Cadute dall’alto in cantiere: le reti di protezione

I dispositivi di protezione collettiva si stanno sempre più diffondendo, ma il loro impiego deve essere valutato con attenzione e nel rispetto di quanto indicato nel D.Lgs. n. 81/2008.

 

La scelta di una rete di sicurezza dipende da diversi fattori, tra cui:

  1. l’altezza da cui può cadere il lavoratore rispetto alla posizione della rete di sicurezza;
  2. la presenza di adeguato spazio libero sotto la rete di sicurezza;
  3. le caratteristiche della struttura alla quale viene ancorata la rete;
  4. le modalità con le quali si effettuano gli ancoraggi;
  5. il posizionamento della rete di sicurezza, tale da non creare interferenze con il movimento dei lavoratori e delle macchine.

 

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PREVENZIONE INCENDI NUOVO APPROCCIO, AVANTI TUTTA

Prevenzione incendi: l’azione di rivisitazione dell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 ha riguardato una serie di sezioni di fondamentale importanza della normativa. Obiettivo? Mantenersi al passo con l’evoluzione del progresso e degli standard internazionali. Questi cambiamenti sono il frutto di un attento monitoraggio che ha consentito di individuare i possibili margini di miglioramento su cui intervenire.

 

Con la pubblicazione del decreto 18 ottobre 2018 si rinforza l’azione di semplificazione e razionalizzazione del corpo normativo relativo alla prevenzione degli incendi.

Il decreto 18 ottobre 2019 è il risultato di uno specifico monitoraggio che ha consentito di individuare ambiti di miglioramento delle norme tecniche contenute nell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 3 nel quale è contenuto il codice prevenzioni incendi. In particolare, questa azione di rivisitazione delle specifiche tecniche ha riguardato le sezioni G («Generalità»), S (»Strategia antincendio»), V («Regole tecniche verticali»), e la sezione M («Metodi»).

 

 

Credits: Ambiente & Sicurezza

 

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La norma Iso 45001 e l’importanza del contesto

La decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare
a prestazioni d’eccellenza. Ma tutto ciò è possibile se si analizzano gli eventuali “condizionamenti” esterni alla struttura. Il ricorso all’analisi Pest e allo strumento di pianificazione strategica Swot

 

Una delle principali innovazioni introdotte dall’High level structure, sintetizzato in Hsl – lo standard che la Iso si è data per la progettazione dei nuovi sistemi di gestione è quella contenuta al capitolo 4, relativa al contesto dell’organizzazione. Tutti gli standard disegnati secondo l’Hls impongono che le organizzazioni costruiscano i propri sistemi di gestione secondo l’idea che l’organizzazione si fa di se stessa. Non si tratta però di un esercizio solipsista: l’Hls richiede che questa sia analizzata nel suo contesto, specificando che con questo termine si intende il complesso di relazioni che essa intrattiene, magari anche involontariamente, non solo legate al mondo produttivo. Lo standard, infatti, richiede di non limitarsi a considerare il solo ambiente industriale o dove si svolge l’attività dell’organizzazione, ma anche ambiti differenti quali quello sociale, culturale, politico, a seconda di come si vede l’organizzazione stessa. Lo scopo di questo esercizio è definire i fondamenti del sistema di gestione da sviluppare, in maniera che que- sti siano adeguati all’organizzazione, alla sua dimensione e alle aspettative dei suoi leader, che poi sono coloro da cui nasce la volontà di implementarlo. Gli standard emessi secondo l’Hls hanno requisiti molto più dinamici di quanto era previsto in pas- sato, e la comprensione dell’organizzazio- ne e del suo contesto consente l’adozione di sistemi di gestione molto più flessibili. Non dimentichiamo che tanti problemi le- gati alla loro implementazione derivano da quella che viene percepita come una eccessiva burocratizzazione e appesantimento dei processi: potere dimensionare il proprio sistema di gestione sulle rea- li necessità dell’organizzazione può costituire senza dubbio un fattore di successo.

Le finalità
La determinazione dei fattori interni ed esterni pertinenti alle finalità dell’organizzazione, che possano influenzare la capacità di raggiungere i suoi obiettivi, è un’attività che lo standard non ritiene necessario documentare: l’auditor deve desumerne i concetti attraverso incontri e interviste faccia a faccia con il top management. La sua rilevanza per tutto il progetto è però tale da suggerire che sia in qualche modo registrata e resa formale. Nelle migliori applicazioni del metodo sarà la persona incaricata della progettazione del sistema di gestione, interna all’organizzazione o consulente, a intervistare le figure aziendali rilevanti e a svolgere una indagine per questo scopo, allo scopo di realizzare un autoritratto dell’organizzazione, che sia efficace per gli obiettivi del sistema di gestione. È consigliabile che i risultati siano esposti al management aziendale attraverso la condivisione e la illustrazione di una relazione provvisoria, sulla base della quale approfondire e definire i risultati finali. L’«Appendice Informativa – Guida sull’utilizzo del presente documento (lo standard Iso 45001), al capitolo A.4.1 Comprendere l’organizzazione ed il suo contesto», approfondendo l’indicazione della norma di prendere in considerazione sia i fattori interni che quelli esterni, suggerisce che nell’analisi vengano tenute in considerazione, relativamente ai fattori interni:

  • la governance, la struttura organizzativa, i ruoli e le responsabilità;
  • le politiche, gli obiettivi e le strategie attuate per realizzarli;
  • la capacità di perseguire i propri obiettivi, come le risorse, i capitali, il tempo, le risorse umane, le conoscenze e le competenze; i sistemi, le tecnologie e i processi;
  • la gestione dell’informazione e come vengono sviluppati i processi decisionali;
  • l’introduzione di nuovi prodotti, mate- riali, servizi, strumenti, software, locali e attrezzature;
  • le relazioni con i lavoratori, le loro percezioni e i loro valori;
  • la cultura dell’organizzazione;
  • la forma delle prestazioni lavorative, i contratti, gli appalti, le forniture;
  • l’orario di lavoro, inclusi i turni;
  • le condizioni lavorative;
  • i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è una materia definita minuziosamente dal D.Lgs. 81/2008; la decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare a prestazioni d’eccellenza. È una questione perché i risvolti di queste attività possono incidenti e infortuni e avere conseguenze penali. L’approfondimento di un’analisi come quella indicata dalla «Guida alla norma», specie se un’azienda strutturata, è un obiettivo ambizioso già di per sé,e non è detto che i componenti l’organizzazione siano in grado di svolgerla da soli. Un certo grado di incomprensione, di incapacità di decifrare i processi o di legittima ritrosia a evidenziare punti deboli è comprensibile e deve essere messa in conto. Una organizzazione strutturata che intenda affrontare il cam- mino verso l’implementazione di un sistema di gestione secondo la Iso 45001 è consigliabile che coinvolga almeno un consulente esterno, all’interno del gruppo di lavoro, che abbia la funzione di fare emergere queste questioni.
Per quanto riguarda i fattori esterni, la «Guida» suggerisce di valutare:

  • l’ambiente culturale, sociale, politico, legale, finanziario, tecnologico, economico e naturale e del mercato, a livello internazionale, nazionale, regionale e locale;
  • possibili nuovi concorrenti, appaltatori, subappaltatori, fornitori di beni, partner e fornitori di servizi, nuove tecnologie, leggi e l’emergere di nuove professioni;
  • nuove conoscenze sui prodotti e sui loro effetti su salute e sicurezza;
  • fattori chiave e tendenze per il settore di business;
  • relazioni con le parti interessate interne e loro percezioni e valori;
  • e, anche qui, i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

Questa lista, naturalmente, deve essere presa come stimolo per l’analisi dell’organizzazione: non è detto che necessariamente tutti questi argomenti debbano essere approfonditi per ciascuna di esse, specialmente in relazione all’estensione territoriale degli interessi dell’azienda o alla sua rilevanza per la politica. In sostanza si tratta di andare a individuare quali possono essere i fattori esterni all’organizzazione, così come quelli interni alla stessa, che possono avere una influenza positiva o negativa, costante o mutevole, sul sistema di gestione della sicurezza che sarà implementato. L’ambiente culturale, ad esempio, può essere considerato un fattore positivo: un milieu avanzato che favorisce il recepimento delle istanze della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Oppure, al contrario, un fattore negativo a causa di un ambiente retrogrado, una situazione in cui ci si imbatte spesso in cui la sopravvalutazione delle capacità personali e la sottovalutazione dei pericoli porti a essere poco ricettivi nei confronti della tutela dei lavoratori. Queste due condizioni si possono verificare alternativamente, quando ad esempio le pratiche di sicurezza sono consolidate a livello di stabilimento o di casa madre e vengono trascurate dal personale in trasferta, magari in altri Paesi in cui questi standard sono più bassi.

Considerazioni di carattere sociale possono riguardare condizioni negative, quando la pressione demografica o il livello di disoccupazione portano a rendere accet- tabili bassi standard di sicurezza. Questo può avvenire sempre, o in particolari situazioni, come ad esempio relativamente ai lavoratori immigrati. Ragionamenti opposti si potranno fare per le condizioni sociali di aree o nazioni in cui viene dato grande valore alla protezione dell’individuo.

Come eseguire le analisi
Lo standard non specifica come debbano essere svolte queste analisi: tra gli strumenti che sono diventati d’uso comune neglianni dalla diffusione di standard per sistemi di gestione basati sull’Hls (lo standard Iso 9001, sicuramente il più diffuso di essi, è stato revisionato nel 2015), sicuramente l’analisi Pest è uno dei metodi più utilizzati. L’analisi Pest, che significa fattori politici, economici, socioculturali e tecnologici, è un metodo formalizzato per ricavare un primo panorama dei fattori esterni relativo allo scenario in cui l’azienda si muove. Non è nulla di speciale, se non un metodo ormai entrato nella consuetudie, per elencare questi fattori. Tra l’altro, nel tempo sono state sviluppate analisi Pestle, che includono i fattori legali, o Destep, con l’integrazione di fattori demografici ed economici, per cui ciascuno è libero di organizzare la sua tabella, perché di ciò si tratta, come meglio crede.

Un altro strumento molto in voga, a supporto di questa attività, è la matrice Swot. La sigla Swot definisce uno strumento di pianificazione strategica il cui obiettivo è analizzare i punti di forza, le debolezze, le opportunità e le minacce, appunto strenghts, weaknesses, opportunities e threats, di un progetto o di una organizzazione.
La matrice Swot, attribuita ad Albert S. Humphrey nell’ambito dei suoi studi allo «Stanford Research Institute», fin qui è uno strumento di immediato impatto visivo, che facilita l’individuazione dei fattori critici. Partendo dall’analisi Pest, che sem- plicemente elenca i fattori da considerare per definire l’indirizzo strategico dell’organizzazione, i risultati vengono incasellati nella matrice Swot, che diventa il punto di partenza per andare ad approfondire il lavoro. Occorre tenere presente, però, che questi fattori vengono solo individuati in maniera più immediata, e che né l’analisi
Pest né quella Swot sono l’analisi dell’organizzazione e del suo contesto vera e pro- pria. Occorre partire da qui per svilupparla: dalla riflessione su questi punti verranno definiti i criteri per progettare il sistema di gestione, specificatamente sulle peculia- rità dell’organizzazione, attraverso i passi definiti dalla norma.
A prima vista il procedimento definito dallo standard sembra particolarmente macchinoso: in realtà l’approccio dall’Hls è molto interessante, perché fornisce uno strumento per approfondire la conoscenza dell’organizzazione che decide di adottare il sistema di gestione, utile per la sua progettazione, ma anche per il business in generale. È l’occasione per abbandonare un approccio totalizzante e velleitario, che ha caratterizzato la fase in cui il possesso di una certificazione era solamente una questione di politica commerciale, e non motivata da una reale volontà di migliorare i processi dell’organizzazione. Non che le cose siano necessariamente cambiate; almeno ora questo non è più un segreto da nascondere (lo ammette la stessa Iso).

La motivazione
In sostanza, il primo passo per la proget- tazione di un sistema di gestione della sicurezza diventa l’analisi della motivazione che è alla base della decisione del top management di intraprendere questo per corso. A questo si unisce un percorso di au- toanalisi che ha lo scopo di definire i punti di partenza e gli obiettivi raggiungibili per il sistema di gestione stesso. Ma la comprensione dell’organizzazione che intende adottare un sistema di gestione e del suo contesto è solo il primo passo per la raccolta delle informazioni necessarie. Parte essenziale di questo processo è il requisito descritto nel capitolo 4.2 «Comprendere le esigenze e le aspettative dei lavoratori e di altre parti interessate», un titolo che modifica leggermente quello dell’originale capitolo dell’Hls, 4.2 «Comprendere le aspettative delle parti interessate». Parte interessata, secondo la definizione dell’Hls, è chiunque può influenzare o essere influenzato o percepire sé stesso come influenzato, da una decisione o da un’attività dell’organizzazione. In questo caso i passi da svolgere sono:

  • identificare quali possono essere le parti interessate;
  • definire quali di esse siano da considerare “rilevanti”, ovvero degne di considerazione. I lavoratori, afferma lo standard, sono per definizione parti interessate dei sistemi di gestione. La decisione di chi altro considerare è una questione che può essere delicata per le grandi organizzazioni, che possono avere a che fare con gruppi di interesse il cui peso politico non corrisponde al reale potere di cui possono disporre direttamente.

Definire quali possano essere le esigenze e le aspettative delle parti interessate individuate, anche qui identificando quali di esse possano essere rilevanti per l’organizzazione.
A un primo livello di analisi sono natural- mente parti interessate, oltre ai lavoratori, le autorità legislative e i rappresentanti dei lavoratori e i sindacati. Comprendere quali sono le esigenze e le aspettative delle prime può essere un esercizio banale, anche se non è sempre detto. L’ingresso di un grande player industriale in zone fino ad allora marginali di un territorio, per esperienza può portare le autorità del posto a maturare aspettative che sono al di là sia delle pratiche localmente accettate che dello stesso standard legislativo, con i conseguenti problemi relazionali e organizzativi. Già relazionarsi con le rappresentanze organizzate dei lavoratori nella fase di progettazione di un sistema di gestione può essere complesso e impegnativo. Comunque l’inclusione di particolari organizzazioni cui riferirsi per il quadro delle esigenze e aspettative, conferma ancora di più l’impostazione della norma. È lecito interrogarsi, almeno nei Paesi nei quali la cultura della sicurezza ha meno impatto, su quali potrebbero essere le aspettative di proprietari, azionisti e magari clienti in relazione alle performance del sistema di gestione della sicurezza, specie se in relazione con altri aspetti più direttamente profittevoli del business Ogni dubbio dovrebbe dissolversi quando leggiamo nell’elenco i servizi sociali, i media, le università e le organizzazioni non governative. In poche parole, la reputazione che una organizzazione vuole avere diventa una base sulle quali progettare il sistema di gestione della sicurezza. Nel definire i criteri con i quali questo sarà sviluppato il, l’organizzazione deve chiedersi che reputazione vuole avere nel proprio ambiente, tra i lavoratori in primis, ma anche tra i soci, i fornitori, i clienti, i vicini di casa, la politica, le banche eccetera.

Per ultimo, il capitolo 4.4 «Sistema di gestione per la SSL», definisce i requisiti generici del sistema, per il quale devono essere definiti le modalità di applicazione e l’integrazione nei processi di business, a garanzia del suo rendimento. Lo standard, come tutti quelli redatti sul modello dell’Hls, si articola in dieci capitoli principali di cui quello oggetto di questa analisi, il quarto, definisce solo alcuni aspetti del Ssl, che sono fondamentali però per la sua corretta articolazione. Il cambiamento di prospettiva, però, è tale da avere ripercussioni strutturali su tutto il Ssl, specie se paragonato a quanto accade con la Bs Ohsas 18001. I temi che sembrano più interessanti sono il combinato disposto di questa visione “radicale” con il requisito del 8.1 «Pianificazione e controllo operativi», che obbligherà le organizzazioni che fanno dell’esternalizzazione dei processi il loro modello di business a ricondurli sotto il controllo del Ssl aziendale. Ma soprattutto, la competen- za sia di chi sarà chiamato a disegnare il sistema sia di chi dovrà verificarlo. Non è più sufficiente, infatti, una generica comprensione dei requisiti legali, ma occorrerà padroneggiare principalmente i processi, e le loro interazioni, in ambiti che vanno oltre il mero aspetto tecnico, presupponendo anche, si potrebbe dire, una profonda esperienza lavorativa e “di vita”, oltre che indubbia fantasia e flessibilità.

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Piccoli trabattelli ora la norma c’è

Attrezzature provvisionali di ridotte dimensioni, dotate di due sole ruote, che possono essere spostate, disassemblate e riconfigurate rapidamente
in ambienti caratterizzati da spazi ristretti o altezze limitate. Quelle grandi, invece, fanno riferimento alla Uni 1004. Vediamo in sintesi quali sono le novità

In molte situazioni di lavoro è assai diffuso l’utilizzo di piccoli trabattelli, attrezzature provvisionali di lavoro che si differenziano dai trabattelli oggetto della Uni En 1004. A differenza di questi ultimi, che presentano generalmente quattro piedini e almeno quattro ruote girevoli, i piccoli trabattelli sono dotati di due sole ruote. Sono generalmente adatti a lavori di breve durata, possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente in ambienti caratterizzati da spazi ristretti e/o altezze ridotte. Considerate le ridotte dimensioni del piano di lavoro, devono essere usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende il peso dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e dei materiali. L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma, recentemente pubblicato come norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova».

I trabattelli sono attrezzature provvisionali non coperte da direttiva specifica e che, quindi, non possono essere marcate Ce. Sono soggetti, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il codice del consumo) parte IV, titolo I «Sicurezza dei prodotti». La norma di riferimento per i trabattelli è la Uni En 1004: 2005 «Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestaziona- li» che fu elaborata dal Cen Tc 53 tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

La Uni En 1004:2005 nacque dalla esigenza di unificare la produzione di torri mobi- li di accesso e di lavoro che possedessero i necessari requisiti di sicurezza.

La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro dotate di quattro ruote e costituite da elementi prefabbricati con altezza, riferita alla quota dell’impalcato, da 2,5 m a 12 m (se utilizzate all’interno o non esposte al vento) e da 2,5 m a 8 m (se utilizzate all’esterno o esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione, i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. L’importanza della Uni En 1004 è esplicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII, comma a («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»).
La Uni En 1004 deve essere utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni». In alcuni contesti lavorativi, ove per esempio gli spazi sono ristretti e le altezze sono ridotte, l’utilizzo di trabattelli “normali” Uni En 1004 è assai difficoltoso, per cui vengono frequentemente impiegati i piccoli trabattelli.
Sul mercato italiano sono presenti molti piccoli trabattelli che non rientrano nell’am- bito della Uni 1004: 2005.
L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma dedicato.

Le versioni “mini”
Esistono numerose attività in cui vengono utilizzate attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto: hanno ingombri in pianta limitati e possono raggiungere altezze non elevate.

I piccoli trabattelli sono una via di mezzo tra le scale movibili con piattaforma costruite secondo la Uni En 131-7 e i trabattelli Uni En 1004. Hanno un impalcato di dimensioni ridotte con accesso dall’interno o dall’esterno attraverso scale inclinate o verticali a pioli o a gradini. In alcuni piccoli trabattelli le fiancate sono realizzate utilizzando scale portatili come componenti. I piccoli trabattelli non devono essere utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto. L’utilizzo di questo tipo di attrezzature espone il lavoratore al rischio di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.

Dal punto di vista legislativo, i piccoli trabattelli possono essere definiti “ponti su ruote a torre”, devono quindi rispettare le prescrizioni indicate all’art. 140 del D.Lgs. 81/2008. Nello specifico i “ponti su ruote a torre” devono:

  • avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai cari- chi e alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati;
  • avere il piano di scorrimento delle ruote livellato;
  • il carico del piccolo trabattello sul terreno deve essere opportunamente ripartito con tavoloni o altro mezzo equivalente;
  • avere ruote saldamente bloccate nella fase di lavoro con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso, dispositivi appropriati devono impedir- ne lo spostamento involontario durante l’esecuzione dei lavori in quota;
  • avere verticalità controllata con livello o con pendolino;
  • non essere spostati quando su di essi si trovano lavoratori o carichi (esclusi quelli usati nei lavori per le linee elettriche di contatto).

In particolare, i trabattelli devono essere ancorati alla costruzione almeno ogni due piani (cioè almeno ogni quattro metri in al- tezza). È ammessa deroga a quest’obbligo per i ponti su ruote a torre (trabattelli Uni En 1004 che hanno “stabilità propria” attestata dal suparamento di prove sperimentali e corredati di manuale di istruzioni sul corretto montaggio, uso e smontaggio, che sia conforme alla Uni En 1298).
La nuova norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» stabilisce requisiti dimensionali, di sicurezza e i metodi di prova per i piccoli trabattelli su due ruote con l’altezza del piano di lavoro minore di quattro metri e portata massima di 150 kg, per l’utilizzo da parte di una sola persona alla volta. La norma classifica i piccoli trabattelli in base all’altezza e all’accesso. Riguardo l’altezza, i piccoli trabatelli si suddividono nelle classi h2 e h4. In un piccolo trabattello di classe h2, l’altezza h tra il suolo e la superficie superiore della piattaforma più alta è inferiore a 2 m; in uno di classe h4 l’altezza h è maggiore o uguale a 2 m e inferiore a 4 m.
Riguardo all’accesso, la norma distingue fra tipologia e modalità di accesso: i tipi di accesso sono quelli previsti nella Uni En 1004:2005 (A, B, C o D) mentre la modalità di accesso può essere di tipo E (dall’esterno); di tipo I (dall’interno) o di tipo EI (dall’esterno e dall’interno).

Designazione
La designazione è molto simile a quella prevista nella Uni En 1004:2005; a quest’ultima è stato aggiunto il dato relativo al tipo di accesso (E, I o EI) che la norma europea non prevede.

Requisiti
La norma distingue i requisiti in dimensionali e di sicurezza. I requisiti dimensionali sono quelli legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie di accesso e alle modalità di accesso.

Verifiche e prove
La norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» prevede un capitolo specifico destinato alle verifiche e alle prove. La sezione destinata alle verifiche è particolarmente importante in quanto per la prima volta in una norma relativa alle attrezzature provvisionali viene inserito un prospetto che contiene i metodi di verifica dei requisiti stabiliti nella norma stessa:

  • esame visivo, per verificare l’integrità del piccolo trabattello o dei componenti;
  • misurazione, per verificare che i parametri misurabili (per esempio: dimensioni geometriche, distanze di sicurezza, resistenza) siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma;
  • prova di funzionamento, per verificare che, senza carico, il piccolo trabattello nel suo complesso operi come previsto e che tutte le funzioni siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma e alla documentazione tecnica;
  • prova specifica prevista dalla norma;
  • verifica dei documenti e dei disegni forniti, per verificare che siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma.

 

 

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Spazi confinati: gestire le acque reflue tutelando la salute degli addetti

Negli ultimi dieci anni, ci sono state oltre quaranta vittime negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Questi tragici fatti hanno ancora una volta portato all’attenzione della pubblica opinione la gravità degli infortuni sul lavoro che avvengono durante l’esecuzione di attività lavorative all’interno degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Evidenziando, ancora una volta, che il modo di gestire la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro durante lo svolgimento di queste particolari attività, nelle aziende pubbliche e private in Italia, è perlomeno suscettibile di notevoli miglioramenti. Un efficace modello di gestione dell’attività può, tutta- via, fornire indicazioni e modalità operative per l’esecuzione in sicurezza delle attività da realizzarsi all’interno degli spazi confinati 1 presenti in una rete per la gestione delle acque reflue, secondo quanto previsto dagli artt. 66 e 121 e dall’allegato IV, punto 3, D.Lgs. n. 81/2008, e dal D.P.R. n. 177/2011.

Le definizioni
Innanzitutto, è opportuno chiarire il significato dei termini.

Spazio confinato/Ambiente sospetto d’inquinamento
Uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture d’accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può verificarsi un evento incidentale importante, che può portare a un infortunio grave o mortale, a causa della presenza gas tossici o infiammabili o della carenza d’ossigeno; in generale si tratta di un’area nella quale si opera in condizioni di rischio latente o imminente o dalla quale uscire durante un’emergenza potrebbe rivelarsi estremamente difficoltoso, vedi ad esempio, cunicoli, pozzetti di servizio, sollevamenti fognari, pozzetti fognari, serbatoi, camerette d’ispezione ecc…

Responsabile di funzione
Persona che ha la responsabilità dell’intera funzione del settore acque reflue dell’azienda.

Tecnico responsabile di reparto
Persona che ha la responsabilità di un reparto del settore acque reflue dell’azienda

Caposquadra preposto
Persona che, grazie alla formazione, all’addestramento e all’esperienza acquisita e dimostrata, ha la responsabilità di autorizzare l’accesso allo spazio confinato/ambiente sospetto d’inquinamento, vigilare durante le operazioni e interromperle a propria discrezione, qualora si verifichino o si sospettino condizioni pericolose.

Personale accedente
Personale incaricato di effettuare le operazioni che prevedono l’esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento.

Personale di supporto
Personale incaricato di supportare le attività della squadra d’intervento e che può, a seconda delle condizioni, svolgere an- che l’attività del personale accedente o di componente del personale d’emergenza.

Permesso di lavoro
Documento in cui sono indicati sia rischi specifici dell’ambiente in cui il personale è chiamato a lavorare che le operazioni preliminari per l’esecuzione in sicurezza dell’attività, le misure da attuare durante l’esecuzione dei lavori, le attrezzature di lavoro e i Dpc e Dpi da utilizzare.

Dvr
Documento di valutazione dei rischi aziendale.

Dpc
Dispositivo di protezione collettiva.

Dpi
Dispositivo di protezione individuale.

I compiti e le responsabilità
Il passo successivo è quello di definire le responsabilità e i compiti delle figure prima citate.

Utilizzo degli autorespiratori
Questi dispositivi risultano necessari quando, a seguito di un incidente, l’aria all’inter- no degli spazi confinati diviene non adatta alla respirazione a causa della presenza di gas, fumi o vapori o per la mancanza di ossigeno. L’utilizzo di autorespiratori è necessario per interventi in emergenza. Gli autorespiratori devono essere:

protetti dagli urti e dall’inquinamento ambientale;

  • correttamente puliti e disinfettati;
  • chiaramente identificabili;
  • dotati di una bombola di riserva piena per ogni autorespiratore;
  • con maschere ed erogatore di soccorso;
  • custoditi e mantenuti secondo le indicazioni fornite dal fabbricante.

Per ciascun caso devono essere previste le specifiche misure di gestione delle emergenze.

Metodo di comunicazione
L’aspetto più importante è il metodo di segnalazione dell’emergenza. Ove possibile, è necessario che venga mantenuto il contatto visivo e vocale con l’operatore che scende nello spazio confinato o prevedere la comunicazione via radio. Se l’infortunato è in grado di comunicare, allora – in caso di emergenza – può richiedere vocalmente aiuto. Se l’infortunato non è cosciente, l’addetto alle emergenze, in caso di contatto visivo, lo individua immediatamente e attiva il soccorso. Se non avesse un contatto visivo diretto, alla seconda chiamata vocale o via radio nulla attiva il soccorso. È anche consigliabile l’uso dello strumento “motion alert”. Si tratta di uno strumento in grado di segnalare l’allarme, quando l’uomo che lo ha con sé rimane immobile per 30 secondi, con un preallarme sonoro a intervalli regolari. Se non venisse rilevato alcun movimento nei dieci secondi successivi lo strumento attiva un allarme sonoro a sirena. Ovviamente, va ricordato che la funzione “motion alert” deve essere attivata ogni volta prima che l’operatore acceda all’interno dello spazio confinato.

Misure di primo soccorso
Allontanare l’infortunato e tenerlo all’aria aperta. Se l’infortunato non respira e il cuore non batte, praticare la rianimazione cardiopolmonare (massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca). Se l’infortunato non è cosciente ma respira, disporlo in posizione laterale di sicurezza e controllare le funzioni vitali (sentire polso e respiro). In ogni caso chiedere l’intervento del 112 (numero unico per le emergenze), descrivendo l’accaduto, le condizioni dell’infor-tunato e l’ubicazione del posto di lavoro.

Utilizzo del treppiede
Il personale di sorveglianza deve utilizzare l’argano manuale collegato alla imbracatura di sicurezza per estrarre dallo spazio il lavoratore in difficoltà. Se possibile devono essere fatti tentativi di ventilazione dello spazio. In caso di soccorso al lavoratore all’interno dello spazio confinato è necessario:

  • aver indossato preventivamente, da parte del personale di emergenza che deve entrare nello spazio confinato, tutti i Dpi a disposizione per la specifica operazione;
  • portare l’infortunato all’esterno, rispar- miandogli qualsiasi sforzo muscolare e chiamare il soccorso di emergenza del pronto soccorso o i vigili del fuoco (112) nei casi di difficoltà di estrazione dell’infortunato;
  • nel caso risulti impossibile estrarre il lavoratore dallo spazio confinato, avvicinare alla sua zona di respirazione il tubo di immissione dell’aria collegato al ventilatore, in modo da fargli respirare nel più breve tempo possibile aria pulita prelevata dall’esterno del locale.

Prescrizioni e divieti specifici
Non devono essere utilizzati negli spazi confinati motori a benzina e diesel. È vietato in ogni caso l’accesso in ambienti di “tipo A” non testati e senza autorizzazione specifica. La rilevazione dell’aria non deve essere mai fatta fidandosi delle proprie percezioni; molti gas o vapori tossici non sono percepibili. La rilevazione dei gas de- ve essere fatta in assenza di ventilazione. La rilevazione dei gas o dell’ossigeno deve essere fatta solo dopo aver accertato che lo strumento sia tarato e calibrato correttamente secondo le istruzioni dettagliate dal fornitore. Nel caso in cui la rilevazione evidenzi presenza di gas, l’intervento non può essere effettuato prima della bonifica – pulizia – ventilazione ulteriore con esito positivo. Gli interventi negli spazi confina- ti non possono essere eseguiti in condizio- ni climatiche avverse, ad esempio, in caso di pioggia anche nei giorni precedenti.

Le modalità operative
Un’azienda che opera nella gestione delle acque reflue, dovrebbe aver individuato come spazi confinati, quantomeno le seguenti tipologie:

  • cunicoli fognari;
  • tombinature stradali;
  • pozzetti di servizio fognari;
  • manufatti d’ispezione;
  • sollevamenti fognari;
  • vasche;
  • locali tecnici interrati.

Il passo successivo è quello di procedere alla classificazione. Opportuno procedere come segue:

  • gli spazi confinati presenti all’interno di impianti o che comunque si presentano come singolarità sono stati valutati singolarmente, inserendoli in un apposito elenco. È compito del responsabile del settore acque reflue verificare questo elenco e mantenerlo aggiornato in caso di eventuali variazioni;
  • i volumi tecnici che sono presenti in numeri elevati (quali i pozzetti di servizio su strada o fuori e manufatti d’ispezione) devono essere valutati per tipologie simili e non devono essere elencati nel censimento tranne i casi indicati al punto precedente; la valutazione deve essere effettuata su elementi rappresentativi di una certa categoria e poi associata a tutta quelli che hanno simili caratteristiche; questa valutazione per tipologie simili permette di poter avere una informazione di massima relativamente ai rischi che si possono avere intervenendo su di essi.

In particolare, tutti i pozzetti e manufatti d’ispezione è opportuno si facciano rientrare cautelativamente nella categoria di spazio confinato di tipo A, tranne gli spazi in cui l’operatore non entra interamente che restano di tipo C.
Gli spazi confinati prevalutati, valutati per tipologie simili o valutati sul posto devono essere suddivisi in tre categorie (A, B e C) in relazione alle loro caratteristiche di pericolosità.
Per le attività all’interno degli spazi confinati di categoria A, l’intervento può avvenire solo attraverso il “permesso di lavoro spazi confinati”.

L’esecuzione delle attività
Le istruzioni operative per l’esecuzione dei lavori all’interno degli spazi confinati si differenziano in relazione alla categoria con cui viene classificato il luogo di lavoro confinato. Per la classificazione del tipo di spazio confinato occorre procedere secondo quanto riportato nella successiva fase 0.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria A
I lavori in spazi confinati di categoria A si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento e rilascio della relativa autorizzazione (fase comprensiva dei controlli previsti);
  • esecuzione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria B
I lavori in spazi confinati di categoria B si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativacomunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria C
I lavori in spazi confinati di categoria C si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.
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Quando le prassi sono un autogol

Nei casi in cui si accerti che lo svolgimento di determinate attività dà luogo a condotte che, ripetute nel tempo, si traducono in comportamenti non corretti, in quali termini si configura la responsabilità, rispettivamente del datore, del dirigente o del preposto? Un’attenta e precisa analisi ci aiuta a capire meglio

 

Risposta
La Cassazione è univocamente orientata, da tempo, ad affermare il principio che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro – cui spetta di assicurare l’obiettivo di un’efficace tutela delle condizioni di lavoro, è molteplice e articolato.
Questa figura, infatti, non può limitarsi all’istruzione dei lavoratori sui rischi professionali, e sulla conseguente necessità di adottare specifiche misure di sicurezza, bensì deve ulteriormente consistere e concretarsi in un controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino le disposizioni impartite; e si adeguino tanto alle misure di tutela previste dalla legislazione antinfortunistica, quanto a quelle supplementari derivanti dalle procedure di sicurezza adottate da ciascuna azienda, allo scopo di garantire condizioni di lavoro sicure.
Invero, spesso, i lavoratori sono tentati, per i motivi più vari, a trascurare tanto le prime, quanto le seconde. Dunque, il datore di lavoro, quale soggetto primariamente responsabile della sicurezza, deve possedere la cultura e la forma mentis di garante di quel bene costituzionalmente rilevante te costituito dall’integrità psicofisica del lavoratore. In questa veste, rilevante anche sul piano dei valori costituzionalmente tutelati, il datore ha il preciso dovere, in primo luogo, di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste per le singole lavorazioni e, in secondo luogo, di attivarsi e di controllare sino alla pedanteria, che le norme e le disposizioni aziendali siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Questi specifici oneri di informazione e di assiduo controllo, ordinariamente necessari nei confronti dei dipendenti dell’impresa, si impongono a maggior ragione nei confronti di coloro che, prestando lavoro alle dipendenze di altri, e venendo per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture a loro non familiari (ad esempio, in regime di appalti extra-aziendali ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008), possono essere per ciò solo inseriti in situazioni di lavoro che per elementi e circostanze non conosciute risultano insidiose per i prestatori di lavoro.

La Cassazione ha, inoltre, sottolineato che il suddetto dovere di vigilanza spetta in ogni caso al datore di lavoro (che non abbia validamente delegato i suoi compiti), e che questo obbligo di attuare e controllare le misure di sicurezza non viene meno neppure in caso di distacco di lavoratori presso un cantiere gestito da altro imprenditore.
Naturalmente, l’obbligo della vigilanza può essere disimpegnato dal datore di lavoro anche avvalendosi della propria organizzazione aziendale, mediante la ripartizione delle competenze a dirigenti prevenzionistici e a preposti, e predisponendo altresì un’efficace rete di flussi informativi che consentano il controllo delle condizioni di lavoro in azienda (in tal senso è illuminante la recente pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 4 aprile 2019, n. 49215). 

Le responsabilità
Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro (e, più in generale, dei vertici aziendali) le pronunce giurisprudenziali sono diffuse. È così che, con riguardo a un infortunio occorso a un lavoratore operante su un ponte sviluppabile, utilizzato a un’altezza di dodici metri da terra, comandato da terra a opera di un terzo lavoratore, e non da bordo del cestello del ponte, così come imponeva l’ordine di servizio impartito dal datore di lavoro (in conformità alla previsione dell’art. 233 del D.P.R. n. 547/1955), la Cassazione ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’esonero della responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che il lavoratore avesse dichiarato di essere a conoscenza delle corrette modalità di lavoro, ma che queste ultime erano il più delle volte disattese nella prassi concreta di lavoro, che avveniva con modalità non conformi (Cass. pen. sez. III, 28 maggio 1999, n. 6695). Dunque, nel caso di specie, la scorretta pratica di lavoro, tollerata dal datore di lavoro e non conforme alle norme prevenzionistiche (giacché solo il personale a bordo del ponte sviluppabile poteva avere una diretta percezione delle manovre, in relazione allo spazio di traslazione e alla eventuale presenza di ostacoli), nonché il mancato accertamento della non aderenza di questa prassi concreta alle disposizioni impartite, sono stati gli elementi fondanti il profilo di colpa specifica addebitato nel processo, conclusosi con la condanna dell’imputato.
Si può dunque affermare che il datore di lavoro deve non solo ordinare, ma altresì esigere che le norme di sicurezza siano rispettate; e questo controllo deve essere effettivo, cosicché il datore non può mettersi al riparo emanando un ordine, laddove la prassi esecutiva dell’azienda risulti sistematicamente in contrasto con le norme di sicurezza. Il controllo sulla conformità della prassi esecutiva di lavoro all’ordine di servizio impartito deve pertanto essere effettivo, non limitato a una pretesa di natura esclusivamente formale.

L’orientamento della Cassazione
Da decenni l’orientamento prevalente della suprema Corte (per tutte Cass. pen. sez. IV, 4 giugno 1974, Pelloni), è che il datore di lavoro deve «controllare ed esigere che le modalità di lavoro siano conformi ai criteri di sicurezza». Analogamente la legislazione prevenzionistica e di igiene del lavoro da sempre ha sancito l’obbligo della cosidetta “pretesa d’uso” (art. 4, lett. c) del D.P.R. n. 547/1955: il datore di lavoro deve: «disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione »), addirittura assoggettandolo ad autonoma sanzione (artt. 4, lett. d) e 58, lett. c) del D.P.R. n. 303/1956), cosa che le normative emanate agli inizi degli anni ’90 (il D.Lgs. n. 277/1991 e il D.Lgs. n. 77/1992) hanno confermato, sconfessando in questo modo le pronunce giurisprudenziali di segno contrario (ad esempio, Cass. pen. sez. IV, 15 gennaio 1975, Menardo).
La tesi della autonoma sanzionabilità della violazione dell’obbligo della “pretesa d’uso” ebbe poi a ricevere una conferma esplicita nel D.Lgs. n. 626/1994, il quale, ponendo fine alle oscillazioni giurisprudenziali, stabilì chiaramente che l’obbligo per il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti (ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze) di esigere, da parte dei singoli lavoratori, l’osservanza delle norme di legge e aziendali in tema di sicurezza, è un obbligo autonomamente sanzionato (art. 4, comma 5, lettera f) e art. 89, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 626/1994). Questa impostazione del dovere di sicurezza, rivolto a fronteggiare e a contrastare efficacemente l’instaurarsi di prassi scorrette di lavoro, è stato integralmente confermato nel testo unico della sicurezza sul lavoro (art. 18, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008: «Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono(…) f) richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione»).

Il controllo? Anche personale
In altra vicenda infortunistica (folgorazione di un operaio, raggiunto da una violenta scarica elettrica mentre lavorava in prossimità di una pressa ad alta frequenza, senza operare il cosiddetto sezionamento della linea elettrica così come previsto dall’art. 345 del D.P.R. n. 547/1955), analogamente la Cassazione ha ritenuto che l’abitudine omissiva del lavoratore deceduto di non interrompere la tensione del generatore (forse per eccesso di confidenza con le mansioni di lavoro e la conoscenza del macchinario) non avrebbe dovuto essere tollerata in alcun modo dal datore di lavoro, il quale avrebbe dovuto esercitare finanche personalmente un controllo adeguato per impedire la violazione delle norme e le prevedibili conseguenze dannose derivanti dalla loro inosservanza, intervenendo per pretendere il rispetto di quelle disposizioni che risultassero sistematicamente violate nella concreta prassi di lavoro (Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3970).
In un altro caso di omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sull’effettivo utilizzo dei dispositivi di protezione individuale messi a disposizione dei lavoratori, ma dagli stessi non utilizzati durante il lavoro, la Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro «non può – e non deve – limitarsi a mettere a disposizione dei singoli lavoratori il materiale necessario all’allestimento dei mezzi di protezione, limitandosi ad ordinare che se ne faccia uso ma deve, in concreto, assicurarsi che ciò sia avvenuto».

Il ragionamento dei giudici di legittimità è stato che, essendo le norme di protezione e di sicurezza poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, queste ultime devono essere attuate anche contro la sua volontà, sicché «il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza circa la loro rigorosa osservanza, risponde della loro violazione in termini di culpa in vigilando, non rilevando l’affidamento sulla diligente condotta esecutiva dei prestatori di lavoro» (in termini Cass. pen. 17 febbraio 1984, n. 5795, e Cass. pen. 10 gennaio 1989, Santoro). Nel senso che l’affidamento di lavori, pur di prassi elementare, a un lavoratore particolarmente esperto, non esime il datore di lavoro dal fornire al lavoratore medesimo le indicazioni delle particolari cautele e delle attrezzature necessarie per lo svolgimento in sicurezza dei compiti affidati, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3984. Per Cass. pen. sez. IV, 25 settembre 1995, Moranti, non è rilevante a escludere la responsabilità del datore che il lavoro si sia svolto secondo la prassi instauratasi nell’azienda, se contraria alle misure antinfortunistiche. Le valutazioni espresse da queste consolidati orientamenti giurisprudenziali – ex plurimis, Cass. pen. sez. IV, 9 aprile 1999, Di Spirito; Cass. pen. sez. IV, 23 febbraio 1999, Beltramelli; Cass. pen. sez. III, 27 gennaio 1999, Celino – impongono in ogni caso al datore di lavoro di esercitare senza riserve un efficace controllo e una diligente vigilanza al fine di far rispettare le disposizioni di legge e quelle impartite in relazione alla propria concreta organizzazione di lavoro.

Quanto al criterio di imputazione della responsabilità colposa, l’orientamento prevalente della Cassazione è nel senso di ancorarlo alla tolleranza e all’acquiescenza del datore di lavoro di fronte alla prassi operativa scorretta, consistente o nell’inosservanza di una specifica disposizione di legge, ovvero di un ordine di lavoro specificamente impartito. Il fondamento della colpa viene dunque ravvisato nel consenso del datore di lavoro al perdurare di una situazione in contrasto con le disposizioni imperative della legislazione antinfortunistica, che egli aveva invece l’obbligo giuridico di conoscere, cosicché lo stato di ignoranza della medesima non è affatto valutato come circostanza scriminante, bensì proprio come indice di una condotta di inerzia colpevole (sul tema della doverosa conoscenza-conoscibilità ex ante della situazione antigiuridica da parte del soggetto gestore del rischio, Cass. pen. sez. IV, 5 dicembre 2017, n. 54825 e da ultimo Cass. pen. sez. IV, 15 maggio 2019, n. 20833).

Dunque il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere il lavoratore subordinato, assicurando un assetto organizzativo del lavoro che sia rispettoso delle norme antinfortunistiche; ed è responsabile per l’infortunio subito da un dipendente nell’esercizio dell’attività lavorativa, anche di fronte a una condotta imprudente di quest’ultimo, quanto meno agevolata, da una situazione conosciuta o colpevolmente ignorata, e rispetto alla quale nulla abbia fatto per impedirla. In questo contesto, un’istruzione di lavoro, per quanto perentoria e specifica, non è di per sé sufficiente per escludere la penale responsabilità del datore di lavoro, dovendosi quest’ultimo anche attivare concretamente per la sua osservanza; e l’affidamento all’ordinaria diligenza del prestatore di lavoro nell’esecuzione della prestazione si risolve in una pretesa non legittima, nei limiti in cui a detto affidamento si voglia attribuire un’efficacia scriminante della responsabilità.
Va da sé, peraltro, che qualora la prassi scorretta inerisca all’esercizio del dovere di vigilanza, di essa risponderà ordinariamente il preposto (con riguardo ad una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, v. Cass. pen., sez. IV 22 aprile 2004, Policarpo: «(…) il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche»); qualora, invece, questa prassi sia correlabile alla omessa predisposizione di misure prevenzionistiche, di essa deve risponderà (anche o solo) il datore di lavoro e/o il dirigente prevenzionistico di riferimento (Cass. pen. sez. IV, 16 marzo 2005, Ranzi: «Il direttore del Dipartimento di facoltà dell’Università risponde – in quanto datore di lavoro – dell’incolumità degli studenti allorché essi siano adibiti, per prassi, ad attività manuali all’interno del Dipartimento medesimo»; Cass. pen. sez. IV 23 marzo 1998, Ruggiero: «il preposto al cantiere (…) ha mansioni normalmente limitate alla mera sorveglianza sull’andamento dell’attività lavorativa, sicché la sua esistenza – salvo che non vi sia la prova rigorosa (e nella specie non lo è) di una delega espressamente e formalmente conferitegli (con pienezza di poteri e di autonomia decisionale) e di una sua particolare competenza – non comporta affatto il trasferimento in capo a lui degli obblighi e delle responsabilità incombenti sul datore di lavoro, essendo a suo carico (peraltro neppure in maniera esclusiva quando l’impresa sia di dimensioni molto modeste) soltanto il dovere di vigilare a che i lavoratori osservino le misure e usino i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione, comportandosi in modo da non creare pericoli per sé e per gli altri. Ne consegue che una responsabilità del preposto non è configurabile allorché l’infortunio sia dipeso non da omessa o insufficiente vigilanza nel senso suddetto, bensì dalla mancanza di strumenti, misure ed accorgimenti antinfortunistici la cui predisposizione ed attuazione spetta soltanto al datore di lavoro o al soggetto specificamente competente appositamente delegato»).

L’importanza della qualifica
Particolarmente interessante la pronuncia di Cass. pen. sez. IV 26 settembre 1988, Dell’Arte, secondo la quale «il titolare dell’impresa (o il preposto) il quale abbia consentito, quale prassi aziendale, l’interscambio di ruoli tra i dipendenti, risponde dell’infortunio occorso a un lavoratore nell’esecuzione di operazioni non corrispondenti alla qualifica o al ruolo formale a lui attribuito; e ciò anche nel caso esso titolare/preposto non sia presente al momento del verificarsi dell’evento».

Anche recenti pronunce della suprema Corte hanno ribadito i principi di responsabilità dei vertici aziendali e più in generale delle figure deputate alla tutela delle condizioni di lavoro: per Cass. pen. sez. IV, 13 dicembre 2012, n. 48231, correttamente i giudici di merito avevano condannato il datore di lavoro in relazione all’infortunio di un dipendente il quale, salito sulla scala che conduceva alla macchina in movimento, mettendo un piede sul parapetto, aveva poi dichiarato, in sede d’indagini, che questo modo di procedere era stato da lui sempre praticato – così come dagli altri colleghi – in conformità a una vera e propria consuetudine; di qui la censura al datore di lavoro di non aver adeguatamente e risolutamente interdetto questa prassi consuetudinaria e scorretta di lavoro né avere predisposto un efficace sistema di controllo e di vigilanza sui lavoratori. Nel caso di una prassi di lavoro non corretta tollerata da un coordinatore per l’esecuzione in un cantiere edile (utilizzo di una scala per le lavorazioni in altezza, in luogo dell’allestimento di apprestamenti più sicuri quali ponteggi e trabattelli) i giudici di legittimità (Cass. pen. sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 1870) hanno confermato la responsabilità del Cse. Interessante anche la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 3 giugno 2014, n. 22977, secondo la quale in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, il dovere di vigilanza deve essere valutato «in relazione alla concreta organizzazione aziendale.
Qualora l’infortunio sia riconducibile ad una violazione isolata, frutto di contingente trascuratezza da parte del lavoratore, e non consista in una prassi scorretta di lavoro, concretantesi in sistematiche e usuali violazioni, occorre valutare se, sul luogo di lavoro, esistano altre figure preposte al controllo della condotta dei lavoratori, ovvero se il datore di lavoro sia tenuto a svolgere egli stesso una vigilanza assidua e un controllo continuo sull’esecuzione della prestazione di lavoro, assimilabili ai compiti propri del preposto».
Nel caso concreto si trattava dell’infortunio subito da un lavoratore, colpito all’occhio mentre eseguiva il taglio di un tondino: al datore di lavoro era stato contestato di avere omesso di dotare il lavoratore di idonei occhiali di protezione, ma era emerso che i Dpi erano stati bensì forniti al dipendente (come dallo stesso confermato in udienza), ma questi, per negligenza non li aveva utilizzati.
Da ultimo, con riguardo alla figura del dirigente, condannato a prescindere dall’accertamento della conoscenza effettiva della prassi scorretta di lavoro, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 2 dicembre 2016, n. 51537.

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Iso 45001: quale rapporto con la legislazione?

L’adozione dei principi espressi nell’high level structure per la scrittura dello standard ha fatto segnare un marcato distacco rispetto a come la Bs Ohsas 18001 aveva affrontato i fondamenti su come costruire un sistema di gestione per una specifica organizzazione.
Un confronto con l’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008, le linee guida Uni-Inail e la norma Bs del 2007 Uni Iso 45001:2018 serve a mettere in luce gli aspetti “innovativi” dei nuovi requisiti per i sistemi di gestione per la salute e la sicurezza.

 

Standard o legge?
Il rapporto tra norma cogente e norma volontaria, tra le disposizioni di legge a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e gli standard dei sistemi di gestione della salute e della sicurezza era già molto dibattuto ai tempi della Bs Ohsas 18001:2007 “Occupational health and safety assessment series”; queste discussioni hanno avuto grande parte dibattito che ha portato all’emissione della Iso 45001:2018 “Sistemi di gestione per la salute e la sicurezza”.
In Italia, così come in gran parte dei Paesi del mondo, esiste una legislazione in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro molto sviluppata, con ampi collegamenti a prassi condivise nel resto del mondo, frutto dell’appartenenza dell’Italia ad associazioni e organismi politici internazionali che hanno stipulato accordi tra i loro membri, primi tra tutti le Nazioni unite (Onu) e la sua agenzia per il lavoro – l’International labour organization (Ilo) – e l’Unione europea. È al di fuori di ogni dubbio che la legge ponga, a carico delle aziende, obblighi e responsabilità in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori che prestano la propria opera presso le aziende stesse. In più, le persone fisiche che ricoprono rilevanti ruoli aziendali hanno precisi profili di responsabilità personali in merito alla tutela dei lavoratori, che derivano direttamente dai ruoli ricoperti e dai poteri esercitati.
In Italia, il provvedimento principale in materia di salute e sicurezza sul lavoro è il D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “testo unico”), che stabilisce obblighi e responsabilità, principi e processi, finalizzati a determinare i requisiti minimi per perseguire il risultato del più alto grado di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’adozione di un sistema di gestione standardizzato per la Ssl non deve essere intesa come un modo per rimpiazzare gli obblighi e le responsabilità previsti dalla legge; al contrario, il suo obiettivo è quello di creare una struttura logica per il raggiungimento degli scopi e dei risultati che questo sistema si pone, che non sono altro quelli di prevenire infortuni e malattie dei lavoratori correlate al lavoro e la predisposizione di luoghi di lavoro sicuri e salubri.
Il sistema disegnato dalla Iso 45001 si basa sul noto ciclo “Plan-Do-Check-Act”.
L’adozione di un sistema di gestione basato sul ciclo Pdca consente alle organizzazioni di essere più efficaci ed efficienti per la gestione dei propri rischi strategici e di migliorare le proprie prestazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Le organizzazioni di questo genere hanno la possibilità di agire sistematicamente con tempestività per affrontare rischi e opportunità e sono agevolate nel raggiungimento dei requisiti legali.
Il processo di sviluppo della Iso 45001 risale al 2013, quando il British standard institution (Bsi) propose alla Iso di studiare uno standard internazionale sui sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro, prendendo come base lo standard Bs Ohsas 18001, in passato sviluppato proprio da Bsi. In qualità di proponente, Bsi ha assunto il ruolo di segretario del nuovo comitato Iso Pc 283, incaricato dello studio, di cui hanno fatto parte 62 nazioni, insieme ad altre 11 che hanno partecipato in qualità di osservatori, oltre a 17 organizzazioni, tra cui Iosh.
I lavori sono stati a particolarmente complessi, passando attraverso l’emissione di due Cd (committee draft) e di due Fdis (final draft international standard), per culminare nella pubblicazione, avvenuta nel marzo 2018.

