefabbricati – Parte 2: Metodi particolari di progettazione strutturale» e Uni En 12811-3 «Attrezzature provvisionali di lavoro – Parte 3: Prove di carico». La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati con altezza da 2,5 m a 12,0 m (non esposte al vento) e da 2,5 m a 8,0 m (esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione; i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. La norma costituisce il principale riferimento tecnico per la realizzazione di queste attrezzature di lavoro che possono essere alte fino a 12m e hanno l’aspetto di “strutture”. L’importanza della Uni En 1004 è implicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII comma a. («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»). La Uni En 1004 va utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 – «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni» che non è una “solo” norma sul manuale d’istruzioni, ma rappresenta il complemento alla Uni En 1004 in quanto fornisce informazioni non contenute nella stessa e che vanno oltre i normali contenuti del manuale di istruzioni. La Uni En 1004 e la Uni En 1298 sono oggetto di revisione da parte del Cen TC 53 WG4 «Torri mobili di accesso». Le bozze contengono modifiche significative.

La Uni En 131-7
La Uni En 131-7:2013 Scale – Parte 7 («Scale movibili con piattaforma» definisce i termini e specifica le caratteristiche generali di progettazione di questa particolare tipologia di scale. Si applica alle scale movibili con piattaforma di lavoro con area massima di 1 m2 e altezza massima della stessa di 5 m, da usare da parte di una persona alla volta. Il carico massimo ammesso sulla scala è di 150 kg che comprende un carico massimo combinato dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e del materiale.

Non si applica alle scale portatili, secondo la Uni En 131-1, alle scale portatili secondo la Uni En 131-4, alle scale portatili per servizi antincendio secondo la Uni En 1147, alle scale per sottotetto secondo la Uni En 14975, agli sgabelli a gradini secondo la Uni En 14183, alle scale, scale a castello e parapetti secondo la Uni En Iso 14122-3 e alle scale isolanti secondo la Uni En 50528. Questa tipologia di scale conosciuta anche come “scala a castello”, “scala cimiteriale” o “scala a palchetto” è utilizzata in molti ambiti per le specifiche caratteristiche costruttive.
A un tronco di salita, è provvista di piattaforma, guarda corpo e corrimano. La base è costruita per non permetterne il ribaltamento frontale e laterale, è dotata di due ruote fisse portanti per garantirne gli spostamenti e appoggia su quattro punti. Si tratta di attrezzature provvisionali di lavoro molto di use nel nostro paese. L’assenza di una standard specifico ha indotto Uni ad avviare uno progetto di norma dedicata.

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La formazione è un obbligo e deve essere verificata

Non è sufficiente trasferire al lavoratore conoscenze teoriche e pratiche: la sua preparazione deve, infatti, basarsi su un’attività meticolosa, specifica, concreta, applicata e sperimentata. Senza dimenticare l’affiancamento di personale più esperto in grado di verificare l’acquisita padronanza da parte dell’addetto delle operazioni che è chiamato a svolgere. Un principio, questo, da non trascurare. Obiettivo: garantire la più elevata sicurezza possibile

Sembrerebbe superfluo, oggi, ribadire, ancora una volta, l’importanza di un’adeguata formazione e informazione per ogni lavoratore che si accinga a intraprendere una nuova mansione, ma in realtà le molteplici situazioni e circostanze che si vengono a incontrare nell’ambiente lavorativo rendono ancora necessario richiamare i principi già espressi da una consolidata giurisprudenza in materia e aggiungere altre direttive che, sulla base di una specifica normativa, riescano a garantire sempre e comunque, la sicurezza di chi lavora.
La suprema Corte, in una recente pronuncia (Cass.pen. sez.IV, n. 54803, del 7 dicembre 2018) ha affermato questo principio,
sottolineando, appunto, l’importanza della formazione dei lavoratori e di quanto essa debba essere meticolosa, specifica e sempre più concreta, applicata e sperimentata.
Il legislatore non ha trascurato questo aspetto: il D.Lgs. n. 626 del 1994, agli articoli 37 e 38, aveva previsto una specifica disciplina che doveva rispondere all’esigenza di «informare, formare ed addestrare» il lavoratore, e questo argomento non è stato trascurato, successivamente, nel D.Lgs. n. 81 del 2008 il cui articolo 37 detta le regole per un’adeguata «formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti» su tutto ciò che concerne la prevenzione e la protezione della salute e della sicurezza dei dipendenti contro i rischi presenti nell’ambiente di lavoro. Ovviamente, come in tutti i casi, l’efficienza della disciplina dettata dal legislatore incontra e palesa i propri limiti nel momento in cui viene applicata alle esperienze concrete, soprattutto, le più delicate come questa in cui si tratta del “lavoro” che è il centro della quotidianità di tutti noi e della salvaguardia della salute e della vita umana. Passare dalla teoria alla pratica non è semplice, così come, nel caso specifico, fornire al lavoratore tutte le informazioni teoriche sulle mansioni che andrà a svolgere, rendendolo edotto sul corretto funzionamento di tutti i dispositivi che dovrà utilizzare e dei rischi a cui potrà andare incontro, potrebbe risultare non sufficiente se a tutto questo non si affianca un’adeguata preparazione pratica, un vero e proprio “addestramento” a opera di persone esperte, in grado di verificare, concretamente, la “acquisita padronanza”, da parte del lavoratore, delle operazioni da compiere.

Il fatto
Un lavoratore, intento a operare su una pressa di stampaggio a caldo per la produzione di piccoli pezzi metallici, denominati “gomiti”, aveva prelevato un pezzo incandescente dal nastro con le pinze, introducendo la mano sinistra sotto lo stampo e premendo inavvertitamente con il piede il comando a servizio della pressa, permettendo a questa di effettuare un altro ciclo di lavorazione mentre aveva ancora la mano sotto lo stampo, determinando così l’infortunio dal quale erano derivate le lesioni personali. Dall’istruttoria era emerso che la vittima era stata addetta alla pressa solo qualche giorno prima dell’infortunio, che era uno stampatore e non aveva alcuna competenza nello specifico settore; la formazione impartitagli era stata del tutto insufficiente, il corso generale sul funzionamento dei macchinari era durato solo quattro ore e l’addetto era stato avviato a lavorare sul macchinario in questione dopo appena due giorni, senza una previa verifica pratica e in assenza di un vero e proprio affiancamento e di una corretta supervisione. La datrice di lavoro era stata condannata in primo e in secondo grado, per il reato di cui all’articolo 590 del codice penale ai danni del proprio dipendente (per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia) e per la violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (articolo 37 del D.Lgs. n. 81 del 2008).

