Nel 2018, di nuovo allarme per i morti sul lavoro

Un significativo incremento delle denunce che aumentano del 10,1% rispetto all’anno precedente. In agosto il picco di casi collettivi, complice il disastro del ponte Morandi a Genova e gli incidenti verificatisi in Puglia. Segno “più” anche per le segnalazioni di infortuni e delle patologie di origine professionale. Nel mirino gli uomini

Il quadro che emerge dai dati Inail sugli infortuni sul lavoro per il 2018 conferma l’inversione di tendenza del fenomeno infortunistico rispetto ai due anni precedenti.
Aumentano le denunce di infortunio mortale con 104 casi in più rispetto al 2017, passando da 1029 a 1133. I dati Inail, disponibili al 31 dicembre 2018, sono pubblicati nella sezione «Open data» del portale dell’Istituto e sono provvisori
in quanto l’iter amministrativo e sanitario delle denunce si consoliderà solo a metà del 2019. Dati che saranno pubblicati, come ogni anno, nella «Relazione annuale» dell’Istituto e che forniranno una lettura
dettagliata sulla definizione dell’iter amministrativo delle denunce offrendo un resoconto sui casi denunciati, riconosciuti negativi e in istruttoria.
Il mese di agosto ha registrato un picco di 132 infortuni mortali contro i 78 dell’agosto dell’anno precedente, che in termini percentuali equivale a un aumento del 70% circa, alcuni dei quali causati da incidenti plurimi, ovvero che hanno coinvolto più di un lavoratore. Infatti, nel solo mese di agosto si è contato quasi lo stesso numero di di Valeria Rey, giornalista vittime dell’intero 2017. Tra gli eventi dello scorso anno il crollo del ponte Morandi a Genova ha causato 15 casi mortali sul lavoro e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, hanno provocato la morte di 16 braccianti. Il numero degli incidenti plurimi nel 2018 ha coinvolto più del doppio dei lavoratori dell’anno precedente. Nei 24 incidenti plurimi del 2018 hanno perso la vita 82 lavoratori rispetto ai 15 incidenti plurimi del 2017 che hanno causato 42 morti. Sul piano nazionale i dati rilevati al 31 dicembre 2018 evidenziano un aumento del 5,4% degli incidenti avvenuti in occasione di lavoro, che sono passati da 746 casi a 786 e in particolare di quelli in itinere, ovvero
fuori dall’azienda con o senza mezzo di trasporto, con un aumento del 22,36% che in termini assoluti equivale a 64 casi in più rispetto al 2017 (da 283 a 347).
La gestione «Industria e servizi» ha registrato un incremento di infortuni mortali del 14,9% rispetto al 2017 pari a 128 casi (da 857 a 985); l’«Agricoltura» ha segnato una diminuzione del 7% con 10 casi in meno (da 141 a 131) e la gestione «Conto Stainfortuni to» un decremento del 45% con 14 casi in meno. Il settore di attività economica più colpito è quello del trasporto e magazzinaggio con 28 casi mortali in più seguito dal settore del noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese con 26 casi mortali e dal settore delle costruzioni con 21 casi in più. Sul fronte della distribuzione geografica il Nord-Ovest conferma il trend crescente degli infortuni mortali dell’anno scorso con 47 casi (da 258 a 305), dei quali 24 in Lombardia. Seguono il Nord-Est con 24 casi (da 249 a 273) che riguardano il Veneto, il Centro con tre casi (da 211 a 214) e il Sud con 35 (da 223 a 258) con il record della Campania che ha registrato da sola 27 infortuni mortali.
Rispetto al 2017, l’aumento degli infortuni mortali riguarda in maniera significativa i lavoratori di sesso maschile, i cui casi denunciati sono stati 102 in più (da 927 a 1.029), mentre per la componente femminile si sono registrati due decessi in più (da 102 a 104). L’incremento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, da 861 a 952, pari all’84% del totale, sia quelle dei lavoratori extracomunitari, da 119 a 130 e comunitari (da 49 a 51). Guardando la distribuzione degli infortuni per classi di età emerge che un caso mortale su due ha coinvolto lavoratori di età compresa tra i 50 e i 69 anni, con 85 casi. La fascia maggiormente colpita è quella dai 50-54 anni con 39 casi (da 153 a 192), seguita dalla classe d’età 55-59 con 34 casi (da 211 a 177) e dalla classe 60-64 con 10 casi (da 119 a 129).

Infortuni
In aumento anche le denunce di infortunio che nel 2018 sono cresciute dello 0,9%, vale a dire che rispetto alle 653.433 denunce del 2017 si è passati a 641.261 denunce. Gli incrementi riguardano sia i casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743 (+0.6%), sia quelli in itinere che sono aumentati del 2,8%, da 95.849 casi a 98.518. quella «Conto Stato» dell’1,4%, da 104.393 a 105.898, tre quarti dei casi riguardano studenti delle scuole statali. In «Agricoltura», invece, si registra una diminuzione dell’1,8%, da (33.820 a 33.207).
L’analisi della distribuzione geografica evidenzia un aumento delle denunce nel Nord-Est del 2,2%, nel Nord-Ovest dell’1,1% e al Sud dello 0,8%. Diminuiscono, invece, al Centro dello 0,8% e nelle Isole dell’1%. La Provincia autonoma di Bolzano segna il maggior incremento di denunce con un aumento del 5,4%, seguito dal Friuli Venezia Giulia e Molise con +3,9%, mentre i decrementi maggiori si sono registrati nella Provincia autonoma di Trento con -6,5%, in Valle d’Aosta con -4,5% e in Abruzzo -3%.In aumento dell’1,4% le denunce dei lavoratori maschi (da 406.689 a 412.300) a fronte dello 0,1% di quelle delle donne.L’incremento ha interessato soprattutto i lavoratori extracomunitari con +9,3% di denunce e in misura più contenuta quelli comunitari (+1,2%), mentre le denunce di infortunio dei lavoratori italiani, che rappresentano circa l’84%, del totale sono in calo dello 0,2%.

Malattie professionali
Le denunce per malattia professionale che nel 2017, avevano registrato per la prima volta nell’ultimo quinquennio una diminuzione, tornano a crescere nel 2018 del 2,5%, vale a dire 1.456 casi in più, passando da 58.129 a 59.585. L’incremento maggiore è quello registrato nella gestione «Industria e servizi», pari al 2,8%, da 46.136 denunce a 47.424. Segue l’«Agricoltura» con l’1,8%, da 11.287 a 11.491 denunce, mentre nel «Conto Stato» si è registrata una significativa diminuzione pari al 5,1%, da 706 a Sempre marcata la differenza tra le denunce al maschile e quelle al femminile: 1.328 in più per la componente maschile (da 42.251 a 43.579), pari al 3,1% rispetto alle 128 di quella femminile che segna un aumento dello 0,8% (da 15.878 a 16.006). L’incremento delle denunce dei lavoratori italiani, che rappresentano il 93% sul totale delle denunce, è stato del 2,4% (da 54.348 a 55.659) mentre molto più significativo quello delle denunce dei lavoratori stranieri, pari all’8,6% (da 1.147 a 1.246). Per i lavoratori extracomunitari l’aumento si è attestato all’1,7% (da 2.634 a 2.680).

I dati al 31 dicembre del 2018 evidenziano sul piano nazionale sia un incremento dello 0,6% degli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743, sia di quelli in itinere che hanno fatto registrare un incremento del 2,8%, da 95.849 a 98.518. La gestione «Industria e servizi» registra un aumento degli infortuni dell’1%, dai 497.220 casi del 2017 ai 502.156 del 2018 e L’analisi territoriale evidenzia che gli aumenti maggiori si rilevano nelle Marche (6.039 casi denunciati, +673), in Calabria (2.625 casi denunciati, +411), nel Lazio (3.901 casi, +239), in Toscana (8.009 casi, +227) e in Puglia (3.379 casi, +220). In controtendenza, si evidenziano: il Veneto (3.209 casi, -327), la Sardegna (4.432 casi, -212) e la Campania (2.953 casi, -130). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (36.637 casi), insieme a quelle del sistema nervoso (6.681 con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.574), continuano a essere anche nel 2018 le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio (2.613) e dai tumori (2.461).

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I corsi per la sicurezza? Devono essere distinti

La suddivisione riguarda i Rspp, gli Aspp, i coordinatori nei cantieri e i professionisti antincendio. La risposta è partita prendendo come riferimento l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che ha attuato una profonda riforma dell’intera disciplina formativa

Uno dei tratti più caratteristici del D.Lgs. n. 81/2008 è sicuramente l’attribuzione di una valenza fondamentale, ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, alla formazione come processo educativo rivolto a tutti
i soggetti che, a vario titolo, fanno parte del sistema aziendale, fino ad arrivare agli stessi formatori.
Il legislatore, infatti, ha coniato un modello formativo universale che, per certi versi, risulta addirittura più avanzato rispetto a quello adottato da altri Paesi europei, che, tuttavia, se tutto sommato risulta abbastanza cristallino sul piano dei principi generali che lo governano, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la disciplina attuativa che presenta, invero, molteplici lati oscuri.
Sotto alcuni profili, infatti, si potrebbe dire che oggi affrontare la formazione delle
risorse umane sul piano della safety è diventato, ormai, come addentrarsi in una “selva oscura”, luogo misterioso e irto di pericoli e sorprese, capaci di mettere a dura prova anche i professionisti più esperti; fuor di metafora, appare sempre più evidente che l’attuale normativa a carattere regolamentare contenuta nei diversi accordi Stato-Regioni presenta numerose (troppe) criticità che messe su di un foglio una dietro l’altra potrebbero, forse, risultare più lunghe della barba di Ezechiele… Palese indice sintomatico di questo quadro frustante sono, invero, i numerosissimi interventi della Commissione del ministero del Lavoro chiamata continuamente a esprimersi sui quesiti in materia di formazione, presentati da istituzioni di ogni tipo, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008; basti pensare che dal 2013 si contano ben sedici interpelli in materia di formazione, cui da ultimo si aggiunge quello del 31 gennaio 2018, n.1 (pubblicato lo scorso 8 febbraio). nei cantieri sia quale aggiornamento per la qualifica di professionista antincendio . Al tempo stesso ha anche chiesto di sapere se sia possibile erogare questo corso sotto forma, da un lato, di aggiornamento per Rspp, Aspp e coordinatori per la sicurezza
e, contemporaneamente, dall’altro lato, quale convegno o seminario di aggiornamento per i professionisti antincendio. In merito ha fatto anche rilevare che «la particolarità di questi corsi, organizzati da alcuni soggetti formatori, sta dunque nel fatto che attraverso un unico corso formativo, e quindi un’unica sessione, si ottiene l’attestazione valida per diversi obblighi formativi e distinte qualifiche professionali». Nel rispondere ai quesiti sottoposti, la Commissione è partita da quanto prevede l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che, com’è noto, ha operato una profonda riforma della disciplina attuativa sulla formazione obbligatoria e l’aggiornamento
non solo degli Rspp e Aspp, ma anche di altre figure, chiarendo con una maggiore puntualità i vincoli organizzativi dei corsi, specie per quanto riguarda l’e-learning.
Viene osservato preliminarmente che nell’allegato A di questo accordo sono stabiliti la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i Rspp e gli Aspp, con la previsione al punto 9 di una specifica disciplina sul loro “aggiornamento” ; sulla base delle disposizioni in esso contenute, la Commissione ministeriale ritiene, quindi, che ai fini dell’aggiornamento dei Rspp e degli Aspp non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’aggiornamento di qualifiche specifiche diverse.
Fanno eccezione a questo principio generale la partecipazione ai corsi di aggiornamento per formatori per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, e a quelli per coordinatori per la sicurezza (in fase di progettazione e in fase di esecuzione), ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008.
E ancora, viene ulteriormente precisato che, ai fini dell’aggiornamento per coordinatori per la sicurezza, il punto 9 dell’accordo in questione specifica che non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse, con le uniche eccezioni di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

E convegni e seminari? Molto interessante appare anche la risposta fornita alla seconda parte del quesito. Secondo la Commissione non è possibile che il medesimo evento possa essere configurato sia come corso di aggiornamento sia come convegno o seminario. Ciò alla luce di quanto stabilisce il già citato punto 9 dell’allegato A dell’accordo del 7 luglio 2016, che ne differenzia le modalità di attuazione. L’orientamento seguito dalla Commissione appare, quindi, chiaro: l’evento deve essere preventivamente qualificato univocamente come corso o convegno o seminario e ciò, evidentemente, anche in relazione ai vincoli che pone l’efficacia della formazione.

Il meccanismo “bidirezionale”
La posizione assunta dalla Commissione del ministero del Lavoro pur se appare condivisibile non sembra, tuttavia, del tutto chiara è merita qualche ulteriore breve osservazione.

Bisogna evidenziare a scanso di possibili nuovi equivoci, infatti, che il già citato punto 9 dell’allegato A in relazione ai compiti di Rspp e Aspp prevede che l’aggiornamento non deve essere di carattere generale o una mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base, ossia di prima formazione, ma deve trattare evoluzioni, innovazioni, applicazioni pratiche e approfondimenti collegate al contesto produttivo e ai rischi specifici del settore, con riferimento a diverse tematiche: aspetti ti giuridico-normativi e tecnico-organizzativi; sistemi di gestione e processi organizzativi; fonti di rischio specifiche dell’attività lavorativa o del settore produttivo; tecniche di comunicazione. Ora, è pur vero che la stessa norma stabilisce il principio generale in base al quale «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’ottenimento e/o all’aggiornamento di qualifiche specifiche (…) non è da ritenersi valida» ma, come richiamato dalla stessa Commissione, sussistono due deroghe.L’accordo, infatti, recita testualmente che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, è da ritenersi valida e viceversa». Viene stabilito, pertanto, un meccanismo “bidirezionale” tra i corsi di aggiornamento per Rspp e Aspp e quello dei formatori, riprodotto, invero, anche per quanto riguarda il rapporto tra aggiornamento di Rspp e Aspp con quello di Csp e Cse. Infatti, è espressamente previsto che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008, è da ritenersi valida e viceversa». Quindi, è alla luce di quest’ultima disposizione che la Commissione ha ritenuto che nel caso dell’aggiornamento dei coordinatori per la sicurezza nei cantieri non è da ritenersi valida la partecipazione ai corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse (ad esempio, Rls, formatore, addetto antincendio, dirigente ecc.), a eccezione appunto di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

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Assente alla formazione sulla sicurezza? Licenziato

L’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare un po’ rigido ma, sostanzialmente, si pone in sintonia con il decreto legislativo 81/2008, con il quale, per altro, è stato consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore. La mancata partecipazione, inoltre, avrebbe anche messo in crisi il rapporto fiduciario fra il dipendente e il datore, con conseguente risoluzione del contratto

Nel corso dell’ultimo quinquennio, il filone giurisprudenziale sulla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro sta ingrossandosi sempre più e proietta su un quadro a tinte chiaro-scure un datore di lavoro sempre più “nudo” nel momento in cui la sua condotta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dei giudici. Bisogna riconoscere, infatti, che sempre più frequentemente proprio la violazione del dovere formativo è considerata la causa di molti infortuni sul lavoro e comporta l’applicazione di pesanti sanzioni penali in capo al datore di lavoro e allo stesso ente secondo quanto stabilisce il D.Lgs. n. 231/2001. Tuttavia, il dovere formativo grava anche sullo stesso lavoratore il quale, com’è noto, secondo quanto stabilisce l’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli e etti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Un dovere, questo, che si estrinseca nella partecipazione, da parte del prestatore di lavoro, ai corsi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; la sua violazione, però, non ha un rilievo solo sul piano penale ma, come vedremo, anche su quello civilistico in quanto l’assenza ingiustificata ai corsi può legittimare, a determinate condizioni, il licenziamento per motivi disciplinari.
Molto significativa appare in merito la sentenza 7 gennaio 2019, n. 138, con la quale la Corte di Cassazione, sezione “Lavoro” (presidente: Bronzini; relatore: Cinque), ha messo a fuoco diversi profili che inducono anche a compiere alcune riflessioni sul potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro e sugli obblighi di obbedienza e diligenza del lavoratore sul piano della formazione obbligatoria.
Come vedremo, l’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare, invero, un po’ rigido ma tutto sommato si pone in perfetta sintonia con il D.Lgs. n. 81/2008, con il quale per altro è stato definitivamente consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore diventano quest’ultimo, a pieno titolo, un debitore di sicurezza.