Si tratta di uno standard maturo, che tiene anche conto dell’esperienza delle organizzazioni che, negli anni, hanno certificato i propri sistemi di gestione secondo la Bs Ohsas 18001, stimate attorno a 90.000 in circa 127 Paesi nel mondo.
Tuttavia, l’adozione di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza non è, da sola, la garanzia di un miglioramento delle prestazioni dell’organizzazione. L’esperienza ha dimostrato che, se il sistema di gestione non è supportato da una serie di attività, strategiche o quotidiane, questo resta solo sulla carta. La Iso, all’interno del proprio standard, elenca questi fattori necessari per il successo di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza. I più importanti sono:
• la leadership e l’accountability, ovvero la capacità di rendere conto delle proprie azioni, espressa dall’alta direzione dell’organizzazione. Senza un impegno esplicito e pubblico dell’alta direzione, infatti, tutti gli sforzi per l’implementazione di un sistema di gestione sono vani. I redattori dell’Iso 45001 ne erano bene al corrente al momento della stesura, tanto che la versione definitiva dello standard presenta significativi cambiamenti rispetto alla Bs Ohsas 18001;
• comunicazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Si tratta di attività che sono generalmente trascurate da chi si pone come obiettivo il mero rispetto dei requisiti minimi di legge, ma che hanno dimostrato di essere molto efficaci e per questo non possono mancare nella composizione di un’organizzazione che voglia impegnarsi ad andare oltre il mero dettato normativo, con l’implementazione di un sistema di gestione della sicurezza;
assegnazione delle risorse necessarie, definizione di politiche compatibili con gli obiettivi strategici globali e con gli indirizzi dell’organizzazione.Un sistema di gestione non è un punto di arrivo: lo si può, piuttosto, paragonare a un percorso. Affrontarlo senza avere deciso dove si voglia arrivare e senza avere definito i mezzi da utilizzare è deleterio, perché l’indecisione, la mancanza di informazione o la definizione di obiettivi velleitari incidono sulla motivazione e sulla determinazione di tutti coloro che dovranno percorrere la strada e, in definitiva, sulla credibilità del sistema di gestione e dell’organizzazione stessa.

Il testo unico per la salute e la sicurezza
L’adozione di un sistema di gestione, quindi, non è una scelta in competizione o in contraddizione con le leggi sulla salute e sicurezza negli ambienti di lavoro; si tratta, piuttosto, di uno strumento di cui un’organizzazione diligente può decidere di dotarsi per raggiungere con più efficacia gli obiettivi della norma, che – è opportuno ricordarlo – sono la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, attraverso la predisposizione di ambienti di lavoro salubri e sicuri. In altri termini, un modo per colmare la distanza tra i “requisiti minimi” promossi dalla norma e il massimo della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore. Questo perché, per riuscire veramente a rispettare la legge (e quindi a garantire i livelli di tutela che della legge costituiscono l’obiettivo), non ci si deve limitare a osservare unicamente i requisiti minimi; punto, questo, fatto proprio dal D.Lgs. n. 81/2008, che, all’articolo 30, si riferisce al «modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche». Gli obblighi definiti dal testo unico sono sanzionati penalmente, colpendo la persona fisica che ha commesso effettivamente la violazione. Per ovviare a questo meccanismo, il legislatore ha introdotto, con un emendamento del 2007 al D.Lgs. n. 231/2001, il principio della responsabilità amministrativa da reato, ovvero della responsabilità delle organizzazioni, in conseguenza dei reati commessi nel proprio interesse o nel suo vantaggio dalle persone:
• che la rappresentano, che la amministrano, che la dirigono, che ne esercitano – anche di fatto – la gestione e il controllo;
• che sono sottoposte al controllo di costoro, in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle attività lavorative.

L’implementazione efficace di un sistema di gestione, all’epoca conforme alla Bs Ohsas 18001 o alle linee guida Uni-Inail, è considerato uno strumento conforme a evitare questi tipi di reato. Per questo motivo, l’11 luglio 2011, la direzione generale della tutela delle condizioni del lavoro ha pubblicato una lettera circolare1 che contiene una tabella in cui i requisiti delle linee guida Uni-Inail e della Bs Ohsas 18001:2007 sono messi a confronto con il contenuto dell’articolo 30, D.Lgs. 81/2008, allo scopo di verificarne la sovrapponibilità.

 

 

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Allerta massima per chi opera in quota

l punto del giurista alla luce della normativa e della giurisprudenza in materia

Si tratta di una delle attività maggiormente pericolose. Come si caratterizza la disciplina specifica in tema di valutazione dei rischi e di svolgimento di questo tipo di mansioni? Che cosa dicono sull’argomento il testo unico della sicurezza e i giudici?

 

Risposta
Il testo unico della sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) disciplina, al titolo IV, lo specifico settore dei «Cantieri temporanei o mobili» e, in questo ambito, al capo II (artt. 105-156), detta le «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota». Il successivo capo III (artt. 157-160) reca la disciplina sanzionatoria.
Mentre il titolo IV,capo I del testo unico è recepimento dell’ottava direttiva particolare (direttiva 92/57/Cee – la cosiddetta “direttiva cantieri”- riguardante le «prescrizioni minime di sicurezza e salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili») e si pone in rapporto di continuità con le precedenti disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 494/1996 – abrogate dall’art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008 a far data dal 15 maggio 2008-, il successivo capo II del titolo IV è la trasposizione delle disposizioni già contenute nel D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 (recante «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni»), parimenti abrogate dal citato art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.
Il capo I del titolo IV del Tusic è espressione di un modello “gestionale” della sicurezza sul lavoro che presuppone necessariamente l’esistenza di un «cantiere temporaneo o mobile»; laddove il successivo capo II fa dell’esistenza del “cantiere” una condizione sufficiente, ma non necessaria: come a dire che il capo II del titolo IV del Tusic (diversamente dal capo I si applica anche a realtà diverse da quella di cantiere, e cioè anche ai «lavori in quota» che siano svolti in un settore diverso da quello delle costruzioni. Ciò si ricava direttamente dal tenore dell’art. 105, ultimo periodo del D.Lgs. n. 81/2008 (ove si legge che «Le norme del presente capo si applicano ai lavori in quota di cui al presente capo e ad in ogni altra attività lavorativa»), nonché dal recente dictum di Cass. pen. sez. IV, 12 marzo 2019, n. 10857.
Già sotto l’impero dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, la giurisprudenza aveva affermato il principio che la suddetta norma «ha carattere assoluto ed è intesa a proteggere il lavoratore in ogni momento della sua attività che si svolga ad altezza superiore ai due metri dal suolo con pericolo di caduta», dunque il suo campo di applicazione non doveva essere limitato al settore delle costruzioni, bensì essere esteso a tutte le attività in quota che potevano determinare cadute dall’alto dei lavoratori.

Secondo la pronuncia di Cass. civ. sez. lavoro, 1° dicembre 1986, n. 7098, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 è applicabile «alle operazioni di imbracatura eseguite nei porti, ai fini dell’accertamento della necessità della dotazione di apposite scale». Per Cass. pen. sez. III, 5 novembre 1993, n. 437, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 risulta applicabile al lavoro «eseguito sulle pareti di una vasca – nella specie di raccolta d’acqua – ad altezza superiore a due metri dal suolo». Ancora, per Cass. pen. sez. IV, 17 maggio 2013, n. 21268, la suddetta norma poteva essere applicata alle operazioni di scaricamento e di sbracaggio di un motore industriale di notevoli dimensioni da un rimorchio, atteso che essa non è limitata al settore delle costruzioni edilizie, ma riguarda tutte le attività in quota che possano determinare cadute dall’alto dei lavoratori (nel caso specifico il lavoratore si era inerpicato sul motore, a un’altezza superiore ai due metri, in assenza di idonee precauzioni anticaduta, era poi scivolato, mentre cercava di sganciare i cavi d’acciaio che lo imbracavano, ed era rovinosamente caduto a terra, riportando gravi lesioni). Peraltro, in un raro caso in cui la Cassazione si è dovuta occupare dell’applicabilità della disciplina sui parapetti ai “mezzi di trasporto”, ha ritenuto che «In tema di normativa antinfortunistica, l’art. 27, D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, il quale prevede che i posti di lavoro siano provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali o di difese equivalenti, non è applicabile al posto di lavoro costituito dal cassone di automezzo, da cui si stiano scaricando materiali, a causa della peculiare natura di tal posto di lavoro, che non consente l’approntamento di un valido sistema protettivo equivalente contro il pericolo di cadute dall’alto» (Cass. pen., sez.IV, 20 maggio 1988, Fabbri).

Nell’ipotesi di «lavori in quota» che non diano luogo a un «cantiere temporaneo o mobile», il modello gestionale di riferimento, per l’applicazione delle norme del titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008, sarà il sistema degli “appalti interni” codificato all’art. 26 del testo unico.

Il titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008 (artt.105-156) detta dunque l’attuale disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e, nell’ambito di questa, dei «lavori in quota». Trattasi di disposizioni che erano già contenute nel D.Lgs. n. 235/2003, recante norme in tema di requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori (attuativo della direttiva 2001/45/Ce del 27 giugno 2001), e che, all’epoca, erano confluite nel titolo IV del D.Lgs. n. 626/1994 (artt. 34 e 36-bis e ss.).
Prima del recepimento della direttiva 2001/45/Ce, non esisteva nella legislazione italiana una esplicita definizione di «lavoro in quota». Le uniche disposizioni prevenzionistiche riferibili ai posti di lavoro “sopraelevati” erano l’art. 27 del D.P.R. n. 547/1955 (riferito alle imprese in generale) e, con specifico riferimento al settore delle costruzioni, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956.

La filosofia generale di tutela muove dall’affermazione di principio, contenuta nel 10° considerando della direttiva 2001/45/Ce, per la quale «In genere le misure di protezione collettiva contro le cadute offrono una protezione migliore delle misure di protezione individuale».
È così che l’art. 111, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce in via principale l’obbligo, per il datore di lavoro, di scegliere le attrezzature di lavoro «più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure», irrobustito dal criterio della “priorità” delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale (comma 1, lett. a), con richiamo concettuale all’art. 15, comma 1, lett. i) del testo unico, a sua volta derivante dall’art. 6, par. 2, lett. d) della direttiva- quadro 89/391/Cee). D’altro canto, l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008 (vero e proprio “polmone respiratorio” del sistema di gestione della sicurezza) è richiamato anche dall’allegato XV al testo unico «(Contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili»), ove al punto 2.1.1. è indicato a chiare lettere che i contenuti generali del piano di sicurezza e di coordinamento «sono il risultato di scelte progettuali ed organizzative conformi alle prescrizioni dell’articolo 15 del presente decreto».

Gli ulteriori criteri generali di scelta, improntata a un principio di sicurezza gradata, tra le attrezzature di lavoro utilizzabili per i lavori temporanei in quota (compresi i sistemi di accesso ai posti di lavoro, anche a fini di evacuazione in caso di pericolo “imminente”), sono: 

• per le scale a pioli (art. 111, comma 3), la sussistenza di condizioni di «limitato livello di rischio» e di «breve durata di impiego», oppure le caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare;

• per i sistemi a funi (art. 111, comma 4), il conseguimento di un livello di sicurezza accettabile (implicante facoltà di non impiego di un’attrezzatura di lavoro considerata più sicura), risultante dall’attività di valutazione dei rischi, sempre che si versi in situazioni di «breve durata di impiego», e di caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare.

Un ulteriore criterio di scelta è quello della minimizzazione dei rischi specifici insiti nell’uso delle attrezzature di lavoro (art. 111, comma 5), con l’ulteriore prescrizione relativa ai cosiddetti dispositivi anticaduta i quali, per quanto possibile, devono prevenire lesioni ai lavoratori, in ogni caso di caduta da luoghi di lavoro in quota (sia a terra sia in sospensione). Anche questa previsione è un’applicazione specifica della misura generale dell’obbligo di riduzione al minimo dei rischi, inserita dall’art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008 tra le misure generali di tutela.
L’art. 111, comma 6, introduce il principio della sicurezza equivalente per l’esecuzione di lavori di natura particolare, che richiedono l’eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute (con obbligo di immediato ripristino anche nel caso di temporanee sospensioni del lavoro: ad esempio la pausa mensa o la fine dell’orario di lavoro giornaliero).
L’art. 111, comma 7, da riferirsi ai lavori in esterno, è di non facile interpretazione, in assenza di ogni riferimento all’entità del pericolo per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e alla sua natura astratta o concreta (cioè imminente). Tra l’altro il punto 1 dell’allegato XI del D.Lgs. n. 81/2008 consente l’esecuzione di lavori in quota, pur particolarmente aggravati dalle condizioni ambientali (tra le quali vanno sicuramente ricomprese le condizioni meteo), laddove l’art. 111 citato, in situazioni di minor rischio (che possono verificarsi anche in cantiere), pone al contrario un esplicito divieto. Gli artt. 113, 116 e 136 del D.Lgs. n. 81/2008 dettano poi le condizioni di impiego delle scale a pioli, dei ponteggi, e dei sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi, strutturando variamente gli obblighi posti a carico del datore di lavoro (più restrittivamente rispetto alla direttiva, che in alcune ipotesi utilizza l’espressione «personale competente»), anche in termini di risultato (reso inequivoco dal ricorso all’uso del verbo «assicurare»), nonché di logica programmatoria dei lavori, e di formazione professionale dei lavoratori addetti ai lavori in quota (supplementare rispetto a quella ordinaria, e a contenuto sia teorico che pratico – salvo che per l’uso delle scale a pioli, per le quali valgono le regole generali dell’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008). 

La formazione teorico-pratica si compone di formazione in senso stretto (comprensione/ apprendimento, che è qualcosa di più della mera informazione, la quale ha normalmente un contenuto passivo), e di addestramento per i soli sistemi a funi; quanto alla previsione dell’art. 116, comma 3, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008, va rilevato che la norma non ha trasposto fedelmente il testo della direttiva, la quale prevede che la formazione investa in particolare le procedure di salvataggio. Si è in tal modo bypassato il livello minimo delle prescrizioni fissato dalla normativa comunitaria: né a questo inconveniente si è rimediato in sede di accordo Stato-Regioni del 26 gennaio 2006 (attuale allegato XXI al D.Lgs. n. 81/2008). Quanto al rapporto intercorrente tra l’art. 107 e l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008. Va detto che mentre l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 concepiva (senza definirlo) il «lavoro in quota» come il lavoro eseguito «ad un’altezza superiore ai m 2», l’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 dispone invece che per «lavoro in quota» si intende un’attività lavorativa «che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile».
Ne deriva che, a partire dal 19 luglio 2005 (data di entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 235/2003), il criterio cui si deve avere riguardo nello stabilire la sussistenza dell’obbligo, per il datore di lavoro, di adozione e di messa in opera di adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali, non è più la quota di «esecuzione del lavoro», bensì la quota di «esposizione al rischio di caduta» per il lavoratore.

La parola alla giurisprudenza
Per vero, la giurisprudenza formatasi sull’antesignana norma di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 156/1964, aveva concordemente affermato che l’altezza superiore a due metri dal suolo doveva essere calcolata non con riguardo al piano di calpestio (e più in generale al punto in cui il lavoratore poggia i piedi: nella specie i pioli di una scala), bensì con riguardo al punto in cui venivano «eseguiti i lavori» (Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 1983, Bioc; Cass. pen., sez. IV, 4 agosto 1982, Placucci; Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 1982, Salimbeni. Più recentemente Cass. pen., sez. III, 18 giugno 2003, n. 26208; Cass. pen. sez. IV, 1° aprile 2014, n. 15028 e Cass. pen. sez. IV, 14 aprile 2014, n. 16223).

Più specificamente la pronuncia di Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 1989, ebbe ad affermare che «la norma di cui all’art. 29, ultimo comma, D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008, nda), che detta disposizioni circa le passerelle e le andatoie, si applica anche nel caso in cui i lavori si eseguano a una altezza inferiore a due metri dal piano di calpestio; mentre, i ponteggi e le opere provvisionali, di cui all’art. 16 detto D.P.R. (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), e i parapetti, di cui al successivo art. 24 (attuale art. 126 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), vanno predisposti solo quando i lavori si eseguono ad altezza superiore ai due metri».
Il testo in vigore dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 fa invece propendere per la tesi contraria: infatti, nel lavoro in quota, ciò che conta è la quota di appoggio del lavoratore (non quella di lavoro effettivo). Insomma, l’altezza di due metri non va calcolata dalla quota del piano di calpestio (fino) alla quota in cui si esegue il lavoro; bensì mettendo in relazione la quota del piano di calpestio «rispetto ad un piano stabile», evidentemente situato a una quota inferiore.
Il che rende assolutamente ininfluente, ai fini del calcolo dell’altezza alla quale il lavoro viene eseguito, l’altezza del lavoratore.

D’altro canto, appare evidente la diversità di ratio normativa: mentre l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008 fissa la quota minima al di sopra della quale scatta l’obbligo, per il datore di lavoro, di far ricorso a opere provvisionali, l’art. 107 del D.Lgs. n. 626/1994 fissa la quota minima al di sopra della quale il datore di lavoro, all’esito della valutazione del rischio (parametrata sia alla natura e all’entità dello stesso, sia alla tipologia e alla durata dei lavori, sia alle caratteristiche del sito oggetto dell’intervento), deve esercitare la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di opere provvisionali (scale a pioli, ponteggi, sistemi a funi). Sotto questo profilo, l’obiettivo dell’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008 già citato, è di stabilire corrette relazioni gerarchiche d’uso tra le attrezzature di lavoro normalmente impiegate per l’esecuzione di lavori in quota, con rischio di caduta dall’alto dei lavoratori (in termini, di recente, Cass. pen. sez. IV, 23 luglio 2018, n. 34818).
Solo in qualche raro caso la Cassazione ha affrontato e risolto in maniera corretta la quaestio iuris legata all’interpretazione dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008: con riguardo alla caduta a terra di un lavoratore da un impalcato di altezza pari a 185 cm, che era stato allestito per l’esecuzione di lavori edili, i giudici di legittimità hanno confermato la pronuncia assolutoria del datore di lavoro, ritenendo l’inapplicabilità delle norme cautelari in tema di lavoro in quota, argomentando che trattasi di «disposizioni riguardanti lo svolgimento di attività lavorativa ad un quota posta ad altezza superiore a due metri, laddove l’impalcato misurava cm. 185 di altezza» (Cass. pen. sez. IV, 1° dicembre 2011, n. 44650).

Per il resto, la maggior parte delle pronunce di legittimità continuano ostinatamente a interpretare le nuove norme (artt. 107 e 122 del D.Lgs. n. 81/2008) secondo i vecchi parametri e l’ormai superata dizione che era contenuta nell’abrogato art. 16 del D.P.R.n. 164/1956 (ex aliis, Cass. pen. sez. IV, 11 febbraio 2019, n. 6408, secondo cui «l’altezza superiore a metri due dal suolo va calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore». Conformi Cass. pen. sez. IV, 15 aprile 2019, n. 16175; Cass. pen. sez. IV, 15 settembre 2017, n. 42261; Cass. pen. sez. IV, 5 luglio 2017, n. 32638; Cass. pen. sez. IV, 9 maggio 2017, n. 22599; Cass. pen. sez. IV, 20 settembre 2016, n. 39024).

Quanto ai requisiti di formazione professionale per i lavoratori addetti all’uso di attrezzature di lavoro per lo svolgimento di lavori temporanei in quota, esaurita la fase transitoria fissata ai sensi del D.Lgs. n. 235/2003 al 19 luglio 2007, dispongono ora gli articoli 116, comma 4 e 136, comma 8 e l’allegato XXI del D.Lgs. n. 81/2008.

Relativamente poi al meccanismo di ripartizione, nei cantieri edili, dei compiti e delle responsabilità tra coordinatori e datori di lavoro delle imprese esecutrici, va ribadito che i primi – fermo restando l’obbligo preliminare della valutazione di tutti i rischi professionali, e gli obblighi inerenti alla segnalazione delle inosservanze al committente e alla obbligatoria sospensione delle singole lavorazioni in caso di pericolo grave e imminente: lett. e) e f) dell’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008 – devono limitarsi a gestire anch’essi direttamente i rischi professionali derivanti dall’effettuazione di lavori temporanei in quota, solo qualora questi determinino “interferenze” tra le lavorazioni (ad esempio, derivanti dall’uso comune di un ponteggio); in caso contrario i suddetti obblighi gestionali faranno esclusivamente carico alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi.

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Cancerogeni e mutageni nuovi compiti in arrivo

La recente direttiva (Ue) 2019/130 andrà recepita entro il 20 febbraio 2021

Datore di lavoro e medico competente, unitamente all’intero sistema prevenzionistico, saranno chiamati a rivedere il proprio ruolo per la gestione del rischio in azienda. Punto di partenza: inasprire i controlli del livello di esposizione

Le novità
La nuova direttiva (Ue) 2019/130 del parlamento europeo del 16 gennaio 2019, in vigore dal 20 febbraio 2019, modifica la direttiva 2004/37/Ce sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione
ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro. In Italia sarà recepita nel D.Lgs. n. 81/2008 e modificherà/integrerà il titolo 9, Capo II e gli allegati XLII e XLIII; termine ultimo per il recepimento negli ordinamenti nazionali, il 20 febbraio 2021.
Si tratta della seconda modifica della direttiva 2004/37/Ce (la prima è la direttiva Ue 2017/2398 del Parlamento europeo del 12 dicembre 2017). 

Le principali modifiche che la direttiva (Ue) 2019/130 apporta alla direttiva 2004/37/Ce riguardano:
• l’introduzione dell’articolo 13-bis;
• alcuni emendamenti a carico dell’allegatoI e dell’allegato III.

L’articolo 13-bis «Accordi delle parti sociali», orientato allo sviluppo di politiche di prevenzione, prevede che gli accordi delle parti sociali eventualmente conclusi nell’ambito della presente direttiva siano elencati nel sito web dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) con necessità di aggiornamento periodico. Ciò per ribadire l’importanza della definizione degli accordi delle parti sociali per l’attuazione efficace, oltre alle misure normative, degli obblighi a carico dei datori di lavoro di cui alla stessa direttiva 2004/37/Ce.

Le modifiche dell’allegato I e dell’allegato III coinvolgono, invece, aspetti più tecnici.

L’allegato I alla direttiva 2004/37/Ce, recepito dall’allegato XLII del D.Lgs. n. 81/2008, definisce cancerogena una sostanza, miscela o procedimento, nonchè una sostanza o miscela liberate nel corso di un processo di seguito menzionato:
• produzione di auramina con il metodo Michler;
• i lavori che espongono agli idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame o nella pece di carbone;
• i lavori che espongono alle polveri, fumi e nebbie prodotti durante il raffinamento del nichel a temperature elevate;
• il processo agli acidi forti nella fabbricazione di alcool isopropilico;
• il lavoro comportante l’esposizione a polvere di legno duro;
• i lavori comportanti esposizione a polvere di silice cristallina respirabile generata da un procedimento di lavorazione.

Con la nuova direttiva (Ue) 2019/130 a questi andranno ora aggiunti:
• i lavori comportanti penetrazione cutanea degli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore;
• i lavori comportanti esposizione alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel.

Con la direttiva (Ue) 2019/130 l’allegato III («Valori limite e altre disposizioni direttamente connesse») è sostituito dal testo che figura nell’allegato della direttiva stessa; di fatto, la nuova direttiva apporta all’allegato III l’aggiunta di cinque sostanze cancerogene:
• il tricoloretilene (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• la 4,4’ – metilendianilina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’epicloridrina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dibromuro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dicloruro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008).

Queste sostanze vanno ad aggiungersi:
• alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel;
• alle miscele di idrocarburi policiclici aromatici (categoria 1A o 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008), in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene;
• agli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore.

Per tutti questi composti, ad eccezione degli ultimi due, sono definiti i valori limite che non devono essere superati nel corso dell’esposizione lavorativa. Per le miscele di idrocarburi policiclici aromatici, in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene, e per gli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna non vengono identificati valori limite, ma, essendo noto l’assorbimento anche per via cutanea, è proposta la “skin notation” a raccomandare, nella valutazione del rischio, di considerare anche la capacità di contribuire in modo significativo all’esposizione totale attraverso la via di assorbimento cutanea. Salgono, quindi, ora a ventidue gli agenti cancerogeni per i quali è fissato un limite espositivo (in questa direttiva non è contemplato l’amianto) e sono dodici le sostanze che assumono la “skin notation”.

Le conseguenze per il datore di lavoro…
Da tutto ciò ne deriva che sono importanti le novità che datore di lavoro e medico competente dovranno affrontare. Per il datore di lavoro vi sarà la necessità di ricomprendere nel processo di valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni nuovi composti e, quindi, nuovi ambiti occupazionali. Ne sono importanti esempi i gas di scarico dei motori diesel e gli oli precedentemente (facendo attenzione alle pregresse esposizioni) usati nei motori a combustione interna (maggior parte dei veicoli). Per i primi, classificati dal 2014 come cancerogeni per l’uomo dalla Iarc (categoria 1), andranno considerate le attività comportanti l’impiego di motori diesel on road e off road e alcuni ambiti del trasporto ferroviario e navale.
Per i secondi ne conseguirà la necessità di valutare l’esposizione ad agenti cancerogeni per settori comuni fin qui per questo non valutati (uno per tutti il settore delle autoriparazioni).
Sempre per il datore di lavoro si confermerà con maggior forza l’obbligo di misurare e contenere l’esposizione per via inalatoria degli agenti cancerogeni o mutageni entro i limiti stabiliti dall’allegato III alla direttiva (Ue) 2019/130. Questi limiti sono stabiliti in funzione di un periodo di riferimento di otto ore o, per alcuni agenti cancerogeni o mutageni, di periodi di riferimento per esposizione di breve durata (Stel), normalmente di 15 minuti. Il testo della direttiva (Ue) 2019/130 precisa che l’adozione di valori limite relativamente agli agenti cancerogeni o mutageni non azzera i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dall’esposizione durante il lavoro (rischio residuo). I valori limite di esposizione professionale rientrano, in ogni modo, a pieno titolo nelle misure di gestione del rischio di cui alla direttiva 2004/37/Ce e il rispetto contribuisce, comunque, a una riduzione significativa dei rischi derivanti da questa esposizione. L’osservanza dei limiti non deve, tuttavia, pregiudicare gli altri obblighi dei datori di lavoro ai sensi della direttiva quali, in primis:
• la sostituzione dell’agente cancerogeno o mutageno con una sostanza, una miscela o un procedimento che non sia o sia meno nocivo per la salute del lavoratore;
• il ricorso a un sistema chiuso o altre misure volte a ridurre l’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile;
• la riduzione dell’utilizzazione di agenti cancerogeni e mutageni sul luogo di lavoro, la prevenzione o la limitazione dell’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile.

Già nel 2002 le linee guida per l’applicazione del titolo VII del D.Lgs. n. 626/1994 «Protezione da agenti cancerogeni e/o mutageni», del coordinamento tecnico per la sicurezza nei luoghi di lavoro delle regioni e delle province autonome, ricordavano che il limite non può essere considerato uno spartiacque verso il basso, dato che il rispetto del limite non comporta di per sé rispetto della minimizzazione dell’esposizione, mentre deve essere considerato tale verso l’alto, nel senso che un’attività che comporti superamento del limite non può essere in nessun caso mantenuta in essere.

Nella direttiva (Ue) 2019/130 sono poi fissati alcuni valori limite ai quali l’adeguamento dovrà essere progressivo:
• per le polveri di legno duro il valore limite è fissato a 2 mg/m3 con livello transitorio di 3 mg/m3 fino al 17 gennaio 2023;
• per i composti di cromo VI definiti cancerogeni il valore limite diventa 0,005 mg/m3 (0,010 mg/m3 fino al 17 gennaio 2025; 0,025 mg/ m3 per i procedimenti di saldatura o taglio al plasma o analoghi procedimenti di lavorazione che producono fumi fino al 17 gennaio 2025).

Per questi due agenti, già la direttiva (Ue) 2017/2398 aveva stabilito questi limiti che sono stati quindi ripresi dalla attuale direttiva (Ue) 2019/130.
Per le emissioni di gas di scarico dei motori diesel (misurate sotto forma di carbonio elementare) il limite è per la prima volta posto a 0,05 mg/m3. Il valore limite si applicherà a decorrere dal 21 febbraio 2023. Per le attività minerarie sotterranee e la costruzione di gallerie, il valore limite sarà in vigore a decorrere dal 21 febbraio 2026.
Lo strumento di analisi, a disposizione del datore di lavoro, per la valutazione dell’esposizione e dell’efficacia delle misure preventive per il rispetto dei limiti è, quindi, ancora una volta l’indagine ambientale la cui metodica è indicata dalle norme tecniche.
La valutazione dell’esposizione deve essere eseguita periodicamente. Le indagini devono valutare sia la via inalatoria, che l’esposizione cutanea. Per quest’ultima, vigono, tuttavia, difficoltà maggiori; non esistono, infatti, diffusi metodi di campionamento e analisi, né sono disponibili valori limite di esposizione cutanea con i quali confrontare le valutazioni effettuate.
Per alcuni agenti, segnatamente le emissioni di gas di scarico dei motori diesel, le metodologie di analisi (la già citata misura del carbonio elementare) non sono ancora di pronta disponibilità.

…e il medico competente
Il medico competente:
• avrà, anzitutto, la necessità di esercitare un ruolo attivo nella fase della valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni provenienti da nuovi settori professionali e collaborare attivamente al processo di individuazione e ottimizzazione delle misure di prevenzione;
• ove disponibili, dovrà essere in grado di mettere a disposizione idonei indicatori che quantifichino il livello di esposizione dei lavoratori coinvolti in particolari attività, utilizzando il monitoraggio biologico;
• avrà l’esigenza di perfezionare i protocolli di sorveglianza sanitaria per nuovi gruppi di lavoratori collaborando alla loro informazione e formazione;
• infine, amplierà la compilazione e l’aggiornamento del registro degli esposti aziendale.

Possibili sviluppi e conclusioni
In conclusione, si tratta, quindi, di modifiche rilevanti per datore di lavoro e medico competente, in realtà più diffusamente per tutto il sistema prevenzionistico aziendale, che riguardano molte attività e mansioni che sino a oggi non erano state incluse fra quelle da valutare e sorvegliare.
Per queste, proprio perché esponenti ad agenti cancerogeni o mutageni, si imporrà un più rigido controllo del livello di esposizione. Una terza proposta di revisione della direttiva 37/2004 (documento COM 2018/0171), la cui prima lettura al Parlamento europeo è attesa per dicembre 2019, prevede l’introduzione di ulteriori valori limite di esposizione per cadmio e suoi composti inorganici, acido arsenico e suoi composti inorganici, formaldeide, 4,4’-metilen-bis (2-cloroanilina) (MOCA).
Gli agenti reprotossici non trovano, invece, ancora inclusione, benché auspicata, nella direttiva (ue) 2019/130.

 

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Formazione inadeguata nella Babele delle lingue

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la Cassazione ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti per quanto riguarda la presenza, sul posto di lavoro, di operatori stranieri che non parlano, o parlano male, l’italiano. Una presa di posizione che si ispira al testo unico della sicurezza e all’accordo Stato-Regioni

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la di Cassazione, sezione 3 pen. (pres. Rosi; rel. Andronio) ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti sulla di formazione in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare, per quanto riguarda quella dei lavoratori stranieri.
Bisogna subito richiamare, in tal senso, l’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento sia a una serie di nozioni fondamentali (concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) che costituiscono la cosiddetta “formazione generale” sia ai rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione che costituiscono, invece, la cosiddetta “formazione specifica” che, com’è noto, trovano una puntuale regolamentazione nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Proprio grazie all’intensa attività giurisprudenziale degli ultimi anni, i concetti di “adeguatezza” e di “sufficienza” si stanno riempiendo di contenuti e sotto questo profilo, come vedremo, la sentenza in commento riveste una significativa importanza perché la Cassazione ha in questa occasione ancora meglio messo sotto la lente d’ingrandimento la delicata questione dell’efficacia e dell’adeguatezza dei corsi di formazione rivolti ai lavoratori stranieri.

Il fatto
La vicenda affrontata dalla Cassazione riguarda l’infortunio dell’operaio T.M. di un’impresa appaltatrice, inquadrato come preposto, che durante lo sbloccaggio del nastro trasportatore, dovuto ad anomalia, ha perso la vita.
Con la sentenza del 28 marzo 2018, la Corte d’Appello di Milano, a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2016, ha confermato la sentenza emessa nel 2014 dal tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati, D.C. rappresentante legale dell’impresa D. committente, e P. rappresentante legale della P. soc.coop., appaltatore, per i reati di cui agli artt. 41, primo e terzo comma; 42 secondo comma; 43, primo comma e 589, secondo comma, del codice penale, perché, ciascuno mediante condotta colposa di negligenze e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 del codice civile, avevano cagionato la morte di T.M., lavoratore dipendente della «ditta appaltatrice addetta alla manovalanza», attraverso l’inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 3, art. 71, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008, per quanto attiene agli obblighi dell’imputato D.C., e degli artt. 17, 26, comma 2, e 37, comma 7, del D.Lgs. n 81/2008, con riferimento agli obblighi a carico dell’imputato P. Va precisato che la Cassazione aveva annullato, però, la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello nel 2015, rilevando l’insufficienza della motivazione quanto al profilo dell’ampiezza e della serietà dell’obbligo informativo sui rischi lavorativi.
In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la sentenza assolutoria non aveva chiarito quale fosse il livello di approfondimento del documento di valutazione e della formazione in concreto svolta, a fronte del rischio smontaggio dello scivolo cui era addetto il lavoratore, né aveva chiarito se lo smontaggio potesse dirsi come anomalia prevedibile o imprevedibile, anche considerata la circostanza della presenza di un tubo che avrebbe potuto costituire un ostacolo allo spostamento dello scivolo.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello del 2018 sia D.C. sia P. avevano proposto ricorso per Cassazione censurando l’operato dei giudici sotto vari profili; concentrando l’attenzione su quello della formazione, che qui interessa, i ricorrenti avevano lamentato l’omessa valutazione di controprove dichiarative ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, a loro avviso, i giudici del rinvio in contrasto con le indicazioni contenute nella sentenza di annullamento, avrebbero omesso di approfondire i dirimenti aspetti della violazione degli obblighi informativi cui erano tenuti gli imputati e dell’eventuale abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore, facendo rilevare che per quanto riguarda le prove testimoniali gli stessi giudici avrebbero considerato solo parzialmente le dichiarazioni rese dai testimoni M., B. C. e C.E., omettendo qualsivoglia valutazione su profili dirimenti. ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il teste B.C., consulente esterno della sicurezza sul lavoro, aveva dichiarato che i corsi di formazione venivano eseguiti direttamente in azienda ogni tre o quattro mesi, che il lavoratore vittima dell’incidente partecipava ai corsi tenuti in italiano, ma compresi da tutti i lavoratori presenti, e che durante gli stessi veniva espressamente indicata la procedura da seguire in caso di guasto. Aveva precisato, altresì, che la predetta procedura impediva qualsivoglia partecipazione diretta da parte del lavoratore, tenuto a contattare il tecnico della manutenzione, unico incaricato della risoluzione dei guasti dei macchinari.
E ancora, sempre secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valorizzare le dichiarazioni rese dal teste B. (responsabile del reparto) che aveva confermato il regolare svolgimento dei corsi di formazione tenuti dal consulente B.C. e aveva ribadito che il T.M. non era autorizzato allo smontaggio del nastro trasportatore.
Identiche dichiarazioni sarebbero state rese dal teste M., dipendente della P. soc. coop. e unico testimone oculare presente al momento dell’incidente. Quindi, secondo i due imputati, queste dichiarazioni sarebbero idonee a dimostrare il corretto e abituale svolgimento di corsi di formazione rivolti ai dipendenti delle due società coinvolte, nonché l’abnormità della condotta tenuta dal lavoratore, cimentatosi, imprevedibilmente, in un’attività non rientrante nella loro competenza.

La legittimità
La Cassazione ha, tuttavia, respinto i ricorsi ritenendoli infondati. In particolare, per quanto riguarda la formazione, i giudici di legittimità hanno tenuto a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’Appello non ha omesso di valutare le dichiarazioni testimoniali richiamate nel ricorso, ma, pur valutandole, le ha ritenute immeritevoli di prevalere rispetto alle dichiarazioni di senso contrario, specifiche, complete e soprattutto reciprocamente riscontrate.
In particolare, per quanto riguarda i corsi di formazione, i giudici di merito non si sono limitati a riportare la testimonianza del consulente B. C., nella parte in cui lo stesso ha confermato il regolare svolgimento dei corsi all’interno dell’azienda, ma hanno, altresì, richiamato il prosieguo della testimonianza «(…) da cui è emerso con pacifica attendibilità che i corsi di formazione erano tenuti in lingua italiana nonostante i dipendenti impiegati nell’azienda appaltatrice fossero per la maggior parte stranieri».
Sottolineano ancora i giudici che, più precisamente, i corsi di formazione erano tenuti «(…) soltanto in lingua italiana anche se rivolti ad una compagine di lavoratori stranieri per buona parte incapaci di comprendere l’italiano»; di conseguenza sono stati ritenuti inidonei a garantire il necessario livello di preparazione in quanto appare evidente che, anche da un punto di vista metodologico, la formazione così erogata diventa “zoppa” in quanto solo formale e non sostanziale come, invece, richiede la norma.
Sotto questo profilo giova ricordare che il già citato art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga proprio il datore di lavoro a compiere preliminarmente una verifica finalizzata a stabilire il livello di conoscenza della lingua veicolare da utilizzare nei corsi e, quindi, un accertamento in concreto della conoscenza dell’italiano cosa che sembra non sia avvenuta nel caso de quo.

Una parola sui rischi
Secondo la Cassazione, quindi, i corsi di formazione predisposti dagli imputati, sebbene svolti con cadenza trimestrale, non potevano ritenersi sufficienti a garantire ai lavoratori un idoneo livello di competenze anche perché, come emerso dalle testimonianze, avevano «(…) carattere generale e poco approfondito, non prevedevano insegnamenti differenziati per le singole mansioni attribuite ai dipendenti».
Sotto questo profilo viene sottolineato che, in effetti, durante i corsi venivano fornite indicazioni generali sul complesso delle lavorazioni compiute negli stabilimenti, ma secondo i giudici « (…) non erano idonei a formare i lavoratori in ordine allo svolgimento delle specifiche mansioni cui erano preposti e ad informarli in merito al complesso dei rischi connessi non solo alla propria attività, ma anche alle ulteriori operazioni inevitabilmente interferenti con le lavorazioni di propria competenza».
Di conseguenza, per i giudici, la formazione è risultata carente del requisito della specificità, anche in ordine ai rischi da interferenze, e quindi ritenuta anche per questo motivo non adeguata.

Il comportamento abnorme
Per quanto riguarda, poi, l’accertamento dell’abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore T.M. nella sentenza viene precisato che era “non rara” la necessità di intervenire sulle frequenti anomalie del macchinario gestito dall’infortunato. Infatti, sarebbero stati dimostrati frequenti interventi di sbloccaggio del nastro trasportatore che avrebbero richiesto una specifica formazione dei lavoratori o, quanto meno, una concreta informativa in ordine ai rischi connessi allo svolgimento di quell’attività, a prescindere dalla tipologia di intervento da compiere per garantire la ripresa del funzionamento dei macchinari. Per altro si osservi che nella sentenza è anche sottolineato che la Corte d’Appello ha accertato che, in effetti, sussisteva un quadro operativo privo di un’effettiva distinzione di ruoli, di competenze e di mansioni «…tanto che il T.M. era solo formalmente considerato un “preposto”, ma in realtà svolgeva attività di operaio semplice al pari di tutti gli altri lavoratori».

La verifica
In definitiva, quindi, queste omissioni – unitamente ad alcune altre come, ad esempio, la genericità del Duvri – hanno radicato la responsabilità dei due imputati; ma ciò che qui preme di più sottolineare è che con la sentenza n. 16498/2019 la Cassazione ha focalizzato, quindi, forse meglio che in passato 2 una delle più importanti “patologie” della formazione che frequentemente si registrano nella prassi: l’attuazione di un intervento formativo in italiano rivolto a una platea di lavoratori stranieri non in grado, però, di comprendere l’italiano. Bisogna ricordare che, sotto questo profilo, proprio i dati sul fenomeno infortunistico e la massiccia apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri hanno indotto il legislatore nel 2008 a introdurre, con l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 81/2008, il già citato obbligo della verifica preventiva della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo. Secondo questa norma, infatti, il «(…) contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo».
Per altro, giova anche ricordare, infine, che la rilevanza di questa problematica emerge anche dalla disciplina regolamentare dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, che prevede nei corsi rivolti a lavoratori stranieri anche le opzioni dell’ausilio di mediatori interculturali o di traduttori e il ricorso a programmi di formazione preliminare in modalità e-learning.

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PREVENZIONE INCENDI: DAL 21 OTTOBRE 2019 OBBLIGATORIO IL “NUOVO APPROCCIO”

Il decreto 12 aprile 2019, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019, apporta importanti modifiche al decreto 3 agosto 20151, noto come codice di prevenzione incendi. Con il nuovo decreto – che entrerà in vigore il 21 ottobre 2019 anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività soggette ma non normate (prive di regola tecnica verticale) – dovrà essere adottato il nuovo approccio prestazionale.

Prima di esaminare le novità introdotte con il decreto 12 aprile 2019, è opportuno ricordare che il D.M. 3 agosto 2015, oggetto delle modifiche, è un atto di notevole rilevanza in quanto, attraverso l’adozione di un unico testo organico e sistematico di disposizioni e l’introduzione di un nuovo approccio metodologico, si è potuto semplificare e razionalizzare l’impianto normativo in materia di prevenzione incendi.

Di fatto, il D.M. 3 agosto 2015 ha segnato il passaggio da un sistema rigido, caratterizzato da norme prescrittive, a uno che agevola l’approccio prestazionale, che permette di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Il D.M. 3 agosto 2015, entrato in vigore il 19 novembre 2015, è costituito da cinque articoli e un consistente allegato tecnico, 1), nel quale sono contenute le norme di prevenzione incendi. Attraverso l’articolato sono state individuate le attività ricadenti nel campo di applicazione del decreto e indicate le modalità di adozione della nuova metodologia di prevenzione incendi. In particolare, sono state approvate ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. 8 marzo 2006 n. 139, le norme tecniche di cui all’allegato al decreto ed è stata prevista una introduzione graduale del nuovo approccio, che ha permesso, sino ad oggi, che le nuove norme potessero essere applicate in alternativa alle specifiche disposizioni dettate dalle vigenti regole di prevenzione incendi.

Per quanto concerne l’allegato al decreto, nel quale sono contenute le specifiche tecniche, si ricorda la suddivisone in quattro sezioni: generalità, strategia, regole tecniche verticali e metodi. Attraverso queste sezioni sono specificati puntualmente i principi fondamentali per la progettazione della sicurezza antincendio, gli elementi necessari per ideare la strategia antincendio, le regole tecniche di prevenzione incendi applicabili e le metodologie progettuali. In particolare, con la prima sezione dell’allegato 1 (sezione G), suddivisa in tre capitoli, sono descritti la terminologia e i simboli grafici, sono fissati i criteri di progettazione per la sicurezza antincendio e, infine, sono determinati i profili di rischio delle attività.

Con la sezione S della regola tecnica sono trattate le misure per comporre la strategia antincendio finalizzata alla riduzione del rischio di incendio. In questa sezione, composta di dieci capitoli, sono specificate le misure antincendio di prevenzione, protezione e gestionali applicabili alle diverse attività. Con la sezione V sono trattate le regole tecniche verticali che si applicano a specifiche attività (o ad ambiti di queste ultime). Le misure tecniche contenute in questa sezione sono complementari o integrative a quelle generali previste nella sezione S «Strategia antincendio». Al riguardo, va ricordato che la loro funzione è quella di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice. Di fatto, l’applicazione di queste regole consente di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Le regole tecniche verticali, i cui contenuti di base sono quelli previsti dal codice, sono caratterizzate dalla stessa struttura: «Campo di applicazione», «Classificazioni», «Profili di rischio», «Strategia antincendio e altre specifiche tecniche». Con il «Campo di applicazione» e le «Classificazioni» sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree, ecc.). Nel punto concernente i «Profili di rischio» (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice («Determinazionedei profili di rischio delle attività»). Con la sezione «Strategia antincendio» sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (S.1 «Reazione al fuoco», S.6 «Controllodell’incendio», S.2 «Resistenza al fuoco»,S.7 «Rivelazione ed allarme», S.3 «Compartimentazione», S.8 «Controllo di fumi e calore», S.4 «Esodo», S.9 «Operatività antincendio», S.5 «Gestione della sicurezza antincendio», S.10 «Sicurezza degli impianti tecnologici e di servizio»). La regola tecnica di prevenzione incendi allegata al decreto 3 agosto 2015 termina con la sezione M «Metodi», attraverso la quale sono definite le disposizioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio, descritte le procedure di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto e, infine, delineata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita.

La metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio (o progettazione antincendio prestazionale) è trattata nella sezione M del codice. Attraverso questa sezione è descritta dettagliatamente la metodologia di progettazione dell’ingegneria della sicurezza antincendio che, di fatto, è la metodologia che consente di definire soluzioni idonee al raggiungimento di obiettivi progettuali mediante analisi di tipo quantitativo. Il primo elemento trattato in questa sezione è quello concernente le fasi del metodo. Al riguardo ricordiamo che la metodologia di progettazione prestazionale si compone di due fasi: analisi preliminare e analisi quantitativa. In particolare, nella prima fase (analisi preliminare) sono formalizzati i passaggi che conducono a individuare le condizioni più rappresentative del rischio al quale l’attività è esposta e quali sono le soglie di prestazione cui riferirsi in relazione agli obiettivi di sicurezza da perseguire, mentre nella seconda fase (analisi quantitativa), impiegando modelli di calcolo specifici, si esegue l’analisi quali-quantitativa degli effetti dell’incendio in relazione agli obiettivi assunti sunti, confrontando i risultati ottenuti con le soglie di prestazione già individuate e definendo il progetto da sottoporre a definitiva approvazione. Nel capitolo M sono inoltre illustrati puntualmente i passaggi (sotto-fasi) necessari per definire i rischi da contrastare e i criteri oggettivi di quantificazione degli stessi, utili per la successiva analisi numerica, e quelli indispensabili per effettuare le verifiche di sicurezza degli scenari individuati. Il codice specifica che la documentazione di progetto deve essere integrata, per la prima fase (analisi preliminare), dal sommario tecnico – nel quale è sintetizzato il processo seguito per individuare gli scenari di incendio di progetto e le soglie di prestazione – e, per la seconda fase (analisi quantitativa), dalla specifica relazione tecnica in cui si presentano i risultati dell’analisi e il percorso progettuale seguito e il programma per la gestione della sicurezza antincendio.
Alla descrizione della metodologia di progettazione dell’ingegneria seguono le specifiche concernenti l’attuazione della gestione della sicurezza antincendio. Al riguardo si segnala che con l’applicazione della metodologia prestazionale devono essere previste specifiche misure di gestione della sicurezza antincendio (Gsa) affinché non possa verificarsi la riduzione del livello di sicurezza assicurato inizialmente.

La sezione M termina con i capitoli concernenti gli scenari di incendio per la progettazione prestazionale e la salvaguardia della vita con la progettazione prestazionale. Di fatto, attraverso questi capitoli sono specificati gli altri aspetti tecnici della progettazione antincendio prestazionale. In particolare, è descritta la procedura di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto che sono impiegati nell’analisi quantitativa da parte del professionista che si avvale dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Sono fornite, inoltre, le indicazioni per eseguire la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sicurezza antincendio per le attività. Infine, è specificata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita, necessaria per assicurare la possibilità per tutti gli occupanti di un’attività di raggiungere o permanere in un luogo sicuro, senza che ciò sia impedito da un’eccessiva esposizione ai prodotti dell’incendio, unitamente alla possibilità per i soccorritori di operare in sicurezza.

Il provvedimento
Il decreto 12 aprile 2019, costituito da cinque articoli, inizialmente sancisce l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 1 del decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015 (articolo 1). Si tratta di una modifica di particolare rilevanza in quanto pone un termine all’introduzione graduale del nuovo approccio contenuta nella prima versione del codice di prevenzione. Il comma abrogato stabiliva, infatti, la possibilità di applicare sia le disposizioni contenute nel codice di prevenzione sia le specifiche disposizioni dettate dalle previgenti regole di prevenzione incendi.
Segue la sostituzione integrale dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 concernente il «Campo di applicazione e modalità applicative ». In particolare, con il nuovo articolo 2 è stabilito che le specifiche tecniche contenute nel codice di prevenzione incendi si applicano alla progettazione, alla realizzazione e all’esercizio delle attività di nuova realizzazione di cui all’allegato I del decreto del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1512, individuate con i numeri 9, 14; da 19 a 40; da 42 a 47; da 50 a 54; 56, 57; 63, 64, 66, a esclusione delle strutture turistico-ricettive all’aria aperta e dei rifugi alpini; 67, a esclusione degli asili nido; da 69 a 71; 73, 75, 76.
Di fatto, con il nuovo articolo 2, sono state comprese nel campo di applicazione la quasi totalità delle attività non normate (prive di regola tecnica verticale) per le quali l’unico riferimento normativo diventa ora il D.M. 3 agosto 2015.

Altra novità apportata dal decreto 12 aprile 2019 riguarda le disposizioni per gli interventi di modifica o di ampliamento alle attività esistenti. Per questi casi, attraverso la rivisitazione dell’articolo 2, è stabilito che le norme si applicano a condizione che le misure di sicurezza antincendio esistenti, nella parte dell’attività non interessata dall’intervento, siano compatibili con gli interventi da realizzare. Invece, per gli interventi di modifica o di ampliamento delle attività esistenti non rientranti in questi ultimi casi, è specificato che si devono applicare le specifiche norme tecniche definite nel nuovo comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto 3 agosto 2015 (di seguito descritto) e, per quanto non disciplinato dalle stesse, i criteri tecnici di prevenzione incendi di cui all’articolo 15 (comma 3) del D.Lgs n.139 del 8 marzo 2006.3. Si segnala che è comunque concessa al responsabile dell’attività, la possibilità di applicare le disposizioni del codice di prevenzione incendi all’intera attività.