La legittimità
Il ricorso dell’imputata in questione ha fatto sì che il caso venisse sottoposto al giudizio della suprema Corte che ha, dunque,
ripercorso l’argomento focalizzando e sottolineando alcuni elementi determinanti
in materia. L’unico motivo di ricorso addotto dalla
difesa aveva evidenziato «l’interferenza della condotta della vittima sul nesso causale, che era stato ritenuto abnorme, in considerazione del fatto che il ciclo produttivo prevedeva espressamente che l’operatore non inserisse gli arti
nell’area di lavoro, avendo, inoltre, il dipendente, omesso di utilizzare i dispositivi di sicurezza forniti».
In realtà, il concetto di “abnormità” cui fa ricorso la difesa è molto più preciso e definito di quello che si possa pensare: non indica semplicemente una condotta che, per quanto imperita, imprudente e negligente, possa rientrare, comunque,
nelle mansioni assegnate, dal momento che «la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standard di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro».
L’ atto “abnorme” non consiste nel compimento da parte del lavoratore di un’operazione che, pure inutile e imprudente, non sia, però, eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo. Perché «la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio «contegno abnorme» del lavoratore medesimo, configurabile come un «fatto assolutamente eccezionale» e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (Cass. Pen. Sez. IV, n. 22249, del 14 marzo 2014).
Un “comportamento” di questo tipo è interruttivo, non perché eccezionale, ma perché “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Cass. Pen. sez.IV, n. 49821, del 2012).
In questo caso, e solo in questo caso, si è in presenza di una condotta imprevedibile e, quindi, ingovernabile da parte di chi riveste una posizione di garanzia come il datore di lavoro che è depositario di tutta una serie di obblighi finalizzati a garantire la formazione del lavoratore al fine di preservarne, appunto, la sicurezza.
Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Cass. Pen. sez.IV, n. 39765 del 2015).
Ecco perché addurre, a propria difesa, il fatto che il lavoratore sia stato munito degli opportuni dispositivi di sicurezza e che sia stato informato dei rischi connessi con l’attività che si accinge a svolgere non basta a giustificare l’estraneità del datore di lavoro all’accadimento da cui è derivato l’infortunio.
E tanto meno si può escludere la responsabilità del “garante della sicurezza” qualora risulti che il lavoratore avesse un proprio apprezzabile bagaglio di conoscenze in materia, derivato per e etto di una lunga esperienza operativa o per il travaso di conoscenze che, comunemente, si realizza nella collaborazione tra lavoratori.
L’apprendimento derivante dal vissuto del lavoratore medesimo, dalla condivisione delle esperienze e dalla prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e formazione prevista dalla legge (Cass. Pen. sez. IV, n. 21242, del 2014).

I quattro aspetti irrinunciabili
Tutte queste sfumature della motivazione addotta dall’imputata, nel caso di specie, sono state escluse dalla suprema Corte che ha tenuto a stigmatizzare come «l’obbligo di formazione non si esaurisce nel passaggio di conoscenze teoriche e pratiche al dipendente, dovendo il soggetto obbligato verificare anche che esse siano divenute patrimonio acquisito in concreto, ciò che solo una effettiva prova pratica, sotto la supervisione di un tutor può garantire».
Quattro sono, dunque, i punti cardine dell’adeguata preparazione del lavoratore all’approccio con una nuova mansione da svolgere:
• la formazione intesa come l’opportuna informazione su tutto ciò che riguarda l’attività da svolgere, i tempi e i modi per svolgerla, i rischi connessi a essa e l’uso appropriato dei mezzi di sicurezza e di protezione dati in dotazione per proteggersi e prevenire eventuali danni;
• la verifica intesa come la prova concreta che tutte le conoscenze trasmesse al lavoratore siano state acquisite al punto tale da renderlo edotto su tutti gli aspetti inerenti allo svolgimento della propria mansione e al funzionamento degli apparecchi necessari per lo svolgimento dell’attività;
• la prova pratica intesa come un vero e proprio “addestramento” da cui possa derivare la consapevolezza di ciò che si va a fare, dell’attività che si è chiamati a svolgere e della padronanza di tutte le tecniche necessarie per utilizzare, senza, rischi aggiuntivi, gli attrezzi, i macchinari ed i dispositivi che rientrano nello svolgimento della mansione;
• la supervisione di un tutor, cioè di una persona altamente esperta in materia, che si rende artefice di tutti i suddetti controlli e ne dà la garanzia, se tutto è avvenuto secondo quanto stabilito dalla legge per assicurare al massimo la sicurezza e, dunque, la tutela della salute del lavoratore.

Il punto
Senza alcun dubbio, dunque, questa pronuncia della Cassazione rappresenta un ulteriore passo avanti in materia di protezione e prevenzione nell’ambiente di lavoro.
Ci si allontana da un discorso puramente teorico per avviarsi a un processo di formazione del lavoratore sempre più pratico e concreto dove “l’informazione” rappresenta il primo passo di un progetto di “migliore consapevolezza” per realizzare un ambiente lavorativo il più sicuro possibile, dove si prende coscienza dei rischi esistenti e si cerca di controllarli e di gestirli
senza andare ad aggravare le situazioni con un comportamento “anomalo” e inappropriato che, come nel caso in esame, è derivato proprio dalla mancanza delle conoscenze teoriche e pratiche e della preparazione richiesta per lo svolgimento delle proprie mansioni.

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DPI: CHE COSA È CAMBIATO CON IL DECRETO PUBBLICATO SULLA GAZZETTA UFFICIALE N. 53 DELL’11 MARZO 2019

Dispositivi di protezione individuale: il D.Lgs. 17/2019 allinea l’Italia alle norme dell’Unione con un maggior onere pecuniario – e non solo – per gli eventuali illeciti. Si tratta di un intervento legislativo studiato per rendere organico il nostro ordinamento al regolamento in materia e già in vigore

Dopo una lunga attesa, anche l’Italia si allinea alle nuove disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, in materia di dispositivi di protezione individuali (Dpi). Con il D.Lgs. 19 febbraio 2019 (1), n. 17, infatti, il governo – dando attuazione alla delega contenuta nella legge 25 ottobre 2017, n. 163 – ha introdotto nel nostro ordinamento interno un nuovo regime che, secondo quantoriportato nel comunicato del consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio, ha l’obiettivo di semplificare e chiarire
il quadro esistente per l’immissione sul mercato di questi dispositivi, nonché di migliorare la trasparenza, l’efficacia e l’armonizzazione delle misure esistenti, realizzando il coordinamento con le disposizioni generali in materia di mercato, sicurezza e conformità dei prodotti.
Per comprendere l’e ettiva portata di questo nuovo importante provvedimento appare indispensabile ricordare preliminarmente che il regolamento n. 2016/425, conosciuto comunemente anche come “regolamento Dpi”, è lo strumento giuridico scelto dall’Unione europea per sanare, in primo luogo, il problema delle differenti normative nazionali dei singoli Paesi
membri che era sorto con la direttiva n. 89/686/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, ora abrogata; sono state, infatti, diverse le incongruenze registrate e si è posta, così, l’esigenza obiettiva di fare in modo che l’ambito di applicazione, i requisiti
essenziali di salute e di sicurezza e le procedure di valutazione della conformità fossero gli stessi in tutti gli Stati membri.
Com’è noto le direttive richiedono il recepimento attraverso specifici atti interni da parte dei singoli Stati e, proprio in questa fase, si generano normative nazionali che pur se di matrice europea in non pochi casi sono anche profondamente diverse l’una dall’altra: in questo senso l’esempio emblematico è la disciplina antinfortunistica in cui la direttiva 89/391/Cee del Consiglio, del 12 giugno 1989 (la cosiddetta “direttiva quadro”), mentre in Italia è stata applicata garantendo un livello di tutele ben superiore a quello minimo previsto daquesta direttiva in diversi altri Paesi, invece, ci si è limitati quasi alla mera riproduzione dei principi comunitari.
Attraverso il regolamento n. 2016/425, che com’è noto non richiede invece il recepimento interno, si è cercato, pertanto, di realizzare un vero mercato unico dei Dpi con requisiti identici, favorendo così anche la loro libera circolazione.
Al tempo stesso, però, era anche necessario da parte dell’Italia allineare la disciplina interna in materia in modo da renderla organica con il predetto regolamento Dpi e, per questo motivo, come vedremo con il D.Lgs. n. 17/2019, sono state apportate anche diverse modifiche sostanziali al D.Lgs. n.475/1992, e alcune più marginali, comunque importanti, al D.Lgs. n. 81/2008, tanto da dare vita a un nuovo regime applicativo che si potrebbe definire “Dpi 3.0”.