Il fatto
La vicenda processuale a rontata dalla suprema Corte risale al 2013: un datore di lavoro aveva contestato al proprio dipendente di non aver partecipato, senza alcuna giustificazione, al corso in materia di salute e di sicurezza sul lavoro organizzato dall’azienda. E aveva deciso, quindi, di recedere dal contratto di lavoro subordinato (art. 2094 del codice civile) intimando il licenziamento per giusta causa motivato, appunto, dal fatto che il lavoratore non aveva «….preso parte alla formazione obbligatoria sull’accordo Stato-Regioni, con contestuale contestazione della recidiva in riferimento a due analoghe condotte sanzionate con provvedimenti di natura conservativa».
Successivamente, il lavoratore era ricorso al giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del licenziamento ritenuto illegittimo.
Tuttavia, la sua tesi difensiva non era stata accolta e il recesso unilaterale del datore di lavoro era stato ritenuto fondato.
Anche la Corte d’Appello aveva confermato in pieno la legittimità del licenziamento disciplinare; il lavoratore aveva così proposto ricorso per Cassazione, censurando l’operato dei giudici di merito sotto molteplici profili. Il dipendente licenziato, infatti, in primo luogo ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 7, comma 8, della legge n. 300/1970 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile per avere la Corte di merito dato valore, ai fini della recidiva, a fattispecie non contestate che avrebbero determinato la fondatezza del licenziamento e la gravità degli addebiti in violazione del “principio di immodificabilità” e di “tipicità della contestazione” in quanto ha ampliato il campo d’indagine dei fatti posti a
base del recesso che erano solo quelli di cui alla lettera del 10 maggio 2013.
Il lavoratore ha, inoltre, anche lamentato la violazione ed errata applicazione degli artt. 71 e 72 del contratto collettivo di lavoro
«Chimici, lavorazione vetro, industria», in relazione all’art. 360, n. 3 codice di procedura civile per avere la corte territoriale, sulla base di una errata interpretazione delle suddette disposizioni, ritenuta sussistente l’ipotesi di recidiva pur non essendo state irrogate, nei dodici mesi precedenti dalla contestazione disciplinare, tre sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Al tempo stesso ha fatto anche rilevare la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 codice di procedura civile, per avere nuovamente affermato la Corte d’Appello la legittimità del licenziamento pur non essendovi, a suo avviso, alcun documento, atto oppure elemento che potesse giustificare questa conclusione. Inoltre, nell’articolato ricorso, è stata anche lamentata la violazione ed errata applicazione dell’art. 2119 del codice civile, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile perché non è dato comprendere da quale elemento di prova la corte di merito ha potuto trarre il suo convincimento circa l’idoneità del comportamento del lavoratore a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro. Infine, il ricorrente ha contestato anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 2 e 13753 del codice civile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato che, per un’unica condotta (assenza dal lavoro dal 12 luglio all’11 settembre 2013) erano stati adottati nei confronti dello stesso due provvedimenti disciplinari e, quindi, a suo avviso uno dei due provvedimenti sanzionatori irrogati era illegittimo e, conseguentemente, le condotte sanzionabili erano due e non tre come sostenuto dall’azienda che, per altro, a suo dire ha seguito un modus operandi in contrasto con l’art. 1375 del codice di procedura civile che impone la buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Cassazione ha, tuttavia, respinto il ricorso ritenendolo infondato, sulla base di un articolato ragionamento che è possibile così sintetizzare. Secondo i giudici di legittimità, un primo elemento di rilievo è che l’assenza ingiustificata al corso di formazione
in materia di sicurezza sul lavoro, che – occorre sottolineare – rientra nell’attività cui si obbliga il lavoratore con il contratto, si affianca ad altre assenze sul lavoro.
La Corte d’Appello, infatti, ha tenuto conto, al fine di valutare la legittimità del recesso datoriale e la sussistenza della recidiva, i due episodi effettivamente ritenendoli con un accertamento in fatto congruamente motivato, autonomi e distinti.
In relazione, invece, agli altri addebiti, non oggetto della lettera di licenziamento, sono stati considerati quali “circostanze confermative” della significatività degli altri (oggetto della contestazione) ai fini di una valutazione complessiva della gravità della condotta, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità del provvedimento sanzionatorio. Secondo la Cassazione ciò non viola, quindi, “il principio d’immutabilità della contestazione” come più volte affermato in sede di legittimità.
Per altro, fanno osservare ancora i giudici, che l’art. 72 del contratto di lavoro di riferimento prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso di recidiva nella “medesima mancanza” di cui all’art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo) nonché nelle fattispecie di cui ai punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti.
La contrattazione collettiva ha distinto l’ipotesi della “recidiva specifica”, che consente al datore di lavoro di procedere al licenziamento senza preavviso in caso di sua eventualità, da quella cosiddetta “plurima/ impropria” che richiede, invece, una pregressa triplice sospensione per particolari e tipizzati illeciti disciplinari. Sotto questo profilo, la ricostruzione esegetica, oltre a essere conforme al dato letterale, è secondo i giudici logica e ragionevole avendo le parti contrattuali voluto prevedere un diverso regime (appunto la necessità delle tre pregresse sospensioni) per alcune tipologie disciplinari ben individuate. Nel caso de quo ricorre, pertanto, l’ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento
a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Per questi motivi, quindi, nel caso di specie è da considerarsi legittimo il licenziamento in quanto, per e etto di quanto stabilito dal citato art. 72, lett. I, del contratto collettivo nazionale di lavoro in questione, non è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa, ma quella espulsiva. I giudici di merito, quindi, si sono adeguati al principio in base al quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario delle sanzioni disciplinari con e etto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore rispetto alle norme di etica o del comune vivere civile.

Lesione del vincolo fiduciario
La Cassazione ha, inoltre, anche posto in risalto che nel caso di specie il fatto che il lavoratore sia stato ingiustificatamente assente al corso di formazione in materia di sicurezza indetto dall’azienda in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 determina anche una grave violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui ai già richiamati artt. 1175 e 1375 del codice civile, tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e da rendere, quindi, proporzionata la sanzione irrogata.

Sotto questo profilo giova anche ricordare che l’art. 20, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce l’obbligo da parte del lavoratore di «osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale»; queste disposizioni sono espressione tipica del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, funzionali all’assolvimento dell’obbligazione di sicurezza (art. 2087 del codice civile).L’inosservanza, quindi, della disposizione aziendale di partecipare a un corso di formazione in materia di sicurezza costituisce, secondo quanto stabilisce l’art. 2119 del codice civile, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Bisogna considerare, infatti, che l’art. 18, comma 1, lett. l) e l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, pongono in capo al datore di lavoro e al dirigente – secondo le attribuzioni e le competenze a esso conferite – l’obbligo di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza. Di conseguenza, questo obbligo non poteva essere rimesso alla discrezionalità del lavoratore e, infatti, il già citato art. 20, comma 2, lett. h), del D.Lgs. n.81/2008, pone in capo allo stesso il dovere di «partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro», con la previsione in caso di violazione della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 245,70 a 737,10 euro (art. 59, comma 1, lett. a)). Questa disposizione, quindi, risulta strettamente funzionale anche alla concreta attuazione, in ambito aziendale, del “modello prevenzione collaborativo”, su cui si fonda il D.Lgs. n. 81/2008. Appare chiaro, quindi, che la condotta tenuta dal lavoratore abbia assunto una gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e lo stesso, in quanto è stato messo seriamente in pericolo il “bene sicurezza” sul lavoro che, per altro, si autonomizza rispetto al titolare (cfr. art. 32 e 41 Cost.). Occorre ricordare in merito che, secondo un’autorevole dottrina, questa disciplina protettiva ha un’alta funzione di garanzia del diritto alla salute del cittadino lavoratore «garanzia che deriva da necessità sociali e trova oggi il suo fondamento principale nella rilevanza costituzionale del lavoro. Essa opera sia di fronte allo Stato, sia nei rapporti intersoggettivi, funzionando – in relazione a questi ultimi – come limite di ordine pubblico all’autonomia privata. In sostanza, poiché lo Stato da un lato ritiene di interesse generale la salute pubblica e dall’altro garantisce l’integrale tutela del lavoro in ogni sua forma, l’integrità fisica del lavoratore assume rilevanza generale; per cui, tutelandola, lo Stato tutela un bene generale, al quale è interessata – nel suo complesso – l’intera collettività».

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Rifiuti speciali pericolosi cosa c’è da sapere

Molti i controlli da effettuare, dall’esatta classificazione, alle condizioni dell’eventuale deposito temporaneo fino alla verifica delle autorizzazioni del trasportatore e del destinatario. Vediamoli tutti in un breve ed essenziale riepilogo

 

l D.Lgs. n. 152/2006, cosiddetto “testo unico ambientale”, all’art. 184 distingue tra rifiuti urbani e rifiuti speciali. Questi ultimi, cioè i rifiuti prodotti da enti e imprese, si dividono a loro volta tra non pericolosi e pericolosi.
Individuare e gestire correttamente rifiuti pericolosi non è un esercizio banale ed è un’attività che riguarda un ampio spettro di realtà non solo strettamente legate ai settori produttivi; giusto per fare un esempio, la sostituzione di un neon o di un monitor in un ufficio si configura come gestione di un rifiuto pericoloso. Vediamo allora gli adempimenti necessari per il produttore.

Codifica e classificazione
I rifiuti pericolosi vanno, innanzitutto, individuati, quindi identificati e classificati, assegnando a essi un codice e una o più caratteristiche di pericolo. Il codice prende il nome di Cer, acronimo di catalogo europeo dei rifiuti, un elenco di codici condiviso a livello europeo, composti da sei numeri ciascuno e divisi in venti capitoli.
Per attribuire il codice corretto, si identifica innanzitutto la fonte che ha generato il rifiuto, cioè l’attività, consultando i capitoli da 1 a 12 e da 17 a 20 all’interno dei quali si va a individuare il codice che meglio descrive il rifiuto. Laddove nessuno dei codici di questi capitoli si addica, si cerca nei capitoli 13, 14, 15. Se anche in questi non si trova un codice adeguato, bisogna definire il rifiuto utilizzando i codici del capitolo Nell’ipotesi in cui non si riesca a codificare un rifiuto neanche con i codici del capitolo 16, si utilizzerà un codice 99 (non specificato altrimenti) del capitolo che si ritiene più idoneo (anche se nella pratica quasi mai viene utilizzato perché raramente presente nelle autorizzazioni). Il codice da attribuire può essere di due tipologie:

• assoluto, cioè con asterisco (*) e senza riferimento a sostanze pericolose contenute;

• speculare o a specchio, con asterisco (*) e riferimento a specifiche o generiche sostanze pericolose ivi contenute. Qualora il processo di attribuzione porti alla scelta di un Cer assoluto, questo può essere attribuito senza alcuna ulteriore indagine. In questa ipotesi, l’attribuzione del codice ha carattere puramente convenzionale e il rifiuto è considerato pericoloso a prescindere dalla reale composizione (se è stata correttamente attribuito). Nel caso in cui, invece, la scelta ricada su un codice “a specchio”, dal 1° giugno 2015, con l’entrata in vigore del regolamento Ue 1357/2014, è necessaria una verifica analitica (ad esempio un’analisi chimica) caso per caso, per stabilire se il rifiuto sia da classificare come pericoloso o meno.

Nell’ipotesi di attribuzione di codice pericoloso assoluto, una volta che questo è stato individuato, devono essere esaminate le concentrazioni di sostanze pericolose contenute per attribuire le corrette classi o caratteristiche di pericolo (HP). Dal 1° giugno 2015, per valutare le caratteristiche di pericolo si applicano i criteri del nuovo allegato III alla direttiva 2008/98/Ce introdotto con il regolamento Ue 1357/2014, che allinea i criteri di classificazione dei rifiuti a quelli di classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele del regolamento Ue 1272/2008 (cosiddetto Clp). In pratica, devono essere prese in considerazione quelle sostanze che, singolarmente o in sommatoria, sono contenute in concentrazioni raggiunte o superate le quali rendono il rifiuto pericoloso. Oltre alle concentrazioni, per alcune sostanze devono essere considerati anche dei valori soglia (cut off values). Quando una sostanza è inferiore al suo valore soglia, non deve essere contemplata nella valutazione (i valori soglia sono previsti solo per le caratteristiche di pericolo HP4, HP6, HP8). Per capire se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni o valori soglia, così da qualificare il rifiuto come pericoloso, ci sono tre possibili percorsi:

• effettuare un’analisi di laboratorio;

• operare un test di prova;

• fare una valutazione attraverso una Sds (scheda sicurezza).

Questi metodi risultano in alcuni casi di difficile o impossibile applicazione, come nell’ipotesi (frequente) in cui non sia nota la composizione del rifiuto oppure la composizione sia così eterogenea da rendere un campionamento non rappresentativo (si pensi ad un rifiuto misto) oppure quando ci si trova dinanzi a un rifiuto solido.

Il deposito temporaneo
Una volta classificati, i rifiuti pericolosi devono essere raggruppati nel luogo di origine o produzione, da intendersi quale l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti. Questo raggruppamento non necessita di autorizzazione, a patto che vengano rispettate alcune regole:
• raccolta per categorie omogenee (da leggere “per codice Cer”, secondo la giurisprudenza) e nel rispetto delle norme che regolamentano il deposito delle sostanze pericolose;
• corretti imballaggio ed etichettatura in relazione alle sostanze pericolose contenute;
• limiti temporali o quantitativi, a scelta del produttore: movimentazione con cadenza trimestrale indipendentemente dalle quantità o, in alternativa, al raggiungimento di 10 m3. In questa seconda ipotesi,
il deposito non può, in ogni caso superare, la durata temporale di un anno;
• in caso di inquinanti organici persistenti (Pop) di cui al regolamento Ce n. 850/2004, rispettare le norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l’imballaggio previste dallo stesso regolamento.

La tracciabilità
La registrazione: registri, formulari e Mud I rifiuti pericolosi sono soggetti a registrazione su apposito registro cartaceo, denominato “registro di carico e scarico rifiuti modello A”, numerato, vidimato e gestito con le stesse modalità di un registro Iva.Il registro può essere tenuto anche mediante strumenti informatici e stampato su carta formato A4 numerata e vidimata dalla Camera di commercio. Dal 2008, il registro può essere vidimato solo dalla Camera di commercio territorialmente competente.
Esso deve essere tenuto presso ogni sito di produzione di rifiuti pericolosi e conservato per cinque anni dall’ultima registrazione. Per i piccoli produttori, la cui produzione annua non eccede le 10 tonnellate di rifiuti non pericolosi e le 2 tonnellate di rifiuti pericolosi, è prevista la possibilità di tenere il registro presso le organizzazioni di categoria o loro società di servizi. Un’ulteriore eccezione è prevista per un’altra categoria di piccoli produttori, cioè coloro che non sono inquadrati in un’organizzazione di ente o impresa (ad esempio professionisti in ambito medico quali medici generici o di famiglia) che adempiono alla tenuta del registro semplicemente mediante conservazione cronologica di formulari. Le annotazioni devono rispettare il criterio temporale dei 10 giorni. L’annotazione di carico deve essere effettuata entro 10 giorni dalla produzione del rifiuto mentre quella di scarico entro 10 giorni dal trasporto finalizzato a recupero o smaltimento.

Il trasporto
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere accompagnato, in tutti i casi, dai formulari di identificazione rifiuti (Fir), tranne che per alcune ipotesi particolari, come il trasporto a opera del gestore pubblico o il trasporto di sottoprodotti di origine animale (ad esempio scarti di macelleria), regolamentati da altra normativa. I formulari devono contenere almeno le seguenti informazioni:
a) nome e indirizzo del produttore/detentore
b) origine, tipologia e quantità del rifiuto
c) impianto di destinazione
d) data e perscorso del tragitto
e) nome e indirizzo del destinatario.

I formulari sono prodotti in quattro esemplari:
• uno resta al produttore;
• due vengono trattenuti, rispettivamente, dal trasportatore e destinatario dopo essere stati firmati e datati da quest’ultimo all’arrivo dei rifiuti in impianto;
• una quarta copia, sempre firmata e datata dal destinatario, deve essere restituita al produttore entro 90 giorni; in mancanza, deve essere informata la Provincia.

Questa quarta copia è elemento indispensabile per dimostrare la corretta gestione. I formulari e il registro devono essere, inoltre, interconnessi, riportando nel registro gli estremi identificativi dei formulari in corrispondenza degli scarichi e, viceversa, riportando sulla propria copia del formulario il numero progressivo della relativa annotazione avvenuta sul registro. I Fir devono essere, infine, conservati per cinque anni.
Ultimo tassello della tracciabilità è la comunicazione al catasto dei rifiuti prodotti e smaltiti nell’anno precedente da effettuare, entro il 30 aprile di ogni anno, attraverso il modello unico di dichiarazione ambientale, noto anche come Mud.

Controllo autorizzazioni
Il trasporto di rifiuti pericolosi deve essere affidato a terzi autorizzati (trasportatore e destinatario);
tuttavia, la procedura di affidamento non solleva il produttore da responsabilità nella corretta gestione, come recita l’art. 188, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006: «il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste». Il concetto è ribadito anche dalla giurisprudenza, in particolare dalla sentenza della Cassazione n. 29727/2013 con la quale è stato ribadito che il produttore che affida i rifiuti a terzi «ha il dovere di accertare » il possesso dei requisiti e la responsabilità non è esclusa se il terzo è in possesso di autorizzazione, ma per rifiuti diversi da quelli affidati. In caso di omessa verifica, il produttore risponde di concorso con l’affidatario nel reato di illecita gestione. Il produttore deve, dunque, accertarsi del possesso delle relative abilitazioni, che:
• nel caso del trasportatore corrispondono all’iscrizione all’Albo gestori ambientali, nella categoria dei rifiuti che il produttore intende affidargli (categoria 5 e specifico Cer utilizzato) e che questa sia in vigore (durata 5 anni). La verifica può essere effettuata da chiunque, collegandosi al relativo portale on-line dell’Albo, cercando nella sezione “elenchi iscritti”.
• per il destinatario è rappresentata dell’autorizzazione allo stoccaggio e/o trattamento rilasciata da una Provincia o Regione ai sensi dell’art. 208, D.Lgs. n. 152/2006.
In questo caso non c’è ancora una banca dati unica nazionale e occorre, dunque, farsi dare il provvedimento autorizzativo direttamente dall’azienda che ha preso
in consegna i rifiuti. Questa autorizzazione può essere di diversa natura (semplificata, ordinaria, Aia o Aua), deve contenere l’indicazione dei Cer dei rifiuti trattati, tra i quali il produttore deve verificare la presenza dei rifiuti che intende consegnare e deve essere in corso di validità (la durata in genere varia tra 5, 6 o 10 anni, a seconda della tipologia).

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Denominazioni chiare per ciascuna funzione

Dove? Negli incarichi e nei documenti di “sistema”. È quanto suggerisce – fra le righe – la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. IV penale, 7  febbraio 2018, n. 10740 offrendo alcuni utili e significativi spunti di riflessione, nell’interesse di tutta la filiera della sicurezza, dal datore di lavoro fino ai preposti senza dimenticare i dirigenti

 

Con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 10740, la Corte di Cassazione (sez. IV penale) torna a occuparsi di requisiti, caratteristiche e finalità della delega di funzioni.
Pur ribadendo concetti ormai noti in tema di necessaria forma scritta, la sentenza offre – tra le righe – alcuni spunti di riflessione in ordine al necessario utilizzo, negli incarichi e nei documenti di “sistema”, di denominazioni chiare, nonché in ordine all’interazione tra le diverse e compresenti posizioni di datore di lavoro, dirigenti e preposti.

Il fatto
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il datore di lavoro era stato condannato per le lesioni subite da un operaio che, mentre stava sostituendo alcuni isolatori dell’alta tensione su un impianto in quota, aveva perso l’equilibrio scivolando lungo un pendio e rovinando contro una roccia.
Sia in primo che in secondo grado, il datore di lavoro era stato ritenuto colpevole per non aver correttamente valutato e gestito nel Pos le specifiche condizioni ambientali in cui il lavoratore si trovava a operare (art. 71 comma 2 lettere a) e b) e punto n. 3.2.5. allegato 6, D.Lgs. 81/2008).
I giudici di merito, infatti, avevano ritenuto che la previsione di una linea vita di aggancio durante lo svolgimento della mansione, avrebbe evitato l’infortunio. Il datore di lavoro aveva ricorso, quindi, per la Cassazione della sentenza, assumendo (oltre a una non corretta valutazione in fatto delle condizioni ambientali e delle cause dell’incidente) di aver validamente delegato compiti e responsabilità ad altro soggetto, evidenziando che l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello sarebbe consistito:
• nell’aver ritenuto invalida la delega conferita perché carente della forma scritta, mentre la qualifica di “dirigente delegato” sarebbe emersa dai documenti allegati (in particolare, sembra, dal Pos prodotto dal Pm);
• nel non aver considerato e adeguatamente valutato che, in ragione delle dimensioni incaricati sia il dirigente sia il preposto (responsabile della sicurezza nel cantiere) di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere opportunamente aggiornato il Pos.

La legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10740 del 7 febbraio 2018, ha rigettato il ricorso, sulla base dei seguenti rilievi:
• la necessità della forma scritta per la validità della delega di funzioni non è più contestabile (art. 16, D.Lgs. 81/2008) a nulla rilevando i precedenti giurisprudenziali – antecedenti alla normativa in vigore – citati a difesa; aggiunge, però anche, la Corte, che non possono equivalere a una “delega di funzioni” documenti che non abbiano un contenuto chiaramente a essa riconducibile;
• la presenza di ulteriori funzioni, quali quella del dirigente (nella specie qualificato come construction manager) e del preposto (nella specie qualificato come capo cantiere), pur affiancate al datore di lavoro nella gestione della sicurezza, non valgono a esonerarlo dalla propria responsabilità e dai doveri di intervento connessi ai propri poteri. La sentenza in commento offre, allora, l’occasione, non solo per richiamare le caratteristiche e le finalità della delega di funzioni rispetto a quelle connesse alla posizione di dirigente e preposto, ma anche – forse – per sottolineare come, spesso, l’utilizzo di una terminologia espressamente definita dalla norma possa garantire una più chiara ricostruzione della fattispecie e dei diversi ruoli dei soggetti chiamati a gestirla. Quanto al primo aspetto. Come sempre, occorrerebbe conoscere le dinamiche esatte del processo per poter comprendere appieno tutti i passaggi della sentenza e alcune affermazioni che, al lettore del solo provvedimento finale, potrebbero apparire a tratti anche “singolari”. Nelle premesse in fatto, pare infatti di capire che il ricorrente avesse sostenuto la sussistenza, ancora oggi, della possibilità di validamente conferire una delega di funzioni in assenza di forma scritta; ciò, a maggior ragione, in imprese di grandi dimensioni, articolate per settori e funzioni cui sono incaricati specifici soggetti. Pare anche, però, che lo stesso ricorrente facesse riferimento all’esistenza di documenti “equivalenti”, ovvero e nello specifico, a un Pos a firma del datore di lavoro e sottoscritto dal dirigente e dal preposto, nel quale gli stessi era stati formalmente incaricati della gestione della sicurezza.
In relazione alla forma scritta della delega di funzioni, si è già detto molto e non si ritiene necessario soffermarsi troppo anche in considerazione dell’ormai inequivoco contenuto della normativa vigente (art. 16, D.Lgs. 81/2008) che – oltre alla forma scritta – richiede anche la data certa. Il profilo “formale” oggetto di valutazione da parte della sentenza appare invece più interessante se affrontato, non tanto con riferimento alla mera presenza o meno di forma scritta, quanto alla possibilità che a documenti – comunque esistenti nel sistema di gestione della sicurezza sebbene per altre finalità – possano ricondursi, attraverso un esercizio interpretativo dei loro contenuti sostanziali, gli effetti della delega funzioni.
Ipotizzando (per quanto emerge dal testo) che si trattasse di fattispecie sottoposta alla disciplina di cui al titolo IV del D.Lgs. 81/2008 e che, quindi, l’imputato fosse il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, lo stesso avrebbe sostenuto che dal Pos sarebbe emerso (oltre ad altri aspetti sui quali si tornerà in seguito) che «(omissis) era il dirigente delegato alla sicurezza». Secondo la Cassazione invece «i documenti prodotti in atti a firma (omissis) (il datore di lavoro, n.d.a.) con oggetto conferimento dei ruoli di construction manager” a (omissis) del (omissis) e di “capo cantiere” a (omissis) del (omissis), entrambi firmati dai dipendenti (omissis), non hanno in realtà il concreto contenuto della delega di funzioni». Questa conclusione (per quanto molto sintetica) ci può indurre a due riflessioni: non pare, da un lato, che i giudici abbiano escluso a priori la possibilità di qualificare un documento (comunque denominato) come “delega di funzioni” facendone conseguire gli effetti di legge purché lo stesso contenga tutti i requisiti di cui all’art. 16 D. Lgs. 81/2008;
• è altrettanto evidente, dall’altro, che quegli elementi distintivi devono apparire chiaramente nel documento richiamato e che, per evitare che il significato e l’efficacia che vogliamo conferire ai documenti di sistema sia messo in dubbio o sia comunque sottoposto a una valutazione interpretativa a posteriori, dobbiamo dare a quei documenti forma e contenuti chiari.
Questa conclusione risulta condivisibile in ragione degli effetti della delega di funzioni attraverso la quale «(…) il datore di lavoro ha la possibilità (…) di trasferire in capo ad altro soggetto poteri ed obblighi originariamente appartenenti al delegante in materia di sicurezza sul lavoro. In sostanza il datore può trasferire in capo ad altro soggetto la sua posizione di garanzia (…)» (Cassazione penale, sez. IV, 19.07.2012, n. 41063).
Tornando ora alla fattispecie esaminata, il Pos è un documento redatto ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. 81/2008 e, in estrema sintesi, contiene, con riferimento al singolo cantiere, la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione e protezione; è quindi evidente che non è finalizzato, di per sé, all’individuazione di posizioni di garanzia, né tanto meno al conferimento di deleghe. Lo stesso non poteva e non può, pertanto, essere considerato “equivalente” alla delega a meno che non ne contenga ogni elemento sostanziale e formale. Ancora e analogamente, al termine di manager construction non è chiaramente e inequivocabilmente riconducibile – se non attraverso una attività interpretativa e probatoria – una specifica definizione, né alcun specifico obbligo o responsabilità, dalla normativa antinfortunistica previsti.
Quanto al secondo aspetto. La Corte di Cassazione affronta, poi e come anticipato, il tema della compresenza di diverse posizioni di garanzia e della sostanziale
differenza tra la presenza delle figure del dirigente (o del preposto) e di una delega di funzioni. Il datore di lavoro aveva assunto, tra l’altro e infatti, la propria assenza di responsabilità in ragione dell’incarico conferito a due soggetti, rispettivamente come construction manager e capo cantiere, di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere aggiornato il Pos. La Cassazione ricorda che, in assenza di una valida delega di funzioni (i cui requisiti non erano rispettati dalle nomine a construction manager e capo cantiere) questi soggetti sono «figure ipoteticamente concorrenti nel vasto settore della responsabilità ma, in ogni caso, la presenza dei due non esonera (…) il datore di lavoro, siccome incaricato dal consiglio di amministrazione (…) di tutti i poteri e di tutte le responsabilità in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro».
Ciò nel solco del già affermato principio per cui «Il vigente sistema di tutela della sicurezza del lavoro prevede una pluralità di figure di garanti tutti autonomamente responsabili in relazione agli obblighi a ciascuno di loro imposti» (Cassazione n. 51190/2015) non venendo meno «(…) il nesso di causalità tra la condotta omissiva (o commissiva) del titolare di una posizione di garanzia (…) per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’art. 41, comma 1, codice di procedure penale» (Cassazione n. 49349/2015).
Con particolare riferimento, quindi, alla posizione di garanzia del datore e del dirigente (sui quali, in rapporto alle rispettive attribuzioni e competenze, incombono gli obblighi coincidenti di cui all’art. 18 D. Lgs. 81/2008) gli obblighi e le responsabilità del primo possono essere trasferite solo sul secondo unicamente attraverso una valida delega di funzioni, diversamente potendo invece concorrere; analogamente e ancora distinto è il ruolo del preposto, destinatario a sua volta di specifici e autonomi obblighi e responsabilità. In assenza di delega di funzioni, quindi, l’uno può essere esonerato da responsabilità a svantaggio dell’altro nella misura in cui l’evento sia causalmente connesso in via esclusiva al mancato adempimento dell’obbligo riferito alla posizione di garanzia ricoperta. Anche in questa prospettiva, quindi, una corretta rappresentazione delle funzioni di ognuno può facilitare l’accertamento dei reali apporti in sede di giudizio.

Conclusioni
Ciò che forse dalle motivazioni di questa sentenza si può trarre è certamente il consiglio di utilizzare, nella redazione dei documenti, non solo (e ovviamente) le forme richieste dalla legge, ma – quanto più possibile – le categorie e le definizioni in essa presenti e disciplinate espressamente. Molto spesso, infatti, soprattutto nell’ambito di società multinazionali, ma anche per le più svariate ragioni in ambito nazionale, le imprese tendono a utilizzare costruzioni documentali e termini diversi da quelli della norma (construction manager lo abbiamo visto nella sentenza, ma si potrebbero citare molti altri esempi) anche per individuare funzioni specificamente dalla stessa disciplinate. Questo può poi comportare, in caso di evento “patologico”, una diversa interpretazione delle funzioni da parte degli inquirenti e dei giudici e, conseguentemente, la necessità di dover dimostrare (cosa non sempre agevole a posteriori) la riconducibilità delle singole funzioni alle categorie di legge.
Ogni realtà aziendale, poi e soprattutto se di medio-grandi dimensioni, dovrebbe svolgere periodicamente una esame del proprio organigramma della sicurezza e del complessivo sistema di procure, deleghe e nomine, al fine di verificare, da un lato, che le posizioni corrispondano effettivamente ai soggetti individuati (secondo il principio di effettività) e, dall’altro, che ogni soggetto del sistema sia a conoscenza non solo dei compiti lui affidati, ma anche di quelli che competono ad altre figure, così da evitare pericolose sovrapposizioni e ingerenze, garantendo al sistema la maggiore efficienza possibile.

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OBIETTIVO CLICK-DAY

Con il nuovo bando Isi per il 2019, l’Inail ha messo sul piatto 370 milioni di euro di finanziamenti a fondo perduto. Un incremento del 48% rispetto all’edizione precedente.

Fra le altre novità: l’ampliamento della platea di beneficiari e i progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute, alla sicurezza sul lavoro e alla responsabilità sociale. Occhio però alle scadenze.

 

Con il comunicato del 20 dicembre 2018 (in Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 2018, n. 295) l’Inail ha reso noto la pubblicazione del nuovo bando Isi giunto, ormai, alla nona edizione. Le linee strategiche di questo importante incentivo alla prevenzione sono state rese note dallo stesso istituto assicuratore con la delibera Civ 27 novembre 2018, n. 20, e mirano a un più efficace contrasto del preoccupante trend che ha visto chiudere il 2018 con una lunga scia d’infortuni sul lavoro, anche plurimi, nei settori più disparati.
Per il 2019 si apre, quindi, una nuova stagione dove l’Inail ha messo sul piatto qualcosa come 370 milioni di euro circa di nuovi incentivi a fondo perduto, ossia la cifra più alta da quando nel 2010 questo strumento – diventato ormai strutturale – è stato attuato in Italia, con una crescita delle risorse messe in campo di circa +48% rispetto all’edizione precedente.
Proprio questo particolare meccanismo incentivante conferisce all’Italia la palma d’oro di Paese leader a livello europeo in questo campo, grazie soprattutto al grande impegno diffuso in questi anni dall’Inail per cercare di agevolare i datori di lavoro nell’effettuazione degli investimenti in salute e sicurezza sul lavoro. Il dato negativo, purtroppo, è che nella legge 30 dicembre 2018, n. 145 (la legge di bilancio per il 2019) il legislatore ha scelto la strada del depotenziamento di questo strumento, cosa questa che lascia invero alquanto perplessi. Come vedremo, comunque, con questo nuovo bando sono state messe in campo
diverse azioni che vanno accolte molto positivamente, tra cui spiccano l’ampliamento della platea dei beneficiari, attraverso un meccanismo redistributivo più flessibile e ad ampio respiro, e una maggiore attenzione alla diffusione dei modelli organizzativi e di gestione con la scomposizione dell’asse 1 in due sotto assi.

Inclusi ed esclusi
Sono numerosi i profili critici di questo nuovo e complesso bando e concentrando l’attenzione su quelli più significativi occorre precisare, in primo luogo, che per quanto riguarda la platea dei beneficiari possono presentare la domanda di contributo le imprese, anche individuali e di armamento, ubicate su tutto il territorio nazionale iscritte alla Cciaa, che soddisfino i requisiti previsti dagli avvisi regionali/provinciali. Pertanto, anche in questa occasione, restano escluse le attività professionali in considerazione presumibilmente anche del ridotto rilievo In termini di trend infortunistico. Sono altresì escluse le imprese che si trovano in liquidazione volontaria o sono state assoggettate a una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo ecc.).
Da notare, poi, che l’asse 2 di finanziamento è aperto anche gli enti del cosiddetto terzo settore. Nel bando, comunque, sono specificati in dettaglio i soggetti destinatari e quelli esclusi e molteplici condizioni di partecipazione, differenziati per asse di finanziamento.

I requisiti generali
Questi soggetti, inoltre, devono soddisfare anche i numerosi requisiti previsti dai bandi regionali/provinciali che, si badi bene, devono essere mantenuti anche successivamente alla presentazione della domanda, fino alla realizzazione del progetto e alla sua rendicontazione.
In particolare, è richiesto che il soggetto partecipante deve avere attiva nel territorio della Regione (o Provincia autonoma) l’unità produttiva per la quale s’intende realizzare il progetto. Nel bando è precisato che, in virtù di quanto dispone l’art. 2, comma 1, lett. t) del D.Lgs. n. 81/2008, per “unità produttiva” s’intende lo stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.
Le imprese assicurate presso l’Inail devono indicare nella domanda la posizione assicurativa di riferimento. Per le imprese di armamento, invece, relativamente a progetti riguardanti navi e imbarcazioni, è considerata unità produttiva la nave/ imbarcazione per la quale deve essere predisposto il piano di sicurezza (cfr. D.Lgs. n. 271/1999); la sede Inail competente è quella nel cui ambito territoriale insiste la sede legale dell’armatore. Inoltre, trattandosi di un beneficio normativo, anche in questo caso il soggetto partecipante dovrà essere in regola con i versamenti contributivi dovuti all’Inps e alla cassa edile, nonché con premio assicurativo contro gli infortuni e le malattie professionali dovuto all’Inail, attestati dal documento unico di regolarità contributiva (Durc).

Il nuovo modello di “Patto d’integrità”
In questo quadro così complesso di requisiti e condizioni per la partecipazione, una menzione particolare merita l’obbligo da parte del partecipante di sottoscrivere il modello di “Patto d’integrità” (modulo G),
che manda in soffitta quello del 2014; l’Istituto assicuratore, infatti, con la determina presidenziale 17 dicembre 2018, n. 524, ha approvato il nuovo schema che ha una precisa finalità: mettere nero su bianco l’impegno reciproco di lealtà, correttezza, trasparenza nei rapporti, nonché contrastare nelle procedure concorsuali l’illegalità e le infiltrazioni criminali. Nel modello è previsto, quindi, che il soggetto partecipante è tenuto ad attestare di non aver concluso contratti di lavoro dipendente o autonomo e comunque di non aver attribuito incarichi ed ex dipendenti dell’Inail, che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’Istituto nei propri confronti, per il triennio successivo alla cessazione del rapporto, così come espresso nell’orientamento Anac n. 24/2015 (il cosiddetto divieto di pantouflage o revolving doors).
Analogamente nel caso di ricorso ad aziende di consulenza per l’assistenza nella procedura lo stesso soggetto partecipante ha altresì l’espresso divieto di avvalersi di quelle nelle quali, per quanto a sua conoscenza, operano a qualsiasi titolo ex dipendenti Inail che abbiano interrotto il proprio rapporto da meno da tre anni e che durante la loro attività di servizio abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali nelle materie oggetto della selezione. Occorre, inoltre, sottolineare che con la presentazione del modello il soggetto partecipante si impegna anche a garantire la tracciabilità dei movimenti finanziari legati alla fruizione del beneficio e a non porre in essere alterazioni del regolare svolgimento delle gare in accordo con altre aziende.
Il modulo G deve essere sottoscritto dal titolare o dal legale rappresentante dell’impresa/ ente; questo patto sarà successivamente controfirmato dal responsabile della sede Inail competente ed «…è da considerarsi parte integrante del provvedimento di concessione del finanziamento, anche se non materialmente allo stesso allegato, in quanto conservato agli atti della pratica»; nella predisposizione della domanda occorrerà, quindi, porre molto attenzione a questo modello in quanto la mancata presentazione determina un effetto molto grave: l’esclusione dalla procedura di concessione del beneficio.

Così la ripartizione
Concentrando ora l’attenzione su alcuni dei profili procedurali fondamentali, occorre rilevare che il meccanismo di attribuzione di base delle risorse è rimasto sostanzialmente invariato, con la concessione
di un contributo in conto capitale che può coprire fino al 65% delle spese sostenute per ogni progetto ammesso, sulla base dei parametri e degli importi minimi e massimi specificati dal bando per ciascun asse di finanziamento, erogato dopo la verifica tecnico-amministrativa e la realizzazione del progetto. Rispetto al bando precedente, è rimasta ferma anche la classica struttura basata su cinque assi di finanziamento, ossia:
• asse 1 (Isi “Generalista”) – progetti di investimento (1.1) e progetti per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale (1.2);

• asse 2 (Isi “Tematica”) – progetti per la riduzione del rischio da movimentazione manuale di carichi (Mmc);

• asse 3 (Isi “Amianto”) – progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;

• asse 4 (Isi “Micro e piccole imprese”) progetti per micro e piccole imprese operanti in specifici settori di attività (Ateco 2007 A03.1, C13, C14, C15);

• asse 5 (Isi “Agricoltura”) – progetti per le micro e piccole imprese operanti nel settore della produzione agricola primaria dei prodotti agricoli. Si osservi che, come nei bandi precedenti, anche in questa occasione i soggetti destinatari possono presentare una sola domanda di finanziamento in una sola Regione o Provincia autonoma, per una sola tipologia di progetto tra quelle sopra indicate riguardante una sola unità produttiva; come in passato le risorse sono distribuite a livello regionale.

Investimenti per il miglioramento di salute e sicurezza
Alcune riflessioni merita in particolare l’asse 1 che, come accennato, quest’anno è stato scisso in due sotto assi; da rilevare che ancora una volta la parte più consistente delle risorse messe a disposizione, pari a 180.308.344 euro, è destinata ai progetti d’investimento del sotto asse 1.1, relativi a tutti i settori merceologici e profili di rischio, volti al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori e rigorosamente funzionali alla riduzione, eliminazione e/o prevenzione della medesima causa d’infortunio o del fattore di rischio indicata dall’impresa nella domanda; il bando prevede dieci tipologie d’intervento
ammissibili con punteggi differenziati che unitamente ad alcuni altri parametri concorrono alla determinazione del punteggio e occorre sottolineare che sono ammissibili a finanziamento progetti relativi a una sola tipologia di intervento prevista.
Molto articolato è il quadro delle spese ammissibili al finanziamento e quelle escluse; in particolare quelle considerate come ammissibili sono sia le spese di progetto che quelle tecniche e assimilabili. Le prime sono tutte le spese direttamente necessarie all’intervento, nonché quelle accessorie o strumentali funzionali alla sua realizzazione e indispensabili per la sua completezza; viceversa, le spese accessorie o strumentali sono quelle funzionali alla realizzazione del progetto e indispensabili per la sua completezza che non siano direttamente riconducibili alla riduzione del rischio di cui alla tipologia d’intervento indicata nella domanda e non devono essere prevalenti rispetto a quelle direttamente riconducibili alla riduzione del rischio.
Non sono, invece, finanziabili né le spese sostenute per l’aggiornamento della valutazione dei rischi (art. 17, 28 e 29 D.Lgs. n. 81/2008) né quelle relative alla compilazione della domanda di finanziamento, nonché quelle espressamente richieste dalle direttive di prodotto a carico del fabbricante.
Viceversa, per i progetti di cui alle tipologie di intervento c), d) e h), per i quali è prevista la vendita o la permuta dei trattori agricoli o forestali e/o delle macchine sostituiti nell’ambito del progetto, nella presentazione della domanda on line, l’importo del finanziamento ammissibile è calcolato operando, sulla quota a carico di Inail, la decurtazione della somma pari al 50% dell’importo preventivato per la vendita o permuta; in fase istruttoria, l’importo concedibile sarà valutato con riferimento all’importo effettivo di vendita o di permuta. In ogni caso, l’importo concesso con provvedimento emesso a seguito della verifica tecnico/amministrativa di cui all’art. 19 del bando non potrà superare il valore del finanziamento ammissibile; parimenti, l’ammontare del finanziamento erogabile a seguito della verifica della documentazione attestante la realizzazione del progetto (art. 22) non potrà superare l’importo precedentemente concesso con il predetto provvedimento. Nel caso, invece, di acquisto di trattori agricoli o forestali e/o di macchine, le spese ammissibili per l’acquisto devono essere calcolate, al netto dell’Iva, con riferimento ai preventivi presentati e, comunque, nei limiti dell’80% del prezzo di listino di ciascun trattore agricolo o forestale o macchina. Da rilevare, poi, che le spese tecniche e assimilabili sono finanziabili entro la percentuale massima del 10% rispetto ai costi di cui al punto A (spese di progetto), con un importo massimo complessivo di 10 mila euro, a eccezione del mero acquisto di macchine per il quale la percentuale massima ammissibile è pari al 5% rispetto ai costi di cui al punto A, con un importo massimo complessivo di 5 mila euro; l’importo massimo concedibile per la perizia asseverata è pari a 1.200 euro.