Con la nuova versione dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 è ribadito che le norme tecniche contenute nel codice possono essere di riferimento anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività che non soggette ai controlli di prevenzione incendi. 

Il decreto 12 aprile 2019 prosegue con l’articolo 3 attraverso il quale è stato introdotto l’articolo 2-bis nel decreto del 3 agosto 2015.
In particolare, con questo nuovo articolo sono indicate le attività per le quali è concesso in alternativa all’approccio definito dal codice, l’uso di norme tecniche indicate del nuovo comma 1-bis dell’articolo articolo 5 introdotto dal decreto 12 aprile 2019 attraverso il quarto articolo. Al riguardo segnaliamo che con l’introduzione del comma 1-bis all’articolo 5 nel decreto del 3 agosto 2015 sono definiti tutti gli atti normativi le cui specifiche non possono più essere adottate per le attività per le quali è previsto solo l’utilizzo delle disposizioni del codice di prevenzione incendi.

Si evidenzia che attraverso l’art. 4 del decreto 12 aprile 2019 è stato introdotto nell’art. 5 del decreto 5 agosto 2015 anche il comma 2, necessario per specificare che per le attività in regola con gli adempimenti previsti per la valutazione dei progetti, per i controlli di prevenzione incendi e per quelle che hanno potuto usufruire dell’istituto della deroga, il decreto 03 agosto 2015 non comporta adempimenti.
Il decreto 12 aprile 2019 termina con l’art. 5 attraverso il quale sono definite le disposizioni transitorie e quelle finali. In particolare, è stabilito che le modifiche introdotte al decreto 5 agosto 2015 si applicano alle attività interessate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il provvedimento entra in vigore il 21 ottobre 2019 (centottantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019).

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Consulenti responsabili? La parola alla Cassazione

Infortuni sul lavoro: il punto della sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018

 

Se i professionisti esterni, di regola, non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa prevenzionistica? Un’articolata e interessante pronuncia della suprema Corte chiarisce alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione

 

Il fatto
La sentenza in esame è stata emessa nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di due consulenti esterni di una azienda in relazione all’infortunio sul lavoro occorso a tre operai. Per il medesimo infortunio era stata accertata, in un procedimento gemello, la responsabilità del datore di lavoro, nonché Rspp, in particolare, per non aver valutato in modo adeguato i rischi aziendali e aver realizzato empiricamente, quale progettista, una macchina centrifuga caratterizzata da anomalie e carenze strutturali quali il sottodimensionamento dei meccanismi di bloccaggio della flangia.
Nel corso della realizzazione di un getto di lega di acciaio inossidabile, tre dipendenti del reparto fonderia dell’azienda che produce acciai speciali centrifugati erano stati investiti in varie parti del corpo dalla massa di acciaio liquido fuoriuscito dalla conchiglia rotante nella quale quest’ultima era contenuta. Durante la fase di solidificazione del processo di colata, infatti, il coperchio della conchiglia, detto “flangia”, si era sollevato a causa del cedimento di due dei tre dei dispositivi meccanici di bloccaggio – cedimento dovuto alla pressione generata dal metallo fuso in essa contenuto che, sottoposto a una spinta verso l’alto a causadel movimento centrifugo della conchiglia – ed era fuoriuscito improvvisamente.
L’investimento degli operai aveva determinato la morte di due lavoratori e il ferimentograve di uno.

Il merito
Nell’ambito del giudizio di merito erano stati giudicati corresponsabili due consulenti, entrambi professionisti esterni all’azienda e legati al datore di lavoro da autonomi contratti d’opera intellettuali in virtù dei quali all’uno (tale F.) era stato assegnato l’incarico di collaborare alla valutazione dei rischi all’altro (tale S.), quello
di occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario. Ai consulenti era stato contestato di non aver in particolare valutato il rischio meccanico di proiezione a distanza del metallo fuso, di aver predisposto barriere balistiche laterali e dispositivi di protezione individuali tutti inidonei.
Il presupposto sul quale è stata ritenuta, secondo la Corte di Appello, la «corresponsabilità» di:
• F. deriva dal suo inserimento ex contractu, ancorché si tratti di “consulenza generalizzata” in relazione alla messa in sicurezza delle macchine, nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda. Ciò avrebbe comportato l’assunzione di una posizione di garanzia in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, giudicata nel caso di specie inadeguata (così ha argomentato il giudice di primo grado: se un soggetto, come il F, «si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (..) non è esente da (co) responsabilità»);
• S. deriva dalla sua investitura ex contractu in relazione agli adempimenti di certificazione del macchinario che sarebbero stati connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.

La legittimità
La suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza di condanna agli e etti civili pronunciata nei confronti di S. ritenendo impossibile accertare al di là di ogni ragionevole dubbio un’eventuale responsabilità a suo carico per gli infortuni occorsi. La Corte ha cassato, invece, con rinvio la sentenza di condanna di F. rispetto alla posizione del quale dovrà essere celebrato un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale si uniformerà
ai principi di diritto affermati. Con la sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018, in sostanza, la suprema Corte nell’affrontare lo specifico tema della responsabilità in materia di sicurezza dei «consulenti» del
datore di lavoro statuisce che:
• i consulenti, in quanto soggetti estranei alla compagine aziendale e destinatari di un incarico di consulenza generale, non sono destinatari “in linea generale” della normativa prevenzionistica e, come tale, di posizioni di garanzia. E ciò a differenza del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ai quali la disciplina è formalmente e direttamente rivolta;
• ferma la sopracitata regola, i consulenti possono assumere la veste di «corresponsabili» a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale. A tal fine è necessario che, in relazione alle circostanze del caso concreto sia possibile, in alternativa, affermare che abbiano acquisito la veste di garante «di fatto» oppure abbiano realizzato una condotta cooperativa causalmente connessa all’evento e nella consapevolezza dell’altrui condotta.
Tra i destinatari della normativa prevenzionistica non vi sono (di regola) i consulenti.
Con riguardo al primo punto, la Corte è chiara nell’affermare come i consulenti esterni che non sono riconducibili all’organizzazione aziendale non sono tra i destinatari diretti della normativa sulla sicurezza. La disciplina prevenzionistica è, infatti, rivolta anzitutto nei confronti del datore di lavoro che è il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile e, quindi, dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e di assumere direttamente le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazionidi rischio. Al datore di lavoro si aggiungono, altresì, come destinatari il “dirigente” (art. 18, D.Lgs. cit.) «che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso» e il “preposto” (art. 19, D.Lgs. cit.) «colui che attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione».
La suprema Corte, sotto questo profilo, afferma «il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel Rspp ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica».
Ciò comporta che i consulenti anche qualora si inseriscano nel processo di valutazione dei rischi aziendali non sono perciò solo automaticamente «corresponsabili» unitamente alle figure istituzionali e questo perché l’avvalimento di soggetti tecnici esterni non implica necessariamente e automaticamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro. Ma se dunque i consulenti esterni, di regola,
non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa sulla sicurezza?
«Corresponsabilità» dei consulenti esterni: sì, se ricorre in concreto il cosiddetto intreccio cooperativo. La natura colposa dei delitti in materia di infortuni sul lavoro (omicidio colposo e lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro) impone di ricorrere – nel caso in cui gli illeciti siano riconducibili a una pluralità di soggetti – all’istituto della cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale che si caratterizza, a differenza del concorso di cui all’art. 110 del codice penale dal difetto della volontà di partecipare con altri alla realizzazione del delitto. Non a caso di parla di cooperazione in luogo di concorso.
A questo fine, oltre alla pluralità di soggetti, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, il contributo causale alla realizzazione dell’evento e la consapevolezza
(e non la volontà) da parte ci ciascun partecipe di agire in concomitanza con l’azione di altri. Si tratta di un istituto cui è assegnato il compito di estendere la responsabilità penale colposa a condotte astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto.
La Corte, per assegnare contenuto a questo istituto, richiama un precedente del 2013 (Cass. pen. sez. IV – ud. 3 ottobre 2013; 18 ottobre 2013, sent. n. 43083) nel quale si afferma che la rilevanza penale del contributo
anche atipico si coglie “in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori del delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione e alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia».
In quella occasione, la Cassazione aveva confermato la sentenza di condanna per cooperazione in omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza nei confronti dell’amministratore
della società subaffittuaria di una stalla in relazione al decesso del soggetto incaricato dalla proprietà del fabbricato e committente dei lavori (quindi di un soggetto diverso) alla rimozione di alcune lastre di fibrocemento poste a copertura del tetto. Il giudizio aveva confermato che l’operazione, infatti, avvenne nella consapevolezza da parte dell’imputato, per quanto rileva, dell’omessa predisposizione da parte del committente di misure di protezione a tutela dell’operatore a fronte del rischio evidente di caduta dall’alto (consapevolezza
cooperazione) e addirittura fornendo il mezzo di elevazione delle lastre sostitutive al livello della copertura (condotta agevolatrice causalmente connessa).
In sostanza, la Corte ha ricostruito in capo all’agente/cooperante un “dovere giuridico di astensione” – pur in difetto di posizione di garanzia – allorché si trovi a operare in una situazione di rischio “immediatamente e distintamente percepibile”: in questo contesto, qualora la mancata astensione (condotta cooperativa) si traduca in un’agevolazione o aggravamento del rischio che poi si concretizza (l’infortunio) e il contributo causale alla realizzazione dell’evento sia giuridicamente apprezzabile (e provato) l’agente ne risponderà penalmente ex art. 113 del codice penale.
In sintesi, la condotta di “cooperazione”, di per sé penalmente a contenuto neutro, riceve la qualifica di condotta colposa, quindi penalmente rilevante, soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, a cui ci si limita volontariamente ad aderire. L’istituto della cooperazione colposa, pertanto, estende l’area del penalmente rilevante anche alle condotte dei cooperanti le quali di per sé non violino alcuna regola cautelare ma siano adesive all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta «assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento».
Afferma, infatti, la Corte che anche quando il coinvolgimento integrato di più soggetti non sia imposto dalla legge o da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, e sia contingenza oggettivamente definita
senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza «l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte queste situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così
un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Questa pretesa “d’interazione prudente” individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v.Cass., sez. 4, n. 1428/2011, Rv. 252940)».

Questo principio è stato ribadito anche successivamente in un caso nel quale è stata confermata, a titolo di cooperazione colposa, la responsabilità dell’amministratore di una società gerente un complesso sciistico per l’infortunio mortale occorso a un bambino rimasto incastrato in un gonfiabile, allestito nell’area di proprietà del complesso, ma sradicatosi a seguito di vento di burrasca ampiamente previsto (Cass. pen. sez. feriale, ud. 25 agosto 2015 – 13 ottobre 2015 n. 41158). La suprema Corte, peraltro, ha ricondotto all’istituto previsto dall’art. 113 del codice penale la fonte di «corresponsabilità» anche del responsabile del serviziodi prevenzione e protezione di un’azienda sanitaria per l’infortunio occorso a seguito di una sovratensione dell’impianto elettrico a un paziente della struttura in terapia elettromedicale (Cass. pen. sez. IV – ud. 24 gennaio 2013 – 11 marzo 2013, n. 11492). Pur affermando che il Rspp «non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica» operando quale “consulente” del datore di lavoro «nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori» e, come tale, operando in mancanza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, egli può nondimeno “concorrere” con la responsabilità del datore di lavoro.
Nel dettaglio «anche il Rspp (…) può essere ritenuto (co)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
La mancata doverosa segnalazione di un rischio da parte del Rspp è stata dunque qualificata come concausa dell’evento dannoso consapevolmente connessa all’azione posta in essere dal garante. Quindi, se è vera la conclusione (rassicurante per i professionisti esterni coinvolti in materia di sicurezza aziendale) che questi non sono tra i destinatari diretti della normativa cautelare di settore è vero, altresì, che il rischio di un coinvolgimento a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale è ugualmente effettivo.
Ogni procedimento penale nel quale verranno chiamati a rispondere a questo titolo richiederà peraltro, la Corte lo ribadisce con forza, un accertamento probatorio mirato a verificare e ricostruire in concreto i termini della condotta cooperativa fornita. Tenuto conto che la «corresponsabilità» del consulente potrà trovare fondamento tanto nel caso dell’assunzione di “fatto” di una posizione di garanzia quanto nel caso, come visto, di una condotta cooperativa anche solo agevolatrice ma causalmente rilevante e consapevole all’azione altrui, l’accertamento probatorio potrà assumere complessità variabile. Ciò tenendo, peraltro, conto che i delitti in materia si caratterizzano per essere per lo più reati colposi omissivi impropri caratterizzati cioè dal punire non già il semplice mancato compimento di un’azione doverosa bensì l’evento cagionato dall’omissione del comportamento doveroso finalizzato a prevenirlo (la morte o le lesioni). Ne consegue che alla complessità dell’accertamento deriva a cascata il rischio di esposizione dell’imputato all’alea di una ricostruzione della “verità processuale” lontana da quella fattuale, ferma l’evidenza che già ordinariamente i due concetti non sono pienamente e necessariamente sovrapponibili. La Corte con la sentenza in commento cerca di offrire coordinate rassicuranti al fine di consentire agli operatori del diritto di navigare senza incognite e non perdersi nel mare dell’accertamento probatorio.

Un discrimine da considerare
Qualora il coinvolgimento del “consulente” avvenga sulla base dell’acquisizione di una posizione di garanzia riconducibile all’esercizio “di fatto” delle funzioni tipiche di una delle diverse figure di garante, la ricostruzione degli obblighi cautelari deve essere operata «accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro».
Nel caso di specie la suprema Corte ha scrutinato la sentenza impugnata per verificare se e come la Corte territoriale avesse in concreto ricostruito la posizione di garanzia ascritta di fatto agli imputati. L’esito negativo di questa verifica deriverebbe dal fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare in modo accurato «le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato» pur avendo accertato il difetto di delega (investitura formale) e dell’attribuzione specifica di compiti, non ricostruibile sulla base della “consulenza sia pure generalizzata”.

La cooperazione causalmente rilevante e consapevole
Come anticipato, qualora il coinvolgimento del “consulente” non derivi dall’assunzione anche di fatto di una posizione di garanzia, l’accertamento giuridico del contributo cooperativo fornito nei termini rigorosamente descritti assume profili di complessità probatori- giuridici non indifferenti.
In questo caso, del pari, occorre infatti – afferma la Corte – che «una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che di adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento».
Nel caso di specie questa complessità si è tradotta in un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per il consulente S., incaricato di collaborare con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare il macchinario al cui utilizzo erano intenti gli operai infortunati. Afferma la Corte che «i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità».
Al contrario, quanto alla posizione di F., questa necessità di accertamento ha condotto, come anticipato, a una sentenza di annullamento con rinvio affinché la Corte territoriale verifichi, dandone conto, alla luce dei principi affermati dalla suprema Corte se il coinvolgimento di F. sia riconducibile a una condotta di cooperazione rilevante ai sensi dell’art. 113 del codice penale. Ciò significa che all’esito del giudizio ben potrebbe esserne affermata la penale responsabilità in relazione all’infortunio occorso ai tre dipendenti. Il rischio, non solo del coinvolgimento nel processo penale ma delle conseguenze da esso derivanti nel caso di condanna, inducono pertanto a ritenere necessario, nella fase prodromica del rapporto di collaborazione delineare con precisione e attenzione i contenuti della prestazione professionale richiesta.
Se una “consulenza generalizzata”, infatti, consente di escludere in linea generale in capo ai professionisti esterni all’azienda l’assunzione formale di garanti delle norme cautelari in materia di sicurezza non altrettanto consente di mettere al riparto gli interessati da rischi di una chiamata in causa a titolo di «corresponsabilità» in caso di infortuni. Di più. Una tale falsa partenza implicherebbe la necessità di valutare globalmente gli elementi fattuali della vicenda per come concretamente avvenuta i quali potrebbero condurre a una ricostruzione diversa (rispetto agli accordi contrattuali) e più gravosa a danno dell’interessato.

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Rspp, elemento cardine della sicurezza in azienda

Quali sono i compiti e i limiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione?
Dal “vecchio” D.Lgs. 626/1994 in poi il perimetro di questa figura si è via via sempre più delineato e il suo profilo, soprattutto grazie alla giurisprudenza, meglio precisato. Ma alcuni aspetti sul versante
penale devono ancora essere messi a fuoco con maggiore puntualità. Vediamo quali sono

Figura di riferimento nella gestione della sicurezza sul lavoro, unico organo collegiale della sicurezza, il Rspp ha spesso suscitato l’attenzione della Corte di Cassazione che più volte si è espressa a riguardo, richiamando e sottolineando le funzioni del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nel coordinamento di tutte le misure idonee a evitare i rischi presenti nell’ambiente di lavoro.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura introdotta in Italia con il D.Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, emanato in attuazione di alcune direttive europee relative al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e confermata dal D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 – Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tutta la sezione III del D.Lgs. n. 81/2008 è dedicata a questa figura chiave nell’ambito della sicurezza sul lavoro, necessaria in azienda e nei cantieri civili e industriali e indispensabile per realizzare la prevenzione.
«Il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici» che «devono possedere le capacità e i requisiti professionali di cui all’articolo 32 del decreto, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati».
La nomina del Rspp è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro, prevista dall’art. 17, comma 1 lettera b) del D.Lgs. 81/2008 e deve essere nominato un Rspp obbligatoriamenteinterno all’azienda nei casi previsti dall’ art. 31 comma 6 del D.Lgs. 81/2008.
Gli addetti al servizio devono essere «in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore, nonché di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative».
In alcuni casi, singolarmente indicati nella tabella 1 dell’articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, «il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza» e in questi casi deve seguire uno specifico percorso formativo e di aggiornamento i cui contenuti sono stati individuati con accordo nell’ambito della conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011.

Le regole d’ingaggio
I compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono elencati nell’articolo 33 del D. Lgs. 81/2008 e sono così sintetizzabili:
• individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
• elaborazione, per quanto di competenza, delle misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di queste misure;
• elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
• proposizione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
• partecipazione alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
• “fornitura” ai lavoratori delle informazioni di cui all’articolo 36.
In linea generale, il responsabile coordina il servizio di prevenzione e protezione cioè «l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori» (art. 2 comma, 1 lettera l), del D.Lgs. 81/2008), collaborando con il datore di lavoro, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla realizzazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr).

Collegamento di funzioni
L’articolo 2 del “testo unico” sulla sicurezza definisce il responsabile del servizio di prevenzione e protezione come una «persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi».
Da questa definizione emerge l’intenzione del legislatore di avvicinare queste due figure portanti nel sistema della sicurezza, in modo tale da creare tra loro un vero e proprio “collegamento di funzioni”.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione trasmette al datore di lavoro le competenze tecniche e organizzative necessarie a garantire la predisposizione di tutte le misure idonee per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma non è assolutamente tenuto a controllare l’effettiva applicazione delle misure stesse, non essendo titolare di quella posizione di garanzia che la normativa ha riservato in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto.
Come stabilisce l’articolo 17, comma 1, letterab), «la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi» è uno degli obblighi propri del datore di lavoro che non può delegare e il Rspp deve rispondere del suo operato al datore di lavoro e a nessun altro soggetto con cui viene a interagire nella normale pratica aziendale.
Il Rspp opera per conto del datore di lavoro che è la «persona giuridicamente posta nella posizione di garanzia, poiché l’obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il Rspp fa capo a lui stesso». Il Rspp, come affermato dalla Cassazione, «è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come avviene in qualsiasi altro settore dell’azienda, devono essere fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che è quest’ultimo che viene comunque chiamato a rispondere delle sue eventuali negligenze».
La nomina del Rspp non equivale, sicuramente, a una «delega di funzioni» tale da far venir meno, in capo al datore di lavoro, la responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica il quale non può delegare la posizione di garanzia che riveste nei confronti dei lavoratori, ma questo non esclude che il Rspp possa, in alcuni casi specifici, avere una propria responsabilità responsabilità, concorrente, nel verificarsi di un evento lesivo. Questa sembra essere la tendenza della suprema Corte che già in una pronuncia risalente a diversi anni fa aveva affermato che: «Il Rspp risponde, insieme al datore di lavoro, per il verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare» (Cass. Pen, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 2814).

Che cosa è cambiato
La giurisprudenza di legittimità si è espressa, negli ultimi anni, a favore di una maggiore responsabilizzazione del Rspp che è stato disegnato dal legislatore e rimane una figura puramente consultiva e propulsiva al fianco del datore di lavoro, ma questo non esclude che sia ipotizzabile, nei suoi confronti, una responsabilità penale «qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, trascuri di segnalare una situazione di rischio, inducendo così, il datore di lavoro, a omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo». Questa possibilità non escluderebbe l’innegabile responsabilità del datore di lavoro, ma darebbe spazio a una responsabilità “concorrente” del Rspp. In questo senso si è espressa la Cassazione penale nella sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 con cui è stata confermata la responsabilità penale anche del Rspp in ordine all’omicidio colposo aggravato in danno di un dipendente. L’imputato in questione, prima consulente e poi Rspp dell’azienda, non poteva esimersi dal valutare dove e come venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti alcuni materiali liquidi altamente infiammabili che erano stati travasati nelle cisterne presenti sul piazzale dell’azienda, talmente grandi da non poter essere non notate. L’esistenza di questo deposito esterno all’azienda, invece, non è stato menzionato nel documento di valutazione dei rischi da parte del responsabile che ha dimostrato, così, una grave negligenza nell’assolvimento dei propri obblighi.
Nel caso in esame è stato confermato il principio secondo cui: «il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica, lo stesso opera, piuttosto, quale “consulente”, in questa materia, del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio» (Cass.pen. n. 11492/2013).
La designazione del Rspp non equivale a «delega di funzioni» utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori.
«L’indiscussa responsabilità del datore dilavoro, che rimane, comunque, titolare della propria posizione di garanzia relativamente all’osservanza della normativa antinfortunistica, non esclude che possa profilarsi lo spazio per una responsabilità concorrente del Rspp: anche il Rspp, che è privo di poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizza detta situazione».
Nel caso specifico, dunque, l’imputato – prima consulente esterno del datore di lavoro per l’elaborazione del documento di valutazione e Rspp successivamente nominato – non poteva assolutamente ignorare e non segnalare l’esistenza del deposito esterno di cisterne contenenti materiale infiammabile, dopo aver valutato l’effettiva situazione di rischio che si era creata nell’ambiente di lavoro, e se lo ha fatto, ciò è ascrivibile a colpa.

Una responsabilità “concorrente”…
Questa tendenza è stata confermata dalla suprema Corte in una successiva pronuncia, relativa a una fattispecie in cui sarebbe stata ammessa una corresponsabilità del Rspp se quest’ultimo non avesse osservato i propri obblighi e non avesse svolto adeguatamente i propri compiti come è, invece, avvenuto.
Ecco, quindi, che il dettato della Cassazione ha affermato che «non è configurabile la responsabilità penale in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione per il reato di lesioni colpose, aggravato dalla violazione antinfortunistica ex articolo 590, comma 2, del codice penale, qualora questo abbia diligentemente valutato e, conseguentemente segnalato, tramite un documento di valutazione rischi (Dvr) completo e idoneo, i fattori di rischio presenti in azienda, con ciò adempiendo all’obbligo, sullo stesso gravante in forza della posizione di garante ascrittagli, di impedire l’evento» (Cassazione penale, sezione IV, 10 maggio 2017, n. 27516).
In questo caso specifico il Rspp aveva adeguatamente segnalato, tramite il Dvr, il rischio per la pericolosità intrinseca delle presse presenti in azienda, aggravato dall’inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge, e, dunque, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di proscioglimento del reato di cui all’articolo 590, comma 2, del codice penale, emessa in favore dello stesso.

…e l’ipotesi di una “esclusiva”
La Cassazione torna sull’argomento con la sentenza n. 4941 del 1° febbraio 2018 in cui si “osa” un po’ di più e si ipotizza una responsabilità “esclusiva” del Rspp che va oltre quella “concorrente” ormai consolidata.
Nel caso in questione, viene sottoposto all’esame dei giudici di legittimità un infortunio avvenuto nel corso di opere di disboscamento, a seguito al quale era deceduto un lavoratore, colpito al capo da un ramo che egli stesso aveva provveduto a tagliare. Imputati sono sia il datore di lavoro, sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per aver omesso di eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; per aver omesso di vigilare opportunamente sulle operazioni di disboscamento; per avere omesso di informare e formare adeguatamente il lavoratore sui rischi connessi all’attività che si accingeva a svolgere.
La Corte ribadisce le linee guida in materia, confermando che:
• «il datore di lavoro si avvale dell’ausilio del Rspp per la valutazione dei rischi aziendali e per la redazione del relativo documento (Dvr);
• che “la designazione del Rspp costituisce, per il datore di lavoro, un obbligo il cui inadempimento è penalmente sanzionato”;
• che i compiti del Rspp non rientrano nelle funzioni delegabili di cui all’articolo 16 del D.Lgs n. 81/2008 e che ha l’obbligo di assolvere ai compiti indicati nell’articolo 33 del decreto”.
Rimane, dunque, fuori da ogni dubbio, il fatto che «i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici “ausiliari” del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, ma sempre eventualmente in concorso con il datore di lavoro, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.
Sono soltanto “consulenti” e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera
si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario…»
Tutto ciò, però, come su accennato, non esclude che possa delinearsi una responsabilità penale del Rspp, per infortuni sul lavoro o tecnopatie, «sempre in concorso con il datore di lavoro» ai sensi dell’articolo 113 del codice penale, quando l’evento lesivo sia derivato da alcuni suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio».
La suprema Corte, però, nel caso in questione, si spinge un po’ avanti nel momento in cui si pone il dubbio se possa essere prospettabile «una responsabilità anche esclusiva del Rspp ogni qual volta gli infortuni e/o le malattie professionali siano riconducibili a situazioni di pericolo che il Rspp avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro.
Ciò, in particolare, se è vero «che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
I giudici di legittimità si sono domandati quale sarebbe la regola o il principio di diritto applicabile nel caso in cui il datore di lavoro avesse nominato un Rspp, altamente qualificato, ne avesse seguito sempre le direttive e i suggerimenti, ma quest’ultimo avesse omesso di segnalare una situazione di rischio specifica e sofisticata, che il datore di lavoro non sarebbe stato in grado di riconoscere.
Sicuramente il datore di lavoro avrebbe mantenuto la propria posizione di garante della sicurezza con tutti gli impegni che ne derivano a cui non ha potuto tener fede per una condotta omissiva del Rspp di cui non è stato colpevole.
In questo caso si potrebbe prospettare l’ipotesi di «una responsabilità esclusiva del Rspp, laddove si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia il frutto dell’omissione colposa di un compito professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (Cass. Pen. sez. IV, 15 luglio 2010, n. 32195).

Una questione rimasta ancora in sospeso
I giudici, però, non si spingono oltre, non generalizzano all’intera materia antinfortunistica: le affermazioni contenute nella pronuncia in esame, relative a uno specifico caso di infortunio sul lavoro e non elaborano, dunque, un principio di diritto che modifichi radicalmente i cardini della responsabilità penale in materia.
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione: non vi è uno specifico sistema di pene che vada a sanzionare il comportamento di un Rspp che non svolga adeguatamente i propri compiti. Tutto ciò non sta a significare, come abbiamo detto, che il Rspp sia esente da responsabilità penale per reati anche gravi: nel caso in cui si verifichi un infortunio derivante da una situazione pericolosa che aveva il dovere di individuare e di segnalare, in modo tale che il datore di lavoro potesse predisporre le misure di sicurezza adeguate, sarà, comunque, co-responsabile con il datore di lavoro per l’evento l’evento lesivo.
È il passo in più che non è stato, in un certo senso, ancora “codificato”: l’ipotesi in cui al Rspp possa riconoscersi una responsabilità “esclusiva”, per colpa professionale, che vada a esonerare persino il datore di lavoro, perché l’infortunio sia derivato da una specifica situazione di rischio che solo il Rspp aveva la capacità di scorgere e di rendere nota e che il datore di lavoro non era in grado di vedere e di valutare.

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Piccoli trabattelli a prova di sicurezza

Attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto. Hanno ingombri in pianta limitati e raggiungono altezze non elevate.
Le fiancate possono essere realizzate utilizzando le scale portatili come componenti. L’accesso alla piattaforma può avvenire dall’esterno o dall’interno. Nelle attività per cui è previsto il ricorso, il lavoratore, però, è esposto ai rischi di instabilità e di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.
Non sono coperte da direttiva specifica e non possono essere marcate Ce, ma sono soggette, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il cosiddetto codice del consumo)

In alcuni contesti lavorativi, l’utilizzo di trabattelli “normali” è assai difficoltoso per cui vengono frequentemente impiegati “piccoli trabattelli”, attrezzature provvisionali di lavoro diverse da quelle previste nella Uni En 1004. Sono sono generalmente destinati a lavori di breve durata e possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente.
Gli ambienti ove più spesso vengono impiegati sono gli spazi ristretti e/o i luoghi ad altezza ridotta. I “piccoli trabattelli” assomigliano anche ad altri “dispositivi”: le scale mobili con piattaforma secondo la Uni En 131-7. Considerate le ridotte dimensioni, i piccoli trabattelli vengono generalmente usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende l’utilizzatore, gli utensili, le attrezzature e il materiale. Non vanno utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto e devono essere conformi a quanto previsto dal D.Lgs. 81/2008 e nello specifico all’art. 140. L’utilizzo di trabattelli per lavori in quota è previsto nell’art. 111 del D.Lgs 81/2008 al comma 2: «Il datore di lavoro sceglie il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego. Il sistema di accesso adottato deve consentire l’evacuazione in caso di pericolo imminente».
Il comma 5 prevede che «Il datore di lavoro, in relazione al tipo di attrezzature di lavoro adottate in base ai commi precedenti, individua le misure atte a minimizzare i rischi per i lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione, prevedendo, ove necessario, l’installazione di dispositivi di protezione contro le cadute. I predetti dispositivi devono presentare una configurazione ed una resistenza tali da evitare o da arrestare le cadute da luoghi di lavoro in quota e da prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori». I dispositivi di protezione collettiva contro le cadute possono presentare interruzioni soltanto nei punti in cui sono presenti scale a pioli o a gradini». I requisiti essenziali che i piccoli trabattelli debbono possedere sono:

• la stabilità al ribaltamento laterale;
• la sicurezza durante il montaggio e lo smontaggio;
• la sicurezza durante l’uso.

Per stabilità al ribaltamento laterale si intende la capacità che ha un piccolo trabattello a opporsi alle azioni che ne determinano il ribaltamento laterale con una rotazione intorno a un asse passante per la base dei due montanti; è dovuta al comportamento del lavoratore che si pone lateralmente al piccolo trabattello per cui il suo baricentro cade fuori dalla base di appoggio o che esercita forze sostanzialmente parallele all’impalcato (quando per esempio adopera un trapano) pur avendo il baricentro entro la base di appoggio del trabattello.

Riguardo alla stabilità, l’articolo 140 del D.Lgs. 81/2008 prevede che «I ponti su ruote devono avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai carichi ed alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati» (art. 140, comma 1).

Ulteriore risvolto su cui il legislatore pone l’attenzione ai fini della stabilità è il bloccaggio delle ruote che «devono essere saldamente bloccate con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso dispositivi appropriati devono impedire lo spostamento involontario dei ponti su ruote durante l’esecuzione dei lavori in quota» (art. 140, comma 2). Per quanto riguarda la sicurezza durante il montaggio, lo smontaggio e l’uso si deve far riferimento alle indicazioni obbligatorie del fabbricante che conosce esattamente le caratteristiche delle attrezzature e i vincoli nell’utilizzo. Queste istruzioni obbligatorie devono essere esaurienti.

I requisiti
I requisiti ai quali il piccolo trabattello deve soddisfare possono essere distinti in requisiti dimensionali e requisiti di sicurezza. I requisiti dimensionali sono legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie e alle modalità di accesso.

La Uni En 1004
La Uni En 1004: 2005 («Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestazionali») fu elaborata dal Cen TC 5 «Attrezzature di lavoro provvisionali» tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

Il Cen Tc 53 deliberò, nel 1980, di unificare la produzione di torri mobili di accesso e di lavoro parallelamente all’unificazione a livello europeo di ponteggi di servizio e di lavoro prefabbricati, Uni En 12810-2 («Ponteggi di facciata realizzati con componenti prefabbricati – Parte 2: Metodi particolari di progettazione strutturale» e Uni En 12811-3 «Attrezzature provvisionali di lavoro – Parte 3: Prove di carico». La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati con altezza da 2,5 m a 12,0 m (non esposte al vento) e da 2,5 m a 8,0 m (esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione; i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. La norma costituisce il principale riferimento tecnico per la realizzazione di queste attrezzature di lavoro che possono essere alte fino a 12m e hanno l’aspetto di “strutture”. L’importanza della Uni En 1004 è implicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII comma a. («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»). La Uni En 1004 va utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 – «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni» che non è una “solo” norma sul manuale d’istruzioni, ma rappresenta il complemento alla Uni En 1004 in quanto fornisce informazioni non contenute nella stessa e che vanno oltre i normali contenuti del manuale di istruzioni. La Uni En 1004 e la Uni En 1298 sono oggetto di revisione da parte del Cen TC 53 WG4 «Torri mobili di accesso». Le bozze contengono modifiche significative.

La Uni En 131-7
La Uni En 131-7:2013 Scale – Parte 7 («Scale movibili con piattaforma» definisce i termini e specifica le caratteristiche generali di progettazione di questa particolare tipologia di scale. Si applica alle scale movibili con piattaforma di lavoro con area massima di 1 m2 e altezza massima della stessa di 5 m, da usare da parte di una persona alla volta. Il carico massimo ammesso sulla scala è di 150 kg che comprende un carico massimo combinato dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e del materiale.

Non si applica alle scale portatili, secondo la Uni En 131-1, alle scale portatili secondo la Uni En 131-4, alle scale portatili per servizi antincendio secondo la Uni En 1147, alle scale per sottotetto secondo la Uni En 14975, agli sgabelli a gradini secondo la Uni En 14183, alle scale, scale a castello e parapetti secondo la Uni En Iso 14122-3 e alle scale isolanti secondo la Uni En 50528. Questa tipologia di scale conosciuta anche come “scala a castello”, “scala cimiteriale” o “scala a palchetto” è utilizzata in molti ambiti per le specifiche caratteristiche costruttive.
A un tronco di salita, è provvista di piattaforma, guarda corpo e corrimano. La base è costruita per non permetterne il ribaltamento frontale e laterale, è dotata di due ruote fisse portanti per garantirne gli spostamenti e appoggia su quattro punti. Si tratta di attrezzature provvisionali di lavoro molto di use nel nostro paese. L’assenza di una standard specifico ha indotto Uni ad avviare uno progetto di norma dedicata.

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DPI: CHE COSA È CAMBIATO CON IL DECRETO PUBBLICATO SULLA GAZZETTA UFFICIALE N. 53 DELL’11 MARZO 2019

Dispositivi di protezione individuale: il D.Lgs. 17/2019 allinea l’Italia alle norme dell’Unione con un maggior onere pecuniario – e non solo – per gli eventuali illeciti. Si tratta di un intervento legislativo studiato per rendere organico il nostro ordinamento al regolamento in materia e già in vigore

Dopo una lunga attesa, anche l’Italia si allinea alle nuove disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, in materia di dispositivi di protezione individuali (Dpi). Con il D.Lgs. 19 febbraio 2019 (1), n. 17, infatti, il governo – dando attuazione alla delega contenuta nella legge 25 ottobre 2017, n. 163 – ha introdotto nel nostro ordinamento interno un nuovo regime che, secondo quantoriportato nel comunicato del consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio, ha l’obiettivo di semplificare e chiarire
il quadro esistente per l’immissione sul mercato di questi dispositivi, nonché di migliorare la trasparenza, l’efficacia e l’armonizzazione delle misure esistenti, realizzando il coordinamento con le disposizioni generali in materia di mercato, sicurezza e conformità dei prodotti.
Per comprendere l’e ettiva portata di questo nuovo importante provvedimento appare indispensabile ricordare preliminarmente che il regolamento n. 2016/425, conosciuto comunemente anche come “regolamento Dpi”, è lo strumento giuridico scelto dall’Unione europea per sanare, in primo luogo, il problema delle differenti normative nazionali dei singoli Paesi
membri che era sorto con la direttiva n. 89/686/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, ora abrogata; sono state, infatti, diverse le incongruenze registrate e si è posta, così, l’esigenza obiettiva di fare in modo che l’ambito di applicazione, i requisiti
essenziali di salute e di sicurezza e le procedure di valutazione della conformità fossero gli stessi in tutti gli Stati membri.
Com’è noto le direttive richiedono il recepimento attraverso specifici atti interni da parte dei singoli Stati e, proprio in questa fase, si generano normative nazionali che pur se di matrice europea in non pochi casi sono anche profondamente diverse l’una dall’altra: in questo senso l’esempio emblematico è la disciplina antinfortunistica in cui la direttiva 89/391/Cee del Consiglio, del 12 giugno 1989 (la cosiddetta “direttiva quadro”), mentre in Italia è stata applicata garantendo un livello di tutele ben superiore a quello minimo previsto daquesta direttiva in diversi altri Paesi, invece, ci si è limitati quasi alla mera riproduzione dei principi comunitari.
Attraverso il regolamento n. 2016/425, che com’è noto non richiede invece il recepimento interno, si è cercato, pertanto, di realizzare un vero mercato unico dei Dpi con requisiti identici, favorendo così anche la loro libera circolazione.
Al tempo stesso, però, era anche necessario da parte dell’Italia allineare la disciplina interna in materia in modo da renderla organica con il predetto regolamento Dpi e, per questo motivo, come vedremo con il D.Lgs. n. 17/2019, sono state apportate anche diverse modifiche sostanziali al D.Lgs. n.475/1992, e alcune più marginali, comunque importanti, al D.Lgs. n. 81/2008, tanto da dare vita a un nuovo regime applicativo che si potrebbe definire “Dpi 3.0”.

Ambito applicativo ed esclusioni
Concentrando ora l’attenzione sui profili più significativi del D.Lgs. n. 17/2019, da una sua prima lettura è possibile rilevare che l’art. 1, comma 1, lett. b), ha sostituito integralmente l’art. 1 del già citato D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo ora che le norme di questo decreto si applicano ai Dpi di cui all’art. 2 del regolamento n. 2016/425; per le definizioni occorre fare riferimento a quanto previsto dall’art. 3 di questo regolamento. Pertanto, rientrano nel nuovo regime i Dpi appartenenti alle tre categorie previste nell’allegato I del regolamento Dpi, progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza, i componenti intercambiabili dei Dpi essenziali per la loro funzione protettiva, nonché i sistemi di collegamento per i citati dispositivi «…che non sono tenuti o indossati da una persona, che sono progettati per collegare tali dispositivi a un dispositivo esterno o a un punto di ancoraggio sicuro, che non sono progettati per essere collegati in modo fisso e che non richiedono fissaggio prima dell’uso». Nel novellato art. 1 del D.Lgs. n. 475/1992 compare anche il richiamo all’allegato I che riportava l’elenco tassativo delle categorie Dpi escluse da questa disciplina, abrogato insieme agli allegati II, III, IV, V e VI del predetto decreto (vedere la tabella 3). Di conseguenza ora occorrerà fare riferimento a quanto stabilisce l’art. 2, comma 2, del regolamento n. 2016/425, che esclude dal suo campo diversi dispositivi di protezione sottoposti a regimi particolari: è il caso, ad esempio, di quelli da utilizzare esclusivamente su navi marittime.

Le tutele
È bene anche precisare che le nuove disposizioni si applicano ai Dpi che, secondo il citato regolamento n. 2016/425, sono «(…) nuovi sul mercato dell’Unione al momento di tale immissione sul mercato, vale a dire i Dpi nuovi di un fabbricante stabilito nell’Unione oppure i Dpi, nuovi o usati, importati da un Paese terzo”. Questi Dpi, quindi, anche se importati devono essere conformi ai nuovi requisiti per la progettazione e la fabbricazione, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori. Sotto questo profilo, quindi, la nuova disciplina appare, almeno potenzialmente, più efficace rispetto a quella previgente in termini di lotta all’ingresso nel mercato europeo di Dpi non rispondenti a questi requisiti o, peggio ancora, recanti la marcatura di conformità “Ce” posta in modo ingannevole. Di conseguenza il D.Lgs. n. 17/2019 non interessa solo i fabbricanti e i distributori, ma anche gli stessi datori di lavoro che grazie a questa nuova disciplina dovrebbero godere di maggiori tutele in fase di acquisto e d’impiego, nonché i lavoratori che potranno contare sui Dpi che dovrebbero assicurare maggiori garanzie in termini di e icacia della protezione dai rischi.

I requisiti essenziali
Il D.Lgs. n. 17/2019 ha profondamente novellato anche l’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo in materia di requisiti essenziali di sicurezza che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato solo se rispettano le indicazioni di cui agli articoli 4 e 5 del regolamento Dpi. Da notare, in particolare, che mentre l’art. 5 di questo regolamento rinvia a quanto stabilito dall’allegato II, che elenca numerosi requisiti inderogabili, invece l’art. 4 prevede che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato «(…) solo se, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni». In merito al concetto di «messa a disposizione sul mercato» l’art. 3, comma 1, n. 2, stabilisce che s’intende «la fornitura di Dpi per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito».
La portata della disposizione non appare, invero, del tutto chiara in quanto se è pacifico che sono attratti da questa disciplina
tutti gli operatori economici che professionalmente forniscono i dispositivi, anche senza il corrispettivo di un prezzo, è possibile rilevare anche alcune situazioni limite, ma non troppo. È il caso, ad esempio, di un’impresa che non commercia Dpi, ma avendo in magazzino dispositivi inutilizzati intende rivenderli; oppure si pensi a un committente che concede l’uso a titolo gratuito all’appaltatore Dpi acquistati dallo stesso. L’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, inoltre, nella nuova versione stabilisce anche che si considerano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza i Dpi muniti della marcatura Ce per i quali il fabbricante o il suo mandatario stabilito nel territorio dell’Unione sia in grado di presentare, a richiesta, la documentazione di cui all’art. 15 e all’allegato III del regolamento Dpi, nonché, relativamente ai dispositivi di seconda e terza categoria, la certificazione di cui agli allegati V, VI, VII e VIII sempre del già citato regolamento Dpi.

La procedura di valutazione della conformità
Inoltre, alcune modifiche sono state apportate anche all’art. 5 D.Lgs. n.475/1992, che disciplina la procedura di valutazione della conformità; in particolare il fabbricante è tenuto a eseguire, o far eseguire questa procedura di valutazione (cfr. art. 19) e a redigere la documentazione tecnica di cui all’allegato III, anche al fine di esibirla alle autorità di vigilanza per tutti i Dpi. Nella disciplina previgente, invece, era previsto che prima di procedere alla produzione di Dpi di seconda o di terza categoria, il fabbricante o il rappresentante stabilito nel territorio comunitario doveva chiedere il rilascio dell’attestato di certificazione Ce di cui all’art. 7.

Le modifiche al D.Lgs. n. 81/2008
Appaiono, invece, di minore impatto le modifiche apportate al D.Lgs. n. 81/2008, che, tutto sommato, si limitano solo ad aggiustamenti testuali; l’art. 2 del D.Lgs. n. 17/2019, infatti, ha armonizzato gli artt. 74 e 76 del cosiddetto testo unico della sicurezza sul lavoro con il predetto regolamento Dpi (vedere il testo aggiornato di questi articoli nel box 2). In particolare, nel novellato art. 76 è consacrato il principio in base al quale i Dpi devono essere conformi al regolamento (Ue) n. 2016/425; scompare, quindi, il richiamo del D.Lgs. n. 475/1992, ma resta fermo che i Dpi devono:

• essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;
• essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
• tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
• poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità.

Inoltre, in caso di rischi multipli che richiedono l’uso simultaneo di più Dpi, questi devono essere tra loro compatibili e tali da mantenere, anche nell’uso simultaneo, la propria efficacia nei confronti del rischio e dei rischi corrispondenti.

È necessario precisare che il D.Lgs. n. 17/2019 non modifica la disciplina sugli obblighi del datore di lavoro contenuta nell’art. 77 del D.Lgs. n. 81/2008; di conseguenza resta fermo il dovere di quest’ultimo di effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e d’individuare le caratteristiche dei Dpi necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi, tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi Dpi.

Le sanzioni
Accanto a queste modifiche il legislatore delegato è intervenuto molto energicamente anche sul regime sanzionatorio, operando un vero giro di vite che eleva le responsabilità di tutti gli operatori. Basti considerare, ad esempio, che il novellato art. 14 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilisce che il fabbricante che produce o mette a disposizione sul mercato Dpi non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi nonché l’importatore che immette sul mercato Dpi non conformi ai requisiti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 8 mila euro sino a 48 mila euro se si tratta di Dpi di prima categoria; addirittura se si tratta di Dpi di secondo o terza categoria sono previste sanzioni penali. Molteplici sanzioni sono previste anche per i distributori e per «chiunque» metta a disposizione sul mercato Dpi non conformi alle nuove disposizioni.

Lotta agli abusi
Inoltre, nel D.Lgs. n. 17/2019 è contenuta anche una norma che si potrebbe definire “antitruffa”; infatti, chiunque appone o fa apporre marcature, segni e iscrizioni che possono indurre in errore i terzi circa il significato o il simbolo grafico, o entrambi, della marcatura Ce ovvero ne limitano la visibilità e la leggibilità, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a 6 mila euro. I destinatari sono, pertanto, non solo i fabbricanti, ma anche gli importatori; ci si aspettava, però, un regime sanzionatorio più severo per questo illecito considerata la sua particolare gravità e l’esperienza maturata in questa anni dove non di grado sono stati messi in vendita a prezzi da discount da parte di alcuni operatori dispositivi recanti in modo ingannevole la marcatura Ce. Viene punito, inoltre, con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a sei mila euro chiunque promuove la pubblicità per Dpiu che non rispettano le prescrizioni del regolamento Dpi.

Il sistema di vigilanza
Accanto a queste modifiche si affiancano, poi, quelle introdotte dell’art.1, comma 1. lett. l), del D.Lgs. n. 17/2019, all’art.13 del D.Lgs. n. 475/1992, in materia di attività di vigilanza del mercato; le competenze restano ancora in capo al ministero dello Sviluppo economico e al ministero del Lavoro secondo quanto stabilito dal capo VI del regolamento Dpi, mentre le funzioni di controllo alle frontiere esterne sono svolte dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli conformemente agli artt. da 27 a 29 del regolamento (Ce) n. 765/2008. Nell’azione di controllo previsto anche il coinvolgimento delle Camere di commercio e dell’Ispettorato nazionale del lavoro; importante è sottolineare che la funzione di controllo è, in e etti, attribuita anche alle Asl e agli altri organi ai quali sono attribuiti compiti ispettivi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, qualora accertino che un Dpi non rispetta i requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi, sono tenuti a rendere informativa ai citati ministeri ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

La sanatoria degli illeciti Sempre in materia di sanzioni deve essere anche rilevato che il legislatore ha previsto anche la possibilità per il trasgressore di sanare gli illeciti penali; infatti, alle contravvenzioni previste dall’art. 14 del
D.Lgs. n. 475/1992, per le quali sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda,
si applica l’istituto della prescrizione in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 20 e seguenti del D.Lgs.
n.758/1994. Pertanto, ottemperando a quanto previsto dall’organo di vigilandi trenta giorni un importo pari a un quarto del massimo previsto per l’ammenda il reato commesso si estingue. Per quanto, invece, riguarda gli illeciti amministrativi la stessa disposizione esclude espressamente la possibilità di ricorrere alla cosiddetta regolarizzazione di cui al 301-bis del D.Lgs. n. 81/2008; bisogna, comunque, tener presente che alle sanzioni amministrative irrogate dalla Camera di commercio territorialmente competente, si applicano per quanto compatibili le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.

Continuità e abrogazione del D.Lgs. n. 10/1997
Resta, infine, solo da osservare che l’art. 3 del D.Lgs. n. 17/2019, stabilisce che nelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in vigore, tutti i riferimenti alla direttiva 89/686/Cee, come accennato abrogata dal regolamento (Ue) n. 2016/425, si intendono fatti a quest’ultimo e sono letti secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato X al regolamento stesso; inoltre, è abrogato il D.Lgs. 2 gennaio 1997, n. 10, superato ormai da queste nuove disposizioni.

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Luoghi confinati una trappola da evitare

La corretta valutazione del rischio per affrontare una delle situazioni più pericolose

Una problematica già affrontata a partire dalla legislazione prevenzionistica degli anni ‘50 che, per essere efficacemente risolta, necessita di un Dvr a maglie molto strette. L’obiettivo? Non lasciare nulla al caso. Ma in quale modo deve essere svolta l’analisi dei differenti contesti al fine di individuare modalità utili a salvaguardare la salute (e la vita) degli operatori impegnati in questo tipo di ambienti? Ecco alcune proposte operative

La valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce un obbligo non delegabile del datore di lavoro, il quale deve assolvere a questo compito – non delegabile – con l’eventuale ausilio del Rspp. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura altamente specialistica che, appunto, coadiuva il datore e controfirma il documento di valutazione di cui all’articolo 17 del D.Lgs. n. 81/2008, unitamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e dell’eventuale medico competente (quando necessario).
Il comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione «deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori», anche non ricompresi in quelli tutelati dai titoli del decreto successivi al primo; mentre il comma 2 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione debba riguardare:
• tutte le attività che vengono svolte;
• tutti i pericoli presenti nelle attività svolte;
• la valutazione del rischio di questi pericoli;
• le modalità di trattamento di tutti i rischi di questi pericoli;
• le modalità di controllo periodico di queste modalità di trattamento per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
• le modalità procedurali per la attuazione delle modalità di trattamento necessarie per esecuzione delle suddette attività.