Ambito applicativo ed esclusioni
Concentrando ora l’attenzione sui profili più significativi del D.Lgs. n. 17/2019, da una sua prima lettura è possibile rilevare che l’art. 1, comma 1, lett. b), ha sostituito integralmente l’art. 1 del già citato D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo ora che le norme di questo decreto si applicano ai Dpi di cui all’art. 2 del regolamento n. 2016/425; per le definizioni occorre fare riferimento a quanto previsto dall’art. 3 di questo regolamento. Pertanto, rientrano nel nuovo regime i Dpi appartenenti alle tre categorie previste nell’allegato I del regolamento Dpi, progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza, i componenti intercambiabili dei Dpi essenziali per la loro funzione protettiva, nonché i sistemi di collegamento per i citati dispositivi «…che non sono tenuti o indossati da una persona, che sono progettati per collegare tali dispositivi a un dispositivo esterno o a un punto di ancoraggio sicuro, che non sono progettati per essere collegati in modo fisso e che non richiedono fissaggio prima dell’uso». Nel novellato art. 1 del D.Lgs. n. 475/1992 compare anche il richiamo all’allegato I che riportava l’elenco tassativo delle categorie Dpi escluse da questa disciplina, abrogato insieme agli allegati II, III, IV, V e VI del predetto decreto (vedere la tabella 3). Di conseguenza ora occorrerà fare riferimento a quanto stabilisce l’art. 2, comma 2, del regolamento n. 2016/425, che esclude dal suo campo diversi dispositivi di protezione sottoposti a regimi particolari: è il caso, ad esempio, di quelli da utilizzare esclusivamente su navi marittime.

Le tutele
È bene anche precisare che le nuove disposizioni si applicano ai Dpi che, secondo il citato regolamento n. 2016/425, sono «(…) nuovi sul mercato dell’Unione al momento di tale immissione sul mercato, vale a dire i Dpi nuovi di un fabbricante stabilito nell’Unione oppure i Dpi, nuovi o usati, importati da un Paese terzo”. Questi Dpi, quindi, anche se importati devono essere conformi ai nuovi requisiti per la progettazione e la fabbricazione, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori. Sotto questo profilo, quindi, la nuova disciplina appare, almeno potenzialmente, più efficace rispetto a quella previgente in termini di lotta all’ingresso nel mercato europeo di Dpi non rispondenti a questi requisiti o, peggio ancora, recanti la marcatura di conformità “Ce” posta in modo ingannevole. Di conseguenza il D.Lgs. n. 17/2019 non interessa solo i fabbricanti e i distributori, ma anche gli stessi datori di lavoro che grazie a questa nuova disciplina dovrebbero godere di maggiori tutele in fase di acquisto e d’impiego, nonché i lavoratori che potranno contare sui Dpi che dovrebbero assicurare maggiori garanzie in termini di e icacia della protezione dai rischi.

I requisiti essenziali
Il D.Lgs. n. 17/2019 ha profondamente novellato anche l’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo in materia di requisiti essenziali di sicurezza che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato solo se rispettano le indicazioni di cui agli articoli 4 e 5 del regolamento Dpi. Da notare, in particolare, che mentre l’art. 5 di questo regolamento rinvia a quanto stabilito dall’allegato II, che elenca numerosi requisiti inderogabili, invece l’art. 4 prevede che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato «(…) solo se, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni». In merito al concetto di «messa a disposizione sul mercato» l’art. 3, comma 1, n. 2, stabilisce che s’intende «la fornitura di Dpi per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito».
La portata della disposizione non appare, invero, del tutto chiara in quanto se è pacifico che sono attratti da questa disciplina
tutti gli operatori economici che professionalmente forniscono i dispositivi, anche senza il corrispettivo di un prezzo, è possibile rilevare anche alcune situazioni limite, ma non troppo. È il caso, ad esempio, di un’impresa che non commercia Dpi, ma avendo in magazzino dispositivi inutilizzati intende rivenderli; oppure si pensi a un committente che concede l’uso a titolo gratuito all’appaltatore Dpi acquistati dallo stesso. L’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, inoltre, nella nuova versione stabilisce anche che si considerano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza i Dpi muniti della marcatura Ce per i quali il fabbricante o il suo mandatario stabilito nel territorio dell’Unione sia in grado di presentare, a richiesta, la documentazione di cui all’art. 15 e all’allegato III del regolamento Dpi, nonché, relativamente ai dispositivi di seconda e terza categoria, la certificazione di cui agli allegati V, VI, VII e VIII sempre del già citato regolamento Dpi.

La procedura di valutazione della conformità
Inoltre, alcune modifiche sono state apportate anche all’art. 5 D.Lgs. n.475/1992, che disciplina la procedura di valutazione della conformità; in particolare il fabbricante è tenuto a eseguire, o far eseguire questa procedura di valutazione (cfr. art. 19) e a redigere la documentazione tecnica di cui all’allegato III, anche al fine di esibirla alle autorità di vigilanza per tutti i Dpi. Nella disciplina previgente, invece, era previsto che prima di procedere alla produzione di Dpi di seconda o di terza categoria, il fabbricante o il rappresentante stabilito nel territorio comunitario doveva chiedere il rilascio dell’attestato di certificazione Ce di cui all’art. 7.

Le modifiche al D.Lgs. n. 81/2008
Appaiono, invece, di minore impatto le modifiche apportate al D.Lgs. n. 81/2008, che, tutto sommato, si limitano solo ad aggiustamenti testuali; l’art. 2 del D.Lgs. n. 17/2019, infatti, ha armonizzato gli artt. 74 e 76 del cosiddetto testo unico della sicurezza sul lavoro con il predetto regolamento Dpi (vedere il testo aggiornato di questi articoli nel box 2). In particolare, nel novellato art. 76 è consacrato il principio in base al quale i Dpi devono essere conformi al regolamento (Ue) n. 2016/425; scompare, quindi, il richiamo del D.Lgs. n. 475/1992, ma resta fermo che i Dpi devono:

• essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;
• essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
• tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
• poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità.

Inoltre, in caso di rischi multipli che richiedono l’uso simultaneo di più Dpi, questi devono essere tra loro compatibili e tali da mantenere, anche nell’uso simultaneo, la propria efficacia nei confronti del rischio e dei rischi corrispondenti.

È necessario precisare che il D.Lgs. n. 17/2019 non modifica la disciplina sugli obblighi del datore di lavoro contenuta nell’art. 77 del D.Lgs. n. 81/2008; di conseguenza resta fermo il dovere di quest’ultimo di effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e d’individuare le caratteristiche dei Dpi necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi, tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi Dpi.

Le sanzioni
Accanto a queste modifiche il legislatore delegato è intervenuto molto energicamente anche sul regime sanzionatorio, operando un vero giro di vite che eleva le responsabilità di tutti gli operatori. Basti considerare, ad esempio, che il novellato art. 14 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilisce che il fabbricante che produce o mette a disposizione sul mercato Dpi non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi nonché l’importatore che immette sul mercato Dpi non conformi ai requisiti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 8 mila euro sino a 48 mila euro se si tratta di Dpi di prima categoria; addirittura se si tratta di Dpi di secondo o terza categoria sono previste sanzioni penali. Molteplici sanzioni sono previste anche per i distributori e per «chiunque» metta a disposizione sul mercato Dpi non conformi alle nuove disposizioni.