La condivisione con le parti sociali con le parti sociali
Ancora una volta sarà importante anche la condivisione del progetto con le parti sociali.
Infatti, la condivisione con gli organismi paritetici o gli enti bilaterali comporta l’attribuzione di ben 13 punti che scendono a 10 se la condivisione è con due o più parti sociali di cui almeno una di rappresentanza delle aziende e una di rappresentanza dei lavoratori.
Da notare, inoltre, che nel bando sono previsti anche gli enti bilaterali che, invero, non sono però contemplati dal D.Lgs. n. 81/2008; inoltre, occorre tener presente che secondo quanto stabilisce l’art. 2, comma 1, lett. ee) del predetto decreto gli organismi paritetici sono quelli costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lo “zoccolo duro” del Dvr
L’intervento per cui si richiede il finanziamento deve, però, essere necessariamente anche riscontrabile nel documento di valutazione dei rischi (artt. 17 e 28, D.Lgs. n. 81/2008) da presentare in fase di conferma e completamento della domanda (cfr. tipologie d’intervento a, b, c, d, e, h, i). Il bando, infatti, prevede espressamente che il fattore di rischio relativo alla tipologia di intervento del sotto asse 1.1 deve essere coerente con l’attività aziendale di cui alla voce di tariffa selezionata nella domanda e, quindi, coerente e rilevabile nel citato Dvr nei casi previsti dall’allegato 1.1.
Nel caso in cui sia stato redatto il Dvr standardizzato ai sensi dell’art. 29, comma 5 e 6 del D.Lgs. n. 81/2008, il soggetto partecipante dovrà inviare copia della modulistica relativa alle procedure standardizzate, di cui al D.M. 30 novembre 2012, avente data certa o attestata ai sensi dell’art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008 1; l’uso di questo strumento, tuttavia, non appare molto consigliato in quanto essendo basato più sul concetto di pericolo che su quello di rischio potrebbe generare difficoltà in fase di controllo e, per altro, alla fine dei conti non apporta molti benefici rispetto alla compilazione del Dvr “ordinario”.
Nel bando, inoltre, è precisato che i soggetti non tenuti alla redazione del Dvr neanche nella forma prevista dalle procedure standardizzate possono inviare una relazione sottoscritta dal titolare dell’impresa (rappresentante legale se ente del terzo settore) nella quale siano descritti: il ciclo produttivo, gli ambienti di lavoro e la disposizione dei macchinari (layout) e i rischi aziendali. Per le imprese del settore “pesca”, invece, il riferimento è il piano di sicurezza in cui deve essere riscontrabile il fattore di rischio corrispondente alla tipologia d’intervento selezionata (cfr. D.LBOX gs. 17 agosto 1999, n. 298). Il progetto d’intervento dovrà trovare, quindi, una specifica corrispondenza in termini di rischio e di misure nel Dvr: è questo il classico zoccolo duro che caratterizza da sempre il bando Isi e sul quale occorre sempre riflettere attentamente prima di presentare investimenti che potrebbero non trovare – come spesso accade – quell’indispensabile e coerente collegamento con gli esiti della valutazione dei rischi formalizzati appunto nel Dvr o in documenti equivalenti.

Mog e responsabilità sociale spunta la nuova Iso 45001
Sempre nell’asse 1, come accennato, fa il suo debutto anche il nuovo sotto asse 1.2, relativo ai progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute e la sicurezza sul lavoro (cfr. art. 30 D.Lgs. n. 81/2008) e di responsabilità sociale. Bisogna ricordare che nella già citata delibera Civ n. 20/2018, è stato posto un particolare accento sulla rilevanza del finanziamento di questi interventi; sul piatto ci sono ben due milioni di euro che dovrebbero servire da stimolo a molte imprese a dotarsi di sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (Sgssl); per altro non va nemmeno dimenticato che questa strada rappresenta, ormai, un passaggio obbligato anche in chiave di responsabilità amministrativa delle società e degli enti in genere del D.Lgs. n. 231/2001, in caso d’infortunio sul lavoro o malattia professionale in dipendenza dei reati di lesioni gravi o gravissime e di omicidio colposo (artt. 589, 590 del codice penale ).
La novità prevista dal bando è il debutto dei Sgssl realizzati seguendo la nuova Iso 45001:2018, che comporta l’attribuzione di ben 90 punti se il sistema è certificato, che è l’innovativo standard internazionale su cui conformare questi sistemi di nuova generazione, integrati con qualità (Iso 9001:2015) e ambiente (Iso 14001:2015). Inoltre, come precisato nell’allegato 1.2 sono finanziabili anche i progetti di adozione di un Sgssl previsto da accordi Inail-parti sociali, nonché i progetti di adozione di un Sgssl non certificato, ma conforme alle linee guida Uni-Inail del 2001 o alla Uni Iso 45001:2018; un punteggio più basso è, invece, previsto per i Mog non asseverati, realizzati in base alle procedure semplificate di cui al decreto del ministero del Lavoro 3 febbraio 2014, e per l’adozione di un sistema di responsabilità sociale certificato Sa 8000. Come per il sotto asse 1.1 è prevista anche la norma premiale che riconosce un punteggio aggiuntivo a quei progetti che sono condivisi con gli organismi paritetici e gli enti bilaterali o che prevedono l’asseverazione del Sgssl secondo quanto stabilisce l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008; al momento gli unici due settori dove è “praticabile” l’asseverazione sono l’edilizia (cfr. Uni/PdR 2:2013) e quello dei servizi ambientali territoriali (cfr. Uni/PdR 22:2016). Sul piano procedurale, i progetti possono riguardare tutti i lavoratori facenti capo a un unico datore di lavoro anche se operanti in più sedi o più regioni; in questo caso la domanda di contributo potrà essere presentata o presso una sola delle sedi Inail nel cui territorio opera almeno una parte dei lavoratori coinvolti nell’intervento o dove è situata la sede legale dell’impresa. Da rilevare, poi, che l’impresa dovrà mantenere il Mog per i tre anni successivi alla data di erogazione del saldo del finanziamento e in caso di certificazione la stessa va mantenuta per un triennio a decorrere dalla data della certificazione stessa.

I limiti
Alcune considerazioni devono essere compiute, inoltre, per quanto riguarda i limiti degli incentivi. Per gli assi 1, 2, 3 sull’importo delle spese ritenute ammissibili è concesso un finanziamento in conto capitale nella misura del 65% ed entro il tetto massimo pari a 130 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a cinque mila euro. Tuttavia, per le imprese fino a 50 dipendenti che presentano progetti per l’adozione di Mog e di responsabilità sociale non è fissato il limite minimo di finanziamento; la stessa misura dell’agevolazione è prevista per l’asse 4, ma in questo caso il finanziamento massimo erogabile è pari a 50 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a due mila euro. Per l’asse 5, invece, il finanziamento in conto capitale è nella misura del 40% per i soggetti destinatari dell’asse 5.1 (generalità delle imprese agricole) che sale al 50% per i soggetti destinatari dell’asse 5.2 (giovani agricoltori), con un tetto massimo di finanziamento erogabile pari a 60 mila euro e uno minimo è pari a mille euro.

Spese ammesse e no
Come in passato si tratta, quindi, di un incentivo molto appetibile e per quanto riguarda le spese ammesse il principio generale che rientrano nell’agevolazione le spese documentate direttamente necessarie alla realizzazione del progetto, le eventuali spese accessorie o strumentali funzionali alla realizzazione dello stesso e indispensabili per la sua completezza, nonché le eventuali spese tecniche, così come previste negli allegati 1.1, 1.2, 2, 3, 4 e 5 dei bandi regionali, al netto dell’Iva; inoltre, le spese ammesse a finanziamento devono essere riferite a progetti non realizzati e non in corso di realizzazione alla data del 30 maggio 2019. Lo stesso bando, poi, prevede anche un lungo elenco di spese non ammissibili, alcune già viste per il sotto asse 1.1 come, ad esempio, quelle per l’hardware, software e sistemi di protezione informatica (fatta eccezione per quelli dedicati all’esclusivo funzionamento d’impianti o macchine oggetto del progetto di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza), i mobili e arredi ecc.

Assegnazione del contributo e regola “de minimis”
Resta fermo che, come detto, i finanziamenti sono erogati dall’Istituto assicuratore a fondo perduto e vengono assegnati fino a esaurimento, secondo l’ordine cronologico d’invio e sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (ad esempio gestiti dal fondo di garanzia delle Pmi e da Ismea); agli stessi si applica anche la regola del cosiddetto de minimis. Inoltre, il bando stabilisce ancora che per le domande di finanziamento che non prevedono il noleggio con patto di acquisto, il soggetto destinatario il cui progetto comporti un finanziamento di ammontare pari o superiore a 30 mila euro può richiedere un’anticipazione fino al 50% dell’importo del finanziamento stesso, compilando l’apposita sezione del modulo di domanda on line.

Regime di contrasto agli abusi
Interessante è notare, poi, che oltre l’obbligo per il soggetto richiedente di presentare il modello di “patto d’integrità” e il Dvr nei casi previsti, nonché essere in regola con il Durc, sulla base delle pregresse esperienze – non sempre positive – maturate nel corso di questi anni il bando Isi è anche disseminato da molteplici altri vincoli introdotti per prevenire possibili abusi dei benefici. Sotto questo profilo, a mero titolo esemplificativo, i progetti devono essere realizzati nei luoghi di lavoro nei quali è esercitata l’attività lavorativa al momento della presentazione della domanda e l’eventuale variazione del luogo di lavoro è ammissibile solo qualora sia debitamente motivata e non comporti la modifica dei parametri i cui punteggi hanno consentito il raggiungimento della prevista soglia di ammissione. Al tempo stesso, non può trattarsi di progetti che comportino un ampliamento della sede produttiva con la costruzione di un nuovo fabbricato o l’ampliamento della cubatura preesistente, né possono comportare l’acquisto di beni usati o l’acquisto di beni indispensabili per avviare l’attività dell’impresa.
Inoltre, il progetto deve essere realizzato in immobili già nella disponibilità dell’impresa (in proprietà, locazione o comodato) alla data di pubblicazione del bando, ossia il 20 dicembre 2018.

Procedure e verifiche
Resta da compiere, poi, alcune precisazioni sulle tappe procedurali e il quadro delle verifiche che saranno effettuate sulle domande presentate.
A partire dalla data dell’11 aprile 2019 le imprese avranno a disposizione, tramite il sito www.inail.it, una procedura informatica che consentirà loro, attraverso un percorso guidato, d’inserire la domanda di contributo con le modalità indicate negli avvisi regionali; la chiusura di questa prima fase è prevista per ore 18 del 30 maggio 2019. Nella sezione “Servizi online”, le imprese registrate al sito Inail avranno a disposizione l’applicativo per la compilazione della domanda, che consentirà di effettuare simulazioni relative al progetto da presentare – e, quindi, di verificare il raggiungimento del “punteggio soglia” di ammissibilità – e di salvare la domanda inserita; se le caratteristiche del progetto sono in linea con quelle richieste dal bando e viene raggiunta la “soglia minima di ammissibilità” per la presentazione della domanda (120 punti), è possibile partecipare alla fase successiva d’invio telematico della stessa. Dal 6 giugno 2019 le imprese che avranno raggiunto o superato la soglia minima di ammissibilità, salvato definitivamente la propria domanda e soddisfatti i requisiti previsti per il rilascio del “codice identificativo” (Ci), potranno accedere all’interno della procedura informatica per effettuare il download del proprio Ci che li identificherà in maniera univoca; la stessa procedura, mediante un’apposita funzionalità, rilascerà un documento contenente questo codice che dovrà essere custodito dall’impresa e utilizzato nel giorno dedicato all’inoltro telematico.
La terza fase, poi, è quella dell’invio della domanda (click-day); come in passato le imprese potranno inviare tramite lo sportello informatico la domanda di ammissione al finanziamento, utilizzando il Ci attribuito alla propria domanda; il Ci, dopo l’invio telematico della relativa domanda, sarà annullato dallo sportello informatico e, quindi, non sarà più utilizzabile.
Le domande pervenute saranno, così, poste in ordine cronologico di arrivo e al termine di ogni singola registrazione l’utente visualizzerà un messaggio che attesta la corretta presa in carico dell’invio.
Ancora una volta per conoscere le date e gli orari dell’apertura e della chiusura dello sportello informatico per l’invio delle domande sarà necessario, però, attendere la pubblicazione, a partire dal 6 giugno 2019 sul sito dell’Inail, della relativa comunicazione.
Appare opportuno sottolineare che occorre prestare molta attenzione al fattoche le suddette date potranno essere differenziate, per ambiti territoriali o assi di finanziamento, in base al numero di domande pervenute e alla loro distribuzione. Sarà poi l’Inail a effettuare entro il termine di 120 giorni (decorrenti dalla scadenza dei 30 giorni per la presentazione della documentazione ex art.18) la verifica tecnico-amministrativa finalizzata all’accertamento dell’effettiva sussistenza di tutti gli elementi dichiarati nella domanda on line e la corrispondenza con i parametri che hanno determinato l’attribuzione dei punteggi. In caso di ammissione al finanziamento, il progetto deve essere realizzato e rendicontato entro 365 giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione di esito positivo della verifica, fermo restando quanto stabilito dall’art. 9 con riferimento ai progetti che hanno inizio a partire dal 31 maggio 2019. Ai fini del riscontro del termine di 365 giorni fa fede la data della predetta comunicazione e nello stesso sono ricompresi i tempi necessari per l’ottenimento delle autorizzazioni o certificazioni richieste. Inoltre, il termine per la realizzazione del progetto e per la rendicontazione è prorogabile su richiesta motivata per un periodo non superiore a sei mesi.
Nel caso di concessione della proroga, il soggetto destinatario che ha beneficiato dell’anticipazione del finanziamento dovrà presentare, a copertura dell’ulteriore periodo concesso, un’integrazione della garanzia fideiussoria già costituita per l’anticipazione del finanziamento stesso.

Redistribuzione delle risorse
All’interno di questo articolato quadro, occorre anche segnalare la particolare rilevanza del meccanismo di redistribuzione delle risorse: gli importi dello stanziamento iniziale attribuiti alla direzione regionale potranno, infatti, subire variazioni in aumento o diminuzione in relazione all’entità delle domande inviate on line e confermate con l’invio della documentazione a completamento della domanda stessa. Quindi, l’eventuale nuovo stanziamento a seguito della redistribuzione sarà approvato con determina del direttore centrale prevenzione dell’Inail.

Considerazioni conclusive
La strada seguita dall’Inail deve essere accolta molto positivamente in quanto il bando Isi è stato rimodulato espansivamente, come si è visto sia per la notevole entità delle risorse messe in campo e sia per le iniziative ammesse che promuovono azioni specie nei settori critici dove, negli ultimi mesi, la sensazione è che si sia un po’ allentata l’attenzione al tema della salute e dalla sicurezza sul lavoro.
Si tratta, quindi, di un’importante occasione da non sprecare che, per altro, come accennato arriva in un momento molto delicato in quanto per effetto dell’art.1, comma 1122, della legge n. 145/2018, il legislatore per compensare le minori entrate derivanti dalla revisione delle tariffe dei premi assicurativi dovuti all’Inail ha previsto per il triennio 2019-2021 una riduzione complessiva delle risorse da destinare al bando Isi di circa trecento milioni.

 

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SOLI IN VETTA

Nella scelta del modello ricontrollo è necessario prendere in considerazione l’idoneità specifica alle condizioni e alle circostanze e la definizione di procedure per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità

 

LAVORO IN SOLITARIO: COME VALUTARE I RISCHI

Che il lavoro sia cambiato negli ultimi anni è ormai fuori discussione; assieme a esso, sono mutate la percezione e le aspettative legate a esso. Ciò che più legittimamente ci si aspetta è che il lavoro non sia pericoloso per le persone che lo eseguono e che queste siano tutelate verso i potenziali pericoli che incontrano. Negli ultimi anni queste rinnovate sensibilità hanno portato ad analizzare aspetti del lavoro in modi che non erano mai stati presi in considerazione, come nel caso della sicurezza del lavoro in solitario.
Si tratta di una condizione che è sempre esistita (si pensi ai postini, agli autisti, agli agricoltori eccetera); tuttavia, solo recentemente si è sviluppata una particolare sensibilità verso i problemi connessi a lavorare
da soli, spesso in zone isolate, con il pericolo di non essere soccorsi tempestivamente o a atto, o di essere soggetti a condizioni ambientali inaspettate, trovandosi quindi impreparati a proteggersi. Il datore di lavoro ha il dovere di considerare anche questi aspetti nella sua valutazione di tutti i rischi lavorativi, anche perché si tratta dei “rischi particolari” previsti all’articolo 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Solo per alcune attività la norma e gli standard individuano precise strategie per la gestione del rischio.
Solo alcuni Paesi hanno a rontato in maniera sistematica questo problema, come si vedrà nel seguito.