Ovviamente l’obiettivo del Dvr di cui all’articolo 17 consiste nel consentire al datore di lavoro di prendere tutte le iniziative effettivamente necessarie a salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Il quadro in sintesi
La problematica dei “luoghi di lavoro confinati” fu già individuata dalla legislazione degli anni ’50: con:
• D.P.R. n. 547/1955 (art. 235, «Aperture di entrata nei recipienti», art. 236, «Lavori entro tubazione, canalizzazioni, recipienti e simili nei quali possono esservi gas e vapori tossici od asfissianti», art. 237, «Lavori entro tubazioni, canalizzazioni e simili nei quali possono esservi polveri infiammabili ed esplosivi»);
• D.P.R. n. 303/1956 (art. 25, «Lavori in ambienti di sospetto inquinamento»);
• D.P.R. n. 164/ 1956 (art. 15, «Presenza di gas negli scavi»).
Il D.Lgs n. 81/2008 tratta l’argomento degli ambienti sospetti di inquinamento o confinanti solo negli articoli 66 e 121, e nel capitolo 3 dell’allegato IV i quali si fermano a una scarna elencazione prescrittiva di regole da rispettare, mutuata dagli articoli 235, 236, 237, 244, 245, 246 247, 353, 354, 355 del vecchio D.P.R. 547/1955.Nel 2011 è stato emanato il D.P.R. n. 177 del 14 settembre 2011, il quale consta di soli quattro articoli, con lo scopo di regolamentare la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, che al comma 1 lettera a) dell’arti-colo 2 recita:«1.
Qualsiasi attività lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati può essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti: a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze». Si tratta dell’unico punto della legislazione italiana in materia di ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, in cui si fa riferimento al termine “valutazione dei rischi”. Inoltre, per quanto concerne i “luoghi confinati”, il D.P.R n. 177/2011 si limita a una genericissima previsione di una ipotetica valutazione dei rischi nella tipologia specifica, senza darne i requisiti minimi. Per la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza nelle attività lavorative, innanzi tutto risulta utile una indagine su numero e tipo di infortuni registrati all’Inail, nonché dalla eventuale registrazione di raccolta dati interna degli infortuni che hanno provocato solo una medicazione senza l’allontanamento dal lavoro dell’infortunato, nonché di incidenti non trasformatisi in infortunio, i cosiddetti “quasi infortuni” (near-miss) e “mancati infortuni” (near-hit). I rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro possono essere suddivisi in:
• rischi organizzativi (connessi alla necessità di conformità legislativa generica, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni adempimento necessario previsto dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro);
• rischi infrastrutturali (connessi alla necessità di conformità legislativa delle infrastrutture, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni necessità prevista dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato IV del D.Lgs.n. 81/2008);
• rischi logistici (connessi alla mancata conformità legislativa delle attrezzature individuando, per ogni attrezzatura, ogni necessità prevista dalla legislazio-ne vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato V del D.L-gs.n.81/2008);
• rischi lavorativi “generici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni);
• rischi lavorativi “specifici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni, ma per i quali esiste uno specifico riferimento legislativo da rispettare per la conduzione della valutazione dei rischi);
Le prime tre tipologie di rischi dovrebbero essere trattate con l’obiettivo di eliminare ogni non conformità legislativa, rilevata a seguito dei controlli, che verranno previsti nel seguito del documento di valutazione stesso.
La quarta tipologia di rischi deve essere trattata, con la applicazione di misure di prevenzione e protezione di vario tipo: comportamenti, dotazioni, sorveglianza sanitaria, procedure, informazione, formazione e addestramento, manutenzione, monitoraggio ecc.

Come fare
Viene definito dalle linee guida Inail «luogo di lavoro confinato» uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture di accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può accadere un incidente importante che può portare a un infortunio grave o mortale, in presenza di agenti chimici pericolosi (per esempio, gas, vapori, polveri).
Un’altra definizione, più schematica, viene introdotta dalla normativa americana Osha 1910.146, «Permit required confined spaces», che ha definito luogo (o spazio) di lavoro confinato come quello spazio che presenta tre caratteristiche:
• abbastanza grande e configurato in modo tale che un lavoratore possa accedervi interamente ed eseguire il lavoro assegnato;
• limitata o ristretta apertura per l’accesso o l’uscita;
• non progettato per un’attività lavorativa continua.

Genericamente, ma non esaustivamente, le caratteristiche di un «luogo confinato» sono:
• difficoltà di accesso tramite aperture di ingresso/uscita (passi d’uomo, pozzetti d’ispezione, boccaporti) dalle dimensioni ridotte e dall’ubicazione ergonomicamente disagevole;
• dimensioni fisiche spesso limitate;
• condizioni di ventilazione sfavorevoli (ricambi d’aria limitati, insufficienti o del tutto assenti; possibilità di ristagno, formazione o adduzione di inquinanti);
• illuminazione scarsa o assente;
• microclima e altre caratteristiche ergonomiche sfavorevoli;
• difficoltà di comunicazione ordinaria e in emergenza.

Per quanto riguarda l’accesso, è possibile desumere dalla norma Uni En 547-3:2009 «Sicurezza del macchinario – Misure del corpo umano- parte 3 – Dati antropometrici» la quale specifica i dati antropometrici, richiesti dalla Uni En 547-1 e dalla Uni En 547-2 per calcolare le dimensioni delle aperture di accesso utilizzate nel macchinario: una persona adulta occupa mediamente lo spazio di una elisse avente asse maggiore di 60 cm e asse minore di 45 cm. Queste dimensioni vanno aumentate qualora si preveda di utilizzare bombole o Dpi che aumentino gli ingombri. All’interno degli «luoghi confinati» si registra tragicamente un elevato numero di infortuni mortali, con varie cause.

Le fasi per la conduzione di una sistematica valutazione dei rischi nei luoghi confinati dovrebbero essere strutturate nel seguente modo:
• individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale;
• individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle competenze del personale che può accedere in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di prevenzione e di protezione adatte, in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato individuato.

La locuzione «ogni luogo confinato individuato» è stata volutamente ripetuta per sottolineare la forte necessita di effettuare una valutazione specifica per ogni fatti-specie di accesso in luogo confinato individuato e non già una semplice generica, quanto sommaria, valutazione dei rischi disconnessa dalla reale situazione, che in genere risulta variabile non solo nello spazio geometrico, ma anche nel tempo: in questo modo risulta più possibile la risoluzione del problema dell’obbligo del committente di cui all’art.3, comma 1 del D.P.R. 177/2011, che così recita: «Prima dell’accesso nei luoghi nei quali devono svolgersi le attività lavorative di cui all’articolo 1, comma 2, tutti i lavoratori impiegati dalla impresa appaltatrice, compreso il datore di lavoro ove impiegato nelle medesime attività, o i lavoratori autonomi devono essere puntualmente e dettagliatamente informati dal datore di lavoro committente sulle caratteristiche dei luoghi in cui sono chiamati a operare, su tutti i rischi esistenti negli ambienti, ivi compresi quelli derivanti dai precedenti utilizzi degli ambienti di lavoro, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività. L’attività di cui al precedente periodo va realizzata in un tempo sufficiente e adeguato all’effettivo completamento del trasferimento delle informazioni e, comunque, non inferiore ad un giorno».È appena il caso di rilevare che, abitualmente, questo obbligo di “informazione” viene assolto in maniera del tutto generica e sommaria da parte del committente, fino a essere addirittura totalmente ignorato (e in tal caso andando a ricadere nel-lo stesso errore, che ha quasi sempre determinato la mole di infortuni mortali negli anni passati).

Individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale
Il Rspp, accompagnato dal datore di la-voro o dal suo incaricato, deve eseguire un accurato sopralluogo dei luoghi di la-voro, al fine di individuare aree definibili come «luoghi confinati» e di individuare per ognuno di quelli individuati tali tutte le attività che sono state svolte in passato e quelle attuali. In occasione dello stesso sopralluogo l’Rspp dovrebbe indagare presso il personale operativo più anziano, con lo scopo di individuare l’elenco di altre attività non riscontrate allo stato attuale (attività poco frequenti e/o attività svolte solo dal personale esterno). Dopo l’individuazione, ogni accesso al luogo confinato dovrebbe essere identificato, tramite l’apposizione di una cartellinistica monitoria, conforme alla norma tecnica Uni En Iso 7010:2012, che limiti l’accesso al-le sole persone autorizzate, riportandolo su una planimetria.

Individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato

In occasione dello stesso sopralluogo, do-vrebbe essere presa ogni possibile informa-zione sulle dimensioni geometriche di ogni luogo confinato individuato, richiedendo una planimetria dell’interno di ogni luogo confinato e rappresentando tutti i dati relativi.

Individuazione delle competenze e specializzazioni del personale che può accedere in ogni luogo confinato
Successivamente, devono essere definite le informazioni.

Individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato
Quindi, in relazione alle attività lavorative da eseguire all’interno del luogo di lavoro confinato, si deve passare all’individuazione dei potenziali pericoli specifici del luogo di lavoro, quali: asfissia (anche meccanica) o intossicazione dovuta a esalazioni di sostanze tossiche o nocive o alla presenza di materiale, intrappolamento, eventuale presenza di elementi meccanici pericolosi, folgorazione, caduta dall’alto ecc., ai quali vanno a sommarsi i rischi propri delle attività lavorative previste.
Per ciascuno dei rischi specifici individuati si deve assegnare alla “gravità del pericolo” (G) un valore da 1 a 3 e alla probabilità di accadimento del pericolo (P) un valore da 1 a 4, elaborando una tabella.
La norma tecnica Uni 10449:2008 stabilisce i casi in cui deve essere predisposto un “Permesso di lavoro” :
• lavoro con divieto d’uso di fiamma o scintilla;
• lavoro implicante l’uso di fiamma – sorgente di calore – gas – liquidi o materiali infiammabili;
• lavoro di scavo;
• lavoro su circuiti e apparecchiature elettriche;
• lavoro negli spazi confinati

Individuazione delle misure di prevenzione e di protezione da adottare in ogni luogo confinato
Successivamente, in relazione ai rischi specifici presenti nel luogo di lavoro confinato, deve essere elaborata una tabella.

Individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato
L’individuazione delle misure di controllo e monitoraggio per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza viene definito in una tabella nella quale viene anche la periodicità dei controlli e dei monitoraggi individuati. Sulla base della precedente valutazione, per ogni punto di accesso deve essere elaborata una procedura di accesso e permanenza nel luogo confinato per poter eseguire le lavorazioni previste durante l’accesso in maniera sicura.

Procedura generale di valutazione e gestione dei rischi:
• valutazione dei rischi in ambienti confinati;
• principi generali per la corretta gestione dei rischi;
• modalità di esecuzione del lavoro

Sistemi e procedure di lavoro sicuri:
• nomina di un supervisore dei lavori e organizzazione con “permessi di lavoro”;
• impiego di operatori idonei al tipo di lavoro;
• localizzazione ed estensione del rischio;
• isolamento dell’ambiente confinato rispetto ad altri ambienti pericolosi;
• verifica dell’idoneità delle vie di accesso/uscita;
• ventilazione dell’ambiente;
• verifica dell’aria contenuta nell’ambiente confinato;
• risanamento/bonifica atmosfera dell’ambiente confinato;
• gestione dell’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi non eliminabili;
• utilizzo di autorespiratori;
• utilizzo di altri Dpi necessari;
• utilizzo di attrezzature di lavoro adegua-te alla specifica situazione e di attrezzature speciali;
• illuminazione;
• sistema di comunicazione;
• controllo e allarme;
• istruzioni di emergenza;
• modalità di accesso all’ambiente confinato;previsione e gestione delle emergenze.

Procedure di emergenza:
• idoneità degli addetti al soccorso;
• comunicazioni.

Equipaggiamenti di soccorso e rianimazione:
• servizio di pubblico soccorso;
• classificazione di pericolosità di ambienti confinati e relative procedure;
• procedura per zone a minimo rischio;
• procedura per zone a elevato rischio.

Gestione degli appalti
Nel caso in cui le lavorazioni previste vengano appaltate a fornitori, ai sensi dell’articolo 3 del D.P.R. n. 177/2011, deve essere loro fornita la valutazione dei rischi relativa al punto di accesso del luogo confinato, in cui deve svolgere le attività in appalto, fermo restando la necessita del preventivo controllo dei requisiti e delle capacità tecniche del fornitore:
• idoneità tecnico professionale;
esperienza attività in spazi confinati (il 30% della forza lavoro deve avere esperienza almeno triennale);
• informazione e formazione sui rischi legati all’attività in spazi confinati (compreso il datore di lavoro nel caso svol-gesse l’attività);
• addestramento per l’uso delle attrezzature utili all’accesso (imbracatura, apparecchi per la protezione delle vie respiratorie Apvr ecc.) secondi il tipo di rischio presente.
Edwards William Deming, il padre della qualità, a chi diceva «abbiamo fatto sempre così», rispondeva che era arrivata l’ora di cambiare.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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Nel 2018, di nuovo allarme per i morti sul lavoro

Un significativo incremento delle denunce che aumentano del 10,1% rispetto all’anno precedente. In agosto il picco di casi collettivi, complice il disastro del ponte Morandi a Genova e gli incidenti verificatisi in Puglia. Segno “più” anche per le segnalazioni di infortuni e delle patologie di origine professionale. Nel mirino gli uomini

Il quadro che emerge dai dati Inail sugli infortuni sul lavoro per il 2018 conferma l’inversione di tendenza del fenomeno infortunistico rispetto ai due anni precedenti.
Aumentano le denunce di infortunio mortale con 104 casi in più rispetto al 2017, passando da 1029 a 1133. I dati Inail, disponibili al 31 dicembre 2018, sono pubblicati nella sezione «Open data» del portale dell’Istituto e sono provvisori
in quanto l’iter amministrativo e sanitario delle denunce si consoliderà solo a metà del 2019. Dati che saranno pubblicati, come ogni anno, nella «Relazione annuale» dell’Istituto e che forniranno una lettura
dettagliata sulla definizione dell’iter amministrativo delle denunce offrendo un resoconto sui casi denunciati, riconosciuti negativi e in istruttoria.
Il mese di agosto ha registrato un picco di 132 infortuni mortali contro i 78 dell’agosto dell’anno precedente, che in termini percentuali equivale a un aumento del 70% circa, alcuni dei quali causati da incidenti plurimi, ovvero che hanno coinvolto più di un lavoratore. Infatti, nel solo mese di agosto si è contato quasi lo stesso numero di di Valeria Rey, giornalista vittime dell’intero 2017. Tra gli eventi dello scorso anno il crollo del ponte Morandi a Genova ha causato 15 casi mortali sul lavoro e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, hanno provocato la morte di 16 braccianti. Il numero degli incidenti plurimi nel 2018 ha coinvolto più del doppio dei lavoratori dell’anno precedente. Nei 24 incidenti plurimi del 2018 hanno perso la vita 82 lavoratori rispetto ai 15 incidenti plurimi del 2017 che hanno causato 42 morti. Sul piano nazionale i dati rilevati al 31 dicembre 2018 evidenziano un aumento del 5,4% degli incidenti avvenuti in occasione di lavoro, che sono passati da 746 casi a 786 e in particolare di quelli in itinere, ovvero
fuori dall’azienda con o senza mezzo di trasporto, con un aumento del 22,36% che in termini assoluti equivale a 64 casi in più rispetto al 2017 (da 283 a 347).
La gestione «Industria e servizi» ha registrato un incremento di infortuni mortali del 14,9% rispetto al 2017 pari a 128 casi (da 857 a 985); l’«Agricoltura» ha segnato una diminuzione del 7% con 10 casi in meno (da 141 a 131) e la gestione «Conto Stainfortuni to» un decremento del 45% con 14 casi in meno. Il settore di attività economica più colpito è quello del trasporto e magazzinaggio con 28 casi mortali in più seguito dal settore del noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese con 26 casi mortali e dal settore delle costruzioni con 21 casi in più. Sul fronte della distribuzione geografica il Nord-Ovest conferma il trend crescente degli infortuni mortali dell’anno scorso con 47 casi (da 258 a 305), dei quali 24 in Lombardia. Seguono il Nord-Est con 24 casi (da 249 a 273) che riguardano il Veneto, il Centro con tre casi (da 211 a 214) e il Sud con 35 (da 223 a 258) con il record della Campania che ha registrato da sola 27 infortuni mortali.
Rispetto al 2017, l’aumento degli infortuni mortali riguarda in maniera significativa i lavoratori di sesso maschile, i cui casi denunciati sono stati 102 in più (da 927 a 1.029), mentre per la componente femminile si sono registrati due decessi in più (da 102 a 104). L’incremento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, da 861 a 952, pari all’84% del totale, sia quelle dei lavoratori extracomunitari, da 119 a 130 e comunitari (da 49 a 51). Guardando la distribuzione degli infortuni per classi di età emerge che un caso mortale su due ha coinvolto lavoratori di età compresa tra i 50 e i 69 anni, con 85 casi. La fascia maggiormente colpita è quella dai 50-54 anni con 39 casi (da 153 a 192), seguita dalla classe d’età 55-59 con 34 casi (da 211 a 177) e dalla classe 60-64 con 10 casi (da 119 a 129).

Infortuni
In aumento anche le denunce di infortunio che nel 2018 sono cresciute dello 0,9%, vale a dire che rispetto alle 653.433 denunce del 2017 si è passati a 641.261 denunce. Gli incrementi riguardano sia i casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743 (+0.6%), sia quelli in itinere che sono aumentati del 2,8%, da 95.849 casi a 98.518. quella «Conto Stato» dell’1,4%, da 104.393 a 105.898, tre quarti dei casi riguardano studenti delle scuole statali. In «Agricoltura», invece, si registra una diminuzione dell’1,8%, da (33.820 a 33.207).
L’analisi della distribuzione geografica evidenzia un aumento delle denunce nel Nord-Est del 2,2%, nel Nord-Ovest dell’1,1% e al Sud dello 0,8%. Diminuiscono, invece, al Centro dello 0,8% e nelle Isole dell’1%. La Provincia autonoma di Bolzano segna il maggior incremento di denunce con un aumento del 5,4%, seguito dal Friuli Venezia Giulia e Molise con +3,9%, mentre i decrementi maggiori si sono registrati nella Provincia autonoma di Trento con -6,5%, in Valle d’Aosta con -4,5% e in Abruzzo -3%.In aumento dell’1,4% le denunce dei lavoratori maschi (da 406.689 a 412.300) a fronte dello 0,1% di quelle delle donne.L’incremento ha interessato soprattutto i lavoratori extracomunitari con +9,3% di denunce e in misura più contenuta quelli comunitari (+1,2%), mentre le denunce di infortunio dei lavoratori italiani, che rappresentano circa l’84%, del totale sono in calo dello 0,2%.

Malattie professionali
Le denunce per malattia professionale che nel 2017, avevano registrato per la prima volta nell’ultimo quinquennio una diminuzione, tornano a crescere nel 2018 del 2,5%, vale a dire 1.456 casi in più, passando da 58.129 a 59.585. L’incremento maggiore è quello registrato nella gestione «Industria e servizi», pari al 2,8%, da 46.136 denunce a 47.424. Segue l’«Agricoltura» con l’1,8%, da 11.287 a 11.491 denunce, mentre nel «Conto Stato» si è registrata una significativa diminuzione pari al 5,1%, da 706 a Sempre marcata la differenza tra le denunce al maschile e quelle al femminile: 1.328 in più per la componente maschile (da 42.251 a 43.579), pari al 3,1% rispetto alle 128 di quella femminile che segna un aumento dello 0,8% (da 15.878 a 16.006). L’incremento delle denunce dei lavoratori italiani, che rappresentano il 93% sul totale delle denunce, è stato del 2,4% (da 54.348 a 55.659) mentre molto più significativo quello delle denunce dei lavoratori stranieri, pari all’8,6% (da 1.147 a 1.246). Per i lavoratori extracomunitari l’aumento si è attestato all’1,7% (da 2.634 a 2.680).

I dati al 31 dicembre del 2018 evidenziano sul piano nazionale sia un incremento dello 0,6% degli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743, sia di quelli in itinere che hanno fatto registrare un incremento del 2,8%, da 95.849 a 98.518. La gestione «Industria e servizi» registra un aumento degli infortuni dell’1%, dai 497.220 casi del 2017 ai 502.156 del 2018 e L’analisi territoriale evidenzia che gli aumenti maggiori si rilevano nelle Marche (6.039 casi denunciati, +673), in Calabria (2.625 casi denunciati, +411), nel Lazio (3.901 casi, +239), in Toscana (8.009 casi, +227) e in Puglia (3.379 casi, +220). In controtendenza, si evidenziano: il Veneto (3.209 casi, -327), la Sardegna (4.432 casi, -212) e la Campania (2.953 casi, -130). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (36.637 casi), insieme a quelle del sistema nervoso (6.681 con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.574), continuano a essere anche nel 2018 le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio (2.613) e dai tumori (2.461).

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I corsi per la sicurezza? Devono essere distinti

La suddivisione riguarda i Rspp, gli Aspp, i coordinatori nei cantieri e i professionisti antincendio. La risposta è partita prendendo come riferimento l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che ha attuato una profonda riforma dell’intera disciplina formativa

Uno dei tratti più caratteristici del D.Lgs. n. 81/2008 è sicuramente l’attribuzione di una valenza fondamentale, ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, alla formazione come processo educativo rivolto a tutti
i soggetti che, a vario titolo, fanno parte del sistema aziendale, fino ad arrivare agli stessi formatori.
Il legislatore, infatti, ha coniato un modello formativo universale che, per certi versi, risulta addirittura più avanzato rispetto a quello adottato da altri Paesi europei, che, tuttavia, se tutto sommato risulta abbastanza cristallino sul piano dei principi generali che lo governano, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la disciplina attuativa che presenta, invero, molteplici lati oscuri.
Sotto alcuni profili, infatti, si potrebbe dire che oggi affrontare la formazione delle
risorse umane sul piano della safety è diventato, ormai, come addentrarsi in una “selva oscura”, luogo misterioso e irto di pericoli e sorprese, capaci di mettere a dura prova anche i professionisti più esperti; fuor di metafora, appare sempre più evidente che l’attuale normativa a carattere regolamentare contenuta nei diversi accordi Stato-Regioni presenta numerose (troppe) criticità che messe su di un foglio una dietro l’altra potrebbero, forse, risultare più lunghe della barba di Ezechiele… Palese indice sintomatico di questo quadro frustante sono, invero, i numerosissimi interventi della Commissione del ministero del Lavoro chiamata continuamente a esprimersi sui quesiti in materia di formazione, presentati da istituzioni di ogni tipo, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008; basti pensare che dal 2013 si contano ben sedici interpelli in materia di formazione, cui da ultimo si aggiunge quello del 31 gennaio 2018, n.1 (pubblicato lo scorso 8 febbraio). nei cantieri sia quale aggiornamento per la qualifica di professionista antincendio . Al tempo stesso ha anche chiesto di sapere se sia possibile erogare questo corso sotto forma, da un lato, di aggiornamento per Rspp, Aspp e coordinatori per la sicurezza
e, contemporaneamente, dall’altro lato, quale convegno o seminario di aggiornamento per i professionisti antincendio. In merito ha fatto anche rilevare che «la particolarità di questi corsi, organizzati da alcuni soggetti formatori, sta dunque nel fatto che attraverso un unico corso formativo, e quindi un’unica sessione, si ottiene l’attestazione valida per diversi obblighi formativi e distinte qualifiche professionali». Nel rispondere ai quesiti sottoposti, la Commissione è partita da quanto prevede l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che, com’è noto, ha operato una profonda riforma della disciplina attuativa sulla formazione obbligatoria e l’aggiornamento
non solo degli Rspp e Aspp, ma anche di altre figure, chiarendo con una maggiore puntualità i vincoli organizzativi dei corsi, specie per quanto riguarda l’e-learning.
Viene osservato preliminarmente che nell’allegato A di questo accordo sono stabiliti la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i Rspp e gli Aspp, con la previsione al punto 9 di una specifica disciplina sul loro “aggiornamento” ; sulla base delle disposizioni in esso contenute, la Commissione ministeriale ritiene, quindi, che ai fini dell’aggiornamento dei Rspp e degli Aspp non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’aggiornamento di qualifiche specifiche diverse.
Fanno eccezione a questo principio generale la partecipazione ai corsi di aggiornamento per formatori per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, e a quelli per coordinatori per la sicurezza (in fase di progettazione e in fase di esecuzione), ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008.
E ancora, viene ulteriormente precisato che, ai fini dell’aggiornamento per coordinatori per la sicurezza, il punto 9 dell’accordo in questione specifica che non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse, con le uniche eccezioni di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

E convegni e seminari? Molto interessante appare anche la risposta fornita alla seconda parte del quesito. Secondo la Commissione non è possibile che il medesimo evento possa essere configurato sia come corso di aggiornamento sia come convegno o seminario. Ciò alla luce di quanto stabilisce il già citato punto 9 dell’allegato A dell’accordo del 7 luglio 2016, che ne differenzia le modalità di attuazione. L’orientamento seguito dalla Commissione appare, quindi, chiaro: l’evento deve essere preventivamente qualificato univocamente come corso o convegno o seminario e ciò, evidentemente, anche in relazione ai vincoli che pone l’efficacia della formazione.

Il meccanismo “bidirezionale”
La posizione assunta dalla Commissione del ministero del Lavoro pur se appare condivisibile non sembra, tuttavia, del tutto chiara è merita qualche ulteriore breve osservazione.

Bisogna evidenziare a scanso di possibili nuovi equivoci, infatti, che il già citato punto 9 dell’allegato A in relazione ai compiti di Rspp e Aspp prevede che l’aggiornamento non deve essere di carattere generale o una mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base, ossia di prima formazione, ma deve trattare evoluzioni, innovazioni, applicazioni pratiche e approfondimenti collegate al contesto produttivo e ai rischi specifici del settore, con riferimento a diverse tematiche: aspetti ti giuridico-normativi e tecnico-organizzativi; sistemi di gestione e processi organizzativi; fonti di rischio specifiche dell’attività lavorativa o del settore produttivo; tecniche di comunicazione. Ora, è pur vero che la stessa norma stabilisce il principio generale in base al quale «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’ottenimento e/o all’aggiornamento di qualifiche specifiche (…) non è da ritenersi valida» ma, come richiamato dalla stessa Commissione, sussistono due deroghe.L’accordo, infatti, recita testualmente che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, è da ritenersi valida e viceversa». Viene stabilito, pertanto, un meccanismo “bidirezionale” tra i corsi di aggiornamento per Rspp e Aspp e quello dei formatori, riprodotto, invero, anche per quanto riguarda il rapporto tra aggiornamento di Rspp e Aspp con quello di Csp e Cse. Infatti, è espressamente previsto che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008, è da ritenersi valida e viceversa». Quindi, è alla luce di quest’ultima disposizione che la Commissione ha ritenuto che nel caso dell’aggiornamento dei coordinatori per la sicurezza nei cantieri non è da ritenersi valida la partecipazione ai corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse (ad esempio, Rls, formatore, addetto antincendio, dirigente ecc.), a eccezione appunto di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

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Assente alla formazione sulla sicurezza? Licenziato

L’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare un po’ rigido ma, sostanzialmente, si pone in sintonia con il decreto legislativo 81/2008, con il quale, per altro, è stato consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore. La mancata partecipazione, inoltre, avrebbe anche messo in crisi il rapporto fiduciario fra il dipendente e il datore, con conseguente risoluzione del contratto

Nel corso dell’ultimo quinquennio, il filone giurisprudenziale sulla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro sta ingrossandosi sempre più e proietta su un quadro a tinte chiaro-scure un datore di lavoro sempre più “nudo” nel momento in cui la sua condotta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dei giudici. Bisogna riconoscere, infatti, che sempre più frequentemente proprio la violazione del dovere formativo è considerata la causa di molti infortuni sul lavoro e comporta l’applicazione di pesanti sanzioni penali in capo al datore di lavoro e allo stesso ente secondo quanto stabilisce il D.Lgs. n. 231/2001. Tuttavia, il dovere formativo grava anche sullo stesso lavoratore il quale, com’è noto, secondo quanto stabilisce l’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli e etti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Un dovere, questo, che si estrinseca nella partecipazione, da parte del prestatore di lavoro, ai corsi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; la sua violazione, però, non ha un rilievo solo sul piano penale ma, come vedremo, anche su quello civilistico in quanto l’assenza ingiustificata ai corsi può legittimare, a determinate condizioni, il licenziamento per motivi disciplinari.
Molto significativa appare in merito la sentenza 7 gennaio 2019, n. 138, con la quale la Corte di Cassazione, sezione “Lavoro” (presidente: Bronzini; relatore: Cinque), ha messo a fuoco diversi profili che inducono anche a compiere alcune riflessioni sul potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro e sugli obblighi di obbedienza e diligenza del lavoratore sul piano della formazione obbligatoria.
Come vedremo, l’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare, invero, un po’ rigido ma tutto sommato si pone in perfetta sintonia con il D.Lgs. n. 81/2008, con il quale per altro è stato definitivamente consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore diventano quest’ultimo, a pieno titolo, un debitore di sicurezza.

Il fatto
La vicenda processuale a rontata dalla suprema Corte risale al 2013: un datore di lavoro aveva contestato al proprio dipendente di non aver partecipato, senza alcuna giustificazione, al corso in materia di salute e di sicurezza sul lavoro organizzato dall’azienda. E aveva deciso, quindi, di recedere dal contratto di lavoro subordinato (art. 2094 del codice civile) intimando il licenziamento per giusta causa motivato, appunto, dal fatto che il lavoratore non aveva «….preso parte alla formazione obbligatoria sull’accordo Stato-Regioni, con contestuale contestazione della recidiva in riferimento a due analoghe condotte sanzionate con provvedimenti di natura conservativa».
Successivamente, il lavoratore era ricorso al giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del licenziamento ritenuto illegittimo.
Tuttavia, la sua tesi difensiva non era stata accolta e il recesso unilaterale del datore di lavoro era stato ritenuto fondato.
Anche la Corte d’Appello aveva confermato in pieno la legittimità del licenziamento disciplinare; il lavoratore aveva così proposto ricorso per Cassazione, censurando l’operato dei giudici di merito sotto molteplici profili. Il dipendente licenziato, infatti, in primo luogo ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 7, comma 8, della legge n. 300/1970 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile per avere la Corte di merito dato valore, ai fini della recidiva, a fattispecie non contestate che avrebbero determinato la fondatezza del licenziamento e la gravità degli addebiti in violazione del “principio di immodificabilità” e di “tipicità della contestazione” in quanto ha ampliato il campo d’indagine dei fatti posti a
base del recesso che erano solo quelli di cui alla lettera del 10 maggio 2013.
Il lavoratore ha, inoltre, anche lamentato la violazione ed errata applicazione degli artt. 71 e 72 del contratto collettivo di lavoro
«Chimici, lavorazione vetro, industria», in relazione all’art. 360, n. 3 codice di procedura civile per avere la corte territoriale, sulla base di una errata interpretazione delle suddette disposizioni, ritenuta sussistente l’ipotesi di recidiva pur non essendo state irrogate, nei dodici mesi precedenti dalla contestazione disciplinare, tre sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Al tempo stesso ha fatto anche rilevare la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 codice di procedura civile, per avere nuovamente affermato la Corte d’Appello la legittimità del licenziamento pur non essendovi, a suo avviso, alcun documento, atto oppure elemento che potesse giustificare questa conclusione. Inoltre, nell’articolato ricorso, è stata anche lamentata la violazione ed errata applicazione dell’art. 2119 del codice civile, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile perché non è dato comprendere da quale elemento di prova la corte di merito ha potuto trarre il suo convincimento circa l’idoneità del comportamento del lavoratore a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro. Infine, il ricorrente ha contestato anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 2 e 13753 del codice civile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato che, per un’unica condotta (assenza dal lavoro dal 12 luglio all’11 settembre 2013) erano stati adottati nei confronti dello stesso due provvedimenti disciplinari e, quindi, a suo avviso uno dei due provvedimenti sanzionatori irrogati era illegittimo e, conseguentemente, le condotte sanzionabili erano due e non tre come sostenuto dall’azienda che, per altro, a suo dire ha seguito un modus operandi in contrasto con l’art. 1375 del codice di procedura civile che impone la buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Cassazione ha, tuttavia, respinto il ricorso ritenendolo infondato, sulla base di un articolato ragionamento che è possibile così sintetizzare. Secondo i giudici di legittimità, un primo elemento di rilievo è che l’assenza ingiustificata al corso di formazione
in materia di sicurezza sul lavoro, che – occorre sottolineare – rientra nell’attività cui si obbliga il lavoratore con il contratto, si affianca ad altre assenze sul lavoro.
La Corte d’Appello, infatti, ha tenuto conto, al fine di valutare la legittimità del recesso datoriale e la sussistenza della recidiva, i due episodi effettivamente ritenendoli con un accertamento in fatto congruamente motivato, autonomi e distinti.
In relazione, invece, agli altri addebiti, non oggetto della lettera di licenziamento, sono stati considerati quali “circostanze confermative” della significatività degli altri (oggetto della contestazione) ai fini di una valutazione complessiva della gravità della condotta, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità del provvedimento sanzionatorio. Secondo la Cassazione ciò non viola, quindi, “il principio d’immutabilità della contestazione” come più volte affermato in sede di legittimità.
Per altro, fanno osservare ancora i giudici, che l’art. 72 del contratto di lavoro di riferimento prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso di recidiva nella “medesima mancanza” di cui all’art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo) nonché nelle fattispecie di cui ai punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti.
La contrattazione collettiva ha distinto l’ipotesi della “recidiva specifica”, che consente al datore di lavoro di procedere al licenziamento senza preavviso in caso di sua eventualità, da quella cosiddetta “plurima/ impropria” che richiede, invece, una pregressa triplice sospensione per particolari e tipizzati illeciti disciplinari. Sotto questo profilo, la ricostruzione esegetica, oltre a essere conforme al dato letterale, è secondo i giudici logica e ragionevole avendo le parti contrattuali voluto prevedere un diverso regime (appunto la necessità delle tre pregresse sospensioni) per alcune tipologie disciplinari ben individuate. Nel caso de quo ricorre, pertanto, l’ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento
a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Per questi motivi, quindi, nel caso di specie è da considerarsi legittimo il licenziamento in quanto, per e etto di quanto stabilito dal citato art. 72, lett. I, del contratto collettivo nazionale di lavoro in questione, non è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa, ma quella espulsiva. I giudici di merito, quindi, si sono adeguati al principio in base al quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario delle sanzioni disciplinari con e etto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore rispetto alle norme di etica o del comune vivere civile.

Lesione del vincolo fiduciario
La Cassazione ha, inoltre, anche posto in risalto che nel caso di specie il fatto che il lavoratore sia stato ingiustificatamente assente al corso di formazione in materia di sicurezza indetto dall’azienda in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 determina anche una grave violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui ai già richiamati artt. 1175 e 1375 del codice civile, tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e da rendere, quindi, proporzionata la sanzione irrogata.

Sotto questo profilo giova anche ricordare che l’art. 20, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce l’obbligo da parte del lavoratore di «osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale»; queste disposizioni sono espressione tipica del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, funzionali all’assolvimento dell’obbligazione di sicurezza (art. 2087 del codice civile).L’inosservanza, quindi, della disposizione aziendale di partecipare a un corso di formazione in materia di sicurezza costituisce, secondo quanto stabilisce l’art. 2119 del codice civile, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Bisogna considerare, infatti, che l’art. 18, comma 1, lett. l) e l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, pongono in capo al datore di lavoro e al dirigente – secondo le attribuzioni e le competenze a esso conferite – l’obbligo di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza. Di conseguenza, questo obbligo non poteva essere rimesso alla discrezionalità del lavoratore e, infatti, il già citato art. 20, comma 2, lett. h), del D.Lgs. n.81/2008, pone in capo allo stesso il dovere di «partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro», con la previsione in caso di violazione della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 245,70 a 737,10 euro (art. 59, comma 1, lett. a)). Questa disposizione, quindi, risulta strettamente funzionale anche alla concreta attuazione, in ambito aziendale, del “modello prevenzione collaborativo”, su cui si fonda il D.Lgs. n. 81/2008. Appare chiaro, quindi, che la condotta tenuta dal lavoratore abbia assunto una gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e lo stesso, in quanto è stato messo seriamente in pericolo il “bene sicurezza” sul lavoro che, per altro, si autonomizza rispetto al titolare (cfr. art. 32 e 41 Cost.). Occorre ricordare in merito che, secondo un’autorevole dottrina, questa disciplina protettiva ha un’alta funzione di garanzia del diritto alla salute del cittadino lavoratore «garanzia che deriva da necessità sociali e trova oggi il suo fondamento principale nella rilevanza costituzionale del lavoro. Essa opera sia di fronte allo Stato, sia nei rapporti intersoggettivi, funzionando – in relazione a questi ultimi – come limite di ordine pubblico all’autonomia privata. In sostanza, poiché lo Stato da un lato ritiene di interesse generale la salute pubblica e dall’altro garantisce l’integrale tutela del lavoro in ogni sua forma, l’integrità fisica del lavoratore assume rilevanza generale; per cui, tutelandola, lo Stato tutela un bene generale, al quale è interessata – nel suo complesso – l’intera collettività».

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Denominazioni chiare per ciascuna funzione

Dove? Negli incarichi e nei documenti di “sistema”. È quanto suggerisce – fra le righe – la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. IV penale, 7  febbraio 2018, n. 10740 offrendo alcuni utili e significativi spunti di riflessione, nell’interesse di tutta la filiera della sicurezza, dal datore di lavoro fino ai preposti senza dimenticare i dirigenti

 

Con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 10740, la Corte di Cassazione (sez. IV penale) torna a occuparsi di requisiti, caratteristiche e finalità della delega di funzioni.
Pur ribadendo concetti ormai noti in tema di necessaria forma scritta, la sentenza offre – tra le righe – alcuni spunti di riflessione in ordine al necessario utilizzo, negli incarichi e nei documenti di “sistema”, di denominazioni chiare, nonché in ordine all’interazione tra le diverse e compresenti posizioni di datore di lavoro, dirigenti e preposti.

Il fatto
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il datore di lavoro era stato condannato per le lesioni subite da un operaio che, mentre stava sostituendo alcuni isolatori dell’alta tensione su un impianto in quota, aveva perso l’equilibrio scivolando lungo un pendio e rovinando contro una roccia.
Sia in primo che in secondo grado, il datore di lavoro era stato ritenuto colpevole per non aver correttamente valutato e gestito nel Pos le specifiche condizioni ambientali in cui il lavoratore si trovava a operare (art. 71 comma 2 lettere a) e b) e punto n. 3.2.5. allegato 6, D.Lgs. 81/2008).
I giudici di merito, infatti, avevano ritenuto che la previsione di una linea vita di aggancio durante lo svolgimento della mansione, avrebbe evitato l’infortunio. Il datore di lavoro aveva ricorso, quindi, per la Cassazione della sentenza, assumendo (oltre a una non corretta valutazione in fatto delle condizioni ambientali e delle cause dell’incidente) di aver validamente delegato compiti e responsabilità ad altro soggetto, evidenziando che l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello sarebbe consistito:
• nell’aver ritenuto invalida la delega conferita perché carente della forma scritta, mentre la qualifica di “dirigente delegato” sarebbe emersa dai documenti allegati (in particolare, sembra, dal Pos prodotto dal Pm);
• nel non aver considerato e adeguatamente valutato che, in ragione delle dimensioni incaricati sia il dirigente sia il preposto (responsabile della sicurezza nel cantiere) di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere opportunamente aggiornato il Pos.

La legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10740 del 7 febbraio 2018, ha rigettato il ricorso, sulla base dei seguenti rilievi:
• la necessità della forma scritta per la validità della delega di funzioni non è più contestabile (art. 16, D.Lgs. 81/2008) a nulla rilevando i precedenti giurisprudenziali – antecedenti alla normativa in vigore – citati a difesa; aggiunge, però anche, la Corte, che non possono equivalere a una “delega di funzioni” documenti che non abbiano un contenuto chiaramente a essa riconducibile;
• la presenza di ulteriori funzioni, quali quella del dirigente (nella specie qualificato come construction manager) e del preposto (nella specie qualificato come capo cantiere), pur affiancate al datore di lavoro nella gestione della sicurezza, non valgono a esonerarlo dalla propria responsabilità e dai doveri di intervento connessi ai propri poteri. La sentenza in commento offre, allora, l’occasione, non solo per richiamare le caratteristiche e le finalità della delega di funzioni rispetto a quelle connesse alla posizione di dirigente e preposto, ma anche – forse – per sottolineare come, spesso, l’utilizzo di una terminologia espressamente definita dalla norma possa garantire una più chiara ricostruzione della fattispecie e dei diversi ruoli dei soggetti chiamati a gestirla. Quanto al primo aspetto. Come sempre, occorrerebbe conoscere le dinamiche esatte del processo per poter comprendere appieno tutti i passaggi della sentenza e alcune affermazioni che, al lettore del solo provvedimento finale, potrebbero apparire a tratti anche “singolari”. Nelle premesse in fatto, pare infatti di capire che il ricorrente avesse sostenuto la sussistenza, ancora oggi, della possibilità di validamente conferire una delega di funzioni in assenza di forma scritta; ciò, a maggior ragione, in imprese di grandi dimensioni, articolate per settori e funzioni cui sono incaricati specifici soggetti. Pare anche, però, che lo stesso ricorrente facesse riferimento all’esistenza di documenti “equivalenti”, ovvero e nello specifico, a un Pos a firma del datore di lavoro e sottoscritto dal dirigente e dal preposto, nel quale gli stessi era stati formalmente incaricati della gestione della sicurezza.
In relazione alla forma scritta della delega di funzioni, si è già detto molto e non si ritiene necessario soffermarsi troppo anche in considerazione dell’ormai inequivoco contenuto della normativa vigente (art. 16, D.Lgs. 81/2008) che – oltre alla forma scritta – richiede anche la data certa. Il profilo “formale” oggetto di valutazione da parte della sentenza appare invece più interessante se affrontato, non tanto con riferimento alla mera presenza o meno di forma scritta, quanto alla possibilità che a documenti – comunque esistenti nel sistema di gestione della sicurezza sebbene per altre finalità – possano ricondursi, attraverso un esercizio interpretativo dei loro contenuti sostanziali, gli effetti della delega funzioni.
Ipotizzando (per quanto emerge dal testo) che si trattasse di fattispecie sottoposta alla disciplina di cui al titolo IV del D.Lgs. 81/2008 e che, quindi, l’imputato fosse il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, lo stesso avrebbe sostenuto che dal Pos sarebbe emerso (oltre ad altri aspetti sui quali si tornerà in seguito) che «(omissis) era il dirigente delegato alla sicurezza». Secondo la Cassazione invece «i documenti prodotti in atti a firma (omissis) (il datore di lavoro, n.d.a.) con oggetto conferimento dei ruoli di construction manager” a (omissis) del (omissis) e di “capo cantiere” a (omissis) del (omissis), entrambi firmati dai dipendenti (omissis), non hanno in realtà il concreto contenuto della delega di funzioni». Questa conclusione (per quanto molto sintetica) ci può indurre a due riflessioni: non pare, da un lato, che i giudici abbiano escluso a priori la possibilità di qualificare un documento (comunque denominato) come “delega di funzioni” facendone conseguire gli effetti di legge purché lo stesso contenga tutti i requisiti di cui all’art. 16 D. Lgs. 81/2008;
• è altrettanto evidente, dall’altro, che quegli elementi distintivi devono apparire chiaramente nel documento richiamato e che, per evitare che il significato e l’efficacia che vogliamo conferire ai documenti di sistema sia messo in dubbio o sia comunque sottoposto a una valutazione interpretativa a posteriori, dobbiamo dare a quei documenti forma e contenuti chiari.
Questa conclusione risulta condivisibile in ragione degli effetti della delega di funzioni attraverso la quale «(…) il datore di lavoro ha la possibilità (…) di trasferire in capo ad altro soggetto poteri ed obblighi originariamente appartenenti al delegante in materia di sicurezza sul lavoro. In sostanza il datore può trasferire in capo ad altro soggetto la sua posizione di garanzia (…)» (Cassazione penale, sez. IV, 19.07.2012, n. 41063).
Tornando ora alla fattispecie esaminata, il Pos è un documento redatto ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. 81/2008 e, in estrema sintesi, contiene, con riferimento al singolo cantiere, la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione e protezione; è quindi evidente che non è finalizzato, di per sé, all’individuazione di posizioni di garanzia, né tanto meno al conferimento di deleghe. Lo stesso non poteva e non può, pertanto, essere considerato “equivalente” alla delega a meno che non ne contenga ogni elemento sostanziale e formale. Ancora e analogamente, al termine di manager construction non è chiaramente e inequivocabilmente riconducibile – se non attraverso una attività interpretativa e probatoria – una specifica definizione, né alcun specifico obbligo o responsabilità, dalla normativa antinfortunistica previsti.
Quanto al secondo aspetto. La Corte di Cassazione affronta, poi e come anticipato, il tema della compresenza di diverse posizioni di garanzia e della sostanziale
differenza tra la presenza delle figure del dirigente (o del preposto) e di una delega di funzioni. Il datore di lavoro aveva assunto, tra l’altro e infatti, la propria assenza di responsabilità in ragione dell’incarico conferito a due soggetti, rispettivamente come construction manager e capo cantiere, di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere aggiornato il Pos. La Cassazione ricorda che, in assenza di una valida delega di funzioni (i cui requisiti non erano rispettati dalle nomine a construction manager e capo cantiere) questi soggetti sono «figure ipoteticamente concorrenti nel vasto settore della responsabilità ma, in ogni caso, la presenza dei due non esonera (…) il datore di lavoro, siccome incaricato dal consiglio di amministrazione (…) di tutti i poteri e di tutte le responsabilità in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro».
Ciò nel solco del già affermato principio per cui «Il vigente sistema di tutela della sicurezza del lavoro prevede una pluralità di figure di garanti tutti autonomamente responsabili in relazione agli obblighi a ciascuno di loro imposti» (Cassazione n. 51190/2015) non venendo meno «(…) il nesso di causalità tra la condotta omissiva (o commissiva) del titolare di una posizione di garanzia (…) per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’art. 41, comma 1, codice di procedure penale» (Cassazione n. 49349/2015).
Con particolare riferimento, quindi, alla posizione di garanzia del datore e del dirigente (sui quali, in rapporto alle rispettive attribuzioni e competenze, incombono gli obblighi coincidenti di cui all’art. 18 D. Lgs. 81/2008) gli obblighi e le responsabilità del primo possono essere trasferite solo sul secondo unicamente attraverso una valida delega di funzioni, diversamente potendo invece concorrere; analogamente e ancora distinto è il ruolo del preposto, destinatario a sua volta di specifici e autonomi obblighi e responsabilità. In assenza di delega di funzioni, quindi, l’uno può essere esonerato da responsabilità a svantaggio dell’altro nella misura in cui l’evento sia causalmente connesso in via esclusiva al mancato adempimento dell’obbligo riferito alla posizione di garanzia ricoperta. Anche in questa prospettiva, quindi, una corretta rappresentazione delle funzioni di ognuno può facilitare l’accertamento dei reali apporti in sede di giudizio.

Conclusioni
Ciò che forse dalle motivazioni di questa sentenza si può trarre è certamente il consiglio di utilizzare, nella redazione dei documenti, non solo (e ovviamente) le forme richieste dalla legge, ma – quanto più possibile – le categorie e le definizioni in essa presenti e disciplinate espressamente. Molto spesso, infatti, soprattutto nell’ambito di società multinazionali, ma anche per le più svariate ragioni in ambito nazionale, le imprese tendono a utilizzare costruzioni documentali e termini diversi da quelli della norma (construction manager lo abbiamo visto nella sentenza, ma si potrebbero citare molti altri esempi) anche per individuare funzioni specificamente dalla stessa disciplinate. Questo può poi comportare, in caso di evento “patologico”, una diversa interpretazione delle funzioni da parte degli inquirenti e dei giudici e, conseguentemente, la necessità di dover dimostrare (cosa non sempre agevole a posteriori) la riconducibilità delle singole funzioni alle categorie di legge.
Ogni realtà aziendale, poi e soprattutto se di medio-grandi dimensioni, dovrebbe svolgere periodicamente una esame del proprio organigramma della sicurezza e del complessivo sistema di procure, deleghe e nomine, al fine di verificare, da un lato, che le posizioni corrispondano effettivamente ai soggetti individuati (secondo il principio di effettività) e, dall’altro, che ogni soggetto del sistema sia a conoscenza non solo dei compiti lui affidati, ma anche di quelli che competono ad altre figure, così da evitare pericolose sovrapposizioni e ingerenze, garantendo al sistema la maggiore efficienza possibile.

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OBIETTIVO CLICK-DAY

Con il nuovo bando Isi per il 2019, l’Inail ha messo sul piatto 370 milioni di euro di finanziamenti a fondo perduto. Un incremento del 48% rispetto all’edizione precedente.

Fra le altre novità: l’ampliamento della platea di beneficiari e i progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute, alla sicurezza sul lavoro e alla responsabilità sociale. Occhio però alle scadenze.

 

Con il comunicato del 20 dicembre 2018 (in Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 2018, n. 295) l’Inail ha reso noto la pubblicazione del nuovo bando Isi giunto, ormai, alla nona edizione. Le linee strategiche di questo importante incentivo alla prevenzione sono state rese note dallo stesso istituto assicuratore con la delibera Civ 27 novembre 2018, n. 20, e mirano a un più efficace contrasto del preoccupante trend che ha visto chiudere il 2018 con una lunga scia d’infortuni sul lavoro, anche plurimi, nei settori più disparati.
Per il 2019 si apre, quindi, una nuova stagione dove l’Inail ha messo sul piatto qualcosa come 370 milioni di euro circa di nuovi incentivi a fondo perduto, ossia la cifra più alta da quando nel 2010 questo strumento – diventato ormai strutturale – è stato attuato in Italia, con una crescita delle risorse messe in campo di circa +48% rispetto all’edizione precedente.
Proprio questo particolare meccanismo incentivante conferisce all’Italia la palma d’oro di Paese leader a livello europeo in questo campo, grazie soprattutto al grande impegno diffuso in questi anni dall’Inail per cercare di agevolare i datori di lavoro nell’effettuazione degli investimenti in salute e sicurezza sul lavoro. Il dato negativo, purtroppo, è che nella legge 30 dicembre 2018, n. 145 (la legge di bilancio per il 2019) il legislatore ha scelto la strada del depotenziamento di questo strumento, cosa questa che lascia invero alquanto perplessi. Come vedremo, comunque, con questo nuovo bando sono state messe in campo
diverse azioni che vanno accolte molto positivamente, tra cui spiccano l’ampliamento della platea dei beneficiari, attraverso un meccanismo redistributivo più flessibile e ad ampio respiro, e una maggiore attenzione alla diffusione dei modelli organizzativi e di gestione con la scomposizione dell’asse 1 in due sotto assi.

Inclusi ed esclusi
Sono numerosi i profili critici di questo nuovo e complesso bando e concentrando l’attenzione su quelli più significativi occorre precisare, in primo luogo, che per quanto riguarda la platea dei beneficiari possono presentare la domanda di contributo le imprese, anche individuali e di armamento, ubicate su tutto il territorio nazionale iscritte alla Cciaa, che soddisfino i requisiti previsti dagli avvisi regionali/provinciali. Pertanto, anche in questa occasione, restano escluse le attività professionali in considerazione presumibilmente anche del ridotto rilievo In termini di trend infortunistico. Sono altresì escluse le imprese che si trovano in liquidazione volontaria o sono state assoggettate a una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo ecc.).
Da notare, poi, che l’asse 2 di finanziamento è aperto anche gli enti del cosiddetto terzo settore. Nel bando, comunque, sono specificati in dettaglio i soggetti destinatari e quelli esclusi e molteplici condizioni di partecipazione, differenziati per asse di finanziamento.