Lotta agli abusi
Inoltre, nel D.Lgs. n. 17/2019 è contenuta anche una norma che si potrebbe definire “antitruffa”; infatti, chiunque appone o fa apporre marcature, segni e iscrizioni che possono indurre in errore i terzi circa il significato o il simbolo grafico, o entrambi, della marcatura Ce ovvero ne limitano la visibilità e la leggibilità, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a 6 mila euro. I destinatari sono, pertanto, non solo i fabbricanti, ma anche gli importatori; ci si aspettava, però, un regime sanzionatorio più severo per questo illecito considerata la sua particolare gravità e l’esperienza maturata in questa anni dove non di grado sono stati messi in vendita a prezzi da discount da parte di alcuni operatori dispositivi recanti in modo ingannevole la marcatura Ce. Viene punito, inoltre, con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a sei mila euro chiunque promuove la pubblicità per Dpiu che non rispettano le prescrizioni del regolamento Dpi.

Il sistema di vigilanza
Accanto a queste modifiche si affiancano, poi, quelle introdotte dell’art.1, comma 1. lett. l), del D.Lgs. n. 17/2019, all’art.13 del D.Lgs. n. 475/1992, in materia di attività di vigilanza del mercato; le competenze restano ancora in capo al ministero dello Sviluppo economico e al ministero del Lavoro secondo quanto stabilito dal capo VI del regolamento Dpi, mentre le funzioni di controllo alle frontiere esterne sono svolte dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli conformemente agli artt. da 27 a 29 del regolamento (Ce) n. 765/2008. Nell’azione di controllo previsto anche il coinvolgimento delle Camere di commercio e dell’Ispettorato nazionale del lavoro; importante è sottolineare che la funzione di controllo è, in e etti, attribuita anche alle Asl e agli altri organi ai quali sono attribuiti compiti ispettivi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, qualora accertino che un Dpi non rispetta i requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi, sono tenuti a rendere informativa ai citati ministeri ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

La sanatoria degli illeciti Sempre in materia di sanzioni deve essere anche rilevato che il legislatore ha previsto anche la possibilità per il trasgressore di sanare gli illeciti penali; infatti, alle contravvenzioni previste dall’art. 14 del
D.Lgs. n. 475/1992, per le quali sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda,
si applica l’istituto della prescrizione in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 20 e seguenti del D.Lgs.
n.758/1994. Pertanto, ottemperando a quanto previsto dall’organo di vigilandi trenta giorni un importo pari a un quarto del massimo previsto per l’ammenda il reato commesso si estingue. Per quanto, invece, riguarda gli illeciti amministrativi la stessa disposizione esclude espressamente la possibilità di ricorrere alla cosiddetta regolarizzazione di cui al 301-bis del D.Lgs. n. 81/2008; bisogna, comunque, tener presente che alle sanzioni amministrative irrogate dalla Camera di commercio territorialmente competente, si applicano per quanto compatibili le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.

Continuità e abrogazione del D.Lgs. n. 10/1997
Resta, infine, solo da osservare che l’art. 3 del D.Lgs. n. 17/2019, stabilisce che nelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in vigore, tutti i riferimenti alla direttiva 89/686/Cee, come accennato abrogata dal regolamento (Ue) n. 2016/425, si intendono fatti a quest’ultimo e sono letti secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato X al regolamento stesso; inoltre, è abrogato il D.Lgs. 2 gennaio 1997, n. 10, superato ormai da queste nuove disposizioni.

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Autorizzazione unica ambientale: richiesta e modifica

Di cosa si tratta

L’autorizzazione unica ambientale (Au-a) è un provvedimento abilitativo istituito con D.P.R. 29 maggio 2013, n. 591 al fine di semplificare gli adempimenti autorizzativi per le imprese. L’Aua, infatti, costituisce un “contenitore” all’interno del quale so-no confluite più autorizzazioni e comunicazioni ambientali che, in precedenza, dove-vano essere richieste singolarmente. Sono sette le categorie di autorizzazioni sostituite dall’Aua. Il gestore di un impianto deve oggi richiedere questa “nuova” autorizzazione per ottenere anche solo una delle “vecchie”.
Relativamente al momento dal quale diventa obbligatorio il regime Aua, è necessario fare una precisazione. Se l’obbligatorietà di questo regime inizia chiaramente a decorrere dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 59/2013, tuttavia per le attività già avviate prima dell’introduzione della disciplina Aua, «l’autorizzazione unica ambientale può essere richiesta alla scadenza del primo titolo abilitativo da essa sostituito», così come disposto dall’art. 10, comma 2, D.P.R. n. 59/2013. Con la circolare del ministero dell’Ambiente 7 novembre 2013, n. 00498013 è stato successivamente chiarito che, con questa indicazione, il Legislatore non ha inteso rendere facoltativo il regime Aua, bensì solo posticipare l’obbligo per il gestore di presentare domanda di Aua alla scadenza del primo titolo abilitativo sostituito dalla stessa. Nella medesima circolare si è, inoltre, chiarito che il gestore non debba attendere la scadenza del titolo sostituito, ma presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito (ad esempio, in materia di scarichi l’art. 124, D.L-gs. n. 152/2006, prevede che il rinnovo sia chiesto un anno prima della scadenza). Ciò al fine di poter continuare l’attività anche in caso di mancata risposta, nei termini di legge, sulla richiesta di primo rilascio dell’Aua.

Chi può richiederla
L’art. 1, D.P.R. n. 59/2013, al momento di determinare l’ambito di applicazione della disciplina Aua, fa esplicito riferimento alle sole piccole e medie imprese (Pmi), come individuate dal D.M. 18 aprile 2005. Tutta-via, con la circolare del ministero dell’Am-biente 7 novembre 2013, n. 0049801 sopra citata, il dicastero ha precisato che questa disciplina trova, in realtà, applicazione anche nei confronti delle grandi imprese, qualora non soggette ad autorizzazione in-tegrata ambientale. In altre parole, l’ambito di applicazione della disciplina Aua è determinabile per sottrazione, nel senso che ne sono esclusi solo:
• gli impianti soggetti ad Aia;
• i progetti che siano già sottoposti a valutazione di impatto ambientale, laddove la normativa statale o regionale preveda che la stessa Via comprenda e sostituisca tutti gli atti di assenso in mate-ria ambientale. In soli due casi la richiesta di Aua è facoltativa:
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette a sole comunicazioni;
• quando le attività svolte nell’impianto sono soggette solo all’autorizzazione generale di cui all’art. 272, D.Lgs. n. 152/20064.In questi casi, il gestore può optare tra il “vecchio” regime autorizzativo e l’Aua.
Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’Aua ad altri provvedimenti autorizzativi; è stato, tuttavia, chiarito in linee guida dedicate5 che il D.P.R. n. 59/2013 non dovrebbe trovare applicazione per quei procedimenti che già si caratterizzano per l’“unicità”, tra i quali, ad esempio, l’autorizzazione unica per impianti di gestione rifiuti (art. 208, D.Lgs. n. 152/2006).

Contenuto, durata e costi
Entrando nel merito dei contenuti del provvedimento, il D.P.R. n. 59/2013 rimanda alle discipline di settore, disponendo che «l’autorizzazione unica ambientale contiene tutti gli elementi previsti dalle normative di settore per le autorizzazioni e gli altri at-ti che sostituisce» (art. 3, comma 5).
In altre parole il D.P.R. ribadisce come l’Aua sia solamente un provvedimento “contenitore” che sostituisce formalmente le singole autorizzazioni e comunicazioni, ma che, dal punto di vista sostanziale, continuano a trovare applicazione le discipline settoriali, anche sul piano sanzionatorio. Ai sensi dell’art. 3, l’autorizzazione deve poi definire «le modalità per lo svolgimento delle attività di autocontrollo, ove previste, individuate dall’Autorità competente, tenendo conto della dimensione dell’impresa e del settore di attività». Ad esempio, i gesto-ri degli impianti autorizzati in Aua che possiedono scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006) so-no chiamati a presentare, sempre ai sensi dell’art. 3, comma 5, D.P.R. n. 59/2013, una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo all’autorità competente, con cadenza quadriennale.