SVIZZERA
L’istituto che gestisce l’assicurazione obbligatoria per i lavoratori in Svizzera, la Suva,
nel suo Lavorare da soli può essere pericoloso – Guida per i datori di lavoro e gli addetti alla sicurezza stabilisce che «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». In particolare, l’istituto specifica che «Si raccomanda di verificare di volta in volta se, eventualmente, un’altra persona in contatto visivo non possa essere assegnata contemporaneamente a un altro incarico. Se questo non è possibile, la persona tenuta a lavorare da sola deve avere la possibilità di chiedere aiuto in qualsiasi momento in caso di emergenza, ad esempio usando il telefono fisso, il telefono cellulare, la radiotrasmittente, l’allarme via radio o tramite l’eventuale impianto di sorveglianza in dotazione nell’azienda. Per “caso di emergenza” si intende, ad esempio, una situazione critica, un infortunio, un disturbo di salute imprevisto o uno stato d’ansia».
Per valutare il rischio dei lavoratori «tenuti a lavorare da soli», Suva definisce una valutazione dei rischi “PxD” (probabilità x danno) con una matrice 5×5, da basare su un campione standard di 1.000 lavoratori.
Lavori che possono essere svolti da soli, purché in contatto visivo o vocale con altre persone
Per la maggior parte dei lavori che non devono essere eseguiti da una persona sola, è sufficiente che l’operatore abbia un contatto visivo o vocale con altre persone.
Un contatto visivo o a voce con altre persone è indispensabile, ad esempio, nelle seguenti attività:

• lavori su macchine in cui esiste il pericolo che alcune parti del corpo finiscano nelle zone di imbocco o si impiglino in utensili o elementi rotanti (ad esempio macchine utensili);
• lavori su sistemi tecnici in esercizio particolare, ad esempio regolazione di macchine utensili od operatrici, riparazione di guasti o eliminazione di intoppi nella produzione, interventi di manutenzione;
• lavori forestali connessi a pericoli particolari;
• lavori in zone pericolose solitamente inaccessibili e di conseguenza non protette;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori con Dpi anticaduta (sistema di arresto caduta).

Lavori che richiedono la sorveglianza diretta da parte di un’altra persona
Certi lavori sono talmente critici che la persona in servizio deve essere sempre sorvegliata direttamente da un’altra persona (ad esempio quando si entra nei pozzi), che ha unicamente l’incarico di sorvegliare la persona e non può svolgere altri compiti. Per questi lavori critici bisogna elaborare un concetto di salvataggio con la collaborazione di specialisti della sicurezza sul lavoro (Mssl). I mezzi di soccorso necessari devono essere messi a disposizione sul posto prima di iniziare i lavori.
In caso d’infortunio o di fronte a una situazione critica, il sorvegliante deve dare immediatamente l’allarme. A questo proposito, il sorvegliante deve essere istruito, prima di iniziare i lavori, sui possibili pericoli, sui compiti di sorveglianza e su come prestare i primi soccorsi.

Lavori regolamentati da disposizioni particolari
Alcuni lavori, secondo la normativa svizzera, richiedono tassativamente la presenza di una terza persona, quali, senza obbligo di esaustività:
• lavori su installazioni elettriche sotto tensione;
• utilizzo di sorgenti radioattive al di fuori di locali di irradiazione;
• verniciatura a spruzzo all’interno di recipienti;
• lavori all’interno di recipienti e locali stretti;
• lavori di smantellamento;
• impianti termici e camini di fabbrica;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori in canalizzazioni;
• lavori forestali particolarmente pericolosi;
• lavori sulle ferrovie;
• lavori sui piloni dell’alta tensione;
• lavori in aria compressa e d’immersione subacquea.

Requisiti relativi alle «persone tenute a lavorare da sole»
I lavoratori classificati come «persone tenute a lavorare da sole» devono:
• avere compiuto 18 anni di età;
• essere in possesso di idoneità psichica.
Non sono idonee o lo sono solo a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono insicure nei lavori di gruppo;
– hanno paura in posti di lavoro in cui devono lavorare da sole;
– soffrono di disturbi psichici o malattie mentali;
– presentano disturbi della concentrazione;
• essere in possesso di idoneità fisica. Non sono idonee o lo sono a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono soggette a capogiri, svenimento, crisi epilettiche, paralisi, dispnea, asma eccetera;
– sono a ette da malattie dell’apparato circolatorio o metaboliche (malattie cardiache, ipertensione, diabete);
– hanno una dipendenza patologica da alcool, farmaci, droghe;
– sono sotto l’e etto di farmaci sedativi o stimolanti;
– so rono di determinate allergie (ad esempio alle punture di insetti);
• sono in possesso di idoneità intellettuale.
Nella valutazione, dice la norma, occorre tenere in considerazione i fattori psicosociali derivanti, ad esempio, dalla difficoltà a mantenere i contatti con altre persone nel tempo libero a causa dell’orario o del posto di lavoro, in caso di lavoro notturno o di posti di lavoro isolati.

Criteri per la sorveglianza del lavoratore

Campo 1 della matrice della valutazione dei rischi
La sorveglianza tecnica non sostituisce in alcun caso la presenza di una seconda persona. Resta vietato svolgere questi compiti da soli.

Campo 2 della matrice della valutazione dei rischi
A determinate condizioni, la sorveglianza diretta può essere sostituita con un sistema di sorveglianza continua, indipendente dalla volontà, mediante un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme.
La sorveglianza continua per mezzo di un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme può essere adatta alle seguenti attività:
• lavori di trasporto e immagazzinamento da eseguire a piedi, con gru o carrelli automatici nel settore della produzione, in un deposito o in una cella frigorifera
• giri d’ispezione all’interno di impianti di vaste dimensioni, ad esempio in stabilimenti chimici, discariche, impianti di depurazione delle acque e incenerimento dei rifiuti.

Campo 3 della matrice della valutazione dei rischi
Per le attività ricadenti in questo campo, la sorveglianza può essere svolta secondo questi criteri:
• sorveglianza periodica. La sorveglianza periodica viene eseguita da una persona o tramite un impianto di sorveglianza;
• sorveglianza periodica effettuata da un’altra persona. La persona in questione (ad esempio superiore, custode o guardiano) sorveglia la persona tenuta a lavorare da sola a intervalli di tempo prestabiliti;
• sorveglianza periodica tramite un impianto di sorveglianza. L’impianto di sorveglianza monitora periodicamente la persona tenuta a lavorare da sola e fa scattare automaticamente l’allarme in caso di emergenza;
• sorveglianza attiva del posto tramite Gps.
Un apparecchio di allarme dotato di un sistema Gps può essere localizzato individualmente da una centrale di sorveglianza situata a pochi metri di distanza.

 

STATI UNITI
L’occupational safety and health administration Ohsa Usa non a ronta direttamente
il tema del lavoro in solitario nella sua Part 1910 — Occupational Safety and Health Standards, facendone piuttosto l’oggetto di prescrizioni negli standard specifici per attività.

Lavori elettrici
La Part 1910.269(l)(2), riguardante la generazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, stabilisce che una serie di attività devono essere svolte solo in presenza di almeno due persone.

Cantieri navali
La Part 1915, che si occupa di regolare le attività nei cantieri navali, al numero
1915.84.

Attività in sotterraneo
La Part 1926, che norma le attività di costruzioni civili, al numero 1926.800.

 

REGNO UNITO
Il Health and safety at work act britannico del 1974 e il The management of health and safety at work regulations del 1999 non affrontano direttamente l’argomento del lavoro in solitario. Ai datori di lavoro, comunque, è richiesto di valutare con cura e definire le modalità con cui affrontare
i rischi dal lavoro in solitario. I datori di lavoro hanno il dovere di esaminare i rischi per i lavoratori in solitario e adottare misure per evitare o controllare i rischi, quando necessario.
Norme specifiche regolano alcune attività ad alto rischio dove è necessaria la presenza di almeno due persone. Queste sono ad esempio:
• lavori in spazio confinati;
• lavori in prossimità di conduttori elettrici esposti;
• lavori nel settore sociale o sanitario, dove si può avere a che fare con persone e situazioni imprevedibili;
• trasporto di esplosivi;
• operazioni in immersione;
• lavori di fumigazione.

Lo standard Bs 8484:2016
Il British standard institute (Bsi), sotto la sollecitazione del consiglio nazionale dei capi della polizia (National police chiefs council, Npcc, a quei tempi denominato Acpo) ha prodotto lo standard Bs 8484:2016, alla sua seconda versione, che disciplina la fornitura di servizi per lavoratori solitari (Provision of lone worker services). Singolare è stato l’antefatto che ha portato all’emanazione dello standard: nel Regno Unito, il Npcc è responsabile della gestione dei servizi di primo intervento (l’equivalente del 112 italiano); sulla base della loro esperienza con l’industria degli allarmi antintrusione, è emersa come la mancanza di controllo in una fase iniziale del mercato abbia portato a un enorme numero di falsi allarmi con conseguente spreco di preziose risorse. Per questo motivo, gli operatori del Npcc hanno valutato come essenziale l’emissione di uno standard per gestire il tasso di falsi allarmi dovuti a lavoratori in solitario. L’introduzione della Bs 8484 nelle fasi iniziali dell’industria dei servizi alle organizzazioni che impiegano lavoratori in solitario ha evitato gli anni di duro lavoro che sono stati, invece, necessari all’industria degli allarmi antintrusione, per ridurre i falsi allarmi alla gestibile quota attuale dello 0,1%.

La Bs 8484:2016 stabilisce requisiti:
• per le organizzazioni che forniscono i servizi di monitoraggio dei lavoratori in solitario;
• per le attrezzature da utilizzare per dare l’allarme;
• per le centrali che rilevano l’allarme;
• per le organizzazioni che forniscono soccorso.

 

ITALIA
Il lavoratore in solitario può essere definito come colui che si trova a svolgere la sua attività, per una organizzazione, senza la presenza personale di almeno un collega. L’attività può essere eseguita sia all’interno che all’esterno dello stabilimento aziendale, definito come il perimetro all’interno del quale il datore di lavoro esercita le proprie prerogative.
Gli obblighi a carico del datore di lavoro, in relazione ai lavoratori in solitario, sono diversi.
Il campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008 al riguardo è molto ampio:
• art. 15, comma 1), lettera a): «Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza»;
• art. 17, comma 1), lettera a) «Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28».
Peraltro, la necessità, per il datore di lavoro, di organizzare un e icace sistema di gestione delle emergenze che si adatti alle e ettive condizioni di lavoro, è già direttamente presente nel testo unico: «Il datore di lavoro, tenendo conto della natura
dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o della unità produttiva, sentito il medico competente ove nominato, prende
i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati» (art. 45, comma 1).
All’interno del corpus delle norme applicabili alle attività lavorative, diverse prescrivono la presenza di due o più persone in situazioni particolari. Ad esempio, il regio decreto del 9 gennaio 1927, n. 147 «Approvazione del regolamento speciale
per l’impiego dei gas tossici» prescrive al dello stabilimento in cui sono manipolati gas tossici «di curare che il proprio personale abilitato, adibito alla esecuzione delle operazioni inerenti all’impiego del gas tossico (…) sia di idato: ad entrare nei locali nei quali viene utilizzato il gas tossico se non per gruppi di due persone».
Il D.Lgs. n. 81/2008 proibisce sia in maniera indiretta che diretta che una serie di attività siano svolte da personale isolato.

Formazione
Le procedure di operatività e di soccorso riguardanti attività da svolgere in solitario devono essere oggetto di particolare formazione che il datore di lavoro deve somministrare ai lavoratori, secondo quanto previsto dall’art. 36, D.Lgs. n. 81/2008.

Il processo di valutazione dei rischi
Elemento chiave del sistema per la prevenzione dell’ordinamento italiano e internazionale so di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno. è la valutazione dei rischi, che significa, letteralmente, considerarli.
Il datore di lavoro deve, quindi considerare i rischi cui può essere esposto un lavoratore in solitario.
Questi possono essere:
• il pericolo derivante dalla possibilità di non potere essere soccorsi, sia in caso di infortunio lavorativo che di malore o evento accidentale;
• il pericolo che questo malore possa accadere;
• il pericolo di operare in un ambiente estraneo, non conosciuto;
• le conseguenze, non trascurabili, del disagio psicologico e sociale del lavoratore, conseguente alla sua particolare condizione.

Non tutte le condizioni lavorative dovranno essere sottoposte a valutazione dei rischi per decidere se farle svolgere a un lavoratore solitario; la norma nazionale è, infatti, ben chiara su quali operazioni debbano essere svolte da almeno due lavoratori.

Per quanto riguarda la definizione dei criteri di accettabilità da adottare nel processo di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno.

Pericolo di non potere essere soccorso
Nel valutare il pericolo di non potere essere soccorso, avranno spazio rilevante considerazioni relative a:
• tipologia e magnitudo del rischio lavorativo cui è esposto il lavoratore in solitario;
• condizione di salute dello stesso, con particolare considerazione della combinazione tra le richieste fisiche della prestazione lavorativa e l’età del soggetto;
• condizioni delle aree di lavoro, intese sia come accessibilità delle stesse e condizioni fisiche delle aree e delle vie di accesso, sia come presenza o meno di altre persone anche se non appartenenti all’organizzazione lavorativa;
• distanza dai presidi di primo soccorso aziendali o pubblici, se questi siano facilmente accessibili, o se, a causa della distanza e delle vie di comunicazione, il soccorso possa non essere tempestivo.
A questo riguardo, è necessario segnalare che la norma già mette in carico al datore di lavoro l’obbligo di organizzare in maniera efficace le comunicazioni con il sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale. A questo proposito, il D.M. n. 388/2003 a erma: «Nelle aziende o unità produttive che hanno lavoratori che prestano la propria attività in luoghi isolati, diversi dalla sede aziendale o unità produttiva, il datore di lavoro è tenuto a fornire loro un mezzo di comunicazione idoneo per raccordarsi con l’azienda al fine di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 5). E ancora: «Nelle aziende o unità produttive di gruppo A e di gruppo B, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature (…) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 2).

Considerazioni relative all’idoneità psicofisica del lavoratore
Nel processo di valutazione dei rischi l’idoneità psicofisica del lavoratore ha uno spazio rilevante: in collaborazione con il medico competente aziendale occorrerà effettuare considerazioni relative ai criteri
di idoneità dei lavoratori impegnati in solitario. Queste considerazioni dovranno prendere in considerazione almeno:
• le condizioni generali di salute del lavoratore, anche considerando fattori permanenti – quali, ad esempio, l’età – o transitori, come ad esempio lo stato di gravidanza della lavoratrice/lavoratore;
• la domanda fisica delle attività da svolgere;
• le conseguenze dello stress psicologico cui può essere soggetto il lavoratore in conseguenza del lavoro in solitario.

Pericolo di operare in un ambiente sconosciuto
Un lavoratore solitario può operare sempre all’interno del medesimo ambiente, ad esempio un presidio, una guardiania o recarsi periodicamente in una posizione definita, al di fuori dello stabilimento lavorativo. Qualora ciò non fosse, doversi recare in un ambiente non conosciuto può costituire un fattore di aggravio del rischio; occorre, infatti, prendere in considerazione la possibilità che si debbano affrontare rischi per i quali non si era preparati né attrezzati.

Conseguenze del disagio psicologico e sociale del lavoratore
La valutazione di questo aspetto è opportuno prenda in considerazione:
• l’eventuale disagio del lavoratore conseguente a non potere avere rapporti con alcuno durante le ore di lavoro. Questo nel caso il lavoratore solitario presti la sua opera continuativamente in zone remote, senza alcuna presenza umana;
• il rischio che può correre il lavoratore che si trovi, senza supporto alcuno, a operare in situazioni di disagio sociale. Questo rischio è sia di carattere psicologico (spavento) che fisico (aggressione).
La valutazione dello stress lavoro-correlato – e quindi anche di quello indotto da quella particolare situazione lavorativa che è il lavoro in solitario – è un obbligo previsto dall’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.

Valutazione dei rischi
I rischi cui sono soggetti i lavoratori in solitario derivano da condizioni eterogenee. Un fattore discriminante importante è quello relativo ai posti di lavoro in cui il lavoratore presta il proprio servizio, che possono essere:
• interni allo stabilimento aziendale, in postazioni fisse come, ad esempio, posti di monitoraggio, guardianie, sale controllo o in movimento, ad esempio mansioni di vigilanza;
• esterni allo stabilimento aziendale, ma comunque nella disponibilità più o meno totale del datore di lavoro, come cabine, impianti, comunque in aree segregate;
• esterni allo stabilimento aziendale, al di fuori della disponibilità del datore di lavoro, come ad esempio tutti gli spazi pubblici.
Negli ultimi due casi, la valutazione del rischio dovrà prendere necessariamente in considerazione anche tutte le attività svolte dal lavoratore a partire dal momento in cui lascia lo stabilimento aziendale. Il criterio per il processo di valutazione dei rischi potrebbe partire prendendo in considerazione subito il problema centrale del lavoro in solitario: il rischio di non essere soccorso. L’analisi della correlazione tra questo rischio e l’esito degli incidenti cui è ragionevole pensare possano essere esposti i lavoratori sarà la base del meccanismo di decision-making che definirà i criteri di accettabilità della valutazione del rischio.

Altri fattori ricordati, quali:
• i rischi derivanti da dovere operare in ambienti estranei,
• il disagio psicologico e sociale del lavoratore in solitario,
• considerazioni relative l’idoneità psicofisica del lavoratore, dovuta a condizioni permanenti o temporanee saranno considerati come fattori aggiuntivi della valutazione.

Rischio di non essere soccorso
La prima discretizzazione da eseguire riguarda l’analisi dell’esito del potenziale incidente che può occorrere al lavoratore, in conseguenza di un infortunio lavorativo, evento accidentale o malore; analisi che deriva dalla valutazione dei rischi aziendale.

Analisi delle possibilità di essere soccorso (S)
Le possibilità di essere soccorso, in relazione con le caratteristiche dell’area, possono essere definite in questo modo:
• nell’area sono presenti altre persone, anche se non appartenenti alla medesima organizzazione del lavoratore o non impegnate nelle medesime aree lavorative, che possono attivare sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale o prestare la prima assistenza in caso di incidente. Questa condizione, tipicamente, è quella di coloro che lavorano senza il supporto di colleghi in aree pubbliche, frequentate. Le attività sono quelle di autisti, fattorini e simili;

• nell’area non sono presenti altre persone, ma i presidi di primo soccorso possono essere facilmente raggiunti. Un esempio può essere quello di un lavoratore che svolge un servizio di vigilanza in solitario, all’interno di uno stabilimento, in cui le attrezzature di primo soccorso sono disponibili solo in alcune posizioni;
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore con l’uso di mezzi ordinari.
Si tratta delle attività che vengono svolte in aree remote, che però sono raggiungibili con le strade ordinarie.
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore solo utilizzando veicoli speciali. Sono le attività che vengono svolte in aree remote, dove però l’assenza di strade ordinarie rende necessario l’utilizzo di mezzi fuoristrada o elicotteri per prestare il soccorso e procedere all’evacuazione medicale.