I requisiti generali
Questi soggetti, inoltre, devono soddisfare anche i numerosi requisiti previsti dai bandi regionali/provinciali che, si badi bene, devono essere mantenuti anche successivamente alla presentazione della domanda, fino alla realizzazione del progetto e alla sua rendicontazione.
In particolare, è richiesto che il soggetto partecipante deve avere attiva nel territorio della Regione (o Provincia autonoma) l’unità produttiva per la quale s’intende realizzare il progetto. Nel bando è precisato che, in virtù di quanto dispone l’art. 2, comma 1, lett. t) del D.Lgs. n. 81/2008, per “unità produttiva” s’intende lo stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.
Le imprese assicurate presso l’Inail devono indicare nella domanda la posizione assicurativa di riferimento. Per le imprese di armamento, invece, relativamente a progetti riguardanti navi e imbarcazioni, è considerata unità produttiva la nave/ imbarcazione per la quale deve essere predisposto il piano di sicurezza (cfr. D.Lgs. n. 271/1999); la sede Inail competente è quella nel cui ambito territoriale insiste la sede legale dell’armatore. Inoltre, trattandosi di un beneficio normativo, anche in questo caso il soggetto partecipante dovrà essere in regola con i versamenti contributivi dovuti all’Inps e alla cassa edile, nonché con premio assicurativo contro gli infortuni e le malattie professionali dovuto all’Inail, attestati dal documento unico di regolarità contributiva (Durc).

Il nuovo modello di “Patto d’integrità”
In questo quadro così complesso di requisiti e condizioni per la partecipazione, una menzione particolare merita l’obbligo da parte del partecipante di sottoscrivere il modello di “Patto d’integrità” (modulo G),
che manda in soffitta quello del 2014; l’Istituto assicuratore, infatti, con la determina presidenziale 17 dicembre 2018, n. 524, ha approvato il nuovo schema che ha una precisa finalità: mettere nero su bianco l’impegno reciproco di lealtà, correttezza, trasparenza nei rapporti, nonché contrastare nelle procedure concorsuali l’illegalità e le infiltrazioni criminali. Nel modello è previsto, quindi, che il soggetto partecipante è tenuto ad attestare di non aver concluso contratti di lavoro dipendente o autonomo e comunque di non aver attribuito incarichi ed ex dipendenti dell’Inail, che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’Istituto nei propri confronti, per il triennio successivo alla cessazione del rapporto, così come espresso nell’orientamento Anac n. 24/2015 (il cosiddetto divieto di pantouflage o revolving doors).
Analogamente nel caso di ricorso ad aziende di consulenza per l’assistenza nella procedura lo stesso soggetto partecipante ha altresì l’espresso divieto di avvalersi di quelle nelle quali, per quanto a sua conoscenza, operano a qualsiasi titolo ex dipendenti Inail che abbiano interrotto il proprio rapporto da meno da tre anni e che durante la loro attività di servizio abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali nelle materie oggetto della selezione. Occorre, inoltre, sottolineare che con la presentazione del modello il soggetto partecipante si impegna anche a garantire la tracciabilità dei movimenti finanziari legati alla fruizione del beneficio e a non porre in essere alterazioni del regolare svolgimento delle gare in accordo con altre aziende.
Il modulo G deve essere sottoscritto dal titolare o dal legale rappresentante dell’impresa/ ente; questo patto sarà successivamente controfirmato dal responsabile della sede Inail competente ed «…è da considerarsi parte integrante del provvedimento di concessione del finanziamento, anche se non materialmente allo stesso allegato, in quanto conservato agli atti della pratica»; nella predisposizione della domanda occorrerà, quindi, porre molto attenzione a questo modello in quanto la mancata presentazione determina un effetto molto grave: l’esclusione dalla procedura di concessione del beneficio.

Così la ripartizione
Concentrando ora l’attenzione su alcuni dei profili procedurali fondamentali, occorre rilevare che il meccanismo di attribuzione di base delle risorse è rimasto sostanzialmente invariato, con la concessione
di un contributo in conto capitale che può coprire fino al 65% delle spese sostenute per ogni progetto ammesso, sulla base dei parametri e degli importi minimi e massimi specificati dal bando per ciascun asse di finanziamento, erogato dopo la verifica tecnico-amministrativa e la realizzazione del progetto. Rispetto al bando precedente, è rimasta ferma anche la classica struttura basata su cinque assi di finanziamento, ossia:
• asse 1 (Isi “Generalista”) – progetti di investimento (1.1) e progetti per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale (1.2);

• asse 2 (Isi “Tematica”) – progetti per la riduzione del rischio da movimentazione manuale di carichi (Mmc);

• asse 3 (Isi “Amianto”) – progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;

• asse 4 (Isi “Micro e piccole imprese”) progetti per micro e piccole imprese operanti in specifici settori di attività (Ateco 2007 A03.1, C13, C14, C15);

• asse 5 (Isi “Agricoltura”) – progetti per le micro e piccole imprese operanti nel settore della produzione agricola primaria dei prodotti agricoli. Si osservi che, come nei bandi precedenti, anche in questa occasione i soggetti destinatari possono presentare una sola domanda di finanziamento in una sola Regione o Provincia autonoma, per una sola tipologia di progetto tra quelle sopra indicate riguardante una sola unità produttiva; come in passato le risorse sono distribuite a livello regionale.

Investimenti per il miglioramento di salute e sicurezza
Alcune riflessioni merita in particolare l’asse 1 che, come accennato, quest’anno è stato scisso in due sotto assi; da rilevare che ancora una volta la parte più consistente delle risorse messe a disposizione, pari a 180.308.344 euro, è destinata ai progetti d’investimento del sotto asse 1.1, relativi a tutti i settori merceologici e profili di rischio, volti al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori e rigorosamente funzionali alla riduzione, eliminazione e/o prevenzione della medesima causa d’infortunio o del fattore di rischio indicata dall’impresa nella domanda; il bando prevede dieci tipologie d’intervento
ammissibili con punteggi differenziati che unitamente ad alcuni altri parametri concorrono alla determinazione del punteggio e occorre sottolineare che sono ammissibili a finanziamento progetti relativi a una sola tipologia di intervento prevista.
Molto articolato è il quadro delle spese ammissibili al finanziamento e quelle escluse; in particolare quelle considerate come ammissibili sono sia le spese di progetto che quelle tecniche e assimilabili. Le prime sono tutte le spese direttamente necessarie all’intervento, nonché quelle accessorie o strumentali funzionali alla sua realizzazione e indispensabili per la sua completezza; viceversa, le spese accessorie o strumentali sono quelle funzionali alla realizzazione del progetto e indispensabili per la sua completezza che non siano direttamente riconducibili alla riduzione del rischio di cui alla tipologia d’intervento indicata nella domanda e non devono essere prevalenti rispetto a quelle direttamente riconducibili alla riduzione del rischio.
Non sono, invece, finanziabili né le spese sostenute per l’aggiornamento della valutazione dei rischi (art. 17, 28 e 29 D.Lgs. n. 81/2008) né quelle relative alla compilazione della domanda di finanziamento, nonché quelle espressamente richieste dalle direttive di prodotto a carico del fabbricante.
Viceversa, per i progetti di cui alle tipologie di intervento c), d) e h), per i quali è prevista la vendita o la permuta dei trattori agricoli o forestali e/o delle macchine sostituiti nell’ambito del progetto, nella presentazione della domanda on line, l’importo del finanziamento ammissibile è calcolato operando, sulla quota a carico di Inail, la decurtazione della somma pari al 50% dell’importo preventivato per la vendita o permuta; in fase istruttoria, l’importo concedibile sarà valutato con riferimento all’importo effettivo di vendita o di permuta. In ogni caso, l’importo concesso con provvedimento emesso a seguito della verifica tecnico/amministrativa di cui all’art. 19 del bando non potrà superare il valore del finanziamento ammissibile; parimenti, l’ammontare del finanziamento erogabile a seguito della verifica della documentazione attestante la realizzazione del progetto (art. 22) non potrà superare l’importo precedentemente concesso con il predetto provvedimento. Nel caso, invece, di acquisto di trattori agricoli o forestali e/o di macchine, le spese ammissibili per l’acquisto devono essere calcolate, al netto dell’Iva, con riferimento ai preventivi presentati e, comunque, nei limiti dell’80% del prezzo di listino di ciascun trattore agricolo o forestale o macchina. Da rilevare, poi, che le spese tecniche e assimilabili sono finanziabili entro la percentuale massima del 10% rispetto ai costi di cui al punto A (spese di progetto), con un importo massimo complessivo di 10 mila euro, a eccezione del mero acquisto di macchine per il quale la percentuale massima ammissibile è pari al 5% rispetto ai costi di cui al punto A, con un importo massimo complessivo di 5 mila euro; l’importo massimo concedibile per la perizia asseverata è pari a 1.200 euro.

La condivisione con le parti sociali con le parti sociali
Ancora una volta sarà importante anche la condivisione del progetto con le parti sociali.
Infatti, la condivisione con gli organismi paritetici o gli enti bilaterali comporta l’attribuzione di ben 13 punti che scendono a 10 se la condivisione è con due o più parti sociali di cui almeno una di rappresentanza delle aziende e una di rappresentanza dei lavoratori.
Da notare, inoltre, che nel bando sono previsti anche gli enti bilaterali che, invero, non sono però contemplati dal D.Lgs. n. 81/2008; inoltre, occorre tener presente che secondo quanto stabilisce l’art. 2, comma 1, lett. ee) del predetto decreto gli organismi paritetici sono quelli costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lo “zoccolo duro” del Dvr
L’intervento per cui si richiede il finanziamento deve, però, essere necessariamente anche riscontrabile nel documento di valutazione dei rischi (artt. 17 e 28, D.Lgs. n. 81/2008) da presentare in fase di conferma e completamento della domanda (cfr. tipologie d’intervento a, b, c, d, e, h, i). Il bando, infatti, prevede espressamente che il fattore di rischio relativo alla tipologia di intervento del sotto asse 1.1 deve essere coerente con l’attività aziendale di cui alla voce di tariffa selezionata nella domanda e, quindi, coerente e rilevabile nel citato Dvr nei casi previsti dall’allegato 1.1.
Nel caso in cui sia stato redatto il Dvr standardizzato ai sensi dell’art. 29, comma 5 e 6 del D.Lgs. n. 81/2008, il soggetto partecipante dovrà inviare copia della modulistica relativa alle procedure standardizzate, di cui al D.M. 30 novembre 2012, avente data certa o attestata ai sensi dell’art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008 1; l’uso di questo strumento, tuttavia, non appare molto consigliato in quanto essendo basato più sul concetto di pericolo che su quello di rischio potrebbe generare difficoltà in fase di controllo e, per altro, alla fine dei conti non apporta molti benefici rispetto alla compilazione del Dvr “ordinario”.
Nel bando, inoltre, è precisato che i soggetti non tenuti alla redazione del Dvr neanche nella forma prevista dalle procedure standardizzate possono inviare una relazione sottoscritta dal titolare dell’impresa (rappresentante legale se ente del terzo settore) nella quale siano descritti: il ciclo produttivo, gli ambienti di lavoro e la disposizione dei macchinari (layout) e i rischi aziendali. Per le imprese del settore “pesca”, invece, il riferimento è il piano di sicurezza in cui deve essere riscontrabile il fattore di rischio corrispondente alla tipologia d’intervento selezionata (cfr. D.LBOX gs. 17 agosto 1999, n. 298). Il progetto d’intervento dovrà trovare, quindi, una specifica corrispondenza in termini di rischio e di misure nel Dvr: è questo il classico zoccolo duro che caratterizza da sempre il bando Isi e sul quale occorre sempre riflettere attentamente prima di presentare investimenti che potrebbero non trovare – come spesso accade – quell’indispensabile e coerente collegamento con gli esiti della valutazione dei rischi formalizzati appunto nel Dvr o in documenti equivalenti.

Mog e responsabilità sociale spunta la nuova Iso 45001
Sempre nell’asse 1, come accennato, fa il suo debutto anche il nuovo sotto asse 1.2, relativo ai progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute e la sicurezza sul lavoro (cfr. art. 30 D.Lgs. n. 81/2008) e di responsabilità sociale. Bisogna ricordare che nella già citata delibera Civ n. 20/2018, è stato posto un particolare accento sulla rilevanza del finanziamento di questi interventi; sul piatto ci sono ben due milioni di euro che dovrebbero servire da stimolo a molte imprese a dotarsi di sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (Sgssl); per altro non va nemmeno dimenticato che questa strada rappresenta, ormai, un passaggio obbligato anche in chiave di responsabilità amministrativa delle società e degli enti in genere del D.Lgs. n. 231/2001, in caso d’infortunio sul lavoro o malattia professionale in dipendenza dei reati di lesioni gravi o gravissime e di omicidio colposo (artt. 589, 590 del codice penale ).
La novità prevista dal bando è il debutto dei Sgssl realizzati seguendo la nuova Iso 45001:2018, che comporta l’attribuzione di ben 90 punti se il sistema è certificato, che è l’innovativo standard internazionale su cui conformare questi sistemi di nuova generazione, integrati con qualità (Iso 9001:2015) e ambiente (Iso 14001:2015). Inoltre, come precisato nell’allegato 1.2 sono finanziabili anche i progetti di adozione di un Sgssl previsto da accordi Inail-parti sociali, nonché i progetti di adozione di un Sgssl non certificato, ma conforme alle linee guida Uni-Inail del 2001 o alla Uni Iso 45001:2018; un punteggio più basso è, invece, previsto per i Mog non asseverati, realizzati in base alle procedure semplificate di cui al decreto del ministero del Lavoro 3 febbraio 2014, e per l’adozione di un sistema di responsabilità sociale certificato Sa 8000. Come per il sotto asse 1.1 è prevista anche la norma premiale che riconosce un punteggio aggiuntivo a quei progetti che sono condivisi con gli organismi paritetici e gli enti bilaterali o che prevedono l’asseverazione del Sgssl secondo quanto stabilisce l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008; al momento gli unici due settori dove è “praticabile” l’asseverazione sono l’edilizia (cfr. Uni/PdR 2:2013) e quello dei servizi ambientali territoriali (cfr. Uni/PdR 22:2016). Sul piano procedurale, i progetti possono riguardare tutti i lavoratori facenti capo a un unico datore di lavoro anche se operanti in più sedi o più regioni; in questo caso la domanda di contributo potrà essere presentata o presso una sola delle sedi Inail nel cui territorio opera almeno una parte dei lavoratori coinvolti nell’intervento o dove è situata la sede legale dell’impresa. Da rilevare, poi, che l’impresa dovrà mantenere il Mog per i tre anni successivi alla data di erogazione del saldo del finanziamento e in caso di certificazione la stessa va mantenuta per un triennio a decorrere dalla data della certificazione stessa.

I limiti
Alcune considerazioni devono essere compiute, inoltre, per quanto riguarda i limiti degli incentivi. Per gli assi 1, 2, 3 sull’importo delle spese ritenute ammissibili è concesso un finanziamento in conto capitale nella misura del 65% ed entro il tetto massimo pari a 130 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a cinque mila euro. Tuttavia, per le imprese fino a 50 dipendenti che presentano progetti per l’adozione di Mog e di responsabilità sociale non è fissato il limite minimo di finanziamento; la stessa misura dell’agevolazione è prevista per l’asse 4, ma in questo caso il finanziamento massimo erogabile è pari a 50 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a due mila euro. Per l’asse 5, invece, il finanziamento in conto capitale è nella misura del 40% per i soggetti destinatari dell’asse 5.1 (generalità delle imprese agricole) che sale al 50% per i soggetti destinatari dell’asse 5.2 (giovani agricoltori), con un tetto massimo di finanziamento erogabile pari a 60 mila euro e uno minimo è pari a mille euro.

Spese ammesse e no
Come in passato si tratta, quindi, di un incentivo molto appetibile e per quanto riguarda le spese ammesse il principio generale che rientrano nell’agevolazione le spese documentate direttamente necessarie alla realizzazione del progetto, le eventuali spese accessorie o strumentali funzionali alla realizzazione dello stesso e indispensabili per la sua completezza, nonché le eventuali spese tecniche, così come previste negli allegati 1.1, 1.2, 2, 3, 4 e 5 dei bandi regionali, al netto dell’Iva; inoltre, le spese ammesse a finanziamento devono essere riferite a progetti non realizzati e non in corso di realizzazione alla data del 30 maggio 2019. Lo stesso bando, poi, prevede anche un lungo elenco di spese non ammissibili, alcune già viste per il sotto asse 1.1 come, ad esempio, quelle per l’hardware, software e sistemi di protezione informatica (fatta eccezione per quelli dedicati all’esclusivo funzionamento d’impianti o macchine oggetto del progetto di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza), i mobili e arredi ecc.

Assegnazione del contributo e regola “de minimis”
Resta fermo che, come detto, i finanziamenti sono erogati dall’Istituto assicuratore a fondo perduto e vengono assegnati fino a esaurimento, secondo l’ordine cronologico d’invio e sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (ad esempio gestiti dal fondo di garanzia delle Pmi e da Ismea); agli stessi si applica anche la regola del cosiddetto de minimis. Inoltre, il bando stabilisce ancora che per le domande di finanziamento che non prevedono il noleggio con patto di acquisto, il soggetto destinatario il cui progetto comporti un finanziamento di ammontare pari o superiore a 30 mila euro può richiedere un’anticipazione fino al 50% dell’importo del finanziamento stesso, compilando l’apposita sezione del modulo di domanda on line.

Regime di contrasto agli abusi
Interessante è notare, poi, che oltre l’obbligo per il soggetto richiedente di presentare il modello di “patto d’integrità” e il Dvr nei casi previsti, nonché essere in regola con il Durc, sulla base delle pregresse esperienze – non sempre positive – maturate nel corso di questi anni il bando Isi è anche disseminato da molteplici altri vincoli introdotti per prevenire possibili abusi dei benefici. Sotto questo profilo, a mero titolo esemplificativo, i progetti devono essere realizzati nei luoghi di lavoro nei quali è esercitata l’attività lavorativa al momento della presentazione della domanda e l’eventuale variazione del luogo di lavoro è ammissibile solo qualora sia debitamente motivata e non comporti la modifica dei parametri i cui punteggi hanno consentito il raggiungimento della prevista soglia di ammissione. Al tempo stesso, non può trattarsi di progetti che comportino un ampliamento della sede produttiva con la costruzione di un nuovo fabbricato o l’ampliamento della cubatura preesistente, né possono comportare l’acquisto di beni usati o l’acquisto di beni indispensabili per avviare l’attività dell’impresa.
Inoltre, il progetto deve essere realizzato in immobili già nella disponibilità dell’impresa (in proprietà, locazione o comodato) alla data di pubblicazione del bando, ossia il 20 dicembre 2018.

Procedure e verifiche
Resta da compiere, poi, alcune precisazioni sulle tappe procedurali e il quadro delle verifiche che saranno effettuate sulle domande presentate.
A partire dalla data dell’11 aprile 2019 le imprese avranno a disposizione, tramite il sito www.inail.it, una procedura informatica che consentirà loro, attraverso un percorso guidato, d’inserire la domanda di contributo con le modalità indicate negli avvisi regionali; la chiusura di questa prima fase è prevista per ore 18 del 30 maggio 2019. Nella sezione “Servizi online”, le imprese registrate al sito Inail avranno a disposizione l’applicativo per la compilazione della domanda, che consentirà di effettuare simulazioni relative al progetto da presentare – e, quindi, di verificare il raggiungimento del “punteggio soglia” di ammissibilità – e di salvare la domanda inserita; se le caratteristiche del progetto sono in linea con quelle richieste dal bando e viene raggiunta la “soglia minima di ammissibilità” per la presentazione della domanda (120 punti), è possibile partecipare alla fase successiva d’invio telematico della stessa. Dal 6 giugno 2019 le imprese che avranno raggiunto o superato la soglia minima di ammissibilità, salvato definitivamente la propria domanda e soddisfatti i requisiti previsti per il rilascio del “codice identificativo” (Ci), potranno accedere all’interno della procedura informatica per effettuare il download del proprio Ci che li identificherà in maniera univoca; la stessa procedura, mediante un’apposita funzionalità, rilascerà un documento contenente questo codice che dovrà essere custodito dall’impresa e utilizzato nel giorno dedicato all’inoltro telematico.
La terza fase, poi, è quella dell’invio della domanda (click-day); come in passato le imprese potranno inviare tramite lo sportello informatico la domanda di ammissione al finanziamento, utilizzando il Ci attribuito alla propria domanda; il Ci, dopo l’invio telematico della relativa domanda, sarà annullato dallo sportello informatico e, quindi, non sarà più utilizzabile.
Le domande pervenute saranno, così, poste in ordine cronologico di arrivo e al termine di ogni singola registrazione l’utente visualizzerà un messaggio che attesta la corretta presa in carico dell’invio.
Ancora una volta per conoscere le date e gli orari dell’apertura e della chiusura dello sportello informatico per l’invio delle domande sarà necessario, però, attendere la pubblicazione, a partire dal 6 giugno 2019 sul sito dell’Inail, della relativa comunicazione.
Appare opportuno sottolineare che occorre prestare molta attenzione al fattoche le suddette date potranno essere differenziate, per ambiti territoriali o assi di finanziamento, in base al numero di domande pervenute e alla loro distribuzione. Sarà poi l’Inail a effettuare entro il termine di 120 giorni (decorrenti dalla scadenza dei 30 giorni per la presentazione della documentazione ex art.18) la verifica tecnico-amministrativa finalizzata all’accertamento dell’effettiva sussistenza di tutti gli elementi dichiarati nella domanda on line e la corrispondenza con i parametri che hanno determinato l’attribuzione dei punteggi. In caso di ammissione al finanziamento, il progetto deve essere realizzato e rendicontato entro 365 giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione di esito positivo della verifica, fermo restando quanto stabilito dall’art. 9 con riferimento ai progetti che hanno inizio a partire dal 31 maggio 2019. Ai fini del riscontro del termine di 365 giorni fa fede la data della predetta comunicazione e nello stesso sono ricompresi i tempi necessari per l’ottenimento delle autorizzazioni o certificazioni richieste. Inoltre, il termine per la realizzazione del progetto e per la rendicontazione è prorogabile su richiesta motivata per un periodo non superiore a sei mesi.
Nel caso di concessione della proroga, il soggetto destinatario che ha beneficiato dell’anticipazione del finanziamento dovrà presentare, a copertura dell’ulteriore periodo concesso, un’integrazione della garanzia fideiussoria già costituita per l’anticipazione del finanziamento stesso.

Redistribuzione delle risorse
All’interno di questo articolato quadro, occorre anche segnalare la particolare rilevanza del meccanismo di redistribuzione delle risorse: gli importi dello stanziamento iniziale attribuiti alla direzione regionale potranno, infatti, subire variazioni in aumento o diminuzione in relazione all’entità delle domande inviate on line e confermate con l’invio della documentazione a completamento della domanda stessa. Quindi, l’eventuale nuovo stanziamento a seguito della redistribuzione sarà approvato con determina del direttore centrale prevenzione dell’Inail.

Considerazioni conclusive
La strada seguita dall’Inail deve essere accolta molto positivamente in quanto il bando Isi è stato rimodulato espansivamente, come si è visto sia per la notevole entità delle risorse messe in campo e sia per le iniziative ammesse che promuovono azioni specie nei settori critici dove, negli ultimi mesi, la sensazione è che si sia un po’ allentata l’attenzione al tema della salute e dalla sicurezza sul lavoro.
Si tratta, quindi, di un’importante occasione da non sprecare che, per altro, come accennato arriva in un momento molto delicato in quanto per effetto dell’art.1, comma 1122, della legge n. 145/2018, il legislatore per compensare le minori entrate derivanti dalla revisione delle tariffe dei premi assicurativi dovuti all’Inail ha previsto per il triennio 2019-2021 una riduzione complessiva delle risorse da destinare al bando Isi di circa trecento milioni.

 

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SOLI IN VETTA

Nella scelta del modello ricontrollo è necessario prendere in considerazione l’idoneità specifica alle condizioni e alle circostanze e la definizione di procedure per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità

 

LAVORO IN SOLITARIO: COME VALUTARE I RISCHI

Che il lavoro sia cambiato negli ultimi anni è ormai fuori discussione; assieme a esso, sono mutate la percezione e le aspettative legate a esso. Ciò che più legittimamente ci si aspetta è che il lavoro non sia pericoloso per le persone che lo eseguono e che queste siano tutelate verso i potenziali pericoli che incontrano. Negli ultimi anni queste rinnovate sensibilità hanno portato ad analizzare aspetti del lavoro in modi che non erano mai stati presi in considerazione, come nel caso della sicurezza del lavoro in solitario.
Si tratta di una condizione che è sempre esistita (si pensi ai postini, agli autisti, agli agricoltori eccetera); tuttavia, solo recentemente si è sviluppata una particolare sensibilità verso i problemi connessi a lavorare
da soli, spesso in zone isolate, con il pericolo di non essere soccorsi tempestivamente o a atto, o di essere soggetti a condizioni ambientali inaspettate, trovandosi quindi impreparati a proteggersi. Il datore di lavoro ha il dovere di considerare anche questi aspetti nella sua valutazione di tutti i rischi lavorativi, anche perché si tratta dei “rischi particolari” previsti all’articolo 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Solo per alcune attività la norma e gli standard individuano precise strategie per la gestione del rischio.
Solo alcuni Paesi hanno a rontato in maniera sistematica questo problema, come si vedrà nel seguito.

SVIZZERA
L’istituto che gestisce l’assicurazione obbligatoria per i lavoratori in Svizzera, la Suva,
nel suo Lavorare da soli può essere pericoloso – Guida per i datori di lavoro e gli addetti alla sicurezza stabilisce che «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». In particolare, l’istituto specifica che «Si raccomanda di verificare di volta in volta se, eventualmente, un’altra persona in contatto visivo non possa essere assegnata contemporaneamente a un altro incarico. Se questo non è possibile, la persona tenuta a lavorare da sola deve avere la possibilità di chiedere aiuto in qualsiasi momento in caso di emergenza, ad esempio usando il telefono fisso, il telefono cellulare, la radiotrasmittente, l’allarme via radio o tramite l’eventuale impianto di sorveglianza in dotazione nell’azienda. Per “caso di emergenza” si intende, ad esempio, una situazione critica, un infortunio, un disturbo di salute imprevisto o uno stato d’ansia».
Per valutare il rischio dei lavoratori «tenuti a lavorare da soli», Suva definisce una valutazione dei rischi “PxD” (probabilità x danno) con una matrice 5×5, da basare su un campione standard di 1.000 lavoratori.
Lavori che possono essere svolti da soli, purché in contatto visivo o vocale con altre persone
Per la maggior parte dei lavori che non devono essere eseguiti da una persona sola, è sufficiente che l’operatore abbia un contatto visivo o vocale con altre persone.
Un contatto visivo o a voce con altre persone è indispensabile, ad esempio, nelle seguenti attività:

• lavori su macchine in cui esiste il pericolo che alcune parti del corpo finiscano nelle zone di imbocco o si impiglino in utensili o elementi rotanti (ad esempio macchine utensili);
• lavori su sistemi tecnici in esercizio particolare, ad esempio regolazione di macchine utensili od operatrici, riparazione di guasti o eliminazione di intoppi nella produzione, interventi di manutenzione;
• lavori forestali connessi a pericoli particolari;
• lavori in zone pericolose solitamente inaccessibili e di conseguenza non protette;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori con Dpi anticaduta (sistema di arresto caduta).

Lavori che richiedono la sorveglianza diretta da parte di un’altra persona
Certi lavori sono talmente critici che la persona in servizio deve essere sempre sorvegliata direttamente da un’altra persona (ad esempio quando si entra nei pozzi), che ha unicamente l’incarico di sorvegliare la persona e non può svolgere altri compiti. Per questi lavori critici bisogna elaborare un concetto di salvataggio con la collaborazione di specialisti della sicurezza sul lavoro (Mssl). I mezzi di soccorso necessari devono essere messi a disposizione sul posto prima di iniziare i lavori.
In caso d’infortunio o di fronte a una situazione critica, il sorvegliante deve dare immediatamente l’allarme. A questo proposito, il sorvegliante deve essere istruito, prima di iniziare i lavori, sui possibili pericoli, sui compiti di sorveglianza e su come prestare i primi soccorsi.

Lavori regolamentati da disposizioni particolari
Alcuni lavori, secondo la normativa svizzera, richiedono tassativamente la presenza di una terza persona, quali, senza obbligo di esaustività:
• lavori su installazioni elettriche sotto tensione;
• utilizzo di sorgenti radioattive al di fuori di locali di irradiazione;
• verniciatura a spruzzo all’interno di recipienti;
• lavori all’interno di recipienti e locali stretti;
• lavori di smantellamento;
• impianti termici e camini di fabbrica;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori in canalizzazioni;
• lavori forestali particolarmente pericolosi;
• lavori sulle ferrovie;
• lavori sui piloni dell’alta tensione;
• lavori in aria compressa e d’immersione subacquea.

Requisiti relativi alle «persone tenute a lavorare da sole»
I lavoratori classificati come «persone tenute a lavorare da sole» devono:
• avere compiuto 18 anni di età;
• essere in possesso di idoneità psichica.
Non sono idonee o lo sono solo a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono insicure nei lavori di gruppo;
– hanno paura in posti di lavoro in cui devono lavorare da sole;
– soffrono di disturbi psichici o malattie mentali;
– presentano disturbi della concentrazione;
• essere in possesso di idoneità fisica. Non sono idonee o lo sono a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono soggette a capogiri, svenimento, crisi epilettiche, paralisi, dispnea, asma eccetera;
– sono a ette da malattie dell’apparato circolatorio o metaboliche (malattie cardiache, ipertensione, diabete);
– hanno una dipendenza patologica da alcool, farmaci, droghe;
– sono sotto l’e etto di farmaci sedativi o stimolanti;
– so rono di determinate allergie (ad esempio alle punture di insetti);
• sono in possesso di idoneità intellettuale.
Nella valutazione, dice la norma, occorre tenere in considerazione i fattori psicosociali derivanti, ad esempio, dalla difficoltà a mantenere i contatti con altre persone nel tempo libero a causa dell’orario o del posto di lavoro, in caso di lavoro notturno o di posti di lavoro isolati.

Criteri per la sorveglianza del lavoratore

Campo 1 della matrice della valutazione dei rischi
La sorveglianza tecnica non sostituisce in alcun caso la presenza di una seconda persona. Resta vietato svolgere questi compiti da soli.

Campo 2 della matrice della valutazione dei rischi
A determinate condizioni, la sorveglianza diretta può essere sostituita con un sistema di sorveglianza continua, indipendente dalla volontà, mediante un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme.
La sorveglianza continua per mezzo di un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme può essere adatta alle seguenti attività:
• lavori di trasporto e immagazzinamento da eseguire a piedi, con gru o carrelli automatici nel settore della produzione, in un deposito o in una cella frigorifera
• giri d’ispezione all’interno di impianti di vaste dimensioni, ad esempio in stabilimenti chimici, discariche, impianti di depurazione delle acque e incenerimento dei rifiuti.

Campo 3 della matrice della valutazione dei rischi
Per le attività ricadenti in questo campo, la sorveglianza può essere svolta secondo questi criteri:
• sorveglianza periodica. La sorveglianza periodica viene eseguita da una persona o tramite un impianto di sorveglianza;
• sorveglianza periodica effettuata da un’altra persona. La persona in questione (ad esempio superiore, custode o guardiano) sorveglia la persona tenuta a lavorare da sola a intervalli di tempo prestabiliti;
• sorveglianza periodica tramite un impianto di sorveglianza. L’impianto di sorveglianza monitora periodicamente la persona tenuta a lavorare da sola e fa scattare automaticamente l’allarme in caso di emergenza;
• sorveglianza attiva del posto tramite Gps.
Un apparecchio di allarme dotato di un sistema Gps può essere localizzato individualmente da una centrale di sorveglianza situata a pochi metri di distanza.

 

STATI UNITI
L’occupational safety and health administration Ohsa Usa non a ronta direttamente
il tema del lavoro in solitario nella sua Part 1910 — Occupational Safety and Health Standards, facendone piuttosto l’oggetto di prescrizioni negli standard specifici per attività.

Lavori elettrici
La Part 1910.269(l)(2), riguardante la generazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, stabilisce che una serie di attività devono essere svolte solo in presenza di almeno due persone.

Cantieri navali
La Part 1915, che si occupa di regolare le attività nei cantieri navali, al numero
1915.84.

Attività in sotterraneo
La Part 1926, che norma le attività di costruzioni civili, al numero 1926.800.

 

REGNO UNITO
Il Health and safety at work act britannico del 1974 e il The management of health and safety at work regulations del 1999 non affrontano direttamente l’argomento del lavoro in solitario. Ai datori di lavoro, comunque, è richiesto di valutare con cura e definire le modalità con cui affrontare
i rischi dal lavoro in solitario. I datori di lavoro hanno il dovere di esaminare i rischi per i lavoratori in solitario e adottare misure per evitare o controllare i rischi, quando necessario.
Norme specifiche regolano alcune attività ad alto rischio dove è necessaria la presenza di almeno due persone. Queste sono ad esempio:
• lavori in spazio confinati;
• lavori in prossimità di conduttori elettrici esposti;
• lavori nel settore sociale o sanitario, dove si può avere a che fare con persone e situazioni imprevedibili;
• trasporto di esplosivi;
• operazioni in immersione;
• lavori di fumigazione.

Lo standard Bs 8484:2016
Il British standard institute (Bsi), sotto la sollecitazione del consiglio nazionale dei capi della polizia (National police chiefs council, Npcc, a quei tempi denominato Acpo) ha prodotto lo standard Bs 8484:2016, alla sua seconda versione, che disciplina la fornitura di servizi per lavoratori solitari (Provision of lone worker services). Singolare è stato l’antefatto che ha portato all’emanazione dello standard: nel Regno Unito, il Npcc è responsabile della gestione dei servizi di primo intervento (l’equivalente del 112 italiano); sulla base della loro esperienza con l’industria degli allarmi antintrusione, è emersa come la mancanza di controllo in una fase iniziale del mercato abbia portato a un enorme numero di falsi allarmi con conseguente spreco di preziose risorse. Per questo motivo, gli operatori del Npcc hanno valutato come essenziale l’emissione di uno standard per gestire il tasso di falsi allarmi dovuti a lavoratori in solitario. L’introduzione della Bs 8484 nelle fasi iniziali dell’industria dei servizi alle organizzazioni che impiegano lavoratori in solitario ha evitato gli anni di duro lavoro che sono stati, invece, necessari all’industria degli allarmi antintrusione, per ridurre i falsi allarmi alla gestibile quota attuale dello 0,1%.

La Bs 8484:2016 stabilisce requisiti:
• per le organizzazioni che forniscono i servizi di monitoraggio dei lavoratori in solitario;
• per le attrezzature da utilizzare per dare l’allarme;
• per le centrali che rilevano l’allarme;
• per le organizzazioni che forniscono soccorso.

 

ITALIA
Il lavoratore in solitario può essere definito come colui che si trova a svolgere la sua attività, per una organizzazione, senza la presenza personale di almeno un collega. L’attività può essere eseguita sia all’interno che all’esterno dello stabilimento aziendale, definito come il perimetro all’interno del quale il datore di lavoro esercita le proprie prerogative.
Gli obblighi a carico del datore di lavoro, in relazione ai lavoratori in solitario, sono diversi.
Il campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008 al riguardo è molto ampio:
• art. 15, comma 1), lettera a): «Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza»;
• art. 17, comma 1), lettera a) «Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28».
Peraltro, la necessità, per il datore di lavoro, di organizzare un e icace sistema di gestione delle emergenze che si adatti alle e ettive condizioni di lavoro, è già direttamente presente nel testo unico: «Il datore di lavoro, tenendo conto della natura
dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o della unità produttiva, sentito il medico competente ove nominato, prende
i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati» (art. 45, comma 1).
All’interno del corpus delle norme applicabili alle attività lavorative, diverse prescrivono la presenza di due o più persone in situazioni particolari. Ad esempio, il regio decreto del 9 gennaio 1927, n. 147 «Approvazione del regolamento speciale
per l’impiego dei gas tossici» prescrive al dello stabilimento in cui sono manipolati gas tossici «di curare che il proprio personale abilitato, adibito alla esecuzione delle operazioni inerenti all’impiego del gas tossico (…) sia di idato: ad entrare nei locali nei quali viene utilizzato il gas tossico se non per gruppi di due persone».
Il D.Lgs. n. 81/2008 proibisce sia in maniera indiretta che diretta che una serie di attività siano svolte da personale isolato.

Formazione
Le procedure di operatività e di soccorso riguardanti attività da svolgere in solitario devono essere oggetto di particolare formazione che il datore di lavoro deve somministrare ai lavoratori, secondo quanto previsto dall’art. 36, D.Lgs. n. 81/2008.

Il processo di valutazione dei rischi
Elemento chiave del sistema per la prevenzione dell’ordinamento italiano e internazionale so di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno. è la valutazione dei rischi, che significa, letteralmente, considerarli.
Il datore di lavoro deve, quindi considerare i rischi cui può essere esposto un lavoratore in solitario.
Questi possono essere:
• il pericolo derivante dalla possibilità di non potere essere soccorsi, sia in caso di infortunio lavorativo che di malore o evento accidentale;
• il pericolo che questo malore possa accadere;
• il pericolo di operare in un ambiente estraneo, non conosciuto;
• le conseguenze, non trascurabili, del disagio psicologico e sociale del lavoratore, conseguente alla sua particolare condizione.

Non tutte le condizioni lavorative dovranno essere sottoposte a valutazione dei rischi per decidere se farle svolgere a un lavoratore solitario; la norma nazionale è, infatti, ben chiara su quali operazioni debbano essere svolte da almeno due lavoratori.

Per quanto riguarda la definizione dei criteri di accettabilità da adottare nel processo di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno.

Pericolo di non potere essere soccorso
Nel valutare il pericolo di non potere essere soccorso, avranno spazio rilevante considerazioni relative a:
• tipologia e magnitudo del rischio lavorativo cui è esposto il lavoratore in solitario;
• condizione di salute dello stesso, con particolare considerazione della combinazione tra le richieste fisiche della prestazione lavorativa e l’età del soggetto;
• condizioni delle aree di lavoro, intese sia come accessibilità delle stesse e condizioni fisiche delle aree e delle vie di accesso, sia come presenza o meno di altre persone anche se non appartenenti all’organizzazione lavorativa;
• distanza dai presidi di primo soccorso aziendali o pubblici, se questi siano facilmente accessibili, o se, a causa della distanza e delle vie di comunicazione, il soccorso possa non essere tempestivo.
A questo riguardo, è necessario segnalare che la norma già mette in carico al datore di lavoro l’obbligo di organizzare in maniera efficace le comunicazioni con il sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale. A questo proposito, il D.M. n. 388/2003 a erma: «Nelle aziende o unità produttive che hanno lavoratori che prestano la propria attività in luoghi isolati, diversi dalla sede aziendale o unità produttiva, il datore di lavoro è tenuto a fornire loro un mezzo di comunicazione idoneo per raccordarsi con l’azienda al fine di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 5). E ancora: «Nelle aziende o unità produttive di gruppo A e di gruppo B, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature (…) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 2).

Considerazioni relative all’idoneità psicofisica del lavoratore
Nel processo di valutazione dei rischi l’idoneità psicofisica del lavoratore ha uno spazio rilevante: in collaborazione con il medico competente aziendale occorrerà effettuare considerazioni relative ai criteri
di idoneità dei lavoratori impegnati in solitario. Queste considerazioni dovranno prendere in considerazione almeno:
• le condizioni generali di salute del lavoratore, anche considerando fattori permanenti – quali, ad esempio, l’età – o transitori, come ad esempio lo stato di gravidanza della lavoratrice/lavoratore;
• la domanda fisica delle attività da svolgere;
• le conseguenze dello stress psicologico cui può essere soggetto il lavoratore in conseguenza del lavoro in solitario.

Pericolo di operare in un ambiente sconosciuto
Un lavoratore solitario può operare sempre all’interno del medesimo ambiente, ad esempio un presidio, una guardiania o recarsi periodicamente in una posizione definita, al di fuori dello stabilimento lavorativo. Qualora ciò non fosse, doversi recare in un ambiente non conosciuto può costituire un fattore di aggravio del rischio; occorre, infatti, prendere in considerazione la possibilità che si debbano affrontare rischi per i quali non si era preparati né attrezzati.

Conseguenze del disagio psicologico e sociale del lavoratore
La valutazione di questo aspetto è opportuno prenda in considerazione:
• l’eventuale disagio del lavoratore conseguente a non potere avere rapporti con alcuno durante le ore di lavoro. Questo nel caso il lavoratore solitario presti la sua opera continuativamente in zone remote, senza alcuna presenza umana;
• il rischio che può correre il lavoratore che si trovi, senza supporto alcuno, a operare in situazioni di disagio sociale. Questo rischio è sia di carattere psicologico (spavento) che fisico (aggressione).
La valutazione dello stress lavoro-correlato – e quindi anche di quello indotto da quella particolare situazione lavorativa che è il lavoro in solitario – è un obbligo previsto dall’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.

Valutazione dei rischi
I rischi cui sono soggetti i lavoratori in solitario derivano da condizioni eterogenee. Un fattore discriminante importante è quello relativo ai posti di lavoro in cui il lavoratore presta il proprio servizio, che possono essere:
• interni allo stabilimento aziendale, in postazioni fisse come, ad esempio, posti di monitoraggio, guardianie, sale controllo o in movimento, ad esempio mansioni di vigilanza;
• esterni allo stabilimento aziendale, ma comunque nella disponibilità più o meno totale del datore di lavoro, come cabine, impianti, comunque in aree segregate;
• esterni allo stabilimento aziendale, al di fuori della disponibilità del datore di lavoro, come ad esempio tutti gli spazi pubblici.
Negli ultimi due casi, la valutazione del rischio dovrà prendere necessariamente in considerazione anche tutte le attività svolte dal lavoratore a partire dal momento in cui lascia lo stabilimento aziendale. Il criterio per il processo di valutazione dei rischi potrebbe partire prendendo in considerazione subito il problema centrale del lavoro in solitario: il rischio di non essere soccorso. L’analisi della correlazione tra questo rischio e l’esito degli incidenti cui è ragionevole pensare possano essere esposti i lavoratori sarà la base del meccanismo di decision-making che definirà i criteri di accettabilità della valutazione del rischio.

Altri fattori ricordati, quali:
• i rischi derivanti da dovere operare in ambienti estranei,
• il disagio psicologico e sociale del lavoratore in solitario,
• considerazioni relative l’idoneità psicofisica del lavoratore, dovuta a condizioni permanenti o temporanee saranno considerati come fattori aggiuntivi della valutazione.

Rischio di non essere soccorso
La prima discretizzazione da eseguire riguarda l’analisi dell’esito del potenziale incidente che può occorrere al lavoratore, in conseguenza di un infortunio lavorativo, evento accidentale o malore; analisi che deriva dalla valutazione dei rischi aziendale.

Analisi delle possibilità di essere soccorso (S)
Le possibilità di essere soccorso, in relazione con le caratteristiche dell’area, possono essere definite in questo modo:
• nell’area sono presenti altre persone, anche se non appartenenti alla medesima organizzazione del lavoratore o non impegnate nelle medesime aree lavorative, che possono attivare sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale o prestare la prima assistenza in caso di incidente. Questa condizione, tipicamente, è quella di coloro che lavorano senza il supporto di colleghi in aree pubbliche, frequentate. Le attività sono quelle di autisti, fattorini e simili;

• nell’area non sono presenti altre persone, ma i presidi di primo soccorso possono essere facilmente raggiunti. Un esempio può essere quello di un lavoratore che svolge un servizio di vigilanza in solitario, all’interno di uno stabilimento, in cui le attrezzature di primo soccorso sono disponibili solo in alcune posizioni;
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore con l’uso di mezzi ordinari.
Si tratta delle attività che vengono svolte in aree remote, che però sono raggiungibili con le strade ordinarie.
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore solo utilizzando veicoli speciali. Sono le attività che vengono svolte in aree remote, dove però l’assenza di strade ordinarie rende necessario l’utilizzo di mezzi fuoristrada o elicotteri per prestare il soccorso e procedere all’evacuazione medicale.

Analisi dell’incidente (I)
Tralasciando per un attimo la possibilità del lavoratore di essere colpito da un malore, analisi che sarà fatta in seguito, le categorie possono essere:
• incidente lieve, i cui esiti sono recuperati da parte del lavoratore in un arco di tempo che va da qualche minuto a qualche ora, non ne pregiudicano la capacità lavorativa e per i quali un soccorso ritardato non provoca particolari ripercussioni sulla salute del lavoratore;
• incidente medio, le cui conseguenze vengono recuperate dal lavoratore in qualche giorno. il lavoratore ha pregiudicate le capacità lavorative, ma non la mobilità o almeno non in misura tale da non potersi allontanare da luogo di lavoro normalmente accessibile. un soccorso tempestivo è auspicabile anche se un moderato ritardo non è un fattore rilevante di aggravamento delle sue condizioni di salute;
• incidente grave. Il lavoratore può recuperarne dalle conseguenze nel giro di settimane, solo con l’ausilio di un appropriato trattamento medico. Sia le capacità lavorative che la mobilità sono fortemente pregiudicate ed è necessario un soccorso immediato per evitare il rapido aggravamento delle condizioni di salute dell’infortunato;
• incidente mortale o che conduce alla morte nel giro di qualche ora.

Valutazione del rischio (R=SxI)
Assegnando un peso da 1 a 4 sia alla valutazione delle conseguenze dell’incidente che della possibilità di essere soccorso, dove 1 è la situazione meno e 4 quella più gravosa, e correlando le analisi, si ottiene la base per una valutazione dei possibili scenari.

Valutazione dei pericoli aggiuntivi
Il primo passo della valutazione dei rischi viene eseguito correlando in astratto il pericolo di non essere soccorso con il potenziale esito di un incidente che può occorrere durante l’attività lavorativa. Queste considerazioni, però, devono essere integrate dalla valutazione di altre condizioni che possono aggravare la situazione in caso di incidente occorso a un lavoratore
solitario.

Malori
La possibilità che al lavoratore occorra un malore che possa diventare un fattore di criticità in caso di lavoro in solitario, deve essere valutata dal medico competente.
Il lavoratore può essere:
• pienamente idoneo al lavoro in solitario;
• non idoneo, in conseguenza delle condizioni di salute, temporanee o permanenti, che possono essere un fattore che può causare o aggravare gli esiti di un incidente occorso lavorando in solitario.
È opportuno che il medico competente, al momento della redazione di una limitazione di idoneità di questo genere, specifichi esaurientemente gli ambiti delle condizioni di lavoro: se relativa al lavoro solitario interno all’azienda o al suo esterno, in posizione fissa o mobile.

Ambiente sconosciuto
Operare in un ambiente sconosciuto può portare a doversi confrontare con situazioni che si manifestano improvvisamente o per le quali non si era preparati e attrezzati.
Un ambiente sconosciuto diventa conosciuto dopo che si è provveduto a ispezionarlo.

Disagio psicologico e sociale
Il disagio psicologico e sociale affrontato dal lavoratore può essere:
• dovuto alle particolari condizioni dell’azienda e della mansione, da valutare secondo quanto previsto dall’ art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. 81/2008;
• dovuto alla necessità di trascorrere lunghi periodi di tempo (definibili in via di prima approssimazione in settimane) senza contatti con altri;
• indotto alla necessità di operare in ambienti con particolari condizioni di stress psicologico e sociale, anche con pericolo di aggressione.

Valutazione finale dei rischi (Rf)
Il processo di valutazione del rischio da lavoro in solitario, viene completata integrandola con la valutazione dei pericoli aggiuntivi.
Potrebbe essere accettabile:
• attribuire dei pesi (coe icienti) da 1 a 4 a ciascuna delle situazioni, secondo la politica dell’azienda;
• moltiplicare l’esito del processo di valutazione preliminare dei rischi con il maggiore dei coefficienti dei pericoli aggiuntivi;
• confrontare il risultato ottenuto con la griglia di accettabilità predisposta.

Misure di mitigazione
Di erenti tecniche per la mitigazione dei rischi del lavoro in solitario possono essere
individuate. Tipicamente, a seconda delle circostanze:
• non sarà possibile il lavoro in solitario, e all’operatore dovrà essere affiancato un collega, con mansioni di collaborazione o di assistenza, recupero e salvataggio. Tipico il caso del lavoratore in assistenza all’esterno dei luoghi confinati, variamente formato e attrezzato per il recupero;
• il lavoratore solitario sarà controllato attraverso processi attivi, tipo dovere telefonare o dare una voce o eseguire un’operazione a scadenze temporali prefissate;
• il lavoratore in solitario potrà essere controllato attraverso processi passivi, indipendenti dalla sua volontà. Negli anni sono stati sviluppati sistemi con riprese video, segnalatori di accesso/uscita, dispositivi uomo-morto, che segnalano l’allarme per posture particolari o periodi di immobilità continuati, programmabili, così come rilevatori Gps per indicare la posizione del lavoratore, e tutte le possibili combinazioni di questi sistemi.
Il collegamento con il sistema di governo e di vigilanza può essere assicurato da onde radio e dispositivi a radiofrequenza per spazi limitati, telefonia cellulare o satellitare per aree più estese.
È importante ricordare che le misure di prevenzione e protezione dovranno essere adottate nel rispetto dell’articolo 15 «Misure generali di tutela», D.Lgs. n. 81/2008, rispetto della politica aziendale in materia di tutela del lavoro, e possono essere:
• la limitazione delle attività per le quali è previsto l’impiego di lavoratori in solitario;
• la predisposizione di procedure per il controllo degli ambienti di lavoro in cui si trovano a prestare la loro opera i lavoratori in solitario;
• la limitazione del numero dei lavoratori esposti ai rischi conseguenti al lavoro in solitario, definendone i requisiti di idoneità sanitaria e di formazione;
• l’utilizzo di tecniche e apparecchiature per il controllo e il soccorso remoto dei lavoratori in solitario.
È, inoltre, necessario ricordare come il controllo del lavoratore debba rispettare le norme del contratto di lavoro e quelle sulla privacy.

Conclusioni
Non esiste un sistema universale per il controllo del lavoratore in solitario e tutti i sistemi finora ideati sono soggetti a problemi più o meno critici che non ne assicurano una funzionalità al 100%. Nella scelta del sistema di controllo è necessario prendere in considerazione:
• l’idoneità specifica, della soluzione e delle attrezzature utilizzate, alle condizioni di lavoro e alle circostanze in cui questo viene eseguito;
• la definizione di un sistema di procedure, regole e strategie per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità, sia quelle ineliminabili proprie del sistema sia quelle relative sempre alle condizioni di lavoro e alle condizioni al contorno.