L’autorità può, quindi, procedere all’aggiornamento/modifica dell’autorizzazione stessa qualora alla comunicazione emerga che l’inquina-mento provocato dall’attività e dall’impianto è tale da renderlo necessario, senza che ciò modifichi la durata dell’autorizzazione.Venendo alla durata, l’autorizzazione unica ambientale ha validità di quindici anni a decorrere dalla data del rilascio. Questa scadenza sostituisce quelle diverse pre-viste dalle discipline settoriali delle singole ipotesi autorizzatorie confluite nell’Aua. Decorsi i quindici anni, l’autorizzazione può essere rinnovata presentando, almeno sei mesi prima della scadenza, apposita istanza contenente la documentazione aggiornata (con la possibilità di limitarsi a richiamare quanto già in possesso dell’autorità, se le informazioni non sono variate nel tempo). Presentata l’istanza di rinnovo nei termini, fatta salva diversa previsione contenuta nel-la specifica normativa di settore, l’impianto potrà continuare a operare sino all’ottenimento del relativo provvedimento. Come già per l’Aia, peraltro, anche il D.P.R. n. 59/2013 dispone che l’autorità competente possa imporre al gestore una revisione dell’Aua prima della scadenza quando:
• le prescrizioni stabilite nella stessa impediscono o pregiudicano il conseguimento degli obiettivi di qualità ambientale stabiliti dagli strumenti di pianificazione e programmazione di settore;
• nuove disposizioni legislative comunitarie, statali o regionali lo esigono.Infine, con riferimento ai costi della stessa, il soggetto richiedente sostiene le spese e i costi dei diritti connessi ai provvedimenti racchiusi nell’autorizzazione unica ambientale.
Possono essere previsti ulteriori oneri istruttori, ma la somma dei costi non può superare quanto complessivamente si pagava prima dell’avvento dell’Aua per i singoli titoli abilitativi da essa sostituiti.

Presentazione della domanda di Aua

Il modello
In linea con quanto sopra illustrato, la stessa domanda per ottenere il provvedimento autorizzativo deve contenere tutte le infor-mazioni richieste dalle relative discipline di settore. A questo fine, come richiesto dall’art. 10, comma 3, D.P.R. n. 59/2013, con D.P.C.M. 8 maggio 2015 è stato predisposto un modello unico nazionale ad hoc al quale le regioni hanno dovuto adeguarsi. Si tratta di un modulo funzionale, appunto, a uniformare i modelli già utilizzati dalle diver-se amministrazioni regionali e a sostituire i sette moduli, relativi alle altrettante autorizzazioni rimpiazzate dall’Aua, con un unico modello più snello, chiaro e intuitivo da presentare attraverso i sistemi telematici.
Il modello si compone di una parte generale e di otto schede da allegare all’istanza, relative alle diverse autorizzazioni sostituite dall’Aua per le quali si fa richiesta. Non è, invece, necessario allegare queste schede qualora le condizioni di esercizio dell’impianto non siano mutate rispetto al precedente titolo autorizzativo, essendo in tal caso sufficiente predisporre una dichiarazione di invarianza. È di fondamentale importanza – per le imprese e, soprattutto, per chi materialmente sottoscrive la domanda di autorizzazione unica ambientale – tener conto che queste dichiarazioni hanno valore di “autocertificazione” ai sensi degli artt. 46 e 47, D.P.R. n. 445/2000. Di conseguenza, un’eventuale dichiarazione non veritiera può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha e ettuato tale “autocertificazione”.Si rileva, inoltre, che, ove espressamente in-dicato nel modello, le sezioni da compilare e le informazioni da inserire possono variare sulla base delle specifiche discipline regionali, conformemente alla possibilità data alle Regioni di estendere l’ambito di appli-cazione dell’Aua ad altri titoli autorizzativi o comunicazioni. Si segnala, infine, che, a pagina 41 del modello unificato, é riepilogata la documentazione da accludere a cia-scuna delle schede tecniche previste, a cui si rimanda per i contenuti di dettaglio. Solo con riferimento ad alcune schede tecniche sono proposti degli schemi per la predisposizione della relazione tecnica.

La procedura
Quanto alla procedura da seguire, la domanda deve essere presentata per via telematica al Suap (sportello unico attività produttive) del Comune ove si trova l’impianto.
Il Suap ne cura poi la trasmissione, sempre per via telematica, all’autorità competente – ovvero la provincia, salvo che la disciplina regionale attribuisca competenza a una diversa autorità – che gestisce la fase di autorizzazione, adottando il provvedimento finale e trasmettendolo al Suap che poi rilascia il titolo. Allo sportello unico è, quindi, attribuito un importante ruolo di coordinamento; è, pertanto, fondamentale che l’attività dello stesso sia svolta tempestivamente, in quanto i termini procedimentali decorrono dalla domanda presentata dall’istante indipendentemente da eventuali ritardi del Suap nella trasmissione della documentazione agli altri enti.
Il procedimento è diversificato in funzione della durata dei procedimenti per il rilascio dei provvedimenti sostituiti (inferiore o superiore a 90 giorni) nonché in funzione della necessità di acquisire o meno altri titoli abilitativi oltre all’autorizzazione unica ambientale (laddove sia necessario acquisire diversi titoli abilitativi, il ruolo del Suap diviene più rilevante). La disciplina del procedimento è scandita dai commi 4 e 5 dell’arti-colo 4, D.P.R. n. 59/2013, recentemente modificati dal D.Lgs. n. 127/2016, che ha ampliato i casi di obbligatoria indizione della conferenza di servizi7. Quanto, infine, alle eventuali modifiche previste per l’impianto nel regime di validità dell’Aua, la disciplina dettata dall’art. 6, D.P.R. n. 59/2013, ricalca in larga parte quella propria dell’A-ia ed è illustrata nella figura 5. Alle autorità competenti è poi lasciata la possibilità di definire, nel rispetto delle norme di settore vigenti, ulteriori criteri per la qualificazione delle modifiche sostanziali e indi-care modifiche non sostanziali per le quali non vi è nemmeno l’obbligo di effettuare la comunicazione.

Consigli finali per le aziendeIn definitiva, l’azienda che voglia presentare domanda di Aua deve:
• prepararsi per tempo, ovvero non attendere la scadenza del titolo sostituito, bensì presentare la prima istanza di Aua nel termine preventivo eventualmente previsto per il rinnovo del provvedimento autorizzativo esistente e sostituito;
• qualora sia in possesso di scarichi contenenti sostanze pericolose (ex art. 108, D.Lgs. n. 152/2006), provvedere con cadenza quadriennale alla presentazione all’autorità competente di una comunicazione contenente gli esiti delle attività di autocontrollo;
• compilare attentamente la stessa consapevoli che, in caso di predisposizione di una dichiarazione di invarianza, l’eventuale non veridicità della stessa può comportare l’applicazione di una sanzione penale nei confronti di colui che ha effettuato questa “autocertificazione”;
• successivamente alla presentazione del-la prima domanda di Aua, quando altre autorizzazioni sostituite dall’Aua giungo-no in scadenza, far confluire le stesse in Aua (ricordandosi sempre di presentare la domanda nel termine preventivo di cui al primo punto).