Analisi dell’incidente (I)
Tralasciando per un attimo la possibilità del lavoratore di essere colpito da un malore, analisi che sarà fatta in seguito, le categorie possono essere:
• incidente lieve, i cui esiti sono recuperati da parte del lavoratore in un arco di tempo che va da qualche minuto a qualche ora, non ne pregiudicano la capacità lavorativa e per i quali un soccorso ritardato non provoca particolari ripercussioni sulla salute del lavoratore;
• incidente medio, le cui conseguenze vengono recuperate dal lavoratore in qualche giorno. il lavoratore ha pregiudicate le capacità lavorative, ma non la mobilità o almeno non in misura tale da non potersi allontanare da luogo di lavoro normalmente accessibile. un soccorso tempestivo è auspicabile anche se un moderato ritardo non è un fattore rilevante di aggravamento delle sue condizioni di salute;
• incidente grave. Il lavoratore può recuperarne dalle conseguenze nel giro di settimane, solo con l’ausilio di un appropriato trattamento medico. Sia le capacità lavorative che la mobilità sono fortemente pregiudicate ed è necessario un soccorso immediato per evitare il rapido aggravamento delle condizioni di salute dell’infortunato;
• incidente mortale o che conduce alla morte nel giro di qualche ora.

Valutazione del rischio (R=SxI)
Assegnando un peso da 1 a 4 sia alla valutazione delle conseguenze dell’incidente che della possibilità di essere soccorso, dove 1 è la situazione meno e 4 quella più gravosa, e correlando le analisi, si ottiene la base per una valutazione dei possibili scenari.

Valutazione dei pericoli aggiuntivi
Il primo passo della valutazione dei rischi viene eseguito correlando in astratto il pericolo di non essere soccorso con il potenziale esito di un incidente che può occorrere durante l’attività lavorativa. Queste considerazioni, però, devono essere integrate dalla valutazione di altre condizioni che possono aggravare la situazione in caso di incidente occorso a un lavoratore
solitario.

Malori
La possibilità che al lavoratore occorra un malore che possa diventare un fattore di criticità in caso di lavoro in solitario, deve essere valutata dal medico competente.
Il lavoratore può essere:
• pienamente idoneo al lavoro in solitario;
• non idoneo, in conseguenza delle condizioni di salute, temporanee o permanenti, che possono essere un fattore che può causare o aggravare gli esiti di un incidente occorso lavorando in solitario.
È opportuno che il medico competente, al momento della redazione di una limitazione di idoneità di questo genere, specifichi esaurientemente gli ambiti delle condizioni di lavoro: se relativa al lavoro solitario interno all’azienda o al suo esterno, in posizione fissa o mobile.

Ambiente sconosciuto
Operare in un ambiente sconosciuto può portare a doversi confrontare con situazioni che si manifestano improvvisamente o per le quali non si era preparati e attrezzati.
Un ambiente sconosciuto diventa conosciuto dopo che si è provveduto a ispezionarlo.

Disagio psicologico e sociale
Il disagio psicologico e sociale affrontato dal lavoratore può essere:
• dovuto alle particolari condizioni dell’azienda e della mansione, da valutare secondo quanto previsto dall’ art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. 81/2008;
• dovuto alla necessità di trascorrere lunghi periodi di tempo (definibili in via di prima approssimazione in settimane) senza contatti con altri;
• indotto alla necessità di operare in ambienti con particolari condizioni di stress psicologico e sociale, anche con pericolo di aggressione.

Valutazione finale dei rischi (Rf)
Il processo di valutazione del rischio da lavoro in solitario, viene completata integrandola con la valutazione dei pericoli aggiuntivi.
Potrebbe essere accettabile:
• attribuire dei pesi (coe icienti) da 1 a 4 a ciascuna delle situazioni, secondo la politica dell’azienda;
• moltiplicare l’esito del processo di valutazione preliminare dei rischi con il maggiore dei coefficienti dei pericoli aggiuntivi;
• confrontare il risultato ottenuto con la griglia di accettabilità predisposta.

Misure di mitigazione
Di erenti tecniche per la mitigazione dei rischi del lavoro in solitario possono essere
individuate. Tipicamente, a seconda delle circostanze:
• non sarà possibile il lavoro in solitario, e all’operatore dovrà essere affiancato un collega, con mansioni di collaborazione o di assistenza, recupero e salvataggio. Tipico il caso del lavoratore in assistenza all’esterno dei luoghi confinati, variamente formato e attrezzato per il recupero;
• il lavoratore solitario sarà controllato attraverso processi attivi, tipo dovere telefonare o dare una voce o eseguire un’operazione a scadenze temporali prefissate;
• il lavoratore in solitario potrà essere controllato attraverso processi passivi, indipendenti dalla sua volontà. Negli anni sono stati sviluppati sistemi con riprese video, segnalatori di accesso/uscita, dispositivi uomo-morto, che segnalano l’allarme per posture particolari o periodi di immobilità continuati, programmabili, così come rilevatori Gps per indicare la posizione del lavoratore, e tutte le possibili combinazioni di questi sistemi.
Il collegamento con il sistema di governo e di vigilanza può essere assicurato da onde radio e dispositivi a radiofrequenza per spazi limitati, telefonia cellulare o satellitare per aree più estese.
È importante ricordare che le misure di prevenzione e protezione dovranno essere adottate nel rispetto dell’articolo 15 «Misure generali di tutela», D.Lgs. n. 81/2008, rispetto della politica aziendale in materia di tutela del lavoro, e possono essere:
• la limitazione delle attività per le quali è previsto l’impiego di lavoratori in solitario;
• la predisposizione di procedure per il controllo degli ambienti di lavoro in cui si trovano a prestare la loro opera i lavoratori in solitario;
• la limitazione del numero dei lavoratori esposti ai rischi conseguenti al lavoro in solitario, definendone i requisiti di idoneità sanitaria e di formazione;
• l’utilizzo di tecniche e apparecchiature per il controllo e il soccorso remoto dei lavoratori in solitario.
È, inoltre, necessario ricordare come il controllo del lavoratore debba rispettare le norme del contratto di lavoro e quelle sulla privacy.

Conclusioni
Non esiste un sistema universale per il controllo del lavoratore in solitario e tutti i sistemi finora ideati sono soggetti a problemi più o meno critici che non ne assicurano una funzionalità al 100%. Nella scelta del sistema di controllo è necessario prendere in considerazione:
• l’idoneità specifica, della soluzione e delle attrezzature utilizzate, alle condizioni di lavoro e alle circostanze in cui questo viene eseguito;
• la definizione di un sistema di procedure, regole e strategie per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità, sia quelle ineliminabili proprie del sistema sia quelle relative sempre alle condizioni di lavoro e alle condizioni al contorno.

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Per le scale portatili una marcatura ad hoc

Dispositivi non coperti da una direttiva specifica e non garantiti dal Ce

La recente norma Uni En 131-3: 2018 fornisce consigli sull’utilizzo in sicurezza di questo tipo di attrezzature contemplate nello scopo e nel campo di applicazione della Uni En 131-1 e conformi ai requisiti della Uni En 131-1 e della Uni En 131-2. Obiettivo: informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoli potenziali e descrivere le precauzioni di sicurezza o le azioni richieste a fini prevenzionistici

 

Le scale portatili devono riportare la marcatura Uni En 131 e/o il riferimento alla conformità al D.Lgs. n. 81/2008, se sono impiegate in un così chiamato “non luogo di lavoro” (Uni En 131) o in un “luogo di lavoro” (Uni En 131/D.Lgs. n. 81/2008). La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura costituisce una sorta di carta di indentità del dispositivo atta a informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoll potenziali e a descrivere le precauzioni di sicurezza e/o le azioni richieste o per evitare questo tipo di pericolo (Iso 17724:2003, definizione 3.58 modificata).
Il fabbricante deve immettere sul mercato prodotti intrinsecamente sicuri che vanno utilizzati correttamente dal lavoratore facendo riferimento ai pittogrammi apposti su di essi, eventualmente corredati da istruzioni scritte.
La norma Uni En 131-3: 2018 – che rispetto a quella precedente appare più snella, schematica e di facile lettura – ha introdotto novità che permettono una marcatura più agevole. La norma infatti prevede tra l’altro la distinzione tra le disposizioni relative alla marcatura di sicurezza, che devono essere riportate sulla scala, le istruzioni per l’utilizzatore presenti nell’apposito libretto e la descrizione dettagliata dei segnali fondamentali di sicurezza in conformità alla Iso 3864-2 e dei simboli delle informazioni di sicurezza supplementari.

Riduzione del rischio

L’eliminazione e/o la riduzione dei rischi è uno dei cardini fondamentali del D.Lgs 81/2008 che nell’art. 15 individua le misure per «la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza» (comma a), «l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico» (comma c), «la riduzione dei rischi alla fonte» (comma e) e «la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso» (comma f).

La Uni En 131-3:2018 contiene un elenco, non esaustivo, dei pericoli e degli esempi delle relative cause che costituiscono ragioni frequenti per gli incidenti che si verificano durante l’uso delle scale e su cui si basano le informazioni contenute nella norma stessa. Le cause sono le seguenti:
• perdita di stabilità causata, fra l’altro, da posizione non corretta della scala (come angolazione non corretta di una scala di appoggio o apertura non completa di una scala doppia);
• condizione della scala (per esempio, piedini antiscivolamento mancanti per scale dí appoggio) e condizioni climatiche avverse (quali il vento);
• movimentazione (ad esempio, trasferimento della scala nella posizione di lavoro);
• scivolamento, inciampo e caduta dell’utilizzatore causati tra l’altro da azioní non sicure dell’utilizzatore (come salire la scala a due pioli per volta, scendere scivolando lungo i montanti);
• cedimento strutturale della scala dovuto, ad esempio, al sovraccarico della scala;
• pericoli di natura elettrica dovuti fra l’altro a operazionì inevitabili su parti sotto tensione (per esempio, ricerca guasti) o a collocazione delle scale troppo vicino ad apparecchiature elettriche sotto tensione (come linee elettriche aeree).

Contenuti
Secondo la Uni En 131-1: 2015 la scala è un dispositivo con gradini o pioli sulla quale una persona può salire o scendere. Una scala portatile è una scala che può essere trasportata e installata a mano.

Marcatura di base sulla scala
Le informazioní di base della marcatura possono essere fornite sotto forma di segnali di sicurezza o testo. La marcatura deve comprendere:
1. identità e indirizzo del produttore e/o del distributore, incluso l’indirizzo del sito web per le informazioni relative alla scala;
2. tipo di scala e modi possibili di utilizzo (descrizione del tipo, numero e lunghezza delle parti, lunghezza massima della scala in uso, altezza massima di appoggio misurata nella posizione di utilizzo secondo le raccomandazioni dei fabbricante);
3. classificazione di uso “professionale” o “non professionale” come specificato nella Uni En 131-2;
4. numero della norma generale Uni En 131 o, qualora esista una norma dedicata (per esempio una scala multiposizione con cerniere secondo la Uni En 131-4) il numero di tale norma (per esempio Uni En 131-4);
5. mese e anno di produzione e/o numero di serie (può essere anche stampigliato); peso della scala (in kg) e carico massimototale (in kg);
6. isolamento, se previsto.

Le informazioni di cui ai punti 1., 2., 3. e 5. devono comparire anche sull’imballaggio o devono essere altrimenti chiaramente visibili al consumatore prima dell’acquisto.

La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura che indichi il piolo/gradino più elevato che deve essere utilizzato per sostarvi deve essere posta sul montante della scala adiacente o sull’ultimo/consentito o sul primo/non consentito piolo/gradíno o sull’etichetta della marcatura dì sicurezza. I segnali di sicurezza si distinguono fra segnali di base e supplementari. I segnali di sicurezza di base hanno forma rotonda, triangolare o quadrata in conformità alla Iso 3864-1, Iso 3864-3 e si deve basare sul modello per i segnali di sicurezza della Uni En Iso 7010 con una dimensione minima d e h di 15 mm. I segnali di sicurezza supplementari hanno forma quadrata e istruiscono l’utilizzatore di una scala su ciò che è necessario e ciò che non è ammesso per un uso sicuro, al fine di evitare incidenti, per esemplo la caduta dalla scala. “Richiesto” è indicato da un segno di spunta verde e “Non ammesso” da una X rossa.
Rispetto ai segnali di sicurezza di base i simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza possono includere numeri, lettere e simboli più dettagliati (più precisi). L’altezza minima h dei simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza è di 15 mm.
La norma Uni En 131-3 al prospetto 1 illustra i requisiti minimi per la marcatura di sicurezza, le istruzioni per l’utilizzatore e
i simboli obbligatori per tutte le tipologie di scale portatili. A tal fine, il fabbricante deve fornire nelle istruzioni tutte le informazioni riportate nella tabella 1 che costituisce un estratto del citato prospetto 1.
La scala movibile con piattaforma è quella prevista nella Uni En 131-7:2013.

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Il Rspp tra posizione di vertice e responsabilità

Il punto del giurista alla luce della legislazione e delle pronunce dei giudici

Domanda: in un’azienda di dimensione medio-grandi, il possesso della qualifica di dirigente prevenzionistico è la migliore soluzione per la nomina a titolare del Spp? E nel caso poi il datore di lavoro intendesse conferire a questa figura una delega di funzioni, si tratterebbe di una scelta condivisibile e anche consigliabile?

 

In base a quanto dispone l’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delle piccole e medie aziende, elencate nell’allegato II al decreto, può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché quelli di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La possibilità che il datore di lavoro accentri su di sé le funzioni direttive, decisionali e di programmazione della sicurezza, è opzione legislativamente consentita principalmente in ragione dell’entità dimensionale dell’azienda (sotto il profilo della forza lavoro occupata) e sempre che non sussistano fattori di rischio professionale elevati (si tratta dei casi elencati all’art. 31, comma 6 del D.Lgs. n. 81/2008: imprese soggette a rischio di rilevante incidente industriale o rientranti nelle seguenti categorie: centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, aziende industriali con oltre 200 lavoratori, aziende estrattive con oltre 50 lavoratori, aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, strutture di ricovero e cura sia pubbliche sia private con oltre 50 lavoratori). Con riguardo alle realtà aziendali di grandi dimensioni o a rischio elevato, il D.Lgs. n. 81/2008 impone senza eccezioni che le due aree funzionali di datore di lavoro e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione siano ricoperte da soggetti diversi – dunque siano e si mantengano distinte – nonché l’obbligo che il Rspp sia un soggetto interno all’organizzazione aziendale.

La distinzione soggettiva tra il datore di lavoro e Rspp è funzionale al modello di impresa compartecipativa, collaborativa e sinergica che è diretta derivazione dallo standard comunitario della direttiva quadro 89/391/Cee, e che assegna ruoli specifici a soggetti diversi, in base al presupposto che dalla loro interazione e confronto derivi e si esprima un valore aggiunto in termini di sicurezza e di salute: un risultato finale, di sintesi superiore alla somma di quelli derivanti dall’azione isolata di ciascuno.

È in questo sistema integrato della sicurezza, rivolto alla valorizzazione nell’ambiente di lavoro delle competenze professionali di ciascuno, quale che ne sia il livello funzionale, che permane nondimeno l’esigenza di mantenere ferma la distinzione tra il momento decisionale, proprio del datore di lavoro, e il momento collaborativo e partecipativo – ma di supporto – svolto dal servizio di prevenzione e protezione.Nei casi in cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può identificarsi con il datore di lavoro, si pone quindi la problematica di individuare la o le qualifiche funzionali compatibili con la designazione a Rspp. Ovviamente la questione assume rilievo solo con riguardo al caso della designazione interna del Rspp (ipotesi contemplata dal combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008), giacché, nel caso di designazione di persona esterna all’organizzazione aziendale, con incarico professionale di lavoro autonomo, non assume rilievo il possesso della qualifica funzionale.

Ciò detto, una prima considerazione è che mentre il servizio di prevenzione e protezione può essere una persona giuridica – sempre che organizzato esternamente all’azienda – (la direttiva 89/391/Cee parla di “servizi esterni”), l’incarico di Rspp può essere conferito solo e necessariamente a una persona fisica. Ciò si ricava inequivocabilmente dalla definizione del’art. 2, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008 («responsabile del servizio di prevenzione e protezione: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi»).

La seconda considerazione è che sussiste una incompatibilità assoluta tra la qualifica di Rspp e quella di lavoratore subordinato (o assimilabile) oggetto della tutela prevenzionistica ai sensi della ampia definizione che ne dà l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Questa incompatibilità – non scritta expressis verbis nelle norme – è ricavabile con certezza dal sistema. Il lavoratore infatti, in quanto primo beneficiario dell’azione di prevenzione e di protezione dai rischi professionali, non può assumersene l’onere in prima persona, così cumulando inaccettabilmente, oltre i limiti indicati dall’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, il duplice profilo di soggetto attivo e passivo della tutela. Inoltre, dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione si pone da un lato in rapporto di collaborazione con il datore di lavoro, e dall’altro lato in rapporto dialettico con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non si può disconoscere che egli abbia la titolarità di interessi diversi e spesso divergenti – seppur auspicatamente componibili – da quelli propri della categoria dei lavoratori subordinati. Ammettere che a svolgere la funzione di Rspp possa essere chiamato un lavoratore (dipendente), significa togliere identità a entrambe le figure, tanto più nei momenti di incontro istituzionale – qual è, ad esempio, quello della riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008 (alla quale i lavoratori partecipano non uti singuli, bensì a mezzo del loro Rls). Per altro verso non può non considerarsi che il compito prevalente del Rspp è quello di collaborare con il datore di lavoro all’attività di valutazione dei rischi e di redazione del correlato documento di valutazione (Dvr); cosa che non attiene in alcun modo allo statuto funzionale del prestatore di lavoro subordinato, a meno di stravolgerne la fisionomia. Per di più, se a responsabile del servizio di prevenzione e protezione potesse essere designato un lavoratore, a questi sarebbe paradossalmente consentito lo svolgimento di un’azione collaborativa con il datore di lavoro che invece è inibita al rappresentante (dei lavoratori) per la sicurezza, prevedendo infatti il testo unico che il Rls, in ambito di valutazione dei rischi, svolga un apporto di tipo meramente consultivo. Quanto all’ipotesi che quale Rspp possa essere designato un preposto, è decisiva la considerazione che, in base alle consolidate acquisizioni dottrinarie e giurisprudenziali, non spetta al preposto adottare le misure di prevenzione e di protezione stabilite dalla normativa di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, essendo suo compito quello (consequenziale) di esercitare la doverosa vigilanza affinché le misure predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti, ricevano concreta ed esatta attuazione (cosiddetta vigilanza oggettiva), nonché di verificare la specifica osservanza, da parte dei lavoratori, delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione (cosiddetta vigilanza soggettiva). Dal momento che questo sistema, correntemente definito del “doppio binario” di responsabilità, delinea due differenti livelli di responsabilità tendenzialmente alternativi tra loro (datore di lavoro e dirigenti da un lato, preposti dall’altro), ne consegue la sostanziale inconciliabilità del coinvolgimento della figura del preposto in attività – quelle proprie del Rspp – che sono di prevalente collaborazione con il datore di lavoro, per di più finalizzate anche all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, il quale deve tra l’altro obbligatoriamente contenere (art. 28, comma 2, lettere b) e c)) «l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione» e “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza». Dal momento che gli obblighi di sicurezza e di salute non gravano direttamente sulla figura del preposto, ne consegue che, pur in assenza di un divieto normativamente codificato o ricavabile dai principi, sussistono evidenti ragioni di opportunità che suggeriscono – senza imporlo – di mantenere la figura del preposto nella sfera esclusiva (o quanto meno preminente) della vigilanza sul luogo di lavoro che funzionalmente gli compete.