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Per le scale portatili una marcatura ad hoc

Dispositivi non coperti da una direttiva specifica e non garantiti dal Ce

La recente norma Uni En 131-3: 2018 fornisce consigli sull’utilizzo in sicurezza di questo tipo di attrezzature contemplate nello scopo e nel campo di applicazione della Uni En 131-1 e conformi ai requisiti della Uni En 131-1 e della Uni En 131-2. Obiettivo: informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoli potenziali e descrivere le precauzioni di sicurezza o le azioni richieste a fini prevenzionistici

 

Le scale portatili devono riportare la marcatura Uni En 131 e/o il riferimento alla conformità al D.Lgs. n. 81/2008, se sono impiegate in un così chiamato “non luogo di lavoro” (Uni En 131) o in un “luogo di lavoro” (Uni En 131/D.Lgs. n. 81/2008). La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura costituisce una sorta di carta di indentità del dispositivo atta a informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoll potenziali e a descrivere le precauzioni di sicurezza e/o le azioni richieste o per evitare questo tipo di pericolo (Iso 17724:2003, definizione 3.58 modificata).
Il fabbricante deve immettere sul mercato prodotti intrinsecamente sicuri che vanno utilizzati correttamente dal lavoratore facendo riferimento ai pittogrammi apposti su di essi, eventualmente corredati da istruzioni scritte.
La norma Uni En 131-3: 2018 – che rispetto a quella precedente appare più snella, schematica e di facile lettura – ha introdotto novità che permettono una marcatura più agevole. La norma infatti prevede tra l’altro la distinzione tra le disposizioni relative alla marcatura di sicurezza, che devono essere riportate sulla scala, le istruzioni per l’utilizzatore presenti nell’apposito libretto e la descrizione dettagliata dei segnali fondamentali di sicurezza in conformità alla Iso 3864-2 e dei simboli delle informazioni di sicurezza supplementari.

Riduzione del rischio

L’eliminazione e/o la riduzione dei rischi è uno dei cardini fondamentali del D.Lgs 81/2008 che nell’art. 15 individua le misure per «la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza» (comma a), «l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico» (comma c), «la riduzione dei rischi alla fonte» (comma e) e «la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso» (comma f).

La Uni En 131-3:2018 contiene un elenco, non esaustivo, dei pericoli e degli esempi delle relative cause che costituiscono ragioni frequenti per gli incidenti che si verificano durante l’uso delle scale e su cui si basano le informazioni contenute nella norma stessa. Le cause sono le seguenti:
• perdita di stabilità causata, fra l’altro, da posizione non corretta della scala (come angolazione non corretta di una scala di appoggio o apertura non completa di una scala doppia);
• condizione della scala (per esempio, piedini antiscivolamento mancanti per scale dí appoggio) e condizioni climatiche avverse (quali il vento);
• movimentazione (ad esempio, trasferimento della scala nella posizione di lavoro);
• scivolamento, inciampo e caduta dell’utilizzatore causati tra l’altro da azioní non sicure dell’utilizzatore (come salire la scala a due pioli per volta, scendere scivolando lungo i montanti);
• cedimento strutturale della scala dovuto, ad esempio, al sovraccarico della scala;
• pericoli di natura elettrica dovuti fra l’altro a operazionì inevitabili su parti sotto tensione (per esempio, ricerca guasti) o a collocazione delle scale troppo vicino ad apparecchiature elettriche sotto tensione (come linee elettriche aeree).

Contenuti
Secondo la Uni En 131-1: 2015 la scala è un dispositivo con gradini o pioli sulla quale una persona può salire o scendere. Una scala portatile è una scala che può essere trasportata e installata a mano.

Marcatura di base sulla scala
Le informazioní di base della marcatura possono essere fornite sotto forma di segnali di sicurezza o testo. La marcatura deve comprendere:
1. identità e indirizzo del produttore e/o del distributore, incluso l’indirizzo del sito web per le informazioni relative alla scala;
2. tipo di scala e modi possibili di utilizzo (descrizione del tipo, numero e lunghezza delle parti, lunghezza massima della scala in uso, altezza massima di appoggio misurata nella posizione di utilizzo secondo le raccomandazioni dei fabbricante);
3. classificazione di uso “professionale” o “non professionale” come specificato nella Uni En 131-2;
4. numero della norma generale Uni En 131 o, qualora esista una norma dedicata (per esempio una scala multiposizione con cerniere secondo la Uni En 131-4) il numero di tale norma (per esempio Uni En 131-4);
5. mese e anno di produzione e/o numero di serie (può essere anche stampigliato); peso della scala (in kg) e carico massimototale (in kg);
6. isolamento, se previsto.

Le informazioni di cui ai punti 1., 2., 3. e 5. devono comparire anche sull’imballaggio o devono essere altrimenti chiaramente visibili al consumatore prima dell’acquisto.

La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura che indichi il piolo/gradino più elevato che deve essere utilizzato per sostarvi deve essere posta sul montante della scala adiacente o sull’ultimo/consentito o sul primo/non consentito piolo/gradíno o sull’etichetta della marcatura dì sicurezza. I segnali di sicurezza si distinguono fra segnali di base e supplementari. I segnali di sicurezza di base hanno forma rotonda, triangolare o quadrata in conformità alla Iso 3864-1, Iso 3864-3 e si deve basare sul modello per i segnali di sicurezza della Uni En Iso 7010 con una dimensione minima d e h di 15 mm. I segnali di sicurezza supplementari hanno forma quadrata e istruiscono l’utilizzatore di una scala su ciò che è necessario e ciò che non è ammesso per un uso sicuro, al fine di evitare incidenti, per esemplo la caduta dalla scala. “Richiesto” è indicato da un segno di spunta verde e “Non ammesso” da una X rossa.
Rispetto ai segnali di sicurezza di base i simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza possono includere numeri, lettere e simboli più dettagliati (più precisi). L’altezza minima h dei simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza è di 15 mm.
La norma Uni En 131-3 al prospetto 1 illustra i requisiti minimi per la marcatura di sicurezza, le istruzioni per l’utilizzatore e
i simboli obbligatori per tutte le tipologie di scale portatili. A tal fine, il fabbricante deve fornire nelle istruzioni tutte le informazioni riportate nella tabella 1 che costituisce un estratto del citato prospetto 1.
La scala movibile con piattaforma è quella prevista nella Uni En 131-7:2013.

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Il Rspp tra posizione di vertice e responsabilità

Il punto del giurista alla luce della legislazione e delle pronunce dei giudici

Domanda: in un’azienda di dimensione medio-grandi, il possesso della qualifica di dirigente prevenzionistico è la migliore soluzione per la nomina a titolare del Spp? E nel caso poi il datore di lavoro intendesse conferire a questa figura una delega di funzioni, si tratterebbe di una scelta condivisibile e anche consigliabile?

 

In base a quanto dispone l’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delle piccole e medie aziende, elencate nell’allegato II al decreto, può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché quelli di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La possibilità che il datore di lavoro accentri su di sé le funzioni direttive, decisionali e di programmazione della sicurezza, è opzione legislativamente consentita principalmente in ragione dell’entità dimensionale dell’azienda (sotto il profilo della forza lavoro occupata) e sempre che non sussistano fattori di rischio professionale elevati (si tratta dei casi elencati all’art. 31, comma 6 del D.Lgs. n. 81/2008: imprese soggette a rischio di rilevante incidente industriale o rientranti nelle seguenti categorie: centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, aziende industriali con oltre 200 lavoratori, aziende estrattive con oltre 50 lavoratori, aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, strutture di ricovero e cura sia pubbliche sia private con oltre 50 lavoratori). Con riguardo alle realtà aziendali di grandi dimensioni o a rischio elevato, il D.Lgs. n. 81/2008 impone senza eccezioni che le due aree funzionali di datore di lavoro e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione siano ricoperte da soggetti diversi – dunque siano e si mantengano distinte – nonché l’obbligo che il Rspp sia un soggetto interno all’organizzazione aziendale.

La distinzione soggettiva tra il datore di lavoro e Rspp è funzionale al modello di impresa compartecipativa, collaborativa e sinergica che è diretta derivazione dallo standard comunitario della direttiva quadro 89/391/Cee, e che assegna ruoli specifici a soggetti diversi, in base al presupposto che dalla loro interazione e confronto derivi e si esprima un valore aggiunto in termini di sicurezza e di salute: un risultato finale, di sintesi superiore alla somma di quelli derivanti dall’azione isolata di ciascuno.

È in questo sistema integrato della sicurezza, rivolto alla valorizzazione nell’ambiente di lavoro delle competenze professionali di ciascuno, quale che ne sia il livello funzionale, che permane nondimeno l’esigenza di mantenere ferma la distinzione tra il momento decisionale, proprio del datore di lavoro, e il momento collaborativo e partecipativo – ma di supporto – svolto dal servizio di prevenzione e protezione.Nei casi in cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può identificarsi con il datore di lavoro, si pone quindi la problematica di individuare la o le qualifiche funzionali compatibili con la designazione a Rspp. Ovviamente la questione assume rilievo solo con riguardo al caso della designazione interna del Rspp (ipotesi contemplata dal combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008), giacché, nel caso di designazione di persona esterna all’organizzazione aziendale, con incarico professionale di lavoro autonomo, non assume rilievo il possesso della qualifica funzionale.

Ciò detto, una prima considerazione è che mentre il servizio di prevenzione e protezione può essere una persona giuridica – sempre che organizzato esternamente all’azienda – (la direttiva 89/391/Cee parla di “servizi esterni”), l’incarico di Rspp può essere conferito solo e necessariamente a una persona fisica. Ciò si ricava inequivocabilmente dalla definizione del’art. 2, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008 («responsabile del servizio di prevenzione e protezione: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi»).

La seconda considerazione è che sussiste una incompatibilità assoluta tra la qualifica di Rspp e quella di lavoratore subordinato (o assimilabile) oggetto della tutela prevenzionistica ai sensi della ampia definizione che ne dà l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Questa incompatibilità – non scritta expressis verbis nelle norme – è ricavabile con certezza dal sistema. Il lavoratore infatti, in quanto primo beneficiario dell’azione di prevenzione e di protezione dai rischi professionali, non può assumersene l’onere in prima persona, così cumulando inaccettabilmente, oltre i limiti indicati dall’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, il duplice profilo di soggetto attivo e passivo della tutela. Inoltre, dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione si pone da un lato in rapporto di collaborazione con il datore di lavoro, e dall’altro lato in rapporto dialettico con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non si può disconoscere che egli abbia la titolarità di interessi diversi e spesso divergenti – seppur auspicatamente componibili – da quelli propri della categoria dei lavoratori subordinati. Ammettere che a svolgere la funzione di Rspp possa essere chiamato un lavoratore (dipendente), significa togliere identità a entrambe le figure, tanto più nei momenti di incontro istituzionale – qual è, ad esempio, quello della riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008 (alla quale i lavoratori partecipano non uti singuli, bensì a mezzo del loro Rls). Per altro verso non può non considerarsi che il compito prevalente del Rspp è quello di collaborare con il datore di lavoro all’attività di valutazione dei rischi e di redazione del correlato documento di valutazione (Dvr); cosa che non attiene in alcun modo allo statuto funzionale del prestatore di lavoro subordinato, a meno di stravolgerne la fisionomia. Per di più, se a responsabile del servizio di prevenzione e protezione potesse essere designato un lavoratore, a questi sarebbe paradossalmente consentito lo svolgimento di un’azione collaborativa con il datore di lavoro che invece è inibita al rappresentante (dei lavoratori) per la sicurezza, prevedendo infatti il testo unico che il Rls, in ambito di valutazione dei rischi, svolga un apporto di tipo meramente consultivo. Quanto all’ipotesi che quale Rspp possa essere designato un preposto, è decisiva la considerazione che, in base alle consolidate acquisizioni dottrinarie e giurisprudenziali, non spetta al preposto adottare le misure di prevenzione e di protezione stabilite dalla normativa di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, essendo suo compito quello (consequenziale) di esercitare la doverosa vigilanza affinché le misure predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti, ricevano concreta ed esatta attuazione (cosiddetta vigilanza oggettiva), nonché di verificare la specifica osservanza, da parte dei lavoratori, delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione (cosiddetta vigilanza soggettiva). Dal momento che questo sistema, correntemente definito del “doppio binario” di responsabilità, delinea due differenti livelli di responsabilità tendenzialmente alternativi tra loro (datore di lavoro e dirigenti da un lato, preposti dall’altro), ne consegue la sostanziale inconciliabilità del coinvolgimento della figura del preposto in attività – quelle proprie del Rspp – che sono di prevalente collaborazione con il datore di lavoro, per di più finalizzate anche all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, il quale deve tra l’altro obbligatoriamente contenere (art. 28, comma 2, lettere b) e c)) «l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione» e “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza». Dal momento che gli obblighi di sicurezza e di salute non gravano direttamente sulla figura del preposto, ne consegue che, pur in assenza di un divieto normativamente codificato o ricavabile dai principi, sussistono evidenti ragioni di opportunità che suggeriscono – senza imporlo – di mantenere la figura del preposto nella sfera esclusiva (o quanto meno preminente) della vigilanza sul luogo di lavoro che funzionalmente gli compete.

Dunque, l’ipotesi più conforme ai principi è che a responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno sia designato un profilo professionale più consono e funzionale, tanto sul piano decisionale, che su quello di autonomia delle funzioni e di competenza professionale, ai compiti del Rspp come definiti dalla legge. Non è necessario che si tratti di un dirigente giuslavoristico, ma è sconsigliabile che venga designato un preposto prevenzionistico.

Ciò chiarito, resta ora da a rontare il secondo spunto di riflessione, inerente alla possibilità di conferire validamente al Rspp (chiunque esso sia, finanche un soggetto esterno all’organizzazione aziendale) una delega di funzioni di ambito prevenzionistico, precisandone, in caso affermativo, i contenuti e l’estensione. Sotto questo profilo la tematica ha indubbiamente una soluzione positiva, salvo delinearne meglio i contorni. Infatti, la semplice nomina a Rspp non comporta di per se stessa alcuna diretta assunzione di responsabilità di ambito contravvenzionale, giacché questa figura assume funzioni meramente collaborative e tecnico-valutative rispetto alle prerogative del datore di lavoro, il quale rimane così unico titolare del potere decisionale e di spesa (sul tema, ex multis, da ultimo Cass. pen. sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321). Dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non rientra, per consapevole scelta legislativa, tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, il suo agire non è dunque direttamente rapportabile a condotte contravvenzionali penalmente sanzionate. Dal che deriva che l’utilizzazione della competenza professionale del Rspp da parte del datore di lavoro, assumendo la forma del cosiddetto “avvalimento funzionale”, determina l’assoluta estraneità, dal profilo funzionale del primo, del fattore di condivisione -e a maggior ragione di assunzione – del profilo di responsabilità contravvenzionale del secondo. Il che non vuol dire che il Rspp non possa essere chiamato a rispondere -in caso di condotta colposa – in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati). Del pari, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, è ipotizzabile una responsabilità penale per colpa del Rspp, ai sensi degli artt. 589 o 590 del codice penale (come la giurisprudenza ha da tempo chiarito: tra le tante Cass. pen. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11492; Cass. pen. sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2011, n. 28779; Cass. pen. sez. IV, 21 dicembre 2010, n. 2814. Da ultimo, si segnalano le pronunce di Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 2406; Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 3313; Cass. pen. Sez. IV, 20 febbraio 2017, n. 8115; Cass. pen. Sez. IV, 19 maggio 2017, n. 24958; Cass. pen. Sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 4941; Cass. pen. Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale.

Ciò che manca è peraltro, come si è già detto, una responsabilità di tipo contravvenzionale. All’opposto, con il conferimento della delega di funzioni, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non limita la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì diventa titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa. Egli è perciò investito iure proprio (sia pure a titolo derivato) di quella quota di responsabilità contravvenzionale corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate.

Il conferimento della delega muta, per così dire, l’obbligazione del Rspp da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato, costituendo in capo al medesimo una posizione di garanzia dell’attuazione degli obblighi e degli adempimenti stabiliti dalla normativa prevenzionale e di igiene del lavoro. In tal modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del Rspp – non in quanto tale, bensì nei limiti in cui essa sia espressione delle funzioni delegate – diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale.

La notazione finale sul tema è che il D.Lgs. n. 81/2008 non contiene l’esplicito divieto a che il Rspp sia dotato di poteri decisionali e di spesa (anche se a tal fine occorre – quanto meno nei casi in cui il Rspp non sia (già) un dirigente aziendale – il conferimento di un atto di delega effifcace).

Deve però essere ulteriormente precisato che il Rspp, quand’anche munito di delega, non può mai sostituirsi al datore di lavoro per quanto riguarda gli adempimenti che dal decreto sono definiti come non delegabili secondo la previsione dell’art. 17 del testo unico. Neppure al Rspp può essere conferita una delega così ampia da farne ritenere il profilo funzionale – ipotesi che può verificarsi solo nelle imprese di grandi dimensioni – assimilabile alla figura del cosiddetto “datore di lavoro delegato” (nozione questa estrapolabile dalla locuzione «o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» contenuta nella definizione di datore di lavoro dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008). Ciò urterebbe infatti contro il divieto di cumulo funzionale ricavabile sul piano interpretativo (uso dell’argomento a contrario) dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale, per le imprese di cui all’allegato II al decreto, postula la necessaria distinzione sia funzionale che soggettiva tra datore di lavoro e Rspp.

Neppure, infine, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere delegato a rappresentare il datore di lavoro nella riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008, potendo bensì il datore di lavoro farsi rappresentare in questa sede, ma da persona comunque diversa da quelli che sono i partecipanti necessari alla riunione. E siccome sia il datore di lavoro sia il Rspp sono figure a partecipazione necessaria, la loro presenza fisica deve essere distintamente incarnata, per poter compiutamente garantire l’esprimersi di quel confronto dialettico cui la riunione periodica è funzionale.

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Documenti della privacy maneggiare con cura

Con il Gdpr è necessario porre al tema particolare attenzione

Soltanto atti burocratici? Niente di più sbagliato. L’applicazione del regolamento generale europeo, al contrario, ha l’obiettivo di spingere le aziende verso una maggiore consapevolezza e una più e efficace
cultura della protezione dei dati. Alcune pratiche indicazioni possono aiutare a muoversi con sicurezza nei nuovi adempimenti richiesti dalla legislazione

 

L’applicazione del regolamento generale europeo 679/2018 (Gdpr) non può essere a rontata come un compito burocratico da assolvere spendendo il meno possibile. Sarebbe un grave errore, non solo per via delle elevate sanzioni amministrative collegate al mancato rispetto delle regole, ma anche perché uno degli obiettivi più
ambiziosi del regolamento è promuovere una nuova cultura della protezione dei dati personali nelle aziende e fra i cittadini europei.
Non è un caso che uno dei pilastri più importanti del Gdpr sia la responsabilizzazione di chi svolge attività di trattamento dei dati personali; le aziende hanno la piena responsabilità delle scelte compiute in merito ai trattamenti dei dati personali e rispondono di quello che fanno (o che non fanno). Le scelte sono libere e completamente autonome, nel rispetto delle indicazioni fornite dalla normativa.
È previsto che ogni scelta e ogni decisione tenga conto dello specifico contesto in cui opera l’azienda e sia “documentata” – il che significa che deve essere messa nero su bianco e archiviata opportunamente – per essere esibita in caso di verifiche o controlli.
È necessario, quindi, che le aziende considerino la protezione dei dati personali un tema che non può rimanere confinato sul tavolo del consulente legale o sulla scrivania dell’ufficio dell’information technology ma che richiede, per essere affrontato, la sinergia e la collaborazione di tutte le componenti aziendali.
Piuttosto complicato, quindi, pensare che soluzioni standard possano soddisfare adeguatamente i requisiti normativi e possano essere la base di un efficace sistema di protezione dei dati personali.

Passiamo adesso all’esame dei documenti, distinguendo tra quelli destinati agli interessati – quindi agli individui di cui si stanno trattando i dati – e quelli che l’azienda deve produrre internamente per poter documentare di aver agito responsabilmente.
Parleremo inoltre brevemente dei documenti non “obbligatori” ma, per così dire, “consigliati” per una corretta gestione del sistema di protezione dei dati personali.

I passi obbligatori
Il rispetto del principio di trasparenza passa per una comunicazione corretta e veritiera.
I dati personali non passano di proprietà perché appartengono alla persona che identificano; è bene che le aziende lo ricordino sempre e siano consapevoli del fatto che gli individui hanno la libertà di decidere in merito al loro utilizzo da parte di terzi.
È un diritto degli interessati ricevere dal titolare informazioni chiare, trasparenti, dettagliate e comprensibili in merito alle operazioni di trattamento relative ai loro dati personali. È un obbligo preciso del titolare e non rispettarlo significa incorrere in sanzioni potenzialmente pesantissime. Inoltre, nei casi in cui il trattamento è basato sul loro consenso, gli interessati hanno sempre il diritto di esprimerlo in maniera libera, consapevole, specifica e informata.
I documenti obbligatori verso gli interessati- escludendo da questi le comunicazioni dovute in caso di violazioni di dati personali che presentino un rischio elevato per i loro diritti e libertà – sono sostanzialmente due:
• l’informativa;
• il modulo per la raccolta del consenso.
È necessario acquisire il consenso per ogni tipo di trattamento che non sia:
• funzionale all’esecuzione di un contratto o di un pre-contratto di cui l’interessato è parte;
• necessario per la salvaguardia di interessi vitali dell’interessato;
• rispondente al e ettuato per adempiere a un compito di pubblico interesse o in connessione all’esercizio di pubblici poteri;
• necessario per perseguire la necessità di adempiere a un preciso obbligo legale in capo al titolare del trattamento;
• il legittimo interesse del titolare.
In nessun caso il consenso può essere implicito o tacito; per questo motivo, il titolare del trattamento deve sempre poter dimostrare che l’interessato abbia e effettivamente prestato il proprio consenso al trattamento che sta e effettuando e deve quindi conservarne l’evidenza.
È essenziale, perciò, che il titolare del trattamento si organizzi (con un archivio elettronico o cartaceo specificamente predisposto o mediante la modifica degli applicativi esistenti) per la registrazione delle scelte e effettuate dagli interessati; e poiché, per sua natura, il consenso può essere sempre revocato, gli strumenti di cui si dota devono permettergli di tenere traccia di eventuali ripensamenti degli interessati e di ogni variazione intercorsa durante il rapporto con loro.

Il registro dei trattamenti
Come recentemente indicato dall’autorità Garante nelle Faq dell’8 ottobre 2018, la compilazione del registro dei trattamenti è obbligatoria anche per liberi professionisti ed esercizi commerciali, pubblici o artigianali con almeno un dipendente (bar, ristoranti, officine, negozi, piccola distribuzione ecc.) e/o che trattino dati sanitari dei clienti (ad esempio parrucchieri, estetisti, odontotecnici, tatuatori, commercialisti, avvocati, notai, farmacisti, medici, osteopati, fisioterapisti): molte piccole aziende dovranno quindi redigere un proprio registro dei trattamenti, anche se potranno farlo in forma semplificata (limitandosi alla descrizione delle sole specifiche attività di trattamento sopra menzionate).
Il registro dei trattamenti è un documento che descrive gli elementi essenziali dei trattamenti e effettuati dal titolare e/o dal responsabile e che deve essere mantenuto nel tempo, recependo eventuali variazioni di trattamenti e processi che dovessero intercorrere.
Esempi di registro del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento sono stati mostrati nell’articolo dal titolo «Privacy e safety la parola agli esperti» di Silvana Bresciani e Sabastiano Plutino.
Il registro del titolare è più ricco di dettagli rispetto a quello del responsabile, ma la gran parte delle informazioni da annotare sono desumibili dal contenuto dell’informativa messa a disposizione degli interessati: se l’informativa è ben costruita e pensata – quindi se il titolare del trattamento o il consulente che lo ha supportato hanno condotto una buona fase di analisi – la redazione di questo documento è abbastanza veloce.
I responsabili del trattamento, invece, devono prestare particolare attenzione alle operazioni di trattamento svolte per conto terzi; le aziende che curano il servizio di prevenzione e prevenzione o che svolgono servizi di medicina del lavoro dovranno redigerlo includendo in esso tutti i trattamenti svolti per i propri clienti. Il registro deve essere redatto in forma scritta – cartacea o elettronica – e deve essere tenuto a disposizione per eventuali verifiche. È molto probabile che sarà il primo documento a essere visionato in caso di ispezioni dell’autorità Garante, perché è quello che, più di tutti, offre la possibilità di comprendere velocemente quali siano le caratteristiche essenziali delle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.

Strumenti di gestione
Quali sono gli altri documenti di cui è necessario dotarsi? Dalla lettura attenta della normativa si evince che il titolare del trattamento non può fare a meno di predisporre alcuni documenti essenziali per dimostrare di aver ottemperato al principio di responsabilizzazione e di aver rispettato i principi applicabili a ogni trattamento di
dati personali, così come imposto dal Gdpr.

Individuare e gestire i rischi
Individuare e gestire i rischi connessi al trattamento dei dati personali è uno degli obblighi principali del titolare del trattamento; anzi, nessuna operazione di trattamento può essere e effettuata senza una
preventiva e documentata analisi dei rischi. Documentata, appunto. Se i rischi sono stati valutati – e devono esserlo – sono state anche individuate soluzioni per mitigarli o eliminarli; di tutto questo occorre lasciare traccia. Allo stesso modo, devono essere tracciati gli esiti dei successivi controlli che devono essere programmati per la verifica periodica delle attività di trattamento o per il miglioramento delle misure di sicurezza tecniche e organizzative implementate.
Per soddisfare questo requisito normativo, è sufficiente applicare i comuni strumenti di valutazione e gestione del rischio alle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.
In ogni caso, è bene che l’azienda documenti tutte le analisi e effettuate e tutte le azioni implementate per migliorare la sicurezza del trattamento.

Gestire le violazioni
Un altro obbligo stringente che il Gdpr pone sulle spalle del titolare è la comunicazione al Garante, e in alcuni casi particolari anche agli interessati, delle violazioni di dati personali accertate all’interno del proprio perimetro di trattamento; questo include anche le aree affidate a terzi, per esempio in outsourcing.
La stampa specializzata ci informa che le violazioni di dati sono in preoccupante aumento e gli analisti prevedono che gli attacchi ai sistemi informativi delle aziende continueranno a crescere. Escludendo gli eventi di violazione legati ad azioni mirate, una buona parte di esse è causata da negligenze, disattenzioni o dalla mancata o ritardata adozione di misure di protezione, anche delle più elementari.
In ogni caso, il Gdpr impone che la comunicazione di una violazione, corredata da una serie di informazioni obbligatorie, sia inoltrata all’Autorità entro 72 ore dal suo accertamento. Se il titolare non ha predisposto una procedura per la gestione di questi eventi, non è semplice raccogliere le informazioni per strutturare coerentemente la comunicazione nei tempi previsti.
Per questo motivo, è necessario che il titolare del trattamento predisponga una procedura per governare gli eventi di violazione e che la porti a conoscenza di tutte le componenti aziendali.
Nella malaugurata ipotesi che si verifichi, per qualunque motivo, una perdita o una sottrazione di dati, l’intera organizzazione deve sapere come comportarsi e come cooperare con le strutture aziendali incaricate di gestire l’evento.
La procedura per la gestione delle violazioni, la cui complessità o semplicità dipende dal modo di funzionare dell’impresa, deve illustrare in modo chiaro compiti e responsabilità delle risorse aziendali coinvolte nella corretta gestione di questo delicato momento e deve, quindi, diventare patrimonio condiviso.

Rispondere agli interessati
Il titolare del trattamento deve inoltre organizzarsi al meglio per rispondere alle eventuali richieste che gli interessati possono sottoporgli in riferimento all’esercizio dei diritti loro riconosciuti dalla normativa.
I beni (i dati personali), i diritti inalienabili – cioè dei singoli individui – sono “al centro” del Gdpr e tutti coloro che svolgono operazioni di trattamento di dati personali devono tenerlo ben presente.
Quando gli interessati chiedono, il titolare deve rispondere, al massimo entro un mese.
«Stai trattando mie informazioni personali? Quali dati relativi alla mia persona sono in tuo possesso? Perché li hai e per cosa li Se si è lavorato correttamente per prepararsi alla scadenza del 25 maggio 2018, data di applicabilità del Gdpr, sarà stata fatta un’analisi della situazione corrente e sarà stata colta l’opportunità di mettere ordine ed eliminare le informazioni vecchie e non più utilizzabili; sarà stata fatta anche una mappatura di processi e applicazioni per comprendere dove e come sono conservati i dati (incluse eventuali copie di sicurezza. In ogni caso, qualunque richiesta degli interessati comporta oneri per il titolare del trattamento che deve, lo ricordiamo, riscontrare la richiesta in modo tempestivo dopo essersi accertato dell’identità del richiedente; e per essere sicuri di intercettare tutte le richieste e di evaderle nella maniera corretta con il minor impiego possibile di risorse (persone e mezzi) è bene che i titolari del trattamento implementino una procedura che permetta loro di governare efficacemente i rapporti con gli interessati. risorsa alla quale è affidata la responsabilità di rispondere; chi ha ricevuto l’incarico di svolgere questo compito all’interno dell’azienda deve conoscere le possibili implicazioni, anche tecniche e legali, di simili richieste e può essere agevolato dalla disponibilità di modelli di risposta adatti alla maggior parte delle casistiche che potranno presentarglisi.
La procedura per la gestione delle richieste degli interessati è, quindi, un documento utilissimo per consentire all’organizzazione di rispondere alle richieste in modo efficiente e di dimostrare il rispetto del Gdpr.
Non disporne significa non aver compreso quanta attenzione sia dovuta agli interessati e soprattutto quanto l’adozione di misure organizzative efficaci renda più agevole la conformità alla legislazione vigente.
Tutte le componenti aziendali, anche in questo frangente, devono essere informate sul comportamento da tenere e sulle modalità di collaborazione con la funzione/ usi?». Le aziende potrebbero sentirsi porre questa domanda sempre più spesso, e rispondere potrebbe non essere così semplice o immediato. Molte sono le aziende che hanno le idee “confuse” sulla quantità di dati in loro possesso o sul luogo di memorizzazione; se pensiamo alla quantità di carta spesso conservata per anni in armadi che nessuno più apre, ci rendiamo conto della portata di una simile richiesta (sì, anche conservare documenti cartacei che contengono dati personali è un’attività di trattamento.)

In che modo occorre procedere con i documenti obbligatori
Va sottolineato che la vita delle aziende non è “immobile”, anzi è soggetta a continui mutamenti, che possono essere dettati a novità normative, da esigenze di business o cambiamenti del mercato, da modifiche dei processi. Tutti questi mutamenti possono comportare – e spesso comportano – la necessità di apportare modifiche ai documenti di cui s’è parlato. Si tratta, quindi, di documentazione “viva”, che richiede verifiche periodiche e, quando necessario, aggiornamenti.
La “storia” dev’essere conservata, per documentare la correttezza delle azioni del titolare del trattamento in presenza di determinate condizioni e in un determinato momento della vita dell’azienda; le vecchie versioni dei documenti destinati agli interessati, del registro dei trattamenti e/o delle procedure interne devono essere mantenute con indicazione del periodo di validità. Il titolare del trattamento fa dunque in modo che gli interessati abbiano sempre a disposizione la versione più recente dell’informativa; nei riguardi dei dipendenti, li rende consapevoli delle modifiche apportate alle le procedure in vigore e della necessità di fare riferimento ai documenti aggiornati.
Per quanto riguarda il registro dei trattamenti, potrebbe essere direttamente il Garante a chiedere che le siano mostrate le precedenti versioni del documento. È quindi necessario gestire i documenti della privacy e le aziende devono organizzarsi per farlo in modo efficiente. Le decisioni in merito al “come” fare sono lasciate al titolare del trattamento, ma è fondamentale che questo si organizzi per la conservazione delle evidenze che gli consentiranno di dimostrare di aver agito nel rispetto della normativa.

Altri adempimenti
Un’azienda con un buon livello di sensibilità rispetto al tema della protezione dei dati personali può decidere di predisporre altra documentazione per facilitare la corretta applicazione del Gdpr.
È quindi evidente che ci sono ancora molte cose che un’azienda può fare per diffondere la cultura della protezione dei dati personali e aumentare la consapevolezza dei propri addetti al trattamento. Le misure “organizzative”, insieme a quelle tecniche, rientrano nell’insieme più ampio delle misure di sicurezza che i soggetti che svolgono attività di trattamento di dati personali sono tenuti a implementare; tra le misure organizzative è possibile includere sia le istruzioni che il titolare del trattamento impartisce ai propri collaboratori per aiutarli a svolgere correttamente le proprie mansioni sia gli impegni che il titolare del trattamento assume nei confronti dei propri interessati. Predisporre un documento di politica che illustra alle parti interessate gli impegni che l’azienda assume in riferimento alla protezione dei dati personali a lei affidati; redigere un regolamento interno che indica con chiarezza quali sono i doveri e i comportamenti richiesti ai dipendenti quando svolgono trattamenti di dati personali; programmare periodicamente, anche su base annuale, un seminario per dipendenti allo scopo di “rinfrescare” le istruzioni chiave e accertarsi che siano ben comprese: si tratta di ulteriori opzioni che il titolare del trattamento ha a disposizione per contribuire al salto culturale di cui si è parlato all’inizio di questo intervento. C’è ampia libertà, insomma, e ampio spazio per la fantasia.
Ancora una volta è importante ribadire che tutti questi documenti sono soggetti allo stesso tipo di gestione dei documenti che abbiamo definito obbligatori. Tutto quello che l’azienda fa in questo ambito deve essere documentato e mantenuto aggiornato.

La formazione
Un’ultima importante notazione: il titolare e il responsabile del trattamento hanno l’obbligo di formaretutti coloro che trattano dati sotto la loro autorità.
La formazione può avvenire mediante documenti, seminari, corsi in aula o strumenti per la formazione a distanza; la decisione è libera e ciascuno sceglierà il mezzo che meglio soddisfa le proprie esigenze. L’evidenza di aver formato dipendenti e collaboratori deve però essere conservataper dimostrare di aver ottemperato agli obblighi normativi.

 

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Privacy: le novità per salute e sicurezza

Le principali Faq dell’Autorità chiariscono alcuni aspetti fondamentali del tema

Il D.Lgs. n. 101/2018 allinea il codice italiano al regolamento (Ue) n. 2016/679, ma non sospende le attività ispettive del Garante. Tra le direttrici fondamentali che sono state inserite nell’articolato nel provvedimento, troviamo il controllo a distanza e il divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

L’entrata in vigore, il 25 maggio 2018, del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, ha portato a una nuova rivoluzione in materia di protezione dei dati personali; non
ci sono settori economici, infatti, che possano ritenersi esenti da questo nuovo regime della privacy che, per altro, ha pesanti riflessi anche sulla gestione dei processi di salute e di sicurezza sul lavoro, come
del resto emerge anche scorrendo il documento “storico” del Garante del 31 marzo 2008, in cui mise una serie di paletti all’allora nascente D.Lgs. n. 81/2008, soprattutto in ordine alla tenuta della documentazione e alla gestione dei dati sanitari. Il regolamento (Ue) n. 2016/679 (cosiddetto “Rgpd”) ha posto, tuttavia, anche il problema per il legislatore italiano di armonizzare la disciplina interna con questo importante provvedimento che, com’è noto, non richiede ulteriori provvedimenti recettivi da parte dei singoli Stati membri.
La risposta non è stata immediata, come ci si attendeva, ma, sia pure con ritardo, è arrivata con il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016» (in Gazzetta Ufficiale 4 settembre 2108, n. 205), con il quale si è completata la prima fase del delicato processo di adeguamento della disciplina italiana a quella europea contenuta nel regolamento (Ue) 2016/679, che, per altro, prevede anche un pesante apparato sanzionatorio. Al tempo stesso, come si vedrà, l’Autorità garante per la privacy ha anche dettato, in data 8 ottobre 2018, istruzioni operative sul registro dei trattamenti che fanno seguito a quelle del 1° ottobre sulla definizione delle liti pendenti, che forniscono importanti indicazioni per gli operatori. Favorita la linea della continuità Il provvedimento, in vigore dal 19 settembre 2018, armonizza, quindi, le disposizioni contenute nel «Codice in materia di protezione dei dati personali» (D.Lgs. n. 196/2003), con quelle introdotte dal citato regolamento europeo n. 2016/679, abrogando anche numerose disposizioni in esso contenute. Un primo profilo da mettere subito in risalto è che con il D.Lgs. n. 101/2018, il legislatore italiano ha operato una precisa scelta di fondo: al fine di assicurare un’indispensabile continuità tra la nuova e la previgente disciplina ha introdotto un periodo transitorio in cui sono fatti salvi i provvedimenti del Garante e le autorizzazioni che saranno oggetto di un successivo riesame. L’art. 21, comma 1, infatti, stabilisce che sarà il Garante ad adottare un apposito provvedimento generale, da porre in consultazione pubblica entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, che stabilirà le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali già adottate, relative alle situazioni di trattamento di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettere c) ed e), 9, paragrafo 2, lettera b) e 4, nonché al capo IX del regolamento (Ue) 2016/679, che risultano compatibili con le disposizioni del medesimo regolamento e del D.Lgs. n. 101/2018 e, ove occorra, provvederà al loro aggiornamento.
Le autorizzazioni generali sottoposte a verifica ritenute incompatibili con le disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/679, cesseranno di produrre i loro effetti dal momento della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato provvedimento generale; il comma 3 stabilisce, inoltre, che le autorizzazioni generali adottate dal Garante prima della data di entrata in vigore del decreto – quindi come già accennato il 19 settembre 2018 – relative a trattamenti diversi da quelli indicati al comma 1 cessano di produrre effetti alla predetta data. Peraltro, occorre osservare che lo stesso Garante con provvedimento generale 19 luglio 2018, n. 424, già aveva preannunciato che, nelle more del perfezionamento dell’iter legislativo di adeguamento del quadro normativo nazionale, sarebbero restate in vigore, sia pure temporaneamente, le autorizzazioni generali adottate in data 15 dicembre 2016, tra le quali le più significative riguardanti la salute e la sicurezza sul lavoro sono:
• la n. 1/2016, in materia di rapporto di lavoro;

• la n. 2/2016, in materia di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;

• la n. 4/2016 per i professionisti.

Molto significativa è, inoltre, anche la funzione promozionale attribuita al Garante che avrà, così, il delicato compito di emanare le regole deontologiche concernenti il trattamento dei dati personali in alcuni settori (giornalismo, lavoro, statistica e ricerca scientifica) coinvolgendo i soggetti interessati.

Controllo a distanza e divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

Un’altra direttrice strategica fondamentale, seguita in materia di lavoro, la si rinviene nell’art. 15, D.Lgs. n. 101/2018, che ha novellato l’art. 171, D.Lgs. n. 193/2006, riguardante le violazioni delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori, stabilendo che, in caso di violazione delle norme contenute negli articoli 4, comma 1, e 8, legge n. 300/1970 (cosiddetto “Statuto dei lavoratori”) si applica il regime sanzionatorio già previsto dell’art. 38 della stessa legge.
Non si tratta, in effetti, di un’innovazione assoluta, ma la strada seguita dal legislatore anche in questo caso è quella di un più efficace coordinamento sistematico delle nuove disposizioni con quelle poste a tutela della libertà e della dignità del lavoratore della legge n. 300/1970; è necessario ricordare, in particolare, che l’art. 4, comma 1, stabilisce il divieto generale in base al quale gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (ad esempio personal computer fissi e portatili, tablet, telefoni cellulari eccetera) possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) o dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) o, in mancanza, previa autorizzazione rilasciata dalla competenze sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
L’art. 8, legge n. 300/1970, invece, fa espresso divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore; si tratta, invero, di una disposizione molto importante e per altro bisogna ricordare anche dibattuta in tema d’indagini sul personale finalizzate alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato.
In caso di violazione, pertanto, di queste disposizioni secondo quanto confermato dal novellato art.171, D.Lgs. n. 193/2006, il trasgressore sarà passibile delle sanzioni previste dall’art. 38, legge n. 300/1970, quindi, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, l’ammenda da euro 154,94 a euro 1.549,37 o l’arresto da 15 giorni a un anno.

Controlli: nessuna sospensione all’orizzonte
Un altro profilo di notevole rilievo è la disciplina sui controlli; il D.Lgs. n. 101/2018, ha messo fine ad alcuni rumor, risultati poi infondati, su alcune previsioni della versione definitiva del decreto che andavano nella direzione di uno stop temporaneo delle attività di controllo.
Viceversa, nel provvedimento in questione, non è prevista alcuna sospensione dell’attività ispettiva dell’Autorità garante fino ad aprile 2019; occorre considerare, infatti, che l’art. 22, comma 13, infatti, stabilisce
che «Per i primi otto mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Garante per la protezione dei dati personali tiene conto, ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative e nei limiti in cui risulti compatibile con le disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679, della fase di prima applicazione delle disposizioni sanzionatorie».
Invero, non è molto chiara l’esatta portata di questa previsione ma, almeno da una prima lettura, sembra di capire che, fino al 18 maggio 2019, l’attività sanzionatoria del Garante dovrebbe essere più “mite” e improntata alla valutazione di diversi fattori, come l’aver avviato le procedure di adeguamento e aver pianificato le diverse attività necessarie per garantire il rispetto della nuova normativa.
Da questa previsione, pertanto, non emerge alcuna sospensione del potere ispettivo, ma solo una fase transitoria in cui si tiene in considerazione che, in sede di prima applicazione di una normativa alquanto complessa come quella del regolamento europeo n. 2016/679, sono maggiori le difficoltà di adeguamento dei sistemi e delle procedure; di conseguenza, nell’applicare le sanzioni il Garante dovrà tener conto di diversi elementi come del resto già previsto nelle linee guida del Comitato europeo (ex WP29) del 3 ottobre 2017.

Violazioni pregresse: parte la sanatoria

Sempre sul piano sanzionatorio, occorre anche sottolineare che l’art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche la definizione agevolata delle violazioni pregresse in materia di protezione dei dati personali; in deroga all’art.16, legge n. 689/1981, per i procedimenti sanzionatori riguardanti le violazioni di cui agli artt. 161, 162, 162-bis, 162-ter, 163, 164, 164-bis, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, e le violazioni delle misure di cui agli artt. 33 e 162, comma 2-bis, medesimo decreto che, alla data di applicazione del regolamento europeo, risultino non ancora definiti con l’adozione dell’ordinanza- ingiunzione, è ammesso il pagamento in misura ridotta di una somma pari a due quinti del minimo edittale. Si tratta, quindi, di una sanatoria che riguarda tutti quei procedimenti sanzionatori relativi a condotte illecite poste in essere prima del 25 maggio 2018; fatti salvi i restanti atti del procedimento eventualmente già adottati, il pagamento potrà essere effettuato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, ossia il 18 dicembre 2018. L’art. 18 – che, è bene precisare, detta ulteriori disposizioni in materia – ha, quindi, una sua precisa ratio, ovvero produrre un effetto deflattivo del contezioso sorto per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del regolamento europeo n. 2016/679.
Come già accennato in merito è intervenuto recentemente anche l’Autorità garante e con comunicato del 1° ottobre 2018 ha fornito importanti istruzioni operative per chiarire ai soggetti pubblici e privati come usufruire della definizione agevolata dei procedimenti sanzionatori pendenti. Da osservare, in particolare, che nelle domande più frequenti (Faq) pubblicate sul proprio sito web2, l’Autorità ha precisato che, qualora decida di non definire in maniera agevolata i procedimenti sanzionatori pendenti, il contravventore ha la facoltà di pagare l’intero importo contenuto nell’atto di contestazione oppure di presentare nuove memorie difensive entro il 16 febbraio 2019.
In quest’ultimo caso, il Garante, esaminate le nuove memorie presentate nei termini, potrà, in alternativa, disporre l’archiviazione degli atti ove ne ricorrano i presupposti, ovvero adottare specifica ordinanza- ingiunzione con la quale potrà determinare la somma dovuta per la violazione e ingiungerne il pagamento all’autore della violazione e alle persone che vi sono obbligate solidalmente. Nella stessa Faq è inoltre sottolineato che «Il termine per il Garante per disporre l’archiviazione degli atti o per adottare una specifica ordinanza-ingiunzione è di 5 anni ai sensi dell’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689; tale termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute è stato espressamente interrotto dall’art. 18, comma 5, del decreto legislativo n. 101 del 10 agosto 2018 e pertanto decorrerà nuovamente a partire dal 19 settembre 2018 (data di entrata in vigore del d.lgs. 101/2018). Il termine ultimo per l’archiviazione degli atti o per l’adozione di un provvedimento di ordinanza-ingiunzione, in tali casi, sarà quindi quello del 19 settembre 2023».
Da rilevare, inoltre, che sempre nelle Faq è chiarito che, per effetto del già citato art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, possono avvalersi della definizione agevolata soltanto i contravventori che abbiano ricevuto, entro il 25 maggio 2018, l’atto con il quale sono notificati gli estremi della violazione o l’atto di contestazione immediata di cui all’art. 14, legge n. 689/1981.

Registro delle attività di trattamento: i chiarimenti del Garante e le ricadute sui professionisti

Per quanto, invece, riguarda la tenuta del registro dei trattamenti, il D.Lgs. n. 101/2018 non ha introdotto innovazioni in materia come ci si attendeva, lasciando più saggiamente, quindi, un ampio spazio d’intervento all’Autorità garante che come accennato l’8 ottobre 2018 ha fornito diversi e importanti chiarimenti sui soggetti obbligati e le regole di tenuta. Bisogna ricordare che questo registro deve essere predisposto dal titolare e dal responsabile del trattamento ed è un documento contenente le principali informazioni (si veda l’art. 30, regolamento n. 2016/679) relative alle operazioni di trattamento svolte da un’impresa, un’associazione, un esercizio commerciale, un libero professionista o altro soggetto obbligato. Come precisato dell’Autorità garante, l’obbligo di redigere questo registro costituisce uno dei principali elementi di accountability del titolare, poiché rappresenta uno strumento «idoneo a fornire un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno della propria organizzazione, indispensabile ai fini della valutazione o analisi del rischio e dunque preliminare rispetto a tale attività»; la stessa Autorità, inoltre, ricorda che sono tenuti a redigere il registro le imprese o le organizzazioni con almeno 250 dipendenti e – al di sotto dei 250 dipendenti – qualunque titolare o responsabile che effettui trattamenti che possano presentare rischi, anche non elevati, per i diritti e le libertà delle persone o che effettui trattamenti non occasionali di dati oppure trattamenti di particoprivacy lari categorie di dati (come i dati biometrici, dati genetici, quelli sulla salute, sulle convinzioni religiose, sull’origine etnica eccetera) o anche di dati relativi a condanne penali e a reati. Il campo applicativo è, quindi, molto vasto e, come emerge delle importanti Faq del Garante riportate di seguito, per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, coinvolge non solo i medici competenti, ma anche altri professionisti che trattano tali dati in questo ambito.

Le altre novità di rilievo in sintesi

Resta, infine, solo da rilevare brevemente che il D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche alcune ulteriori innovazioni di rilievo; in particolare, nel codice della privacy (D.Lgs. n. 196/2003), è stato introdotto il nuovo articolo 154-bis, che, al comma 4, prevede che, in considerazione delle esigenze di semplificazione delle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla raccomandazione 2003/361/Ce, il Garante stabilirà le modalità semplificate di adempimento degli obblighi del titolare del trattamento. Al tempo stesso, è stato ridotto da 16 a 14 anni il limite di età entro cui il consenso al trattamento dei dati personali dei minori deve essere esercitato da chi ne abbia la responsabilità genitoriale. Inoltre, per quanto riguarda il curriculum vitae inviato ai fini dell’instaurazione di un rapporto di lavoro, non è più necessario esprimere il consenso al trattamento dei dati in esso contenuti, ma chi lo riceve deve fornire al primo contatto utile successivo le informazioni previste dall’articolo 13, regolamento n. 2016/679.

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Appalti e sicurezza una bussola fra le regole

Conoscere il perimetro normativo per operare secondo la legge

Coordinamento, cooperazione, oneri, responsabilità sociale non sono più solo citazioni, bensì un apparato complesso, di cui le parti contrattualmente coinvolte devono tenere in considerazione. Obiettivo? Eseguire quanto sancito dagli accordi. Con l’attenzione puntata su organizzazione e prevenzione infortuni

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio), occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.

Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).

In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».

La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.
Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;

b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;

d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;

e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;

f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;

g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;

b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse -.
Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).

Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici deilavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.

Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.

Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio),
occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.
Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).
In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 8).

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».
La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.

Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;
b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;
d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;
e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;
f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;
g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;
b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse –

Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).
Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici dei lavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto – rif. punto 4.1.2. – secondo le indicazioni dell’allegato XV punto 4. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.
Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.
Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Conclusioni

Nella quotidianità degli operatori della sanità pubblica i contratti di appalto determinano oggi una interazione sempre più ingente e costante con i lavoratori di imprese che erogano forniture, servizi e lavori, spesso in modo integrato. All’interno delle procedure sulle quali si fonda l’organizzazione sanitaria, molteplici sono le regole finalizzate alla gestione dei compiti in materia di salute e sicurezza connessi ai contratti d’appalto, d’opera e di somministrazione negli ospedali. Coordinamento, cooperazione, oneri della sicurezza, responsabilità sociale non sono più solo citazioni bensì complesso sostrato dei dirigenti delle varie parti contrattualmente coinvolte che si incontrano per conoscersi, valutarsi ed eseguire quanto sancito dagli accordi contrattuali. In tal senso gli ospedali pubblici, complici le amministrazioni regionali che li accreditano e finanziano, stanno comprendendo l’opportunità irrinunciabile di creare, per i singoli procedimenti di affidamento delle forniture al mercato economico, sinergie fra i soggetti a vario titolo obbligati. È così che il dirigente che gestisce il contratto dal punto di vista amministrativo e il responsabile del servizio prevenzione e protezione dialogano – e devono dialogare assieme – con gli altri ruoli della sicurezza ospedalieri e delle imprese, contribuendo con le rispettive professionalità a determinare nei luoghi di lavoro ospedalieri livelli di sicurezza altrimenti non raggiungibili.

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Rappresentante sicurezza l’accesso al Documento di Valutazione dei Rischi (DVR)

Analisi dei profili responsabilità tra legislazione e giurisprudenza

L’articolo 18, lettera o) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 stabilisce espressamente che le informazioni debbano essere consultate esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali

In materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro una funzione fondamentale, seppur meramente di carattere consultivo-propositivo, è svolta dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls).

Questa figura di rappresentanza, istituita con il D.Lgs. n. 626/1994 e confermata con il successivo D.Lgs. n. 81/2008, è manifestazione della logica partecipativa introdotta con queste normative, che vede i lavoratori e i loro rappresentanti quali figure attive nell’elaborazione della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Di seguito è analizzato un diritto riconosciuto in capo al Rls per l’esercizio delle sue funzioni, ossia quello di ricevere copia del documento di valutazione dei rischi (Dvr); in particolare, viene affrontato il tema non solo in riferimento al settore privato, ma anche, punto forse ancor più controverso, al settore del pubblico impiego.

Nel corso degli anni vi sono stati sostanzialmente due interventi legislativi di particolare rilevanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il D.Lgs. n. 626/1994, prima, e il D. Lgs. n. 81/2008, poi, ai quali sono state apportate delle modifiche2 che hanno interessato proprio il diritto in questione, con un susseguirsi di relative interpretazioni.