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Acque reflue industriali: le caratteristiche base

Non devono mancare determinati requisiti di “natura” e di “gestione”

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale,9 novembre 2018, n. 51006, pur escludendola gestione non a norma e l’abbandono di rifiuti,ha comunque condannato un titolare di un’impresa agricola per il reato di cui all’articolo 137,D.Lgs. n. 152/2006 (scarichi illeciti). E nel farlo,si è pronunciata da una prospettiva diversa rispetto a precedenti orientamenti, su un elemento indicato come potenzialmente discriminante. Vediamo quale

La corte di Cassazione è stata chiamata, ancora una volta, a doversi esprimere relativamente a un caso in cui si pone la necessità di dover «distinguere tra scarichi e rifiuti», ovvero quando le acque reflue siano da fare rientrare in una tipologia piuttosto che nell’altra, con la conseguente applicazione della relativa disciplina. Nel caso specifico, la Corte ha definito scarichi industriali, oltre i reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti dove si svolgono attività artigianali e di prestazione di servizi, qualora le caratteristiche qualitative di questi siano diverse da quelle delle acque domestiche. La conclusione, però, è stata che, anche qualora si possa essere in presenza di scarichi di acque reflue, con la conseguente applicazione della relativa disciplina e sottrazione dall’ambito dei rifiuti, non devono mancare determinati requisiti e caratteristiche di “natura” e di “gestione” dello scarico.

Fatto
La vicenda in esame ha portato la suprema Corte a esprimersi e a ribadire le proprie posizioni su determinate questioni su cui, negli anni, si è andata consolidando una specifica giurisprudenza. Il titolare di un’azienda agricola era stato dichiarato, in primo e in secondo grado, colpevole del reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. 152/2006, per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini. L’imputato, nel proporre ricorso in Cassazione, avverso la pronuncia dei giudici dell’appello, ha addotto l’insussistenza del reato di cui sopra a causa della mancanza di un siste-ma stabile di collettamento da cui sarebbe derivato il carattere occasionale dell’operazione; oltre al fatto che sarebbe stata incerta anche la qualificazione delle acque provenienti dal lavaggio del capannone come “industriali”, potendo contenere, a giudizio del ricorrente, al massimo residui di materia organica e non certo sostanze chimiche che potessero connotare la pericolosità delle acque reflue.

La sentenza della suprema Corte

Acque reflue industriali: dalla definizione…
Al contrario, come accennato in precedenza, la Corte non ha avuto dubbi nel qualificare come “acque reflue industriali” quelle provenienti e scaricate dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, facendo opportuno riferimento a precedenti pronunce secondo cui «nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive». In questa accezione, inoltre, devono ricomprendersi «tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, e che non si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali inquinanti on connessi con le attività esercitate nello stabilimento» (Cassazione penale, sez. III, 5 febbraio 2009, n.12865). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2015, n. 3199).

…alla qualificazione come scarichi
Una volta assodato il fatto che nella nozione di acque reflue industrialirientrano anche quelle provenienti – come nel caso di specie – dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, la questione è stata incentrata sulla qualificazione di queste acque reflue come “scarichi”. L’imputato aveva addotto, in propria difesa, l’occasionalità delle immissioni di cui, facendo riferimento alle fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo, non esisteva una prova chiara. Il suddetto motivo di impugnazione, però, non ha convinto i giudici della suprema Corte che hanno confermato la colpevolezza dell’imputato per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006 e hanno colto l’occasione per confermare l’orientamento espresso in materia. In particolare, facendo riferimento a una precedente pronuncia, i giudici hanno ribadito che «non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando, invece, ai fini della sua configurabilità, l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo», di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo» (sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45634).

Il nesso funzionale e diretto

Quando esclude una disciplina…
Un altro aspetto sottolineato dai giudici della suprema Corte al fine della configurabilità del reato in questione è l’esistenza di «uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo». In una recente sentenza, la Corte ha definito la sottile distinzione tra i casi in cui le acque reflue devono essere considerate “scarichi” o “rifiuti”.
Sulla base di quanto afferma l’articolo 74, D.Lgs. n. 152/2006, per scarico deve intendersi «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo acque superficiali» da cui ne consegue che «in tutti i casi in cui non sussista un nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore debba applicarsi la disciplina sui rifiuti, che secondo l’articolo 185 del D.Lgs. n. 152/2006, opera anche in relazione alle acque di scarico». La pronuncia ha affermato che «in caso di raccolta di reflui in vasche, con successivo sversamento in un terreno e ruscellamento in un torrente, non potesse trovare applicazione la disciplina sugli scarichi, non potendo il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale essere considerato diretto e non essendo lo stesso attuato senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento» (Cassazione pena-le, sez. III, n. 38848/2017). In questo caso, dunque, l’imputato, che svolgeva attività di pulitura e confezionamento di ortaggi e raccoglieva le acque reflue derivanti in vasche senza autorizzazione, era stato stato condannato per gestione illecita e abbandono di rifiuti ex articoli 192, 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006.

… e quando ne ammette un’altra
Diverso è apparso il caso in esame nel quale, come sopra accennato, i giudici hanno confermato la colpevolezza del titolare dell’azienda agricola per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006, avendo effettuato scarichi di acque reflue industriali, derivanti dalle operazioni di lavaggio dei capannoni. Nella fattispecie, come in altri casi citati, è stata messa in evidenza l’esistenza del «nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore» che la Corte aveva sempre sottolineato come l’elemento che, qualora assente, avrebbe determinato l’applicazione della disciplina sui rifiuti (articolo 185, D.Lgs.152/2006) anche in relazione alle acque di scarico; in questo caso, però, lo stesso elemento è stato posto in senso positivo, non più a escludere, ma ad ammettere l’applicazione della disciplina sugli scarichi. La configurabilità del reato di cui all’articolo 137 citato, nel caso di specie, è derivata proprio dalla constatazione dell’esistenza di uno «stabile sistema di collettamento che univa il ciclo produttore del refluo con il suolo», costituito dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta.

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Luoghi confinati una trappola da evitare

La corretta valutazione del rischio per affrontare una delle situazioni più pericolose

Una problematica già affrontata a partire dalla legislazione prevenzionistica degli anni ‘50 che, per essere efficacemente risolta, necessita di un Dvr a maglie molto strette. L’obiettivo? Non lasciare nulla al caso. Ma in quale modo deve essere svolta l’analisi dei differenti contesti al fine di individuare modalità utili a salvaguardare la salute (e la vita) degli operatori impegnati in questo tipo di ambienti? Ecco alcune proposte operative

La valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce un obbligo non delegabile del datore di lavoro, il quale deve assolvere a questo compito – non delegabile – con l’eventuale ausilio del Rspp. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura altamente specialistica che, appunto, coadiuva il datore e controfirma il documento di valutazione di cui all’articolo 17 del D.Lgs. n. 81/2008, unitamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e dell’eventuale medico competente (quando necessario).
Il comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione «deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori», anche non ricompresi in quelli tutelati dai titoli del decreto successivi al primo; mentre il comma 2 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione debba riguardare:
• tutte le attività che vengono svolte;
• tutti i pericoli presenti nelle attività svolte;
• la valutazione del rischio di questi pericoli;
• le modalità di trattamento di tutti i rischi di questi pericoli;
• le modalità di controllo periodico di queste modalità di trattamento per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
• le modalità procedurali per la attuazione delle modalità di trattamento necessarie per esecuzione delle suddette attività.