Dunque, l’ipotesi più conforme ai principi è che a responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno sia designato un profilo professionale più consono e funzionale, tanto sul piano decisionale, che su quello di autonomia delle funzioni e di competenza professionale, ai compiti del Rspp come definiti dalla legge. Non è necessario che si tratti di un dirigente giuslavoristico, ma è sconsigliabile che venga designato un preposto prevenzionistico.

Ciò chiarito, resta ora da a rontare il secondo spunto di riflessione, inerente alla possibilità di conferire validamente al Rspp (chiunque esso sia, finanche un soggetto esterno all’organizzazione aziendale) una delega di funzioni di ambito prevenzionistico, precisandone, in caso affermativo, i contenuti e l’estensione. Sotto questo profilo la tematica ha indubbiamente una soluzione positiva, salvo delinearne meglio i contorni. Infatti, la semplice nomina a Rspp non comporta di per se stessa alcuna diretta assunzione di responsabilità di ambito contravvenzionale, giacché questa figura assume funzioni meramente collaborative e tecnico-valutative rispetto alle prerogative del datore di lavoro, il quale rimane così unico titolare del potere decisionale e di spesa (sul tema, ex multis, da ultimo Cass. pen. sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321). Dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non rientra, per consapevole scelta legislativa, tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, il suo agire non è dunque direttamente rapportabile a condotte contravvenzionali penalmente sanzionate. Dal che deriva che l’utilizzazione della competenza professionale del Rspp da parte del datore di lavoro, assumendo la forma del cosiddetto “avvalimento funzionale”, determina l’assoluta estraneità, dal profilo funzionale del primo, del fattore di condivisione -e a maggior ragione di assunzione – del profilo di responsabilità contravvenzionale del secondo. Il che non vuol dire che il Rspp non possa essere chiamato a rispondere -in caso di condotta colposa – in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati). Del pari, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, è ipotizzabile una responsabilità penale per colpa del Rspp, ai sensi degli artt. 589 o 590 del codice penale (come la giurisprudenza ha da tempo chiarito: tra le tante Cass. pen. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11492; Cass. pen. sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2011, n. 28779; Cass. pen. sez. IV, 21 dicembre 2010, n. 2814. Da ultimo, si segnalano le pronunce di Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 2406; Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 3313; Cass. pen. Sez. IV, 20 febbraio 2017, n. 8115; Cass. pen. Sez. IV, 19 maggio 2017, n. 24958; Cass. pen. Sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 4941; Cass. pen. Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale.

Ciò che manca è peraltro, come si è già detto, una responsabilità di tipo contravvenzionale. All’opposto, con il conferimento della delega di funzioni, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non limita la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì diventa titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa. Egli è perciò investito iure proprio (sia pure a titolo derivato) di quella quota di responsabilità contravvenzionale corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate.

Il conferimento della delega muta, per così dire, l’obbligazione del Rspp da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato, costituendo in capo al medesimo una posizione di garanzia dell’attuazione degli obblighi e degli adempimenti stabiliti dalla normativa prevenzionale e di igiene del lavoro. In tal modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del Rspp – non in quanto tale, bensì nei limiti in cui essa sia espressione delle funzioni delegate – diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale.

La notazione finale sul tema è che il D.Lgs. n. 81/2008 non contiene l’esplicito divieto a che il Rspp sia dotato di poteri decisionali e di spesa (anche se a tal fine occorre – quanto meno nei casi in cui il Rspp non sia (già) un dirigente aziendale – il conferimento di un atto di delega effifcace).

Deve però essere ulteriormente precisato che il Rspp, quand’anche munito di delega, non può mai sostituirsi al datore di lavoro per quanto riguarda gli adempimenti che dal decreto sono definiti come non delegabili secondo la previsione dell’art. 17 del testo unico. Neppure al Rspp può essere conferita una delega così ampia da farne ritenere il profilo funzionale – ipotesi che può verificarsi solo nelle imprese di grandi dimensioni – assimilabile alla figura del cosiddetto “datore di lavoro delegato” (nozione questa estrapolabile dalla locuzione «o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» contenuta nella definizione di datore di lavoro dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008). Ciò urterebbe infatti contro il divieto di cumulo funzionale ricavabile sul piano interpretativo (uso dell’argomento a contrario) dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale, per le imprese di cui all’allegato II al decreto, postula la necessaria distinzione sia funzionale che soggettiva tra datore di lavoro e Rspp.

Neppure, infine, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere delegato a rappresentare il datore di lavoro nella riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008, potendo bensì il datore di lavoro farsi rappresentare in questa sede, ma da persona comunque diversa da quelli che sono i partecipanti necessari alla riunione. E siccome sia il datore di lavoro sia il Rspp sono figure a partecipazione necessaria, la loro presenza fisica deve essere distintamente incarnata, per poter compiutamente garantire l’esprimersi di quel confronto dialettico cui la riunione periodica è funzionale.

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Documenti della privacy maneggiare con cura

Con il Gdpr è necessario porre al tema particolare attenzione

Soltanto atti burocratici? Niente di più sbagliato. L’applicazione del regolamento generale europeo, al contrario, ha l’obiettivo di spingere le aziende verso una maggiore consapevolezza e una più e efficace
cultura della protezione dei dati. Alcune pratiche indicazioni possono aiutare a muoversi con sicurezza nei nuovi adempimenti richiesti dalla legislazione

 

L’applicazione del regolamento generale europeo 679/2018 (Gdpr) non può essere a rontata come un compito burocratico da assolvere spendendo il meno possibile. Sarebbe un grave errore, non solo per via delle elevate sanzioni amministrative collegate al mancato rispetto delle regole, ma anche perché uno degli obiettivi più
ambiziosi del regolamento è promuovere una nuova cultura della protezione dei dati personali nelle aziende e fra i cittadini europei.
Non è un caso che uno dei pilastri più importanti del Gdpr sia la responsabilizzazione di chi svolge attività di trattamento dei dati personali; le aziende hanno la piena responsabilità delle scelte compiute in merito ai trattamenti dei dati personali e rispondono di quello che fanno (o che non fanno). Le scelte sono libere e completamente autonome, nel rispetto delle indicazioni fornite dalla normativa.
È previsto che ogni scelta e ogni decisione tenga conto dello specifico contesto in cui opera l’azienda e sia “documentata” – il che significa che deve essere messa nero su bianco e archiviata opportunamente – per essere esibita in caso di verifiche o controlli.
È necessario, quindi, che le aziende considerino la protezione dei dati personali un tema che non può rimanere confinato sul tavolo del consulente legale o sulla scrivania dell’ufficio dell’information technology ma che richiede, per essere affrontato, la sinergia e la collaborazione di tutte le componenti aziendali.
Piuttosto complicato, quindi, pensare che soluzioni standard possano soddisfare adeguatamente i requisiti normativi e possano essere la base di un efficace sistema di protezione dei dati personali.

Passiamo adesso all’esame dei documenti, distinguendo tra quelli destinati agli interessati – quindi agli individui di cui si stanno trattando i dati – e quelli che l’azienda deve produrre internamente per poter documentare di aver agito responsabilmente.
Parleremo inoltre brevemente dei documenti non “obbligatori” ma, per così dire, “consigliati” per una corretta gestione del sistema di protezione dei dati personali.

I passi obbligatori
Il rispetto del principio di trasparenza passa per una comunicazione corretta e veritiera.
I dati personali non passano di proprietà perché appartengono alla persona che identificano; è bene che le aziende lo ricordino sempre e siano consapevoli del fatto che gli individui hanno la libertà di decidere in merito al loro utilizzo da parte di terzi.
È un diritto degli interessati ricevere dal titolare informazioni chiare, trasparenti, dettagliate e comprensibili in merito alle operazioni di trattamento relative ai loro dati personali. È un obbligo preciso del titolare e non rispettarlo significa incorrere in sanzioni potenzialmente pesantissime. Inoltre, nei casi in cui il trattamento è basato sul loro consenso, gli interessati hanno sempre il diritto di esprimerlo in maniera libera, consapevole, specifica e informata.
I documenti obbligatori verso gli interessati- escludendo da questi le comunicazioni dovute in caso di violazioni di dati personali che presentino un rischio elevato per i loro diritti e libertà – sono sostanzialmente due:
• l’informativa;
• il modulo per la raccolta del consenso.
È necessario acquisire il consenso per ogni tipo di trattamento che non sia:
• funzionale all’esecuzione di un contratto o di un pre-contratto di cui l’interessato è parte;
• necessario per la salvaguardia di interessi vitali dell’interessato;
• rispondente al e ettuato per adempiere a un compito di pubblico interesse o in connessione all’esercizio di pubblici poteri;
• necessario per perseguire la necessità di adempiere a un preciso obbligo legale in capo al titolare del trattamento;
• il legittimo interesse del titolare.
In nessun caso il consenso può essere implicito o tacito; per questo motivo, il titolare del trattamento deve sempre poter dimostrare che l’interessato abbia e effettivamente prestato il proprio consenso al trattamento che sta e effettuando e deve quindi conservarne l’evidenza.
È essenziale, perciò, che il titolare del trattamento si organizzi (con un archivio elettronico o cartaceo specificamente predisposto o mediante la modifica degli applicativi esistenti) per la registrazione delle scelte e effettuate dagli interessati; e poiché, per sua natura, il consenso può essere sempre revocato, gli strumenti di cui si dota devono permettergli di tenere traccia di eventuali ripensamenti degli interessati e di ogni variazione intercorsa durante il rapporto con loro.

Il registro dei trattamenti
Come recentemente indicato dall’autorità Garante nelle Faq dell’8 ottobre 2018, la compilazione del registro dei trattamenti è obbligatoria anche per liberi professionisti ed esercizi commerciali, pubblici o artigianali con almeno un dipendente (bar, ristoranti, officine, negozi, piccola distribuzione ecc.) e/o che trattino dati sanitari dei clienti (ad esempio parrucchieri, estetisti, odontotecnici, tatuatori, commercialisti, avvocati, notai, farmacisti, medici, osteopati, fisioterapisti): molte piccole aziende dovranno quindi redigere un proprio registro dei trattamenti, anche se potranno farlo in forma semplificata (limitandosi alla descrizione delle sole specifiche attività di trattamento sopra menzionate).
Il registro dei trattamenti è un documento che descrive gli elementi essenziali dei trattamenti e effettuati dal titolare e/o dal responsabile e che deve essere mantenuto nel tempo, recependo eventuali variazioni di trattamenti e processi che dovessero intercorrere.
Esempi di registro del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento sono stati mostrati nell’articolo dal titolo «Privacy e safety la parola agli esperti» di Silvana Bresciani e Sabastiano Plutino.
Il registro del titolare è più ricco di dettagli rispetto a quello del responsabile, ma la gran parte delle informazioni da annotare sono desumibili dal contenuto dell’informativa messa a disposizione degli interessati: se l’informativa è ben costruita e pensata – quindi se il titolare del trattamento o il consulente che lo ha supportato hanno condotto una buona fase di analisi – la redazione di questo documento è abbastanza veloce.
I responsabili del trattamento, invece, devono prestare particolare attenzione alle operazioni di trattamento svolte per conto terzi; le aziende che curano il servizio di prevenzione e prevenzione o che svolgono servizi di medicina del lavoro dovranno redigerlo includendo in esso tutti i trattamenti svolti per i propri clienti. Il registro deve essere redatto in forma scritta – cartacea o elettronica – e deve essere tenuto a disposizione per eventuali verifiche. È molto probabile che sarà il primo documento a essere visionato in caso di ispezioni dell’autorità Garante, perché è quello che, più di tutti, offre la possibilità di comprendere velocemente quali siano le caratteristiche essenziali delle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.

Strumenti di gestione
Quali sono gli altri documenti di cui è necessario dotarsi? Dalla lettura attenta della normativa si evince che il titolare del trattamento non può fare a meno di predisporre alcuni documenti essenziali per dimostrare di aver ottemperato al principio di responsabilizzazione e di aver rispettato i principi applicabili a ogni trattamento di
dati personali, così come imposto dal Gdpr.

Individuare e gestire i rischi
Individuare e gestire i rischi connessi al trattamento dei dati personali è uno degli obblighi principali del titolare del trattamento; anzi, nessuna operazione di trattamento può essere e effettuata senza una
preventiva e documentata analisi dei rischi. Documentata, appunto. Se i rischi sono stati valutati – e devono esserlo – sono state anche individuate soluzioni per mitigarli o eliminarli; di tutto questo occorre lasciare traccia. Allo stesso modo, devono essere tracciati gli esiti dei successivi controlli che devono essere programmati per la verifica periodica delle attività di trattamento o per il miglioramento delle misure di sicurezza tecniche e organizzative implementate.
Per soddisfare questo requisito normativo, è sufficiente applicare i comuni strumenti di valutazione e gestione del rischio alle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.
In ogni caso, è bene che l’azienda documenti tutte le analisi e effettuate e tutte le azioni implementate per migliorare la sicurezza del trattamento.

Gestire le violazioni
Un altro obbligo stringente che il Gdpr pone sulle spalle del titolare è la comunicazione al Garante, e in alcuni casi particolari anche agli interessati, delle violazioni di dati personali accertate all’interno del proprio perimetro di trattamento; questo include anche le aree affidate a terzi, per esempio in outsourcing.
La stampa specializzata ci informa che le violazioni di dati sono in preoccupante aumento e gli analisti prevedono che gli attacchi ai sistemi informativi delle aziende continueranno a crescere. Escludendo gli eventi di violazione legati ad azioni mirate, una buona parte di esse è causata da negligenze, disattenzioni o dalla mancata o ritardata adozione di misure di protezione, anche delle più elementari.
In ogni caso, il Gdpr impone che la comunicazione di una violazione, corredata da una serie di informazioni obbligatorie, sia inoltrata all’Autorità entro 72 ore dal suo accertamento. Se il titolare non ha predisposto una procedura per la gestione di questi eventi, non è semplice raccogliere le informazioni per strutturare coerentemente la comunicazione nei tempi previsti.
Per questo motivo, è necessario che il titolare del trattamento predisponga una procedura per governare gli eventi di violazione e che la porti a conoscenza di tutte le componenti aziendali.
Nella malaugurata ipotesi che si verifichi, per qualunque motivo, una perdita o una sottrazione di dati, l’intera organizzazione deve sapere come comportarsi e come cooperare con le strutture aziendali incaricate di gestire l’evento.
La procedura per la gestione delle violazioni, la cui complessità o semplicità dipende dal modo di funzionare dell’impresa, deve illustrare in modo chiaro compiti e responsabilità delle risorse aziendali coinvolte nella corretta gestione di questo delicato momento e deve, quindi, diventare patrimonio condiviso.

Rispondere agli interessati
Il titolare del trattamento deve inoltre organizzarsi al meglio per rispondere alle eventuali richieste che gli interessati possono sottoporgli in riferimento all’esercizio dei diritti loro riconosciuti dalla normativa.
I beni (i dati personali), i diritti inalienabili – cioè dei singoli individui – sono “al centro” del Gdpr e tutti coloro che svolgono operazioni di trattamento di dati personali devono tenerlo ben presente.
Quando gli interessati chiedono, il titolare deve rispondere, al massimo entro un mese.
«Stai trattando mie informazioni personali? Quali dati relativi alla mia persona sono in tuo possesso? Perché li hai e per cosa li Se si è lavorato correttamente per prepararsi alla scadenza del 25 maggio 2018, data di applicabilità del Gdpr, sarà stata fatta un’analisi della situazione corrente e sarà stata colta l’opportunità di mettere ordine ed eliminare le informazioni vecchie e non più utilizzabili; sarà stata fatta anche una mappatura di processi e applicazioni per comprendere dove e come sono conservati i dati (incluse eventuali copie di sicurezza. In ogni caso, qualunque richiesta degli interessati comporta oneri per il titolare del trattamento che deve, lo ricordiamo, riscontrare la richiesta in modo tempestivo dopo essersi accertato dell’identità del richiedente; e per essere sicuri di intercettare tutte le richieste e di evaderle nella maniera corretta con il minor impiego possibile di risorse (persone e mezzi) è bene che i titolari del trattamento implementino una procedura che permetta loro di governare efficacemente i rapporti con gli interessati. risorsa alla quale è affidata la responsabilità di rispondere; chi ha ricevuto l’incarico di svolgere questo compito all’interno dell’azienda deve conoscere le possibili implicazioni, anche tecniche e legali, di simili richieste e può essere agevolato dalla disponibilità di modelli di risposta adatti alla maggior parte delle casistiche che potranno presentarglisi.
La procedura per la gestione delle richieste degli interessati è, quindi, un documento utilissimo per consentire all’organizzazione di rispondere alle richieste in modo efficiente e di dimostrare il rispetto del Gdpr.
Non disporne significa non aver compreso quanta attenzione sia dovuta agli interessati e soprattutto quanto l’adozione di misure organizzative efficaci renda più agevole la conformità alla legislazione vigente.
Tutte le componenti aziendali, anche in questo frangente, devono essere informate sul comportamento da tenere e sulle modalità di collaborazione con la funzione/ usi?». Le aziende potrebbero sentirsi porre questa domanda sempre più spesso, e rispondere potrebbe non essere così semplice o immediato. Molte sono le aziende che hanno le idee “confuse” sulla quantità di dati in loro possesso o sul luogo di memorizzazione; se pensiamo alla quantità di carta spesso conservata per anni in armadi che nessuno più apre, ci rendiamo conto della portata di una simile richiesta (sì, anche conservare documenti cartacei che contengono dati personali è un’attività di trattamento.)

In che modo occorre procedere con i documenti obbligatori
Va sottolineato che la vita delle aziende non è “immobile”, anzi è soggetta a continui mutamenti, che possono essere dettati a novità normative, da esigenze di business o cambiamenti del mercato, da modifiche dei processi. Tutti questi mutamenti possono comportare – e spesso comportano – la necessità di apportare modifiche ai documenti di cui s’è parlato. Si tratta, quindi, di documentazione “viva”, che richiede verifiche periodiche e, quando necessario, aggiornamenti.
La “storia” dev’essere conservata, per documentare la correttezza delle azioni del titolare del trattamento in presenza di determinate condizioni e in un determinato momento della vita dell’azienda; le vecchie versioni dei documenti destinati agli interessati, del registro dei trattamenti e/o delle procedure interne devono essere mantenute con indicazione del periodo di validità. Il titolare del trattamento fa dunque in modo che gli interessati abbiano sempre a disposizione la versione più recente dell’informativa; nei riguardi dei dipendenti, li rende consapevoli delle modifiche apportate alle le procedure in vigore e della necessità di fare riferimento ai documenti aggiornati.
Per quanto riguarda il registro dei trattamenti, potrebbe essere direttamente il Garante a chiedere che le siano mostrate le precedenti versioni del documento. È quindi necessario gestire i documenti della privacy e le aziende devono organizzarsi per farlo in modo efficiente. Le decisioni in merito al “come” fare sono lasciate al titolare del trattamento, ma è fondamentale che questo si organizzi per la conservazione delle evidenze che gli consentiranno di dimostrare di aver agito nel rispetto della normativa.