Questioni applicative
Dal D.Lgs. n. 626/1994 alla legge n. 123/2007

Problemi interpretativi e applicativi sono stati sollevati sin dall’introduzione del D.Lgs. n. 626/1994 laddove all’art. 19, comma 5, si stabiliva, nella formulazione originaria, che il rappresentante dei lavoratori avesse «accesso, per l’espletamento della sua funzione», al documento di valutazione dei rischi. Nulla, tuttavia, era detto specificamente circa le modalità con cui poteva avvenire questo accesso, lasciando così aperta la strada a contrasti circa la corretta osservanza della disposizione.
È in questo contesto normativo che si colloca la sentenza della corte d’Appello di Brescia del 27 ottobre 20073. La vicenda nasceva da un decreto ingiuntivo richiesto dal Rls di un’azienda il quale lamentava di aver fatto richiesta di rilascio di copia del Dvr ottenendo, tuttavia, risposta negativa da parte del datore di lavoro.
Il giudice del lavoro accoglieva il ricorso per decreto ingiuntivo e l’azienda proponeva opposizione sostenendo che in capo al rappresentante dei lavoratori fosse riconosciuto solamente un diritto di accesso al documento, che si esplica nella presa in visione presso la sede dell’azienda stessa, senza alcuna prerogativa di portare fuori dai locali la documentazione in parola. Il tribunale di Brescia, con la sentenza 4 ottobre 2006, n. 729, respingeva questa opposizione rilevando che il Rls riceve il – non avendo solamente accesso al – documento di valutazione dei rischi, in base a quanto disposto dall’art. 19, comma 1, lettera e), D.Lgs. n. 626/1994. Peraltro, questa interpretazione era già stata sostenuta dalle circolari ministeriali del 2000 nonché dalla giurisprudenza di merito La società, quindi, presentava ricorso avverso il rigetto dell’opposizione, lamentando che la divulgazione del documento avrebbe cagionato nocumento all’azienda, ritenendo giustificato, sulla base di ciò, il diniego opposto alla richiesta del Rls di ricevere copia del documento, nonché affermando che, all’interno della sede, erano stati predisposti locali adeguati per la consultazione e l’esame del Dvr.
Nelle more del giudizio interveniva la legge n. 123/2007 che ha modificato il comma 5 dell’art. 19, riconoscendo in capo al datore un vero e proprio dovere di consegna di copia del documento.

L’art 3, lettera e), legge n. 123/2007, infatti, prevede che «[…] all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente: 5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4, comma 5, lettera o)».

La Corte d’appello di Brescia, alla luce di questo intervento normativo, affermava che: «L’art. 3, lettera e), legge n. 123/2007, che ha modificato l’art. 19, comma V, D. Lgs. n. 626/1994, prevedendo l’obbligo del datore di lavoro di consegnare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza copia del documento di valutazione del rischio e del registro infortuni, rappresenta norma innovativa unicamente per quanto attiene al registro infortuni, in quanto il diritto a ricevere copia del documento di valutazione del rischio era già previsto dalla lettera e) dello stesso art. 19».
La Corte concludeva, pertanto, che il Rls avesse non solo il diritto di ricevere copia del documento, peraltro già consolidato in passato secondo i giudici, ma anche di portarlo fuori dall’azienda, poiché, in caso contrario, si vanificherebbe il diritto stesso a possedere una copia e si trasformerebbe in una mera consultazione.

Dal D.Lgs. n. 81/2008 al D.Lgs. n. 106/2009

Con l’avvento del D.Lgs. n. 81/2008 è stato sancito in modo inequivocabile l’obbligo per il datore di lavoro di consegnare materialmente il documento di valutazione dei rischi al Rls. L’art. 18, comma 1, lettera o), infatti, nella sua formulazione originaria (ossia prima della modifica del D.Lgs. correttivo n. 106/2009) prevedeva che il datore di lavoro dovesse «consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r)», rendendo, in questo modo, illegittima e antisindacale qualunque condotta del datore di lavoro ostativa alla consegna. A ulteriore consolidamento della sussistenza del diritto del Rls di ricevere copia del documento in questione, vi è l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il quale disciplina le attribuzioni di questa figura. Infatti, da un lato la lettera e) del comma 1, dall’altro il comma 4 dell’articolo, affermano che il Rls, su sua richiesta e per l’esercizio delle proprie funzioni, debba ricevere le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le relative misure di prevenzione. La mancanza di formalità circa le modalità di consegna del documento ha dato luogo a incertezze riguardo quando possa dirsi adempiuto il relativo obbligo. Tra i tanti, è interessante analizzare un interpello sollevato da Confcommercio con il quale è stato richiesto un parere alla direzione generale per l’attività ispettiva – presso il ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali – in merito alla possibilità di consegna al Rls del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico. Nel caso prospettato ci si è chiesti se la consegna di un videoterminale connesso con la rete aziendale contenente il Dvr, consultabile all’interno dei locali della società, possa costituire assolvimento dell’obbligo ex art. 18, comma1, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008. Il ministero del Lavoro ha risposto sostenendo che, non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’obbligo a carico del datore può dirsi adempiuto tramite consegna su supporto informatico, anche se utilizzabile solamente su terminale messo a disposizione all’interno dell’azienda. In questo modo, conclude il Ministero, non vi è alcun pregiudizio all’effettivo svolgimento delle funzioni da parte del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, fermo restando, peraltro, il diritto dello stesso di scegliere la forma ritenuta da esso più agevole.
L’interpretazione fornita dalla direzione generale per l’attività ispettiva ha presto incontrato critiche, soprattutto per due motivi:

  • da un lato, questa soluzione risulterebbe inapplicabile al Rls territoriale8, rispetto al quale non può ritenersi ragionevole l’accesso al Dvr solamente nei locali aziendali – considerato che opera su un territorio e quindi su una pluralità di aziende – a meno che non lo si voglia trattenere in azienda, né sarebbe logico prevedere un trattamento differenziato per le due forme di rappresentanti per la sicurezza (aziendale e territoriale);
  • dall’altro lato, invece, viene censurato il riferimento all’art. 53, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 5 dispone che «Tutta la documentazione rilevante in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e tutela delle condizioni di lavoro può essere tenuta su unico supporto cartaceo o informatico».

Rispetto quest’ultimo aspetto, la critica sostiene sia vero che la documentazione in materia, quindi compreso il Dvr, possa essere tenuta in forma elettronica, tuttavia, come precisa la lettera e) della medesima norma, a condizione che “sia possibile riprodurre su supporti a stampa, sulla base dei singoli documenti, ove previsti dal presente decreto legislativo, le informazioni contenute nei supporti di memoria». Ciò significa che se non è consentita la stampa cartacea del documento, la mera messa a disposizione su supporto informatico non può considerarsi legittima.
Il 3 agosto 2009 è stato emanato il D.Lgs. n. 106/2009, correttivo del precedente D.Lgs.n. 81/2008. In particolare, l’art. 13, comma 1, lettera c) del suddetto decreto è intervenuto modificando la lettera o) dell’art. 18, facendo propria l’interpretazione fornita dal ministero del Lavoro nell’interpello sopra riportato. In particolare, il D.Lgs. n. 106/2009 aggiunge alla norma originaria due precisazioni, ovvero che il documento:

  • possa essere consegnato «anche su supporto informatico come previsto dall’art. 53, comma 5»;
  • sia «consultato esclusivamente in azienda ».

Quest’ultimo inciso ha posto una limitazione alla consultazione del Dvr e, di conseguenza, ha sollevato problemi e dibattiti sul piano applicativo. L’interrogativo posto a seguito di questo modifica è se il Rls possa o meno portare il documento fuori dai locali dell’azienda, anche al fine di disporre di maggior tempo per la consultazione ed eventualmente farsi assistere da soggetti esperti esterni; d’altra parte, si tratta di un documento aziendale che, ex art. 29, comma 4 del D. Lgs. n. 81/2008, deve essere custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce. Se la finalità della norma è quella di permettere al Rls un’analisi approfondita del documento, si sostiene debbano essergli garantiti tutto il tempo e l’assistenza che esso riterrà necessari.
Tuttavia, preme evidenziare che la Carta costituzionale, all’art. 41, sancisce il principio della libertà imprenditoriale, alla luce del quale si può riconoscere al datore di lavoro anche la facoltà, qualora lo ritenga, di consentire che il Dvr sia consultato anche fuori dalla sede aziendale.
Successivamente all’intervento del D.Lgs. n. 106/2009, riguardo il diritto di accesso del Rls al Dvr si è espressa la giurisprudenza di merito. In particolare, si è pronunciato il tribunale di Milano, a seguito di un’opposizione a decreto ingiuntivo con cui era stato ordinato alla società datrice di lavoro di consegnare il documento di valutazione dei rischi al rappresentante dei lavoratori dell’azienda. In questa occasione, il tribunale ha posto l’attenzione sulle formalità di consegna, rilevando che l’inciso introdotto dal correttivo di consultare il documento solo in azienda non ha, in alcun modo, pregiudicato il relativo diritto del Rls. Confermando il decreto ingiuntivo, i giudici milanesi, in premessa, hanno affermato l’incontrovertibilità dell’obbligo del datore di consegnare copia del Dvr, passaggio che implica la materiale disponibilità e conseguente ricezione da parte del Rls, sia in forma cartacea che su supporto informatico. La scelta circa la forma in cui ottenere la copia non può che spettare al Rls stesso, il quale ha diritto di ricevere il documento nella modalità per esso preferibile ai fini della consultazione. Quindi, il giudice milanese ha affermato che «l’obbligo di consegna si attua mediante la ricezione di una res e non può essere obliterato attraverso la semplice messa a disposizione o consultazione di un documento solo su supporto informatico e su computer aziendale, alla luce delle importanti, ma soprattutto delle fattive prerogative riconosciute dalla legge al RLS, che presuppongono una analitica e approfondita conoscenza del documento in parola».

In conclusione, il tribunale asserisce che il correttivo operato con l’art. 13, D.Lgs. n. 106/2009 non ha, in alcun modo, limitato le prerogative del Rls, essendo intervenuto solamente sulle modalità di consultazione, esclusa al di fuori dei locali aziendali, e non sul relativo diritto. Insomma, l’inciso aggiunto ha reso meno agevole la fruibilità del documento, ma senza toccare il contenuto e la portata del diritto. Il giudice ha evidenziato anche che il datore di lavoro deve permettere al Rls di svolgere la propria funzione di controllo e salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, consentendogli di consultare il Dvr per tutto il tempo ritenuto necessario, tenuto conto dell’eventuale tecnicità e complessità dello stesso. Tutto ciò, peraltro, restando i relativi costi a carico dell’azienda, secondo quanto si evince anche dall’art. 15, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008, ai sensi del quale «le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori».
Nello stesso senso si esprime anche la normativa, la quale riconosce che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza debba poter disporre del tempo necessario allo svolgimento del proprio incarico senza perdita di retribuzione.
Merita, infine, di essere evidenziato che al diritto di ricevere il documento di valutazione dei rischi da parte del Rls, corrisponde un dovere dello stesso a non divulgare informazioni riservate in esso contenute, dichiarando di utilizzarlo esclusivamente ai fini di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori che rappresenta. A questo riguardo, si richiama il D.Lgs. n. 25/2007, di attuazione della direttiva 2002/14/Ce (istitutiva di un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), il cui art. 5 – rubricato «Informazioni riservate» – impone l’obbligo di riservatezza in capo non solo ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma anche agli esperti di cui questi eventualmente si avvalgano. Inoltre, al comma 2, riconosce un’eccezione al dovere di consegna del documento, un’ipotesi di particolare tutela del datore di lavoro, il quale «non è obbligato a procedere a consultazioni o a comunicare informazioni che, per comprovate esigenzetecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o da arrecarle danno». Al fine di individuare queste ipotesi eccezionali, il successivo comma 3 rimanda alla contrattazione collettiva il compito di costituire una commissione di conciliazione che definisca le controversie riguardanti la natura riservata o meno delle notizie che il datore di lavoro affermi essere tali, ovvero circa le esigenze tecniche, organizzative e produttive la cui divulgazione possa arrecare difficoltà o danno all’azienda.

Il Rlst: competenze e obblighi
Alcuni cenni merita la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (Rlst). Questo soggetto, ai sensi dell’art. 48, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, «esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui all’articolo 50 e i termini e con le modalità ivi previste con riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza». Pertanto, al Rlst sono riconosciute le stesse attribuzioni del Rls aziendale; in particolare, tra gli altri, ha diritto di accedere ai luoghi di lavoro, di ricevere le informazioni e la documentazione correlata alla valutazione dei rischi e alle relative misure di prevenzione, nonché di presentare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure adottate non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Rispetto a questa figura, la questione circa la possibilità o meno di portare il Dvr fuori dal perimetro aziendale ha suscitato discussioni sulla portata del dato normativo. Vi è stato, infatti, chi ha mosso critiche alla norma stessa nonché all’interpello del 2008, poiché la consultazione esclusiva nei locali della società non è agevole né logica nei confronti di questa figura, visto che essa ricopre la funzione di rappresentante per la sicurezza su un territorio e, quindi, per una pluralità di aziende.
La questione è stata affrontata16, sul piano della prassi operativa, in riferimento all’adempimento dell’obbligo di consultazione ex art. 50, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008; nello specifico, è stato richiesto un parere all’osservatorio Olympus circa l’assolvimento da parte del datore di lavoro del suddetto obbligo con il mero invio del documento di valutazione dei rischi all’organismo paritetico territoriale e la conseguente adesione del Rlst. L’organismo paritetico (Op), definito alla lettera ee) dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2008 e disciplinato all’art. 51 del medesimo decreto, è quel soggetto costituito a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che svolge attività di programmazione della formazione, di assistenza alle imprese per l’attuazione degli adempimenti in materia di salute e sicurezza e ogni altra funzione a esso attribuita dalla legge o dai contratti collettivi.
L’osservatorio Olympus, formulando una soluzione di natura operativa, asserisce che, concentrando la trasmissione della documentazione relativa alla valutazione dei rischi all’organismo paritetico, il Rlst viene messo nella condizione di essere adeguatamente consultato, peraltro secondo le modalità che esso riterrà più opportune; infatti, il rappresentante territoriale potrà decidere di accedere ai luoghi di lavoro e svolgere le funzioni attribuitegli dall’art. 50 alla pari del Rls, ovvero potrà ritenere sufficiente la consultazione in sede di organismo paritetico. Pertanto, conclude il parere, l’obbligo di consultazione si può ritenere assolto nel momento in cui il datore di lavoro invia la documentazione all’Op e il Rlst esprime la propria opinione dopo aver effettuato tutte le valutazioni del caso. In tema di consegna del Dvr al rappresentante territoriale, interessante è anche l’accordo interconfederale Confapi/Cgil-Cisl-Uil 20 settembre 2011 sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità, il quale richiama la normativa in materia.
Infatti, l’accordo, nella parte II, art. 9, comma 2, disciplina le attribuzioni del Rlst, con particolare riferimento a quelle riconosciute ex art. 50, lettere e) ed f), D.Lgs. n. 81/2008, affermando espressamente che «al rappresentante verranno fornite le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, le informazioni relative agli infortuni e alle malattie professionali» e che «Il RLST riceve copia del documento di valutazione dei rischi e del DUVRI e ogni loro modificazione».
Alla luce di quanto sopra esposto, è condivisibile che l’obbligo del datore di lavoro di consegnare il documento in questione possa ritenersi assolto tramite la consegna dello stesso all’organismo paritetico. Ciò nonostante, va rilevato che la normativa non prevede alcuna eccezione per il Rlst a quanto stabilito dall’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 e, quindi, non c’è motivo per cui questa disposizione non debba valere anche rispetto questa figura. Anzi, il richiamo che l’art. 48, D.Lgs. n. 81/2008 opera a quanto stabilito per il Rls riguardo le competenze e le modalità di esercizio delle stesse, porta a ritenere che anche per il rappresentante territoriale debba trovare attuazione la medesima disciplina e, pertanto, la consultazione del Dvr può avvenire limitatamente all’interno dei locali aziendali. Più chiaramente, non essendoci deroghe espresse alla lettera o) dell’art. 18, la stessa si deve considerare applicabile anche al Rlst.

L’ambito delle pubbliche amministrazioni
Un tema di particolare interesse è quello relativo all’accesso alla documentazione in materia di salute e sicurezza negli ambienti del pubblico impiego. È, infatti, emerso come in questo ambito la disciplina prevista dal D. Lgs. n. 81/2008 tenda a scontrarsi con quanto stabilito dalla legge n. 241/1990 in materia di accesso agli atti, con incertezze giurisprudenziali su quale tra le due debba prevalere. Premessa fondamentale per affrontare la questione riguarda la natura dei documenti oggetto di disciplina da parte della legge n. 241/1990. L’art. 22, lettera d) della suddetta legge, come modificato dalla successiva legge n. 15/2015, definisce quale documento amministrativo «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
Il documento di valutazione dei rischi è un atto avente natura generale, finalizzato all’elaborazione di norme comportamentali, contenente la programmazione e la pianificazione della sicurezza all’interno dell’azienda, compresi i profili inerenti all’organizzazione amministrativa che esigono riservatezza. Per questo, l’accesso a tale documento è limitato espressamente alla sola figura del Rls. Pertanto, si sostiene che esso non possa, alla luce della definizione fornita dalla legge n. 241/1990, essere considerato documento amministrativo né atto interno endoprocedimentale e, quindi, non possa essere messo a disposizione di qualsiasi lavoratore.
Se, come sopra esposto, la posizione della dottrina circa il rapporto tra la disciplina di accesso agli atti e quella di accesso al documento di valutazione dei rischi risulta pacifica, la giurisprudenza al riguardo è molto più discordante.
La pronuncia del Tar Abruzzo (L’Aquila), sez. I, 12 luglio 2012, n. 467 ha accolto il ricorso di un lavoratore avverso il diniego di accesso «alla documentazione inerente il procedimento di verifica della valutazione del rischio amianto nel luogo di lavoro» opposto dall’istituto pubblico presso il quale prestava la propria attività. Il tribunale ha riconosciuto il diritto di accesso al documento da parte del lavoratore – e non solo al Rls come, invece, sostenuto dall’istituto – affermando che «la normativa sull’accesso ai documenti amministrativi riveste una portata generalizzata che non tollera inibizioni applicative in virtù di disposizioni speciali». Il giudice amministrativo, inoltre, ha tenuto a puntualizzare che la funzione del Rls non si sostanzia in una mera cognizione delle misure predisposte dal datore di lavoro, ma va ben oltre essa, avendo diritto a essere informato e consultato in ordine alla valutazione dei rischi, vedendo riconosciuto un autonomo potere propositivo. In conclusione è stato rilevato che «la legge 241/90 incide sulla diretta cognizione degli atti datoriali già formati, ma non deroga al ruolo istituzionale del RLS quale organo di rappresentanza dei lavoratori, chiamato comunque alla esclusiva e qualificata interlocuzione con il datore di lavoro, anche sulla scelta delle modalità mirate a garantire la sicurezza».
Posizione favorevole all’accesso al documento di valutazione dei rischi da parte del Rls è anche quella del Tar Lazio (Roma), sez. III, 13 dicembre 2012, n. 10390. La decisione ha preso avvio dall’istanza presentata da alcuni dipendenti di Poste italiane con la quale chiedevano l’estrazione di copia di alcuni documenti, tra cui il Dvr, richiesta rimasta priva di riscontro. La società resistente ha giustificato il silenzio- diniego sulla base del fatto che il documento contenga dati sensibili e riservati, non arbitrariamente divulgabili. Il tribunale romano ha accolto il ricorso asserendo che Poste italiane non può «limitare il diritto di accesso, essendo quegli stessi atti direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto dei ricorrenti», richiamando a sostegno di ciò il decreto del ministero delle Comunicazioni 24 agosto 1999, n. 211, relativo all’esclusione del diritto di accesso ai documenti di Poste italiane, tra i quali non risulta essere contemplato il documento di valutazione dei rischi. Infine, ha concluso il giudice, qualora la società ritenga necessario tutelare la riservatezza dei dati, questa esigenza potrebbe essere sufficientemente garantita anche solo tramite particolari accortezze circa le modalità di accesso.
Sul tema è intervenuta anche la sentenza del Tar Puglia (Bari), sez. III, 15 gennaio 2015, n. 56, adito per decidere una controversia sorta a seguito del permesso di accedere al Dvr riconosciuto da un dirigente scolastico a un organismo sindacale degli insegnanti. Questo accesso, però, era stato subordinato dal dirigente a due condizioni: la sussistenza di un’opportuna giustificazione ex art. 22, legge n. 241/1990 e la visione solamente presso l’ufficio di presidenza della scuola negli orari di apertura.
Il Tribunale ha affermato la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo al ricorrente, conseguentemente dichiarando l’illegittimità della subordinazione della consultazione del documento a una opportuna giustificazione del diritto affermato. Il giudice amministrativo, inoltre, ha asserito la assoluta mancanza di pertinenza del richiamo alla legislazione giuslavoristica, negando che possa, in qualche modo, prevalere sulla disciplina relativa all’accesso agli atti. Particolarità della decisione riguarda la modalità con cui deve essere garantita la consultazione; infatti, accogliendo il ricorso, il tribunale amministrativo ha condannato il dirigente scolastico a rilasciare copia informatica del Dvr inviandolo via pec alla ricorrente. Si tratta di una formalità che porta a una trasmissione del documento all’esterno dei locali scolastici, in violazione di quanto prescritto espressamente dall’art. 18, comma 1, lettera o), D. Lgs. n. 81/2008.
Di diverso avviso è la più recente sentenza del Tar Marche n. 506/2016. Nel caso discusso, una dipendente della direzione territoriale del lavoro di Ancona ha impugnato il diniego dell’amministrazione alla richiesta di estrarre copia del Dvr, motivato sulla base degli artt. 18 e 50, D.Lgs. n. 81/2008, dalla cui lettura si evince che l’accesso è consentito al solo rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Inoltre, l’amministrazione ha disconosciuto che il documento in questione possa considerarsi avente natura amministrativa e, pertanto, sarebbe sottratto dall’applicazione della legislazione sul procedimento amministrativo. In netta contrapposizione con le posizioni sovraesposte degli altri tribunali amministrativi, il giudice marchigiano ha asserito la specialità della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro rispetto quella più generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi.

In conseguenza di ciò ritiene che il solo Rls, fermi i limiti e divieti di cui al D.Lgs. n. 196/2003 (codice della privacy) e quelli relativi al segreto industriale, abbia diritto di ricevere copia del Dvr e che in questo modo siano adeguatamente tutelati gli interessi dei suoi rappresentati. Peraltro, si rileva come il Dvr abbia un contenuto tecnico che molto spesso è di difficile comprensione da parte dei lavoratori. Il Tar Marche ha confermato, infine, che quanto stabilito dal D.Lgs. n. 81/2008 si debba ritenere applicabile tanto al datore di lavoro pubblico quanto a quello privato e, di conseguenza, anche le pubbliche amministrazioni sono tenute all’osservanza delle prescrizioni in esso contenute.
Preso atto delle contrastanti posizioni giurisprudenziali, si può ritenere che la soluzione più idonea a risolvere il dibattito sia quella prospettata dal Tar Marche. Quanto sostenuto dagli altri giudici amministrativi, infatti, non può essere condiviso poiché si è in presenza di una disposizione [l’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008] che prevede espressamente e senza eccezioni le modalità di accesso al Dvr. Disposizione che è contenuta in una normativa speciale (il testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro) rispetto a quella in materia di accesso agli atti amministrativi e, perciò, su di essa prevalente. In conclusione, anche in materia di pubblico impiego deve valere quanto prescritto dal D.Lgs. n. 81/2008 e, di conseguenza, il documento di valutazione dei rischi è consultabile solamente da parte del Rls e soltanto all’interno dell’azienda.

Profili di responsabilità
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prescrive sanzioni direttamente in capo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (né aziendale né territoriale), in quanto, da una parte, si vuole evitare che i soggetti siano scoraggiati dall’assumere questo incarico, dall’altra perché la funzione da esso svolta è meramente consultiva, ciò implicando che la decisione finale – e la conseguente responsabilità – è sempre e comunque rimessa al datore di lavoro.
La giurisprudenza di Cassazione (sez. III penale, 2 marzo 2001, n. 20904), a sostegno di quanto sopra, ha escluso che il soggetto nominato come rappresentante per la sicurezza dei lavoratori debba rispondere, in quanto tale, delle misure di prevenzione da adottare. Con la sentenza n. 20904/2001 la Cassazione penale, peraltro confermando quanto sostenuto in primo grado dal tribunale di Lucera, chiarisce che il Rls «a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 626/1994, ha solo compiti di consulenza e di proposta in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, ma sempre nell’ambito dell’azienda o dell’amministrazione di appartenenza».
Questa figura non ha poteri decisionali né di spesa, dunque non possono ricadere su di essa quelle responsabilità derivanti da
obblighi di prevenzione collegati al riconoscimento ed esercizio dei suddetti poteri.
In tema di responsabilità merita poi di essere richiamato l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 7 stabilisce espressamente le ipotesi di incompatibilità della funzione di Rls, la quale non può essere svolta da quei soggetti che ricoprono l’incarico di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione. Ciò porta a ritenere che non vi siano altri compiti incompatibili con quello di Rls, che perciò potrebbe essere un lavoratore avente anche mansioni di responsabilità (ad esempio un capo turno, un capo reparto eccetera); in queste situazioni, quindi, può svolgere un ruolo non solo consultivo ma anche operativo e, pertanto, in forza del principio di effettività anch’esso potrà essere considerato responsabile dell’eventuale reato. Qualora il Rls aziendale non ricopra alcun ruolo particolare, esso è pur sempre un lavoratore come gli altri, per cui si applica quanto stabilito dall’art. 20, nei limiti della specifica formazione eventualmente ricevuta. Rispetto quest’ultima precisazione, infatti, il comma 10 dell’art. 37, D.Lgs. n. 81/2008 riconosce in capo al rappresentante il diritto a una formazione idonea ad assicurargli competenze adeguate circa le tecniche di controllo e prevenzione dei rischi specifici esistenti negli ambienti di lavoro ove svolge la propria funzione. Sarà, perciò, possibile esigere da parte sua una maggiore attenzione, valutazione e gestione dei rischi rispetto agli altri lavoratori, in base alla particolare formazione a esso fornita. Dal combinato disposto degli artt. 20 e 37 si evince che, ove i lavoratori – e quindi anche il Rls – abbiano ricevuto la formazione prevista, essi saranno perfettamente in grado di valutare e gestire in modo appropriato i rischi, limitando le conseguenze negative sul datore di lavoro. L’art. 20, infatti, se correttamente applicato, è idoneo a infrangere l’orientamento giurisprudenziale che pone in capo al datore di lavoro ogni responsabilità derivante dal controllo sui lavoratori. Altro elemento di rilievo è quello previsto dalla lettera e) del comma 2 dell’art. 20, il quale prescrive l’obbligo di immediata segnalazione al datore di lavoro di eventuali carenze o condizioni di pericolosità riscontrate. In caso di omessa osservanza di questa disposizione, anche il Rls potrà rispondere della relativa violazione; infatti, anch’esso deve adoperarsi attivamente al fine di eliminare o almeno ridurre al minimo la situazione di pericolo e, qualora ciò non avvenga, si determina l’insorgere di profili di responsabilità.
La violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008 è sanzionata, ai sensi dell’art. 59, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, «con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro per la violazione degli articoli 20, comma 2, lettere b), c), d), e), f), g), h) e i), e 43, comma 3, primo periodo (…)». Alla luce di quanto esposto, questa norma è applicabile anche a quel lavoratore che rivesta la particolare funzione di Rls. Preme però evidenziare che ne risponderà non in quanto soggetto che ricopre la suddetta qualifica, ma in quanto lavoratore dell’azienda.
La disciplina in materia di salute e sicurezza, come detto finora, non sanziona alcun comportamento del Rls in quanto tale.
L’unico divieto espressamente sancito è quello relativo al dovere di segretezza e riservatezza di quanto venga a conoscenza nell’esercizio della propria funzione e, in particolare, attraverso la consultazione del documento di valutazione dei rischi.
L’art. 50, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008, infatti, prevede che il rappresentante sia «tenuto al rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi e nel documento di valutazione dei rischi di cui all’ articolo 26, comma 3, nonché al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni». In base a questa norma, quindi, il Rls è obbligato al rispetto della disciplina in materia di privacy, concetto inteso non solo come diritto a un trattamento limitato e attento dei dati personali, ma anche come adozione in via cautelativa di misure tecniche ed organizzative poste a salvaguardia della riservatezza dei soggetti interessati.
L’attenzione posta dal legislatore a questi aspetti si rinviene anche nei limiti posti all’accesso al Dvr, quale quello di consultazione solo all’interno dei locali dell’azienda, poiché esso contiene una pluralità di elementi concernenti aspetti strettamente personali della vita privata dei lavoratori. Per quanto attiene, invece, ai processi lavorativi di cui viene a conoscenza nello svolgimento del proprio ruolo, in caso di violazione dei segreti che ne scaturiscono, il rappresentante può essere chiamato a risponderne in sede penale.
Possono, infatti, configurarsi le fattispecie di cui agli artt. 621, 622 e 623 del codice penale. Tuttavia, ai fini della sussistenza dei reati in questione, la giurisprudenza di Cassazione si è più volte espressa nel senso della necessità che la rivelazione di quanto conosciuto e oggetto del diritto alla segretezza abbia effettivamente procurato un pregiudizio giuridicamente rilevante alla società, costituendo questo elemento condizione di punibilità.
Si richiama, infine, la disciplina del D.Lgs. n. 25/2007, già trattata precedentemente29, che estende l’obbligo di riservatezza ai soggetti esperti di cui il rappresentante può eventualmente avvalersi nell’esercizio delle proprie funzioni e nella comprensione del documento di valutazione dei rischi. L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 5 del suddetto decreto sanziona espressamente la violazione del divieto prescritto di non divulgare informazioni riservate, rimandando alla contrattazione collettiva l’individuazione dei relativi provvedimenti disciplinari.

Conclusioni
Giurisprudenza e dottrina, nel corso degli anni, si sono dovute confrontare con un dato normativo per niente chiaro e tranchant come quello attuale elaborato dal D.Lgs. n. 81/2008. A oggi, infatti, non vi sono più dubbi circa il fatto che il Rls aziendale debba consultare il documento esclusivamente in azienda e ciò in quanto è la norma che espressamente lo prescrive. Per quanto concerne il rappresentante territoriale, si può qui ribadire che, non essendo stabilito alcunché di specifico, nonostante la particolarità di questa figura che opera per una pluralità di imprese, la soluzione deve essere la stessa prospetta ta per il Rls, valendo per il soggetto territoriale le medesime competenze e modalità di esercizio di quello aziendale.
La più controversa delle situazioni esaminate è probabilmente quella del pubblico impiego, poiché in questo ambito il diritto di consegna e consultazione del Dvr deve contemperarsi con il diritto di accesso agli atti secondo quanto stabilito dalla legge n. 241/1990. Tuttavia, come già rilevato in apposita sede, questo contrasto normativo deve essere risolto con l’applicazione del principio di specialità, in base al quale la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in quanto speciale, prevale sulla disciplina, più generale, relativa all’accesso agli atti amministrativi. In merito ai profili di responsabilità, si è detto che al Rls, svolgendo una funzione meramente consultiva, non sono attribuiti obblighi sanzionati in quanto ricoprente tale qualifica. Tutt’al più, qualora rivesta mansioni particolari (ad esempio capo reparto, capo turno eccetera), potrà essere considerato responsabile per gli specifici obblighi derivanti da questo differente funzione ovvero, qualora sia un normale lavoratore dell’azienda, sarà soggetto alla disciplina sanzionatoria prescritta in caso di violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008.
È, invece, espressamente richiesto al Rls l’osservanza della disciplina in materia di privacy nonché del segreto industriale, potendo, in caso di violazione di queste normative, incorrere in responsabilità anche penale.
È possibile comunque affermare che le varie tematiche sono state affrontate e risolte dal legislatore, tenendo conto del necessario bilanciamento dei diversi interessi in gioco:

  • da un lato vi è quello dei lavoratori, o meglio del Rls in loro rappresentanza, di accedere agli atti che riguardano i vari aspetti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, al fine di ottenerne una rigorosa osservanza in ambito aziendale;
  • dall’altro lato, invece, vi è l’interesse dei lavoratori non direttamente interessati, i quali hanno diritto a vedere tutelata e garantita la propria privacy, affinché non vengano abusivamente rese ostensibili e divulgate informazioni inerenti la loro vita privata;
  • dall’altro lato ancora, gli interessi del datore di lavoro. Questi ha diritto alla riservatezza e segretezza, in particolar modo per quanto attiene alla sfera professionale e industriale: la violazione di questi segreti può arrecare un ingente danno economico alle aziende coinvolte;
  • un ultimo interesse che rileva è quello di tutela pubblica. Non si deve, infatti, sottovalutare il fatto che la divulgazione di documenti segreti inerenti all’attività industriale possa ripercuotersi su tutta la collettività, per cui risulta fondamentale il rispetto della riservatezza; basti pensare al pericolo che potrebbe derivare, anche al fine di possibili attentati, dalla divulgazione di notizie e segreti dei siti industriali a rischio “Seveso”.

Per concludere, la soluzione al problema affrontato va risolta con il semplice richiamo alla lettera della norma, il quale risulta chiaro e pacifico; infatti, il citato art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce espressamente che il documento sia consultato esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali.

 

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Estintori sicuri, dai Vigili del fuoco chiarimenti per i corsi

Le raccomandazioni contenute nella circolare n. 11197/2018 del 14 agosto 2018

I fornitori sono responsabili delle attrezzature, ma anche i componenti la commissione d’esame o gli incaricati delle lezioni devono accertare la loro conformità. Indicazioni utili pure ai soggetti privati che erogano servizi di formazione

Con la pubblicazione della circolare 11197 del 14 agosto 2018, il dipartimento dei Vigili del fuoco ha offerto utili chiarimenti circa l’impiego degli estintori portatili utilizzati per le prove pratiche di estinzione durante i corsi erogati dai comandi dei Vigili del fuoco.

Considerato il fatto che nel nostro Paese la formazione dei lavoratori incaricati di attuare le misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro può essere erogata anche da soggetti privati, è auspicabile che queste precauzioni possano diventare di uso comune. I chiarimenti, infatti, contengono una serie di istruzioni operative atte a verificare l’efficienza e la sicurezza degli estintori d’incendio utilizzati nel corso dell’esercitazioni pratiche di estinzione. Inizialmente è specificato che la responsabilità di assicurare presidi idonei, pienamente funzionanti e dotati di tutte le certificazioni e documentazioni previste per legge è a carico dei soggetti fornitori di estintori portatili. Di fatto con questa affermazione si richiama la responsabilità di chi, a vario titolo, fornisce ai comandi le attrezzature antincendio necessarie alla formazione. Proseguendo l’analisi del testo della circolare emerge un interessante consiglio circa la tipologia di estintori da impiegare per le prove di estinzione. Per questo aspetto è precisato che, alla luce del fatto che questi dispostivi sono soggetti a ripetuti utilizzi con frequenze di scariche e ricariche molto elevate e un’usura sicuramente riferibile più a una attrezzatura di lavoro che a un presidio antincendio, è preferibile l’uso di estintori caratterizzati da minori pressioni di esercizio (come per esempio gli estintori a base d’acqua) al fine di minimizzare le conseguenze di un’eventuale malfunzionamento per una eccessiva usura del dispositivo.
Le indicazioni contenute nella circolare proseguono con l’elencazione delle verifiche da attuare per assicurare il corretto funzionamento degli apparecchi.

Al riguardo è specificato che al momento del ricevimento degli estintori la commissione d’esame o gli incaricati della lezione hanno il dovere di verificare che le iscrizioni sull’etichetta dell’estintore siano presenti e ben leggibili, che l’estintore non abbia superato la vita utile ammissibile (18 anni dalla data di produzione rinvenibile sui dati punzonati sul serbatoio) e che gli estintori siano integri e non presentino segni di deterioramento in alcuna parte del dispositivo (assenza di segni di ruggine o tracce di corrosione, integrità della manichetta e dell’eventuale cono di espansione, assenza di sconnessioni o incrinature delle tubazioni flessibili ecc.). Ulteriori controlli da eseguire riguardano la verifica del corretto accoppiamento della manichetta con il cono erogatore (se presente) e quello della manichetta con la valvola di comando, che l’indicatore di pressione (se presente) indichi un valore compreso all’interno del campo verde e che sia presente il sigillo sul dispositivo di sicurezza della valvola di azionamento.

Un particolare riferimento è fatto per l’utilizzo di estintori immessi sul mercato a partire dal 29 maggio 2002. Per questi infatti è richiesto di accertare la presenza e la leggibilità della marcatura Ce relativa agli aspetti di sicurezza delle apparecchiature a pressione (requisiti direttiva Ped). Per quanto concerne gli obblighi a carico dei fornitori di estintori, con la circolare 11197 è specificato che questi ultimi hanno sempre il dovere di presentare al comando una dichiarazione in cui è espresso che i presidi messi a disposizione sono conformi al prototipo omologato e che sono stati sottoposti a corretta manutenzione.
Di fatto, con questa ultima parte della circolare è richiesta una verifica puntuale del rispetto delle disposizioni del decreto del ministero dell’Interno 7 gennaio 2005 e delle specifiche contenute nella norma tecnica Uni 9994-1.

Riscontro di non conformità
La circolare 11197 del 14 agosto 2018 termina con le azioni da attuare in caso di riscontro di non conformità. Di fatto è specificato che qualora dai controlli indicati emergano delle criticità sugli estintori, gli addetti alla lezione pratica e la commissione di esame non dovranno utilizzare l’apparecchiatura e il comando dovrà provvedere a inoltrare una segnalazione alla direzione del corpo nazionale dei Vigili del fuoco.

È richiamata inoltre la necessità di porre la massima attenzione nel consentire l’attività di formazione e accertamento esclusivamente a personale docente e discente opportunamente protetto in base alla valutazione del rischio cui è esposto.

La normativa di riferimento
Non è superfluo ricordare che il decreto 7 gennaio 2005 citato nella circolare detta le regole per la classificazione e l’omologazione degli estintori portatili di incendio con il quale, ricordiamo, il legislatore ha riconosciutoufficialmente la norma En 3-7 3 che specifica i requisiti, i metodi di prova e i criteri di prestazione per estintori di incendio portatili. Questo significa che oggi i produttori italiani hanno il dovere di fabbricare, omologare e immettere sul mercato nazionale estintori portatili d’incendio costruiti in conformità alla norma europea En 3-7. Inoltre, con il decreto 7 gennaio 2005 è stabilito che tra gli obblighi e le responsabilità dei produttori vi è quello di:

  • garantire la conformità della produzione al prototipo omologato mediante un sistema di controllo di produzione;
  • impiegare nella produzione materiali, componenti e accoppiamenti conformi alla direttiva Ped;
  • emettere per ogni estintore portatile la dichiarazione di conformità;
  • fornire a corredo di ogni esemplare il libretto d’uso e manutenzione;
  • punzonare sull’estintore portatile d’incendio l’anno di costruzione, il numero di matricola progressivo e il codice costruttore.

Anche l’utilizzazione è uno degli aspetti regolamentati dal D.M. 7 gennaio 2005.
In particolare, è importante ribadire che con l’articolo 4 «Utilizzazione» sono dettate le disposizioni volte ad assicurare che l’estintore mantenga nel tempo le caratteristiche tecniche che hanno portato al rilascio dell’omologazione ministeriale. Viene infatti specificato che gli estintori immessi sul mercato devono sempre essere conformi ai rispettivi prototipi omologati. Inoltre, con il secondo comma dell’articolo 4 è richiamato l’obbligo di far eseguire la manutenzione degli apparecchi in esercizio da personale esperto (come previsto dal D.M.10 marzo 1998 4) e secondo le proceduredefinite dalla famosa norma Uni 9994.
Per questo aspetto si segnala che, attualmente, è disponibile la norma Uni 9994-1 (pubblicata il 20 giugno 2013) nella quale sono contenuti i criteri per svolgere il controllo iniziale e la manutenzione degli estintori di incendio.

La manutenzione
Alla luce del fatto che solo una puntuale conoscenza della norma Uni 9994-1 può consentire una adeguata verifica degli estintori circa la loro corretta manutenzione, si ritiene opportuno ricordarne brevemente le specifiche in essa contenute. In particolare, la norma – che si applica per la corretta manutenzione degli estintori di incendio portatili e carrellati (inclusi gli estintori di incendio per fuochi di classe D) – specifica che per mantenere l’estintore in efficienza devono essere eseguite, con una determinata periodicità, alcune verifiche oggettive, che nella maggior parte dei casi possono essere svolte solo da personale esperto. In particolare, nella nuova norma vengono individuate sei fasi di manutenzione: il controllo iniziale, la sorveglianza, il controllo periodico, la revisione programmata, il collaudo e la manutenzione straordinaria.
Per quanto concerne il controllo iniziale, che deve essere eseguito da un tecnico manutentore, è previsto l’esame della conformità dell’apparecchio e della documentazione che lo accompagna (verifica della integrità delle marcature e la disponibilità del libretto d’uso e manutenzione rilasciato dal produttore). Questo intervento, che in prima battuta potrebbe risultare poco utile, può essere definito come la fase di presa in carico dell’estintore da parte dell’impresa di manutenzione, in quanto consente di verificare la conformità dei mezzi di estinzione manuali e di provvedere eventualmente alla loro messa fuori servizio a causa della presenza di specifiche anomalie (per esempio, se presentano segni di corrosione, ammaccature, se sono privi delle marcature o che abbiano superato 18 anni di vita ecc.).
La sorveglianza, che è la misura di prevenzione atta a controllare l’estintore nella posizione in cui è collocato, può essere svolta invece direttamente dall’utilizzatore che, nel caso di evidenti anomalie, deve provvedere a interpellare il manutentore che può eseguire gli interventi previsti in tutte le altri fasi della manutenzione. In questa fase deve essere verificata l’integrità dell’estintore e dei suoi componenti, come per esempio l’indicatore di pressione, la corretta posizione, l’adeguatezza della segnaletica che consente di individuarlo e la presenza del cartellino di manutenzione.
Per controllo periodico si intende la misura di prevenzione atta a verificare, con frequenza almeno semestrale, l’efficienza dell’estintore. In particolare, durante questo intervento, che è svolto esclusivamente da personale competente (tecnico manutentore), è previsto il controllo della pressione interna con uno strumento indipendente per gli estintori a pressione permanente, il controllo dello stato di carica mediante pesatura per gli estintori a biossido di carbonio, il controllo della presenza del tipo e della carica delle bombole di gas ausiliario per gli estintori pressurizzati con questo sistema.
La revisione programmata, invece, è la misura di prevenzione volta a verificare e rendere perfettamente efficiente l’estintore. Effettuata da persona competente e con la periodicità non maggiore rispetto a quella indicata nel prospetto 2 della norma Uni 9994-1, la revisione programmata prevede:

  • esame interno dell’apparecchio;
  • controllo funzionale di tutte le parti;
  • controllo dei componenti (pescante, tubi flessibili, ugelli ecc.);
  • sostituzione dei dispositivi di sicurezza se presenti;
  • sostituzione dell’agente estinguente;
  • sostituzione delle guarnizioni;
  • sostituzione della valvola erogatrice per gli estintori a biossido di carbonio;
  • rimontaggio dell’estintore in perfetto stato di efficienza.

Gli estintori d’incendio sono apparecchi a pressione e, pertanto, il loro serbatoio periodicamente deve essere e sottoposto a collaudo da parte di personale competente. Per questa fase, nella norma Uni 9994-1 è stata specificata la frequenza in funzione della conformità alla direttiva 97/23/CE 5 (D.Lgs. n. 93/2000 6).
In particolare, gli estintori che non siano già soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e costruiti in conformità al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati secondo la periodicità prevista nel prospetto 2 della norma mediante una prova idraulica della durata di 30 secondi alla pressione di prova (Pt) indicata sul serbatoio, mentre quelli che non sianogià soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e non conformi al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati mediante una prova idraulica della durata di un minuto a una pressione di 3,5 MPa, o come da valore punzonato sul serbatoio (se maggiore). Al termine delle prove, non devono verificarsi perdite, trasudazioni, deformazioni o dilatazioni di alcun tipo. La manutenzione straordinaria, invece, è l’intervento che deve essere attuato, durante la vita dell’estintore, ogni volta che le operazioni di manutenzione ordinaria non sono sufficienti al ripristino delle condizioni di efficienza dell’estintore stesso.

Durante l’attività di un effettivo mantenimento dello stato di fatto in cui l’estintore è stato consegnato, possono emergere problemi di entità diversa che sono risolvibili solo con la sostituzione di alcune parti componenti dell’apparecchio. Tutti gli interventi devono essere garantiti dal manutentore e tutte le riparazioni (e le sostituzioni che impediscano il decadimento dei livelli di sicurezza dei prodotti) devono essere attuate immediatamente. La mancanza di ricambi originali o adeguati, il protrarsi dell’intervento oltre il normale tempo del controllo stesso obbliga di fatto il manutentore a dichiarare il prodotto non funzionante e a comunicarne le cause alla persona responsabile. Una cosa importante: la norma Uni 9994-1 prevede chiaramente che la messa fuori uso dell’estintore deve essere effettuata tramite l’emissione di un documento attestante la messa fuori uso. Infine, per quanto concerne questo importante aspetto, è indispensabile non dimenticare che in fase di manutenzione se l’estintore deve essere rimosso, è necessario prevedere la sua momentanea sostituzione con altro di capacità estinguente non inferiore.

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Scuola-lavoro e tirocini: chiarito il regime di tutela

La risposta della Commissione Interpelli a un quesito della Provincia di Trento.

Il soggetto ospitante, anche se è un autonomo, deve assumere, a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore per la sicurezza con tutto quanto consegue come, ad esempio, l’obbligo – fra gli altri – di effettuare la valutazione dei rischi, di redigere il Dvr e nominare il Rspp. Tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani interessati a percorsi di questo tipo.

Nel corso degli ultimi, anni in svariate occasioni è finito al centro dell’attenzione il tema dell’inserimento lavorativo dei giovani e la tutela dalla loro salute e sicurezza sul lavoro. Bisogna riconoscere che il modello contrattuale “principe” dell’apprendistato – pur se oggetto di continui rimaneggiamenti, da ultimo con il D.Lgs. n. 81/2015 – in Italia, purtroppo, stenta ancora a decollare a differenza di quello che accade in Germania e in altri Paesi europei.

A tutto ciò si aggiunge, poi, la legge n. 977/1967 sul lavoro minorile che al fine di assicurare una tutela più intensa delle condizioni di lavoro dei giovani prevede numerosi vincoli, spesso però vissuti dai datori di lavoro come un autentico zoccolo duro che esercita una forte azione disincentivante. Questo quadro consente di spiegare, almeno in parte, perché nel corso dell’ultimo biennio appare sempre più crescente la disponibilità che stanno dimostrando soprattutto le aziende nell’ospitare studenti inseriti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, rivitalizzati dalla legge n. 107/2015 (la cosiddetta legge sulla “buona scuola”).

Questo strumento si affianca, per altro, a un altro istituto affine come il tirocinio che nei primi anni del nuovo millennio ha subito un vero e proprio boom, soprattutto poco prima dell’emanazione della legge n. 92/2012, che ha riformato la materia con l’obiettivo di frenare il loro utilizzo spesso in modo distorto «come uno strumento di fuga dal lavoro subordinato». La massiccia diffusione di queste due forme di primo ingresso dei giovani in ambito aziendale ha sollevato, però, anche numerose criticità sul piano gestionale, soprattutto in ordine al tipo di regime della salute e della sicurezza sul lavoro applicabile.

Per questo motivo il ministero del Lavoro è stato costretto a intervenire nuovamente con l’interpello n. 4 del 25 giugno 2018, in cui ha fornito alcune indicazioni in risposta allo specifico quesito presentato dalla Provincia autonoma di Trento, che aveva chiesto di sapere «se, nei casi di tirocini formativi da svolgersi presso lavoratori autonomi non configurabili come datori di lavoro, sia applicabile l’articolo 21 del D.Lgs. 81/2008, individuando particolari modalità per garantire la tutela e sicurezza del tirocinante o se invece il decreto vada applicato interamente, con conseguente e non indifferente aggravio di oneri a carico dell’imprenditore e possibili effetti sulla realizzabilità del tirocinio stesso». La Commissione ministeriale ha espresso, così, alcune indicazioni interpretative che, come vedremo, si pongono in piena sintonia con gli orientamenti dottrinali in materia rispondendo, sia pure indirettamente, al quesito sullo specifico caso deilavoratori autonomi prospettato dalla Provincia autonoma di Trento.

Si tratta, invero, di un indirizzo molto interessante che dovrebbe sopire definitivamente (si spera) ogni incertezza circa il tipo di regime generale applicabile, anche per gli stessi organi di controllo (Asl, Inl ecc.) nei confronti dei quali bisogna ricordare che le indicazioni fornite dalla Commissione nelle risposte ai quesiti costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza.

Regime ordinario del D.Lgs. 81/2008

Nell’interpello n. 4/2018, la Commissione del ministero del Lavoro, dopo aver ricostruito puntualmente l’evoluzione normativa che ha caratterizzato questi due strumenti, si è soffermata sui tirocinanti richiamando l’orientamento già assunto dallo stesso ministero in una risposta a un quesito pubblicato sul proprio sito istituzionale il 1° ottobre 2012, in cui ha tenuto a precisare che se un’azienda o uno studio professionale fa ricorso a soggetti che svolgano stage o tirocini formativi dovrà osservare gli stessi obblighi previsti per i lavoratori subordinati (informazione, formazione, addestramento, sorveglianza sanitaria ecc.) in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, che prevede un’equiparazione per effetto della quale il titolare dello studio o l’amministratore di un’impresa assume nei confronti anche di questi soggetti la posizione di datore di lavoro per la sicurezza.

Lo stesso principio, ha precisato la Commissione, trova applicazione anche nel caso degli studenti impegnati nei percorsi di alternanza scuola-lavoro previsti dalla legge n. 107/2015, in quanto il già citato art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, equipara esplicitamente ai lavoratori subordinati anche gli studenti impegnati secondo questo regime.

Ripartizione degli obblighi formativi

In ordine all’alternanza scuola-lavoro la stessa Commissione, poi, ha anche puntualizzato che la disciplina del D.Lgs. n. 81/2008 dovrà essere applicata tenendo presente anche di quanto prevede il decreto interministeriale 3 novembre 2017,

  1. 195, che oltre a prevedere la «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti» ribadisce in modo fermo l’essenza dello strumento – introducendo anche un tetto massimo al numero degli studenti impiegabili a livello di singola struttura ospitante – e detta all’art. 5 norme specifiche finalizzate alla tutela antinfortunistica degli studenti in alternanza, soprattutto per quanto riguarda la formazione e la sorveglianza sanitaria.