Ovviamente l’obiettivo del Dvr di cui all’articolo 17 consiste nel consentire al datore di lavoro di prendere tutte le iniziative effettivamente necessarie a salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Il quadro in sintesi
La problematica dei “luoghi di lavoro confinati” fu già individuata dalla legislazione degli anni ’50: con:
• D.P.R. n. 547/1955 (art. 235, «Aperture di entrata nei recipienti», art. 236, «Lavori entro tubazione, canalizzazioni, recipienti e simili nei quali possono esservi gas e vapori tossici od asfissianti», art. 237, «Lavori entro tubazioni, canalizzazioni e simili nei quali possono esservi polveri infiammabili ed esplosivi»);
• D.P.R. n. 303/1956 (art. 25, «Lavori in ambienti di sospetto inquinamento»);
• D.P.R. n. 164/ 1956 (art. 15, «Presenza di gas negli scavi»).
Il D.Lgs n. 81/2008 tratta l’argomento degli ambienti sospetti di inquinamento o confinanti solo negli articoli 66 e 121, e nel capitolo 3 dell’allegato IV i quali si fermano a una scarna elencazione prescrittiva di regole da rispettare, mutuata dagli articoli 235, 236, 237, 244, 245, 246 247, 353, 354, 355 del vecchio D.P.R. 547/1955.Nel 2011 è stato emanato il D.P.R. n. 177 del 14 settembre 2011, il quale consta di soli quattro articoli, con lo scopo di regolamentare la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, che al comma 1 lettera a) dell’arti-colo 2 recita:«1.
Qualsiasi attività lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati può essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti: a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze». Si tratta dell’unico punto della legislazione italiana in materia di ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, in cui si fa riferimento al termine “valutazione dei rischi”. Inoltre, per quanto concerne i “luoghi confinati”, il D.P.R n. 177/2011 si limita a una genericissima previsione di una ipotetica valutazione dei rischi nella tipologia specifica, senza darne i requisiti minimi. Per la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza nelle attività lavorative, innanzi tutto risulta utile una indagine su numero e tipo di infortuni registrati all’Inail, nonché dalla eventuale registrazione di raccolta dati interna degli infortuni che hanno provocato solo una medicazione senza l’allontanamento dal lavoro dell’infortunato, nonché di incidenti non trasformatisi in infortunio, i cosiddetti “quasi infortuni” (near-miss) e “mancati infortuni” (near-hit). I rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro possono essere suddivisi in:
• rischi organizzativi (connessi alla necessità di conformità legislativa generica, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni adempimento necessario previsto dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro);
• rischi infrastrutturali (connessi alla necessità di conformità legislativa delle infrastrutture, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni necessità prevista dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato IV del D.Lgs.n. 81/2008);
• rischi logistici (connessi alla mancata conformità legislativa delle attrezzature individuando, per ogni attrezzatura, ogni necessità prevista dalla legislazio-ne vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato V del D.L-gs.n.81/2008);
• rischi lavorativi “generici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni);
• rischi lavorativi “specifici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni, ma per i quali esiste uno specifico riferimento legislativo da rispettare per la conduzione della valutazione dei rischi);
Le prime tre tipologie di rischi dovrebbero essere trattate con l’obiettivo di eliminare ogni non conformità legislativa, rilevata a seguito dei controlli, che verranno previsti nel seguito del documento di valutazione stesso.
La quarta tipologia di rischi deve essere trattata, con la applicazione di misure di prevenzione e protezione di vario tipo: comportamenti, dotazioni, sorveglianza sanitaria, procedure, informazione, formazione e addestramento, manutenzione, monitoraggio ecc.

Come fare
Viene definito dalle linee guida Inail «luogo di lavoro confinato» uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture di accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può accadere un incidente importante che può portare a un infortunio grave o mortale, in presenza di agenti chimici pericolosi (per esempio, gas, vapori, polveri).
Un’altra definizione, più schematica, viene introdotta dalla normativa americana Osha 1910.146, «Permit required confined spaces», che ha definito luogo (o spazio) di lavoro confinato come quello spazio che presenta tre caratteristiche:
• abbastanza grande e configurato in modo tale che un lavoratore possa accedervi interamente ed eseguire il lavoro assegnato;
• limitata o ristretta apertura per l’accesso o l’uscita;
• non progettato per un’attività lavorativa continua.

Genericamente, ma non esaustivamente, le caratteristiche di un «luogo confinato» sono:
• difficoltà di accesso tramite aperture di ingresso/uscita (passi d’uomo, pozzetti d’ispezione, boccaporti) dalle dimensioni ridotte e dall’ubicazione ergonomicamente disagevole;
• dimensioni fisiche spesso limitate;
• condizioni di ventilazione sfavorevoli (ricambi d’aria limitati, insufficienti o del tutto assenti; possibilità di ristagno, formazione o adduzione di inquinanti);
• illuminazione scarsa o assente;
• microclima e altre caratteristiche ergonomiche sfavorevoli;
• difficoltà di comunicazione ordinaria e in emergenza.

Per quanto riguarda l’accesso, è possibile desumere dalla norma Uni En 547-3:2009 «Sicurezza del macchinario – Misure del corpo umano- parte 3 – Dati antropometrici» la quale specifica i dati antropometrici, richiesti dalla Uni En 547-1 e dalla Uni En 547-2 per calcolare le dimensioni delle aperture di accesso utilizzate nel macchinario: una persona adulta occupa mediamente lo spazio di una elisse avente asse maggiore di 60 cm e asse minore di 45 cm. Queste dimensioni vanno aumentate qualora si preveda di utilizzare bombole o Dpi che aumentino gli ingombri. All’interno degli «luoghi confinati» si registra tragicamente un elevato numero di infortuni mortali, con varie cause.

Le fasi per la conduzione di una sistematica valutazione dei rischi nei luoghi confinati dovrebbero essere strutturate nel seguente modo:
• individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale;
• individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle competenze del personale che può accedere in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di prevenzione e di protezione adatte, in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato individuato.

La locuzione «ogni luogo confinato individuato» è stata volutamente ripetuta per sottolineare la forte necessita di effettuare una valutazione specifica per ogni fatti-specie di accesso in luogo confinato individuato e non già una semplice generica, quanto sommaria, valutazione dei rischi disconnessa dalla reale situazione, che in genere risulta variabile non solo nello spazio geometrico, ma anche nel tempo: in questo modo risulta più possibile la risoluzione del problema dell’obbligo del committente di cui all’art.3, comma 1 del D.P.R. 177/2011, che così recita: «Prima dell’accesso nei luoghi nei quali devono svolgersi le attività lavorative di cui all’articolo 1, comma 2, tutti i lavoratori impiegati dalla impresa appaltatrice, compreso il datore di lavoro ove impiegato nelle medesime attività, o i lavoratori autonomi devono essere puntualmente e dettagliatamente informati dal datore di lavoro committente sulle caratteristiche dei luoghi in cui sono chiamati a operare, su tutti i rischi esistenti negli ambienti, ivi compresi quelli derivanti dai precedenti utilizzi degli ambienti di lavoro, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività. L’attività di cui al precedente periodo va realizzata in un tempo sufficiente e adeguato all’effettivo completamento del trasferimento delle informazioni e, comunque, non inferiore ad un giorno».È appena il caso di rilevare che, abitualmente, questo obbligo di “informazione” viene assolto in maniera del tutto generica e sommaria da parte del committente, fino a essere addirittura totalmente ignorato (e in tal caso andando a ricadere nel-lo stesso errore, che ha quasi sempre determinato la mole di infortuni mortali negli anni passati).

Individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale
Il Rspp, accompagnato dal datore di la-voro o dal suo incaricato, deve eseguire un accurato sopralluogo dei luoghi di la-voro, al fine di individuare aree definibili come «luoghi confinati» e di individuare per ognuno di quelli individuati tali tutte le attività che sono state svolte in passato e quelle attuali. In occasione dello stesso sopralluogo l’Rspp dovrebbe indagare presso il personale operativo più anziano, con lo scopo di individuare l’elenco di altre attività non riscontrate allo stato attuale (attività poco frequenti e/o attività svolte solo dal personale esterno). Dopo l’individuazione, ogni accesso al luogo confinato dovrebbe essere identificato, tramite l’apposizione di una cartellinistica monitoria, conforme alla norma tecnica Uni En Iso 7010:2012, che limiti l’accesso al-le sole persone autorizzate, riportandolo su una planimetria.

Individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato

In occasione dello stesso sopralluogo, do-vrebbe essere presa ogni possibile informa-zione sulle dimensioni geometriche di ogni luogo confinato individuato, richiedendo una planimetria dell’interno di ogni luogo confinato e rappresentando tutti i dati relativi.

Individuazione delle competenze e specializzazioni del personale che può accedere in ogni luogo confinato
Successivamente, devono essere definite le informazioni.

Individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato
Quindi, in relazione alle attività lavorative da eseguire all’interno del luogo di lavoro confinato, si deve passare all’individuazione dei potenziali pericoli specifici del luogo di lavoro, quali: asfissia (anche meccanica) o intossicazione dovuta a esalazioni di sostanze tossiche o nocive o alla presenza di materiale, intrappolamento, eventuale presenza di elementi meccanici pericolosi, folgorazione, caduta dall’alto ecc., ai quali vanno a sommarsi i rischi propri delle attività lavorative previste.
Per ciascuno dei rischi specifici individuati si deve assegnare alla “gravità del pericolo” (G) un valore da 1 a 3 e alla probabilità di accadimento del pericolo (P) un valore da 1 a 4, elaborando una tabella.
La norma tecnica Uni 10449:2008 stabilisce i casi in cui deve essere predisposto un “Permesso di lavoro” :
• lavoro con divieto d’uso di fiamma o scintilla;
• lavoro implicante l’uso di fiamma – sorgente di calore – gas – liquidi o materiali infiammabili;
• lavoro di scavo;
• lavoro su circuiti e apparecchiature elettriche;
• lavoro negli spazi confinati

Individuazione delle misure di prevenzione e di protezione da adottare in ogni luogo confinato
Successivamente, in relazione ai rischi specifici presenti nel luogo di lavoro confinato, deve essere elaborata una tabella.

Individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato
L’individuazione delle misure di controllo e monitoraggio per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza viene definito in una tabella nella quale viene anche la periodicità dei controlli e dei monitoraggi individuati. Sulla base della precedente valutazione, per ogni punto di accesso deve essere elaborata una procedura di accesso e permanenza nel luogo confinato per poter eseguire le lavorazioni previste durante l’accesso in maniera sicura.

Procedura generale di valutazione e gestione dei rischi:
• valutazione dei rischi in ambienti confinati;
• principi generali per la corretta gestione dei rischi;
• modalità di esecuzione del lavoro

Sistemi e procedure di lavoro sicuri:
• nomina di un supervisore dei lavori e organizzazione con “permessi di lavoro”;
• impiego di operatori idonei al tipo di lavoro;
• localizzazione ed estensione del rischio;
• isolamento dell’ambiente confinato rispetto ad altri ambienti pericolosi;
• verifica dell’idoneità delle vie di accesso/uscita;
• ventilazione dell’ambiente;
• verifica dell’aria contenuta nell’ambiente confinato;
• risanamento/bonifica atmosfera dell’ambiente confinato;
• gestione dell’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi non eliminabili;
• utilizzo di autorespiratori;
• utilizzo di altri Dpi necessari;
• utilizzo di attrezzature di lavoro adegua-te alla specifica situazione e di attrezzature speciali;
• illuminazione;
• sistema di comunicazione;
• controllo e allarme;
• istruzioni di emergenza;
• modalità di accesso all’ambiente confinato;previsione e gestione delle emergenze.

Procedure di emergenza:
• idoneità degli addetti al soccorso;
• comunicazioni.

Equipaggiamenti di soccorso e rianimazione:
• servizio di pubblico soccorso;
• classificazione di pericolosità di ambienti confinati e relative procedure;
• procedura per zone a minimo rischio;
• procedura per zone a elevato rischio.

Gestione degli appalti
Nel caso in cui le lavorazioni previste vengano appaltate a fornitori, ai sensi dell’articolo 3 del D.P.R. n. 177/2011, deve essere loro fornita la valutazione dei rischi relativa al punto di accesso del luogo confinato, in cui deve svolgere le attività in appalto, fermo restando la necessita del preventivo controllo dei requisiti e delle capacità tecniche del fornitore:
• idoneità tecnico professionale;
esperienza attività in spazi confinati (il 30% della forza lavoro deve avere esperienza almeno triennale);
• informazione e formazione sui rischi legati all’attività in spazi confinati (compreso il datore di lavoro nel caso svol-gesse l’attività);
• addestramento per l’uso delle attrezzature utili all’accesso (imbracatura, apparecchi per la protezione delle vie respiratorie Apvr ecc.) secondi il tipo di rischio presente.
Edwards William Deming, il padre della qualità, a chi diceva «abbiamo fatto sempre così», rispondeva che era arrivata l’ora di cambiare.

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FORMAZIONE 4.0: prorogato il credito d’imposta

La legge di bilancio proroga il credito d’imposta per incentivare gli investimenti in formazione del personale dipendente nel settore delle tecnologie abilitanti condivise attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali. Il percorso formativo deve esclusivamente riguardare quelle attività svolte per acquisire o consolidare le conoscenze previste dal piano nazionale impresa 4.0.

Si proroga per tutto il 2019 l’applicazione del credito d’imposta formazione 4.0

Attivata nel 2017 e avviata con Decreto attuativo a maggio 2018, il credito di imposta per la formazione 4.0, è una misura fondamentale per le imprese che investono nella formazione del personale nelle materie aventi a oggetto le tecnologie rilevanti per il processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese previsto dal “Piano Nazionale Impresa 4.0”, cosiddette “tecnologie abilitanti”.

I vantaggi per le imprese dati dal credito di imposta formazione 4.0 è relativa al solo costo aziendale del personale dipendente per il periodo in cui è impegnato nelle attività formative nella misura del 50% per le Piccole imprese, al 40 % per le medie e al 30% per le grandi imprese delle spese. È riconosciuto fino ad un importo massimo annuale di 300mila euro per ciascun beneficiario ad esclusione per le GI in cui il limite massimo è pari a 200 mila euro.

Le agevolazioni sono rivolte a tutte le imprese che effettuano investimenti in formazione senza alcun limite in relazione a:
– Forma giuridica
– Settore produttivo (anche agricoltura)
– Dimensioni
– Regime contabile

Non si applica invece a:
– Soggetti con reddito di lavoro autonomo
– Soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica
– Enti non commerciali

Come si accede al Credito di imposta formazione 4.0?
Si accede a seguito di un piano formativo condiviso con le Parti Sociali e trasmesso alla Direzione Provinciale del Lavoro. E’ obbligatoria una documentazione contabile certificata al termine delle attività formative ed inoltre l’obbligo di conservazione di una relazione che illustri le modalità organizzative e i contenuti delle attività di formazione svolte. A seguito, in fase di redazione del bilancio, si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24 in via esclusivamente telematica all’Agenzia delle Entrate.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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