In particolare, per quanto riguarda la formazione, l’art. 5, comma 1, 2 e 3 del decreto n. 195/2017 prevede un meccanismo di ripartizione dell’obbligazione formativa, di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, tra istituzione scolastica e soggetto promotore.
L’obbligo della formazione generale in materia di sicurezza, infatti, di almeno quattro ore secondo quanto stabilisce l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 n. 221/Csr, ricade sull’istituzione scolastica. Sulla struttura ospitante, invece, ricade l’obbligo della formazione specifica da erogare all’ingresso dello studente nella stessa struttura: quindi le aziende non possono avvalersi della contestatissima disposizione contenuta nell’accordo del 21 dicembre 2011, che in caso di difficoltà stabilisce che il «percorso formativo deve essere completato entro e non oltre60 giorni dalla assunzione».

Nella convezione è possibile, comunque, stabilire «(…) il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri conseguenti». Questa disposizione appare, invero, poco chiara in quanto non si comprende se il ministero faccia riferimento agli oneri economici della formazione specifica o la possibilità che la formazione specifica possa essere erogata direttamente dalla scuola. In effetti al comma 2 è stabilito che è di competenza dei dirigenti scolastici l’organizzazione dei corsi di formazione.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, ciò non può che essere riferito alla formazione generale in quanto per quella specifica entra in gioco il Dvr delle singole strutture ospitanti le quali, per altro, durante la permanenza dello studente assumono la posizione di datore di lavoro per la sicurezza ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008.

Sorveglianza sanitaria

Per quanto, invece, riguarda la sorveglianza sanitaria occorre sottolineare che l’art. 5, comma 5, del decreto n. 195/2017, stabilisce che agli studenti in regime di alternanza è garantita la sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, nei casi previsti dalla normativa vigente3, attraverso le aziende sanitarie locali, con la possibilità di stabilire in un’apposita convenzione tra queste ultime e l’istituzione scolastica il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri a essa conseguenti.

Questa previsione sta creando non poche incertezze sul piano operativo e pone un problema di fondo: si tratta di una soluzione che mette fuori gioco il medico competente aziendale, ossia proprio il soggetto che ha una conoscenza approfondita del documento di valutazione dei rischi (Dvr) dell’azienda ospitante. Appare interessante far osservare, poi, che

su questo tema così delicato si è espresso recentemente anche l’ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna, che nella nota 8 maggio 2018, prot. 860, ha tenuto a precisare che riveste «(….) natura eccezionale – previa valutazione caso per caso – la necessità di attivare la sorveglianza sanitaria, considerate le peculiarità di questo tipo di metodologia didattica, lo sviluppo temporale delle attività previste, nonché lo svolgimento da parte dello studente di esperienze lavorative in affiancamento a personale della struttura ospitante e sotto la supervisione del tutor aziendale e scolastico, sulla base di un progetto personalizzato condiviso” e «In base alla esperienza e ai limiti imposti dalla norma, considerati i compiti che vengono richiesti agli studenti in alternanza scuola lavoro (affiancamento e non svolgimento diretto) e la limitata permanenza degli studenti nelle strutture, la predetta valutazione dovrebbe portare a escludere livelli di rischio tali da giustificare la sorveglianza sanitaria».

Minorenni e stage formativi

Si osservi, inoltre, che nello stesso interpello n. 4/2018 è anche richiamata molto opportunamente anche la risposta all’interpello del 2 maggio 2013, n. 1, in cui la Commissione ha fornito indicazioni in merito al quesito relativo alla visita medica preventiva nei confronti di studenti minorenni Partecipanti a stage formativi, precisando in particolare che «l’obbligatorietà della visita di cui all’art. 8 della legge 977/1967 vige solo nei casi in cui vi sia un rapporto di lavoro, anche speciale, circostanza che non sussiste per “l’adolescente stagista” e “lo studente minorenne” che dovranno pertanto essere sottoposti a sorveglianza sanitaria solo nei casi previsti dalla normativa vigente».

Abusi e limiti

L’interpello n. 4/2018 deve essere letto congiuntamente, comunque, anche con le importanti indicazioni espresse dal ministero dell’Istruzione (Miur) nella poco nota lettera circolare 28 marzo 2017, prot. n. 3355, nella quale vengono forniti alcuni chiarimenti interpretativi in merito al già citato decreto n. 195/2017, oltre che a numerosi altri aspetti legati alla gestione degli studenti in alternanza (buoni pasto, compensi a esperti aziendali per opera legata alle attività di alternanza scuola-lavoro ecc.).

In particolare, il Miur ha tenuto a precisare, tra l’altro, che gli studenti in alternanza scuola-lavoro devono essere costantemente guidati nelle varie esperienze da una o più figure preposte alla realizzazione del percorso formativo (tutor interno, tutor formativo esterno) e non possono essere impegnati nelle fasce notturne. Sotto questo profilo è opportuno ricordare che gli studenti vanno impiegati esclusivamente per le attività coerenti con le finalità didattiche-educative e ciò costituisce un limite invalicabile. Da rilevare ancora che nella stessa lettera circolare viene molto opportunamente sottolineato che l’accoglimento degli studenti minorenni per i periodi di apprendimento in situazione lavorativa non fa acquisire agli stessi la qualifica di “lavoratore minore” di cui alla già citata legge n. 977/1967.

Il caso dei lavoratori autonomi

Tornando all’interpello n. 4/2018, alcune doverose osservazioni conclusive devono essere svolte sul caso specifico dell’impiego di tirocinanti e studenti in alternanza da parte dei lavoratori autonomi a cui fa particolare riferimento la Provincia autonoma di Trento nel quesito presentato. Si tratta di artigiani, professionisti e, più in generale, di prestatori d’opera che, secondo quanto prevede l’art. 2222 del Codice civile, svolgono un’attività intellettuale o manuale con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, che ai fini antinfortunistici diventano datori di lavoro per la sicurezza quando occupano almeno un dipendente o un equiparato a esso dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008. Com’è noto, ai lavoratori autonomi si applica sostanzialmente solo l’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale gli stessi sono tenuti a utilizzare le attrezzature di lavoro e i Dpi conformi alla vigente normativa e il tesserino identificativo, con la facoltà relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali, nonché di frequentare corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37 dello stesso decreto.

Alla luce di quanto evidenziato più in generale dalla Commissione si può desumere, quindi, che questo regime di tutela più limitata dell’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, non è applicabile né ai tirocinanti né agli studenti in alternanza con il risultato che il questi casi il soggetto ospitante anche se è un lavoratore autonomo assume a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza con tutto ciò che ne consegue come, ad esempio, l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di redigere il Dvr, nominare il Rspp ecc, e tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani.

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Nel cantiere edile il rischio è dietro l’angolo

Alcune delle situazioni più tipiche che meritano particolare attenzione.

Spesso sono proprio le attività estemporanee o di breve durata a essere quelle maggiormente pericolose per gli operatori. Cattive abitudini o errate indicazioni possono rivelarsi fatali. Ma basta poco, a volte, per garantire la sicurezza, organizzativa e puntuale, dei lavoratori.

Nei cantieri edili, le lavorazioni estemporanee o di durata relativamente breve sono molto più numerose che in altri ambienti. Gli spazi di lavoro sono caratterizzati da situazioni sempre nuove e in esse si ricorre molto spesso a una valutazione del rischio comparata fra due diverse misure di sicurezza. In questo confronto può accadere che l’uso di una misura di sicurezza, per così dire, consolidata, perché di tipo oggettivo o di tipo collettivo, cioè una misura di sicurezza che per lavorazioni stabili o di lunga durata sarebbe senz’altro prioritaria, potrebbe non essere conveniente perché lavori per la sua installazione potrebbero introdurre nell’intero ciclo rischi non giustificati rispetto al beneficio, modesto per la brevità della lavorazione. In altre parole, i rischi valutati per il montaggio della misura di sicurezza, scelta perché ritenuta prioritaria, sommandosi a quelli della lavorazione di produzione sposterebbero il totale generale, superando quelli che si avrebbero utilizzando misure di sicurezza di tipo individuale o di altro tipo come potrebbe essere la costante presenza di un preposto.

I lavori di manutenzione ordinaria di un tetto a falde, come la sostituzione di alcune tegole o la pulizia della superficie dei pannelli solari o infine la rimozione del materiale che ostruisce le grondaie, rappresentano situazioni reali più significative e concettualmente più semplici a sostegno di questa affermazione. La priorità delle misure collettive1 spingerebbe a realizzare un ponteggio metallico, mentre una corretta valutazione del rischio suggerisce che il rischio di caduta nel montaggio dell’opera provvisionale di tipo collettivo sposta la somma dei rischi a un valore tale da renderli maggiori a quelli che si valuterebbero se il lavoro fosse eseguito con dispositivi di protezione individuale agganciati a una linea vita o anche a un unico punto di ancoraggio. In queste ultime procedure la probabilità di caduta in assoluto è maggiore, ma poiché il tempo di esposizione è molto modesto il rischio finisce per essere minore a quello valutato per il montaggio del ponteggio metallico.

Qualità

Quando il braccio è impennato e il tubo di getto si estende verso il basso in tutta la sua lunghezza nel tragitto verticale del tubo la forza di gravità si sostituisce in parte alla pressione di avanzamento del flusso. Questo produce una separazione fra materiale inerte (più veloce) e impasto di cemento (più lento) e quindi una diversa concentrazione della miscela nel manufatto finale, non favorevole alla buona qualità del prodotto. La strozzatura inserita dall’applicazione del collo d’oca ricompone in parte la miscela evitando una eccessiva disomogeneità del getto.

Proiezione di materiale

Quando si ha la necessità di spostare in continuazione la posizione del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trova nelle vicinanze degli operatori come nelle casseforme di travi di coronamento o di pareti verticali continue o di scale, l’estremità del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trovano nelle immediate vicinanze degli operatori (almeno due: manovratore e vibratore). Se, in questo caso, non si provvede a rallentare in qualche modo la velocità di uscita del calcestruzzo parte del materiale si proietta in tutte le direzioni e ricopre gli operatori di cemento.

Rilascio dopo l’arresto del pompaggio

Quando si opera il getto all’interno di una serie di casseforme di pilastri, il tubo di getto rilascia una significativa quantità di calcestruzzo anche dopo che il manovratore per spostarsi da una cassaforma all’altra, ha interrotto il pompaggio. La presenza di una chiusura a cerniera sul terminale del tubo trattiene la caduta libera del calcestruzzo lungo il percorso da una cassaforma all’altra. Indicazione: tenere il tubo fermo sopra la cassaforma in attesa del termine del rilascio, oltre a introdurre tempi di esecuzione molto lunghi, non dà mai risultati certi.

Meno comprensibile è invece la natura delle motivazioni del divieto di queste attrezzature, che talora si concentrano in un unico elemento costituito da un collo d’oca munito di dispositivo di chiusura all’imbocco. Le motivazioni sono tutte riferite all’intasamento del condotto e successiva improvvisa ripartenza del flusso di calcestruzzo.

Il fenomeno può causare un movimento incontrollabile del tubo di getto, il cosiddetto colpo di frusta, dotato di notevole energia cinetica con potenziali effetti devastanti per la rigidità e per la massa del tubo e per l’anello metallico che è presente comunque alla fine del tubo flessibile. Le procedure di coordinamento impongono azioni di sicurezza più importanti per la gestione delle operazioni necessarie allo sblocco del flusso di calcestruzzo: interruzione della manovra di pompaggio e immediato allontanamento del personale a distanza di sicurezza dall’attrezzatura, fino a che il getto non ritorni regolare.
Non è mai detto chiaramente sulle documentazioni di sicurezza prodotte, ma si è autorizzati a pensare, salvo prova contraria, che i suddetti divieti siano originati dal ritenere che il colpo di frusta del tubo di getto sia pericoloso se attrezzato con collo d’oca e tanto più se quest’ultimo sia dotato di chiusura all’imbocco. In realtà, per quanto già detto, il colpo di frusta, conseguenza di una ripartenza improvvisa del flusso a seguito di un intasamento, è pericoloso a prescindere dalla presenza del collo d’oca.
È ovvio che la pericolosità possa aumentare per l’applicazione sul tubo di una parte metallica di riguardevole massa, ma questo aumento si potrebbe ripercuotere su un lavoratore solo se si contravviene manifestamente alla procedura data. Quindi, da una parte l’uso del collo d’oca non deve essere generalizzato, ma consentito solo nei casi descritti, quando cioè viene richiesto per motivi tecnici, ergonomici e di sicurezza, dall’altra non è corretto impartire restrizioni non ergonomiche alle lavorazioni perché si teme che procedure fondamentali non vengano rispettate.

In altre parole, se – nonostante nelle procedure di coordinamento siano state previsti determinati comportamenti per eliminare i rischi d’infortunio in caso del colpo di frusta – si vuole vietare il collo d’oca per timore che il pompista non rispetti questi comportamenti, non solo si perde di vista il rischio fondamentale costituito dal tubo anche senza collo d’oca, ma si rendono inutili le misure di sicurezza fondamentali. Ovvero, in altre parole, sarebbe come vietare la presenza di corpi contundenti sul fondo di un scavo perché, in assenza di u parapetto, una eventuale caduta da quelli sarebbe aggravata.

Noleggio a caldo di piattaforme aeree

È noto l’obbligo, per alcune piattaforme aeree, in base al quale le manovre siano effettuate da un operatore a bordo della piattaforma. La posizione del manovratore a terra, o in qualsiasi altra parte, potrebbe essere tanto lontana dal cestello in movimento, a bordo del quale stazionano altri lavoratori, da causare errori di valutazione di distanze o di presenza di ostacoli. Non sono stati infrequenti gravi infortuni per errori di manovra da parte di manovratori a terra o all’interno della cabina dell’automezzo che trasporta la piattaforma. L’obbligo è comprensibile e di normale attuazione quando l’attrezzatura è usata nell’ambito dell’azienda proprietaria del mezzo; diventa problematico nel caso di noleggio con operatore.
Questi, sentendosi estraneo a qualsiasi operazione venga eseguita in quota, manovra sempre da terra. Se interpellato sulla regolarità di questo tipo di postazione, l’operatore si identifica nel soggetto della manovra di emergenza e sostiene che solo da terra si può procedere a questa operazione. La situazione è sottovalutata e la motivazione è superficiale. Il rispetto delle istruzioni di manovra è tassativo. Ma è anche vero che, con tutto il rispetto dell’importanza della formazione, le istruzioni per questa manovra sono piuttosto semplici e questa si effettua sempre a motore spento.

Con una chiave si accede al quadretto di emergenza. La manovra avviene con un comando, a pulsante o a leva, che libera il fluido verso il serbatoio attraverso una valvola limitatrice di flusso, provocando la discesa per gravità della piattaforma a velocità controllata. Se le istruzioni prescrivono la manovra a bordo della piattaforma, il manovratore, prima delle operazioni, istruisce un soggetto dell’impresa che ha preso a noleggio l’attrezzatura, gli consegna la chiave del quadretto, stabilisce un contatto vocale con lo stesso e sale a bordo della piattaforma. All’inizio di ogni giornata lavorativa successiva ripete queste istruzioni prima di incominciare le operazioni.

Ponteggio all’interno dei vani ascensori

Il sistema migliore per eliminare il rischi di caduta nel vano ascensore durante il lungo intervallo di tempo che separa la costruzione della struttura di cemento armato (quasi all’inizio dell’opera) dall’istallazione dell’impianto (quasi alla fine dell’opera) consiste nel costruire fin da subito all’interno il ponteggio di tubi e giunti, a servizio del futuro montaggio, con ripiani in corrispondenza dei solai.

Negli edifici di civile abitazione, la distanza fra un piano e l’altro varia da 270 a 300 cm. Poiché il regolamento prescrive che gli impalcati distanti più di 2,50 m devono essere dotati di sottoponte, fra due ripiani consecutivi dovrebbe essere realizzato un impalcato che abbia questa funzione. Poiché nel nostro caso l’obbligo è generato dal superamento dell’altezza limite fissata dal regolamento di appena 20-50 cm e poiché la costruzione del sottoponte, come ogni altra lavorazione in quota, introduce nella lavorazione un rischio di caduta dall’alto, è lecito chiedersi se esiste un’altra misura di sicurezza che risponda alle finalità del sottoponte4 che non presenti gli stessi rischi durante la costruzione. La sostituzione del sottoponte con il raddoppio dello strato di tavole del ripiano soddisfa alle condizioni poste. Infatti, da una parte, come nel caso del sottoponte, c’è il raddoppio dell’opera provvisionale e, dall’altra, il posizionamento di un secondo strato di tavole sui ripiani del ponteggio non comporta alcun rischio di caduta.

Abbigliamento

A parte alcune lavorazioni tradizionali (saldatura) od occasionali di particolare natura nelle quali l’abbigliamento di sicurezza deve coprire l’intero corpo, la riduzione dell’abbigliamento nella parte superiore del corpo durante la stagione estiva deve arrestarsi alla maglietta con mezze maniche. Al contrario, poiché la continuità del tessuto nei pantaloni normali può costituire impaccio nell’articolazione in caso di abbondante sudorazione, nella parte inferiore si possono consentire pantaloni a mezza gamba e scoprire le ginocchia. Pertanto, occorre raccomandare ai datori di lavoro di non permettere ai lavoratori di operare in canottiera, né tanto meno a torso nudo e di controllare che i lavoratori che optano per il pantalone a mezza gamba indossino tassativamente i calzini per proteggere la parte inferiore della gamba.

Dopo avere ribadito la riserva per le lavorazioni nelle quali la protezione obbligatoria fornita dall’abbigliamento non potrà essere ridotta per alcun motivo, conviene supportare entrambe le posizioni assunte, mai trattate nei manuali di prevenzione infortuni e igiene del lavoro, con esempi tratti dall’esperienza quotidiana di cantiere. I lavoratori che frequentemente tendono a lavorare a torso nudo sono spesso i ferraioli. Invitati a mantenere un abbigliamento più confacente a un ambiente di lavoro, protestano lamentandosi del caldo estivo.

Questo atteggiamento nasce, naturalmente, da un pregiudizio: senza entrare nel merito dei tumori della pelle, artigiani di esercizi alimentari o lavoratori delle fonderie lavorano tutto l’anno in ambienti termicamente molto più severi senza spogliarsi. Riguardo, invece, alla possibilità concessa ai lavoratori di indossare nella stagione calda pantaloni lunghi fino a sopra il ginocchio, appare scontato che se l’abbigliamento fosse completato con calzini lunghi, à la coloniale, il rischio dovuto alla piccola parte scoperta che rimarrebbe sarebbe trascurabile rispetto ai vantaggi ergonomici di avere la completa libertà nell’articolazione degli arti inferiori.

Ma, altro è parlare di una divisa militare nella quale si può pretendere per disciplina una correttezza assoluta e altro è disporre che queste regole vengano rispettate nell’ambiente dei cantieri. Si rimane in ogni caso dell’avviso che nei giorni più caldi il pantalone sopra al ginocchio, accompagnato da un paio di calzini qualsiasi, sia più conveniente di quello lungo.

Passaggio di carichi sospesi

Il pericolo costituito da un carico sospeso, trattato nella vecchia normativa con un divieto riferito alla manovra dei carichi, nel D.Lgs. 81/2008 si è trasformato in un divieto di sostare riferito ai lavoratori. A parte che, in ogni caso, gli obblighi fanno capo al datore di lavoro, sfugge la ragione di questa variazione. Qualsiasi divieto riguardante i carichi sospesi è in ogni caso molto difficile da gestire. Da un lato, lo spostamento continuo delle lavorazioni nel cantiere e dei lavoratori nelle lavorazioni non consente di stabilire traiettorie del carico sgombre da persone; dall’altra ci sono situazioni nelle quali le operazioni di sollevamento carichi sono così frequenti e numerose che gli avvisi acustici lanciati dal gruista perdono la loro funzione di allarme.

Si assiste, in questo caso, a una sorta di atteggiamento indifferente da parte dei lavoratori: rimangono dove sono senza neanche dirigere lo sguardo verso l’alto per allertarsi. Poiché, peraltro, emerge nei colloqui con gli interessati, la causa per la quale non ci si allerta alzando il capo verso il cielo è talvolta il timore che l’elmetto scivoli dal capo, è una buona occasione per spezzare una lancia in favore dell’elmetto con sottogola che, oltre a permettere ai lavoratori una maggiore libertà di movimento, dovrebbe essere prescritto nei cantieri, dove lo scivolamento dell’elmetto verso le ampie aperture verso l’esterno o nel transito dei ponteggi o nei vani scala potrebbe avere dannose conseguenze.

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Ponteggi e autorizzazioni: le novità dal Ministero del Lavoro

L’adempimento va svolto, in base al D.Lgs. n. 81/2008, ogni dieci anni.

Con la circolare 28 maggio 2018, n. 10, chiarite le modalità con cui presentare le richieste di rinnovo per la costruzione e l’impiego. Dei contenuti si sta occupando un apposito gruppo incaricato di fare il punto sul progresso tecnico che ha interessato questo tipo di attrezzature per il cantiere.

La costruzione e l’impiego dei ponteggi realizzati con elementi portanti prefabbricati, metallici o no, sono disciplinati dalle norme contenute nella sezione V «Ponteggi fissi» del D.Lgs n. 81/2008 (articoli 131-137).

L’art. 131 stabilisce che per ciascun tipo di ponteggio il fabbricante debba chiedere al ministero del Lavoro l’autorizzazione alla costruzione e all’impiego, corredando la domanda da una relazione nella quale devono essere specificati i seguenti elementi:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

Il comma 5 dell’art. 131 specifica che «l’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». Il rilascio da parte del ministero dell’autorizzazione alla costruzione e all’impiego dei ponteggi era previsto già nel D.P.R. 164/1956 all’art. 30. Dal 1973 il ministero ha emesso un migliaio circa di provvedimenti (autorizzazioni, estensioni, volture) che, fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008 (14 maggio 2008), avevano durata illimitata.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto testo unico della sicurezza, il legislatore ha posto attenzione alla questione del periodo di validità dell’autorizzazione ministeriale e, per questo motivo, nel decreto fu inserito un comma specifico «L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». L’uscita della circolare 10/2018 ha permesso al ministero di dare prima applicazione alla previsione contenuta nel citato comma.

Ciò comporta di analizzare lo stato di evoluzione del progresso tecnico in merito alla costruzione dei ponteggi fissi, in relazione anche ai criteri e alle modalità con cui nel passato sono state rilasciate le autorizzazioni, e tenendo conto degli elementi contenuti nell’articolo 132 e cioè:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

È dunque necessario stabilire il significato di «evoluzione del progresso tecnico» che può essere inteso come un «processo di creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie» e «può derivare dall’aumento di conoscenze e capacità o dal miglioramento della qualità o delle caratteristiche di uno o più fattori produttivi».

Riguardo ai ponteggi metallici questo concetto va applicato alle istruzioni per la costruzione e l’impiego che, alla luce di quanto sopra specificato, possono essere influenzate dalla «creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie».

Identificare, stabilire e definire come si evolvano tecnicamente i ponteggi non è immediato. L’entrata in vigore di una nuova norma tecnica o di uno standard Cen o Uni – ad esempio – potrebbe essere considerata in questo senso.
L’evoluzione del progresso tecnico relativo ai ponteggi potrebbe scaturire da:

  • studi e ricerche per lo sviluppo e la validazione di metodologie e procedure dedicate alla fornitura, progettazione, montaggio, smontaggio, trasformazione e uso;
  • elaborazione di modalità applicative, svolgimento di attività sperimentale e sviluppo di modelli utilizzabili per la valutazione del rischio in relazione all’impiego;
  • effettuazione di verifiche di carattere progettuale e di prove sperimentali per la messa a punto di codici dedicati alla valutazione dei livelli di sicurezza.

Per poter adempiere a quanto contenuto nel comma 5, il ministero del Lavoro, (Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali) ha costituito un apposito gruppo di lavoro tecnico composto di rappresentanti del ministero stesso, del servizio tecnico centrale del Consiglio superiore dei lavori pubblici, dell’Inail e dell’Istituto per le tecnologie della costruzione del Cnr.
Il gruppo di lavoro ha lo scopo di elaborare un documento tecnico riguardante le norme tecniche specifiche sui ponteggi fissi e

provvedere successivamente all’aggiornamento delle istruzioni per la costruzione e l’impiego. Il documento tecnico elaborato dal gruppo consentirà al ministero di definire le indicazioni tecniche aggiornate necessarie a verificare l’adeguatezza delle autorizzazioni vigenti all’evoluzione del progresso tecnico.
La circolare 10/2018 tiene conto dei contenuti nella circolare 29 del 27 agosto 2010 dello stesso ministero del Lavoro e in particolare del quesito 1 «In riferimento all’articolo 131, comma 5 del D.lgs. n. 81/08 cosa si intende per L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico?»
La risposta al quesito fu che «La validità decennale delle autorizzazioni ministeriali, rilasciate prima del 15 maggio 2008, data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008, decorre dalla medesima data, quindi detta validità si intende estesa fino al 14 maggio 2018. Per quelle autorizzazioni ministeriali rilasciate successivamente al 14 maggio 2008 la validità decorrerà dalla data di rilascio.

Si ricorda altresì che l’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale di cui all’articolo 131 del D.Lgs. 81/2008 riguarda il titolare dell’autorizzazione ministeriale e non l’impresa utilizzatrice. Pertanto l’impresa utilizzatrice potrà impiegare i ponteggi anche dopo la cessazione della validità decennale dell’autorizzazione medesima. Si evidenzia, infine, che l’autorizzazione ministeriale si intenderà automaticamente sospesa, nei soli confronti del titolare dell’autorizzazione medesima, in assenza dell’avvenuto rinnovo decennale».

L’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale è in capo al titolare della stessa e non all’impresa utilizzatrice che non è coinvolta in questo iter. Essa potrà continuare a impiegare i ponteggi anche dopo la eventuale cessazione della validità decennale. La problematica del rinnovo non riguarda quindi i soggetti che utilizzano il ponteggio: imprese, lavoratori autonomi, artigiani ecc.

Il mantenimento in vigore del sistema autorizzativo sui ponteggi presuppone la conoscenza da parte del ministero delle autorizzazioni per le quali i fabbricanti sono interessati al proseguimento della produzione.

Ciò al fine di poter avviare, una volta disponibili le nuove indicazioni tecniche, la necessaria istruttoria per verificarne l’adeguatezza secondo quanto previsto dal comma 5.

A tal fine, il ministero ha richiesto ai titolari di trasmettere apposita istanza di rinnovo corredata da:

  • copia delle singole autorizzazioni a suo tempo rilasciate dal ministero stesso;
  • dichiarazione resa dal legale rappresentante riguardo il mantenimento dei requisiti di sicurezza del ponteggio;
  • dichiarazione dalla quale risulti che la produzione del ponteggio è tuttora in corso.

La circolare 10/2018 prevede la revoca delle autorizzazioni ministeriali per cui non è stata trasmessa l’istanza di rinnovo entro il 15 giugno 2018. Le autorizzazioni per le quali sia stata presentata istanza di rinnovo saranno decise sulla base delle indicazioni tecniche attualmente vigenti nelle more della definizione delle norme tecniche specifiche da parte del gruppo di lavoro tecnico citato.

Una volta disponibili le nuove norme tecniche, il ministero renderà noti ai titolari dei provvedimenti termini e modalità per la revisione delle autorizzazioni rinnovate medio tempore.

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Sicurezza sul lavoro: inasprite le sanzioni

L’aumento, in vigore dal 1° luglio 2018 e pari all’1,9%, è stato determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registrata nel quinquennio 2013-2018, sommandosi al contestato incremento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a una crescita dell’11,50%.

Nel corso dell’ultimo decennio, uno dei dati che, forse, spesso sfugge è che il sistema sanzionatorio italiano per gli illeciti derivanti dalla violazione di norme antinfortunistiche ha subito diverse modifiche e, soprattutto, i diversi governi che si sono succeduti hanno quasi puntualmente operato un giro di vite sugli importi delle ammende e delle sanzioni amministrative pecuniarie. Solo per ricordare alcuni dei passaggi più significativi di questa evoluzione occorre richiamare il D.Lgs. n. 106/2009 (il cosiddetto “correttivo al testo unico”) che ha introdotto un meccanismo d’indicizzazione delle sanzioni previste dal D. Lgs. n. 81/2008, per poi passare al D.L. n. 76/2013 che ha apportato importanti modifiche a questo meccanismo, fino ad arrivare all’art. 20, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 151/2015, che ha inserito nell’art. 55 del D.Lgs. n. 81/2008 il comma 6-bis in base al quale, in caso di violazione delle disposizioni previste dall’art. 18, comma 1, lettera g), in materia di visite mediche, e dall’art. 37, commi 1, 7, 9 e 10, in materia di formazione obbligatoria delle figure della prevenzione, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori gli importi della sanzione sono raddoppiati, mentre se si riferisce a più di dieci lavoratori gli importi della sanzione sono addirittura triplicati.

Insomma, malgrado un miglioramento del trend infortunistico, almeno fino al 2017 secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inail nell’ultimo rapporto annuale, il dato che emerge è che si stia giocando sempre più al rialzo attraverso continui giri di vite. L’ultimo è stato attuato con il decreto direttoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro 6 giugno 2018, n. 12 (comunicato di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 19 giugno 2018, n. 140), che ha determinato nella misura dell’1,9% la rivalutazione delle sanzioni pecuniarie. Il provvedimento arriva dopo il via libera del ministero del Lavoro che con nota del 18 aprile 2018 ha stabilito la competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro a regolare la materia, ed è stato emanato in attuazione dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, che ha novellato il comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, riscrivendo completamente e in modo peggiorativo il sistema d’indicizzazione su base quinquennale delle sanzioni penali e amministrative pecuniarie introdotto originariamente dal già citato D.Lgs. n. 106/2009. Si tratta, quindi, di un ulteriore inasprimento del sistema sanzionatorio in quanto il nuovo aumento dell’1,9%, in vigore dal 1° luglio 2018 e determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registratasi nel quinquennio 2013-2018, si somma al contestato aumento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a un incremento complessivo delle sanzioni dell’11,50%. Troppo, in soli cinque anni, per altro con un quadro economico nazionale che evidenzia che il Paese non è ancora uscito effettivamente dalla crisi. Per altro, il decreto n. 12/2018 pone anche una serie di questioni applicative legate soprattutto alle tipologie di illeciti interessati dall’aumento, la determinazione dei nuovi importi e i riflessi sulla sospensione dell’attività d’impresa e per questi motivi molto opportunamente l’Ispettorato nazionale del lavoro è corso subito ai ripari emanando la lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314.

Quali illeciti

Per quanto riguarda le tipologie di illeciti attratti dall’incremento, occorre subito evidenziare che la portata dell’aumento è generalizzata e non circoscritta, quindi, alle sole sanzioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008.

Si consideri, infatti, che la misura dell’1,9% si applica alle sanzioni penali pecuniarie di natura contravvenzionale (ammende) e amministrative pecuniarie previste non solo dal D.Lgs. n. 81/2008, ma anche da altri atti aventi forza di legge come decreti legge, decreti legislativi e leggi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. Di conseguenza, questo nuovo rincaro interessa una vastissima gamma d’illeciti come, ad esempio, quelli in materia di valutazione dei rischi e di redazione del relativo documento (artt. 17, 28, 29 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), d’informazione e formazione (art. 36, 37 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), di visite mediche (art. 41, D.Lgs. n.81/2008), di tesserino identificativo negli appalti, di cantieri temporanei e mobili, di documento unico di valutazione dei rischi da interferenze negli appalti (Duvri) e di Durc (art. 90, comma 9, lett. c), D.Lgs n. 81/2008) e la mancata comunicazione all’Inail del nominativo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 18, comma 1, lett. aa, D.Lgs n. 81/2008). L’aumento, inoltre, tocca anche le sanzioni penali e amministrative previste da altriprovvedimenti tra i quali occorre ricordare:

  • il D.Lgs. n. 271/1999, relativo alla salute e sicurezza nel lavoro marittimo;
  • il D.Lgs. n. 272/1999, relativo alla sicurezza in ambito portuale e nelle operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi;
  • il D.Lgs. n. 624/1996, relativo alla sicurezza e la salute nelle attività estrattive di sostanze minerali;
  • il D.Lgs. n.298/1999, relativo a salute e sicurezza a bordo delle navi da pesca.

I destinatari dell’aumento in questione non sono, quindi, solo i datori di lavoro, ma anche i dirigenti, i preposti, i lavoratori e altri soggetti come i coordinatori nei cantieri, il medico competente, i progettisti, i fabbricanti, gli installatori, i venditori, nonché i committenti (anche privati) degli appalti di lavori edili.

Il principio del “favor rei”

Collegato a questo ulteriore aumento è anche il problema della rilevanza delle condotte illecite commesse prima del 1° luglio 2018; in effetti la soluzione la si rintraccia già nel testo dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, dopo le modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 99/2013.

Questa disposizione, infatti, nella sua versione finale ha inserito nel corpo del comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, la specificazione che l’applicazione della rivalutazione del 9,60% avviene a decorrere dal 1° luglio 2013, e con riferimento «esclusivamente alle sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data».

Nel decreto n. 12/2018, però, è stato riportato il testo del citato comma 4-bis del D.Lgs. n. 81/2008, ma vigente prima delle modifiche della legge n. 99/2013; nella già citata lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, tuttavia, si chiarisce che «L’incremento dell’1,9% va calcolato sugli importi delle sanzioni attualmente vigenti e, analogamente a quanto previsto nella precedente rivalutazione, si applica esclusivamente alle ammende e alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per le violazioni commesse successivamente al 1° luglio 2018». In altri termini, quindi, in virtù del principio del favor rei (la tutela dell’imputato) per stabilire se trova applicazione o meno anche la nuova maggiorazione dell’1,9% occorrerà fare riferimento non al momento in cui l’illecito è stato contestato dagli organi di vigilanza, ma quando lo stesso è stato consumato dall’autore.

Sospensione

Alcune riflessioni devono essere compiute anche per quanto riguarda la sospensione dell’attività d’impresa regolata dall’art. 14 del D.Lgs. n.81/2008. Com’è noto, gli organi di vigilanza possono adottare provvedimenti di sospensione in relazione alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (cfr. allegato I, D.Lgs. n. 81/2008).

Si è posto il problema di stabilire, quindi, se sono attratte dall’incremento dell’1,9% anche le somme aggiuntive previste per la revoca del provvedimento di sospensione previsto dal comma 4 del già citato art. 14, ossia di 2 mila euro nell’ipotesi di sospensione per lavoro irregolare e di 3.200 euro nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

L’Ispettorato nazionale del lavoro, però, molto prontamente nella lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314, riprendendo l’orientamento già espresso in merito dal ministero del Lavoro nella circolare 29 agosto 2013, n. 35, ha tenuto a precisare che questo ulteriore aumento dell’1,9% non si applica alle richiamate somme aggiuntive in quanto le stesse non costituiscono propriamente una sanzione. Occorre sottolineare ancora che, per effetto di questo adeguamento, il datore di lavoro che non ottempera al provvedimento di sospensione nelle ipotesi d’impiego di lavoro irregolare dal 1° luglio 2018 è punito con arresto da tre a sei mesi o l’ammenda da 2.792,00 euro a 7.147,68 euro.

No agli arrotondamenti

Resta da osservare che per quanto riguarda la determinazione dei nuovi importi lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro, nella circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, ha anche precisato che «L’attuale disciplina non prevede arrotondamenti sull’ammontare finale dell’ammenda e della sanzione amministrativa incrementata dell’1,9% e pertanto non va applicato alcun arrotondamento delle cifre risultanti dal calcolo».

Si osservi che nell’operare questo calcolo potrebbe verificarsi un po’ di confusione. Infatti, nei testi ufficiali, gli importi delle sanzioni del D.Lgs. n. 81/2008 degli altri provvedimenti richiamati non sono stati aggiornati – alcuni riportano ancora gli importi in lire – e di conseguenza sull’ammontare originario dell’ammenda e della sanzione pecuniaria amministrativa andrà applicato il 9,60% (incremento dal 1° luglio 2013) maggiorato dell’1,9%.

Da rilevare, infine, che allegato alla lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, è riportato un utile quadro riepilogativo delle ammende e delle sanzioni pecuniarie più ricorrenti con indicazione degli importi rivalutati per effetto del decreto n. 12/2018.

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Antincendio nelle scuole: nuove norme al via

Pubblicato il decreto del ministero dell’Interno 21 marzo 2018. Con il provvedimento, sono state introdotte ulteriori indicazioni per l’adeguamento degli edifici destinati alla didattica, compresi gli asili nido. Uno strumento finalizzato a supportare la messa in sicurezza delle strutture dopo le molte – troppe – proroghe.

Con la pubblicazione del decreto ministeriale 21 marzo 2018, avvenuta sulla Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2018, sono state divulgate ulteriori indicazioni per l’adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole, compresi quelli adibiti ad asili nido. Di fatto, siamo in presenza di un nuovo strumento realizzato per supportare la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici la cui esecuzione, dopo numerosissime proroghe, avrebbe dovuto concludersi entro il 31 dicembre del 2017. Al riguardo non è superfluo ricordare che il primo atto avente forza di legge fu emanato nel lontano 1992. In particolare, i tecnici del ministero dell’interno, attraverso il D.M. 26 agosto 19921, avevano puntualmente individuato le misure da attuare per garantire alti livelli di sicurezza antincendio nell’edilizia scolastica e avevano stabilito che l’adeguamento di tutti gli edifici dovesse concludersi entro cinque anni. Purtroppo questa scadenza è stata oggetto di numerose proroghe e altrettante linee guida.

In questo quadro, particolare importanza ha rivestito il decreto del ministero dell’Interno 12 maggio 2016, attraverso il quale era stato fissato il piano definitivo per l’adeguamento delle scuole alle norme di prevenzione incendi. In particolare, il ministero dell’Interno con questo decreto aveva fissato puntuali scadenze entro le quali tutti gli istituti scolastici avrebbero dovuto attuare le misure di prevenzione e protezione specificate dal decreto del 1992. Il piano, contenuto nell’articolo 1 del decreto 12 maggio 2016, fissava due scadenze: il primo termine era previsto per la fine di agosto 2016 (prima della ripresa delle attività scolastiche); il secondo era fissato per la fine di novembre dello stesso anno. Nel dettaglio, con l’articolo 1 del D.M. 12 maggio 2016 era stato prescritto che entro il 26 agosto 2016, se non ancora compiuti, in tutti gli edifici scolastici si sarebbe dovuto intervenire per garantire impianti elettrici sicuri, per la rapida segnalazione degli allarmi, per segnalare la presenza di presidi antincendio e instalattare la segnaletica di sicurezza; infine, si sarebbero dovute adottare procedure di esercizio. La seconda scadenza prevista era quella del 26 novembre 2016. Al riguardo erano previsti adeguamenti differenti secondo il periodo di realizzazione degli edifici. In particolare, erano individuati tre casi: scuole preesistenti alla data di entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975, scuole realizzate successivamente all’entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975 ed entro la data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992 e scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992.

Per le prime era stabilito che doveva essere data attuazione alle misure di cui ai punti 2.4, 3.1, 5 (5.5 larghezza totale riferita al solo piano di massimo affollamento), 6.1, 6.2, 6.3.0, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. In effetti, per questi edifici era previsto l’adeguamento alle disposizioni concernenti le separazioni (e compartimentazioni), la reazione al fuoco dei materiali presenti, le misure per l’evacuazione in caso di emergenza, quelle previste per gli impianti elettrici e i mezzi e gli impianti di protezione ed estinzione degli incendi. Per le scuole che ricadevano nella seconda tipologia era invece prevista l’attuazione delle misure di cui ai punti 2.4, 3, 4, 5, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. Di fatto, per questi edifici era richiesto anche il rispetto delle specifiche dettate per la resistenza al fuoco delle strutture, la compartimentazione, le scale, gli ascensori, per l’evacuazione in caso di emergenza e servizi tecnologici.

Infine, per le scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992, era richiesto il rispetto di tutte le misure specificate nello stesso decreto, senza alcuna esclusione.
È opportuno evidenziare che tutti gli adeguamenti avrebbero dovuto comunque essere attuati entro il 31 dicembre 2016 (lettera c), 1 comma, art. 1). Purtroppo anche queste scadenze sono state oggetto di proroghe. In particolare con l’art. 4, comma 2 del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244 coordinato con la legge di conversione 27 febbraio 2017, n. 19 recante “Proroga e definizione di termini” (il cosiddetto “Milleproroghe”) tutti gli adeguamenti previsti dal D.M. 12 maggio 2016 sono stati posticipati al 31 dicembre 2017.

Oggi, alla luce del fatto che alla data del 31 dicembre 2017 è scaduto il termine di adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole di qualsiasi tipo, ordine e grado (compresi gli asili nido), il ministero dell’Interno, ferma restando l’integrale osservanza del decreto del 26 agosto 1992, ha individuato tre livelli di priorità programmatica:

  • livello di priorità A: disposizioni di cui al D.M. 26 agosto 1992 ai punti 7.1 (limitatamente al secondo comma) lettere a) e b); 8; 9.2; 10; 12;
  • livello di priorità B: disposizioni di cui al Dm 26 agosto 1992 ai punti 6.1; 6.2; 6.4; 6.6 (limitatamente al punto 6.6.1); 9.3;
  • livello di priorità C: restanti disposizioni del DM 26 agosto 1992.

Livello di priorità A

Il primo livello di priorità prevede inizialmente l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 7.1, (limitatamente al secondo comma, lettere a) e b)) concernete l’impianto elettrico di sicurezza che, si ricorda, oltre al sistema di allarme, deve alimentare anche quello di illuminazione di sicurezza, garantendo un livello di illuminazione non inferiore a cinque lux. Si evidenzia che l’alimentazione dell’impianto di sicurezza deve potersi inserire anche con comando a mano posto in posizione conosciuta dal personale, che sono ammesse singole lampade, o gruppi di lampade, con alimentazione autonoma e che l’autonomia della sorgente di sicurezza non deve essere inferiore a trenta minuti. Nel caso in cui siano impiegati dispositivi di carica degli accumulatori, è inoltre previsto l’impiego di prodotti di tipo automatico che consentano la ricarica entro dodici ore.

Per il sistema di allarme (disposizioni di cui al punto 8 del D.M. 26 agosto 1992), incluse nel «livello di priorità A», è previsto che le scuole debbano essere munite di un sistema in grado di avvertire gli alunni e il personale presenti in caso di pericolo. Questo sistema deve essere realizzato in modo da garantire la segnalazione del pericolo a tutti gli occupanti il complesso scolastico e il suo comando deve essere posto in locale costantemente presidiato durante il funzionamento della scuola.

Si segnala che per le scuole di tipo 0-1-2 il sistema di allarme può essere costituito, dallo stesso impianto a campanelli usato normalmente per la scuola. Per le altre scuole è invece previsto un impianto di altoparlanti.

Per quanto concerne gli estintori d’incendio, per l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 9.2 D.M. 26 agosto 1992 deve essere prevista l’installazione di estintori portatili di capacità estinguente non inferiore 13 A – 89 BC, in ragione di almeno un estintore per ogni 200 m2 di pavimento o frazione, con un minimo di due estintori per piano. Si segnala che nel primo livello di priorità programmatica ricade anche l’adeguamento alle disposizioni cogenti in materia di segnaletica di sicurezza (punto 10 D.M. 26 agosto 1992). Al riguardo è opportuno evidenziare che, attualmente, il D.Lgs. 81/2008 affronta questo argomento negli articoli 161 e 162.

Infine, per le norme di esercizio, comprese nelle priorità di tipo A, si ricorda che per l’adeguamento alle regole di prevenzione incendi deve essere predisposto un registro dei controlli periodici ove sono annotati tutti gli interventi e i controlli relativi all’efficienza degli impianti, dei presidi antincendio, dei dispositivi di sicurezza e di controllo, delle aree a rischio specifico e dell’osservanza della limitazione dei carichi d’incendio nei vari ambienti dell’attività.
Inoltre, deve essere predisposto un piano di emergenza e devono essere eseguite prove di evacuazione, almeno due volte nel corso dell’anno scolastico. Inoltre, devono essere rispettate altre disposizioni finalizzate a garantire che siano sempre rispettate le norme di sicurezza e che gli impianti, le attrezzature e le aree siano sottoposte a regolare manutenzione, il sistema di vie di esodo sia sempre funzionante e, infine, che il materiale infiammabile sia depositato in quantità strettamente necessarie per esigenze igienico-sanitarie e per l’attività didattica e di ricerca.

Livello di priorità B

Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel secondo livello di priorità (priorità B) l’adeguamento 6.4, 6.6 e 9.3 del decreto 26 agosto 1992. Di fatto, in questo caso l’intento dei tecnici del ministero dell’Interno è di suggerire la programmazione di interventi volti all’innalzamento dei livelli di sicurezza anche negli spazi a rischio specifico come i locali per le esercitazioni, i depositi, i servizi tecnologici, gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche, le autorimesse e le aree per servizi logistici (mense, dormitori).

Al riguardo, si evidenzia che per gli spazi per le esercitazioni (e i locali per depositi annessi) la regola tecnica di prevenzione incendi prevede che siano ubicati ai piani fuori terra o al 1° interrato, fatta eccezione per i locali ove vengono utilizzati gas combustibili con densità superiore a 0,8 che, si ricorda, devono essere ubicati ai piani fuori terra senza comunicazioni con i piani interrati. Per questi spazi è inoltre previsto che, indipendentemente dal tipo di materiale impiegato nella realizzazione, le strutture di separazione devono sempre avere caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Le comunicazioni tra il locale per le esercitazioni e il locale deposito annesso, devono essere munite di porte dotate di chiusura automatica aventi resistenza al fuoco almeno Rei 60.

Particolare attenzione deve essere data alle aree dove sono utilizzate e depositate sostanze radioattive o macchine radiogene. Al riguardo, si ricorda che questi locali – da realizzare in modo da consentire che eventuali operazioni di decontaminazione avvengano in modo agevole – devono essere predisposti per la raccolta e il successivo allontanamento delle acque di lavaggio o di estinzione di principi di incendio. Gli spazi per le esercitazioni dove sono maneggiate sostanze esplosive, o infiammabili, devono essere provvisti di aperture di aerazione permanente, ricavate su pareti attestate all’esterno di superficie pari a un ventesimo della superficie in pianta del locale. È opportuno evidenziare che nel caso di manipolazione di gas con densità superiore a 0,8 delle predette aperture di aerazione, la regola tecnica prevede che almeno un terzo della superficie complessiva sia costituita da aperture, protette con grigliatura metallica, situate nella parte inferiore della parete attestata all’esterno e poste a filo pavimento.

Per quanto concerne l’adeguamento degli spazi per depositi, che possono essere ubicati ai piani fuori terra o ai piani uno e due interrati, è necessario verificare che abbiano caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Anche per questi locali l’accesso deve avvenire tramite porte almeno Rei 60 dotate di dispositivo di autochiusura. Per quanto riguarda la superficie massima lorda di ogni singolo locale, si ricorda che non può essere superiore a mille metri quadrati per i piani fuori terra e 500 metri quadrati per i piani uno e due interrato. Per questi locali devono essere previste aperture di aerazione con superficie non inferiore a un quarantesimo della superficie in pianta (protette da robuste griglie a maglia fitta). Per quanto concerne il carico di incendio, si ricorda che quello di ogni spazio adibito a deposito non deve superare i 30 kg/m2 e che, nel caso in cui questo limite dovesse essere superato, deve essere prevista l’installazione di un impianto di estinzione incendi di tipo automatico. Tra le misure da attuare per l’adeguamento degli spazi dedicati a depositi, si ricorda anche quello relativo alla presenza di estintori portatili d’incendio. Per questo aspetto, la regola stabilita dal decreto 26 agosto 1992 prevede che a uso di ogni locale deve essere previsto almeno un estintore, di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, ogni 200m2 di superficie.
Particolare attenzione deve essere prestata ai depositi di materiali infiammabili liquidi e gassosi per i quali è stabilito che devono essere ubicati al di fuori del volume del fabbricato e che lo stoccaggio, la distribuzione e l’utilizzazione di que sti materiali devono sempre essere eseguiti in conformità delle norme e dei criteri tecnici di prevenzione incendi. Ogni deposito dovrà essere dotato di almeno un estintore di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, 89 B, C ogni 150 m2 di superficie. Per esigenze didattiche e igienico-sanitarie è consentito detenere complessivamente all’interno del volume dell’edificio, in armadi dotati di bacino di contenimento, 20 litri di liquidi infiammabili. Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel livello di priorità B anche l’adeguamento alle misure di prevenzione incendi per gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche(auditori, aule magne, sale per rappresentazioni).
Per questi spazi, che devono essere ubicati in locali fuori terra o al 1° interrato fino alla quota massima di – 7,50 metri, è necessario inizialmente valutare se la capienza supera le cento persone e se sono adibiti anche a manifestazioni non scolastiche, in quanto, se così fosse, dovranno essere applicate le norme di sicurezza per i locali di pubblico spettacolo.

Al riguardo si evidenzia che qualora, per esigenze di carattere funzionale, non fosse possibile rispettare le disposizioni sull’isolamento previste dalle suddette norme, le manifestazioni in argomento potranno essere svolte a condizione che non si verifichi contemporaneità con l’attività scolastica.
Per quanto riguarda le mense, l’adeguamento al punto 6.6.1 del decreto 26 agosto 1992 prevede che nel caso in cui a questi locali sia annessa la cucina o il lavaggio delle stoviglie con apparecchiature alimentate a combustibile liquido o gassoso, agli stessi si dovranno applicare le specifiche normative di sicurezza vigenti.
Gli adeguamenti inseriti nel livello di priorità B includono anche le disposizioni per gli impianti di rilevazione e di estinzione degli incendi. Al riguardo si ricorda che limitatamente agli ambienti o locali il cui carico d’incendio superi i 30 kg/m2, deve essere installato un impianto di rivelazione automatica d’incendio, se fuori terra, o un impianto di estinzione ad attivazione automatica, se interrato.

Livello di priorità C

Per la definizione del terzo livello di priorità, denominato “C”, non sono elencate puntualmente le misure da attuare ma è richiamato il compito di pianificare l’adeguamento a tutte le restanti disposizioni del decreto ministeriale 26 agosto 1992.

Il decreto 21 marzo 2018 termina con l’indicazione che tutte le attività di adeguamento indicate possono essere realizzate, in alternativa, con l’osservanza delle norme tecniche di cui al decreto del ministro all’Interno 3 agosto 20153, così come integrato dal decreto del ministro all’Interno 7 agosto 20174. Al riguardo non è superfluo ricordare che con la pubblicazione del decreto del ministero dell’Interno 7 agosto 2017 è stata approvata regola tecnica verticale per le attività scolastiche e che le nuove misure tecniche di prevenzione incendi contenute in questo atto possono essere applicate alle attività scolastiche di cui all’allegato I del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1515, sia esistenti che di nuova realizzazione, a esclusione degli asili nido. Si segnala che, a oggi, anche se con D.M. 21 marzo 2018 sono state fornite indicazioni programmatiche prioritarie ai fini dell’adeguamento alla normativa antincendio, i termini per l’adeguamento, scaduti il 31 dicembre 2017, non sono stati prorogati.

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