Altri adempimenti
Un’azienda con un buon livello di sensibilità rispetto al tema della protezione dei dati personali può decidere di predisporre altra documentazione per facilitare la corretta applicazione del Gdpr.
È quindi evidente che ci sono ancora molte cose che un’azienda può fare per diffondere la cultura della protezione dei dati personali e aumentare la consapevolezza dei propri addetti al trattamento. Le misure “organizzative”, insieme a quelle tecniche, rientrano nell’insieme più ampio delle misure di sicurezza che i soggetti che svolgono attività di trattamento di dati personali sono tenuti a implementare; tra le misure organizzative è possibile includere sia le istruzioni che il titolare del trattamento impartisce ai propri collaboratori per aiutarli a svolgere correttamente le proprie mansioni sia gli impegni che il titolare del trattamento assume nei confronti dei propri interessati. Predisporre un documento di politica che illustra alle parti interessate gli impegni che l’azienda assume in riferimento alla protezione dei dati personali a lei affidati; redigere un regolamento interno che indica con chiarezza quali sono i doveri e i comportamenti richiesti ai dipendenti quando svolgono trattamenti di dati personali; programmare periodicamente, anche su base annuale, un seminario per dipendenti allo scopo di “rinfrescare” le istruzioni chiave e accertarsi che siano ben comprese: si tratta di ulteriori opzioni che il titolare del trattamento ha a disposizione per contribuire al salto culturale di cui si è parlato all’inizio di questo intervento. C’è ampia libertà, insomma, e ampio spazio per la fantasia.
Ancora una volta è importante ribadire che tutti questi documenti sono soggetti allo stesso tipo di gestione dei documenti che abbiamo definito obbligatori. Tutto quello che l’azienda fa in questo ambito deve essere documentato e mantenuto aggiornato.

La formazione
Un’ultima importante notazione: il titolare e il responsabile del trattamento hanno l’obbligo di formaretutti coloro che trattano dati sotto la loro autorità.
La formazione può avvenire mediante documenti, seminari, corsi in aula o strumenti per la formazione a distanza; la decisione è libera e ciascuno sceglierà il mezzo che meglio soddisfa le proprie esigenze. L’evidenza di aver formato dipendenti e collaboratori deve però essere conservataper dimostrare di aver ottemperato agli obblighi normativi.

 

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Registro degli esposti così la trasmissione

Adempimenti: la comunicazione telematica all’Inail finalizzata alla tutela

Uno strumento indispensabile agli organismi pubblici della prevenzione per conoscere il tipo di rischio al quale gli operatori sono stati sottoposti nel corso della loro attività lavorativa. Ecco come procedere

Il registro degli esposti all’amianto rappresenta uno strumento informativo che permette agli enti pubblici di prevenzione di conoscere tutte le persone che, durante la loro attività lavorativa, sono state esposte al rischio amianto; deve riportare informazioni quali l’attività svolta dai lavoratori, i dati relativi agli agenti cancerogeni o mutageni utilizzati e il valore dell’esposizione a questi agenti, se noto, in termini di intensità, frequenza e durata. Queste informazioni possono essere utilizzate dagli utenti per scopi sanitari, assicurativi e previdenziali. Infatti, è facoltà del datore di lavoro richiedere agli stessi enti copia delle annotazioni individuali, contenute nel registro, in caso di assunzione di lavoratori che abbiano in precedenza esercitato attività che comportavano esposizione ad amianto. Recentemente è stato introdotto l’obbligo di trasmissione del registro di esposizione unicamente per via telematica.

Le precedenti norme di riferimento
L’ormai abrogato D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (recante «Attuazione delle direttive 89/391/Cee, 89/654/Cee, 89/655/Cee, 89/656/Cee, 90/269/Cee, 90/270/Cee, 90/394/Cee, 90/679/Cee, 93/88/Cee, 95/63/Ce, 97/42/Ce, 98/24/Ce, 99/38/Ce, 99/92/ Ce, 2001/45/Ce, 2003/10/Ce, 2003/18/Ce e 2004/40/Ce riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro») all’articolo 59-sexiesdecies. «Registro di esposizione e cartelle sanitarie e di rischio» prevedeva, tra l’altro:
• l’obbligo, per il medico competente, di provvedere a istituire e aggiornare una cartella sanitaria e di rischio per ciascuno dei lavoratori esposti ad amianto;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, di iscrivere i lavoratori esposti in un registro;
• l’obbligo, per il datore di lavoro, in caso di cessione del rapporto di lavoro, di trasmettere all’Ispels la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.
Il successivo articolo 70 «Registro di esposizione e cartelle sanitarie”, inoltre, specificava in particolare i contenuti del registro nonché i relativi obblighi del datore di lavoro e del medico competente.

I modelli
Il D.M. Salute 12 Luglio 2007, n. 155, recante il «Regolamento attuativo dell’articolo 70, comma 9, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626. Registri e cartelle sanitarie dei lavoratori esposti durante il lavoro ad agenti cancerogeni» ha definito le modalità e i modelli per la tenuta del registro e delle cartelle sanitarie e di rischio dei lavoratori esposti ad agenti cancerogeni e la creazione da parte del medico competente della cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, prevedendo che i dati relativi agli accertamenti e la conseguente registrazione degli stessi possano essere trattati esclusivamente per le finalità di igiene e sicurezza del lavoro.
Questi modelli di tenuta del registro sono i seguenti:

• modello C626/1: dati anagrafici del datore di lavoro, sintesi delle principali caratteristiche dell’azienda (attività produttiva, agente utilizzato, addetti ecc.);

• modello C626/2: registrazione delle informazioni riguardanti i dati anagrafici di ogni lavoratore, l’attività svolta, l’agente utilizzato, l’intensità, la frequenza e la durata dell’esposizione;

• modello C626/3: comunicazione di variazioni intervenute nelle informazioni che caratterizzano l’azienda;

• modello C626/4: (qualora il lavoratore non ne sia in possesso): richiesta delle “annotazioni individuali” in caso di assunzione di lavoratori che hanno in precedenza esercitato attività con esposizione ad agenti cancerogeni presso altra azienda;

• Il decreto ha anche elaborato le specifiche per la compilazione dei modelli dei suddetti modelli, cui occorre fare pedissequo riferimento. Analogamente, il decreto in questione ha introdotto il modello per la compilazione delle cartelle sanitarie e di rischio.

Il rapporto con il D.Lgs. 81/2008
Come noto, il testo unico scurezza, vale a dire il D.Lgs n. 81/2008 recante «Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro», ha abrogato molte norme relative a numerosi precedenti dispositivi legislativi in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, secondo principi di uniformità, riunione e armonizzazione. Ciò premesso, ai sensi degli articoli 242 e 243 del capo II «Protezione da agenti cancerogeni e mutageni», del titolo IX «Sostanze pericolose» del testo unico sicurezza, i lavoratori per i quali la valutazione dei rischi ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti a sorveglianza sanitaria e sono iscritti in un registro nel quale è riportata, per ciascuno di essi, l’attività svolta, l’agente cancerogeno o mutageno utilizzato e, ove noto, il valore dell’esposizione a questo agente. Il suddetto registro è istituito e aggiornato dal datore di lavoro che ne cura la tenuta per il tramite del medico competente. Il responsabile del servizio di prevenzione e i rappresentanti per la sicurezza hanno accesso a questo registro. Il medico competente, per ciascuno di questi lavoratori, provvede a istituire e ad aggiornare una cartella sanitaria e di rischio.

Che cosa sono le Esedi
Innanzitutto, ai sensi dell’articolo 249 del capo III «Protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto» del medesimo titolo IX, è ribadito che, ai sensi dell’articolo 28, il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi dovuti alla polvere proveniente dall’amianto e dai materiali contenenti amianto, al fine di stabilire la natura e il grado dell’esposizione e le misure preventive e protettive da attuare. Inoltre, sempre ai sensi del suddetto 249, purché si sia in presenza di esposizioni sporadiche dei lavoratori e di debole intensità e si possa desumere dalla stessa valutazione dei rischi che il valore limite di esposizione all’amianto (0,1 fibre/c.c.), misurata in rapporto a una media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore, non sia superato nell’aria dell’ambiente di lavoro, si può prescindere dalla notifica dei lavori, dall’obbligo del ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori alla polvere proveniente dall’amianto o dai materiali contenenti amianto nel luogo di lavoro e, in ogni caso, al di sotto del valore limite, dalla sorveglianza sanitaria dei lavoratori e dall’iscrizione dei lavoratori nel registro degli esposti ad amianto, nel caso delle seguenti attività:
• manutenzioni di breve durata, non continuative, che interessano unicamente i materiali contenenti amianto in matrice non friabile (come, per esempio, coperture e canne fumarie in cemento amianto, pavimenti in vinyl amianto ecc.);
• rimozione che non comporti deterioramento di materiali non degradati in cui le fibre di amianto sono fermamente legate a una matrice (quindi, per i manufatti indicati al punto precedente);
• incapsulamento e confinamento di materiali contenenti amianto che si trovano in buono stato;
• sorveglianza, controllo dell’aria e prelievo di campioni ai fini dell’accertamento
della presenza di amianto in un determinato materiale.
Il testo unico sicurezza prevede poi, al comma 4 del medesimo articolo 249, che la commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza, istituita presso il ministero del Lavoro per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, deve provvedere a definire orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità relative alle attività indicate.
Inoltre, l’articolo 253 precisa che, per garantire il rispetto del valore limite di 0,1 fibre/ c.c. di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore e in funzione dei risultati della valutazione iniziale dei rischi, il datore di lavoro deve effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, aggiungendo, però, rispetto alle precedenti disposizioni, che questo vale tranne nei casi di esposizioni sporadiche e di debole intensità. Da un lato, poi, il legislatore estende l’obbligo dell’uso dei Dpi delle vie respiratorie anche alle attività con esposizioni sporadiche e di debole intensità, come indicato all’articolo 251, e, d’altro canto, per queste stesse attività, il datore di lavoro non è tenuto a effettuare periodicamente la misurazione della concentrazione di fibre di amianto nell’aria del luogo di lavoro, come previsto dall’articolo 253, quindi, in questi casi non si saprà mai se il valore limite è eventualmente ed eccezionalmente superato.
Successivamente, con la circolare, prot. n. 15/segr/0001940, del 25 gennaio 2011, «in ordine all’approvazione degli orientamenti pratici per la determinazione delle esposizioni sporadiche e di debole intensità (Esedi) all’amianto nell’ambito delle attività previste dall’art. 249 commi 2 e 4, del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 come modificato e integrato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106», il ministero del Lavoro, Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro ,ha disciplinato le attività Esedi introdotte dall’ormai abrogato D.Lgs. n. 257/2006 e ora riportate nel testo unico sicurezza.
Questa circolare identifica le Esedi, di cui all’articolo 249 comma 2 del D.Lgs. 81/2008, nelle attività che vengono effettuate per un massimo di 60 ore l’anno, per non più di quattro ore per singolo intervento e per non più di due interventi al mese, e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/L calcolate rispetto a un periodo di riferimento di otto ore.
La durata dell’intervento si intende comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore. All’intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile. Pertanto, la commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza, tramite il comitato n. 9, ha stabilito che le su indicate attività Esedi devono avere al massimo:

• una durata giornaliera di quattro ore per ciascun intervento;

• una durata mensile di otto ore pari a due interventi di, al massimo, quattro ore ciascuno;

• una durata annua di 60 ore, corrispondente a 15 interventi al massimo di quattro ore ciascuno, nell’ipotesi di non più di due interventi al mese;

• e che corrispondono a un livello massimo di esposizione a fibre di amianto pari a 10 f/l = 0,01 fibre/cm3, determinato in un periodo di riferimento di otto ore, pari quindi a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/cm3.

La commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza precisa altresì che la durata dell’intervento, definita in quattro ore, deve essere comprensiva del tempo per la pulizia del sito, la messa in sicurezza dei rifiuti e la decontaminazione dell’operatore e che a ciascun intervento non devono essere adibiti in modo diretto più di tre addetti contemporaneamente e, laddove ciò non sia possibile, il numero dei lavoratori esposti durante l’intervento deve essere limitato al numero più basso possibile, che del resto è precisato dall’articolo 251 del testo unico sicurezza, comma 1, lettera a) («il numero dei lavoratori esposti o che possono essere esposti alla polvere proveniente dall’amianto o da materiali contenenti amianto deve essere limitato al numero più basso possibile»).
In base alle procedure utilizzate dall’Inail per attuare gli indirizzi valutativi dell’esposizione, così come fissati dal ministero del Lavoro, è possibile procedere al calcol della presunta esposizione all’amianto da parte del singolo lavoratore identificato. I presupposti di questo calcolo sono i seguenti:

• la durata di un turno giornaliero è posta pari a otto h;

• in un anno si hanno 240 giornate lavorative.

Inoltre, ponendosi in una situazione estrema, vale a dire considerando nella fattispecie 15 esposizioni occasionali in un anno di durata non superiore a quattro ore (ovviamente non più di due interventi mensili di quattro ore ciascuno), pari a un’esposizione massima annuale di 60 ore, come previsto dalla commissione, si avrebbe una concentrazione media giornaliera di fibre di amianto alla quale il lavoratore sarebbe stato esposto durante l’anno pari a una concentrazione media giornaliera delle fibre molto al di sotto del valore limite di legge, pari a 0,1 fibre/cm3, pertanto il lavoratore, secondo i canoni Inail, non potrebbe essere considerato “esposto all’amianto”, ai sensi e per gli effetti delle leggi vigenti, anche se questo contrasta con quanto riportato al punto 4b) del D.M. 06 settembre 1994: «ai sensi delle leggi vigenti, il personale addetto alle attività di manutenzione e di custodia deve essere considerato professionalmente esposto ad amianto».

Lo strumento
Ai sensi dell’articolo 260 del suddetto apo III del medesimo Tu, il datore di lavoro deve iscrivere nel registro degli esposti i lavoratori per i quali, nonostante le misure di contenimento della dispersione di fibre nell’ambiente e l’uso di idonei Dpi, nella valutazione dell’esposizione abbia accertato che l’esposizione è stata superiore, all’interno del Dpi, a un decimo del valore limite di 0,1 fibre/c.c. di aria, vale a dire 0,01 f/c.c., pari a 10 f/litro, e qualora si verifichino eventi non prevedibili o incidenti che possono comportare un’esposizione anomala di lavoratori per cui gli stessi devono abbandonare immediatamente l’area interessata. Una volta iscritti i lavoratori nel registro, il datore di lavoro deve trasmettere una copia dello stesso registro agli organi di vigilanza delle aziende sanitarie locali o territoriali e all’ex Ispesl (la legge 30 luglio 2010, n. 122, di conversione con modificazioni del decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, prevede l’attribuzione all’Inail delle funzioni già svolte dall’Ispels).
Generalmente, i servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (Spsal) delle aziende sanitarie verificano la completezza della documentazione e possono eventualmente richiedere integrazioni o effettuare un sopralluogo ispettivo. Il suddetto testo unico ribadisce altresì in modo chiaro che l’iscrizione nel registro deve intendersi come temporanea, poiché deve essere perseguito l’obiettivo della non permanente condizione di esposizione superiore a quella consentita.
A questo punto, è doveroso esprimere un parere personale, reso più volte pubblico2, osservando pertanto che la precisazione introdotta dal legislatore, già con la prima versione del D.Lgs. n. 81/2008, sulla temporaneità dell’iscrizione degli operatori amianto nel registro degli esposti, rappresenta una novità sia rispetto alle precedenti norme dell’abrogato decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 257, recante «Attuazione della direttiva 2003/18/Ce relativa alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti dall’esposizione all’amianto durante il lavoro», sia rispetto al contenuto del D.M. Salute 12 luglio 2007, n. 155. All’opposto, dovrebbe essere un diritto dei lavoratori della bonifica e smaltimento dell’amianto essere iscritti, sempre e comunque, nel registro degli esposti, a prescindere dal livello di esposizione, poiché non sempre è possibile accertare in modo deterministico quale sia stata la loro effettiva esposizione nel corso dei diversi anni. Inoltre, questa “temporaneità d’iscrizione nel registro degli esposti” contrasta apertamente con la notoria constatazione che l’effetto neoplastico non ha, teoricamente, valori di soglia (sono proprio i docenti medici che, nei corsi per operatori e coordinatori amianto, affermano spesso che «è sufficiente una fibra per contrarre la patologia», anche se è più corretto e accettabile ragionare in termini di durata e grado di esposizione.

Il D.Lgs. n. 81/2008, invece, non garantisce pienamente gli operatori e i coordinatori amianto, in particolar modo quelli addetti alle operazioni di bonifica da amianto compatto che, notoriamente, sono soggetti a bassi valori di concentrazione di fibre d’amianto. Infatti, in base all’attuale testo unico sicurezza, questi lavoratori potrebbero non essere mai iscritti nel registro degli esposti perché sarà agevole accertare, da parte del datore di lavoro, che gli stessi non hanno mai subito un’esposizione superiore al limite di legge e, quindi, non avranno più nemmeno il diritto alla sorveglianza sanitaria, a discrezione del medico competente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, come invece prevedeva la norma precedente (art. 59-quinquiesdecies D.Lgs. n. 626/1994, introdotto dal D Lgs. n. 257/2006).
In base al testo unico sicurezza altresì, il datore di lavoro, su richiesta, deve fornire, agli organi di vigilanza e all’Inail, una copia del registro. In caso di cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve trasmettere, per il tramite del medico competente, all’Inail la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro.

L’Inail è tenuto a conservare i documenti sanitari per un periodo di quarant’anni dalla cessazione dell’esposizione. Pertanto, in base alla normativa attuale, si è tenuti a iscrivere i lavoratori nel registro degli esposti solo se ricorrono le condizioni suddette e, nel caso di iscrizione, il datore di lavoro è tenuto a trasmettere copia del registro agli organi di vigilanza e all’Inail e fornirlo su richiesta degli stessi enti, ma non è prevista una cadenza annuale di presentazione del registro.
La conservazione dei dati sanitari raccolti deve poi essere assicurata, come detto, per 40 anni dalla cessazione del lavoro comportante esposizione ad agenti cancerogeni, oppure per 30 anni ove cessi un lavoro comportante esposizione a radiazioni ionizzanti, e dovranno essere cancellati successivamente a questo termine dalla cartella sanitaria solo nel caso in cui questi dati non risultano indispensabili, quale fonte d’informazione polivalente in relazione alla relativa esposizione anche ad agenti cancerogeni.

Si fa altresì presente che la responsabilità dell’invio della documentazione è sempre del datore di lavoro perché il medico competente ne rappresenta soltanto il “tramite” per l’invio (articolo 260, comma 3, D.Lgs. 81/2008: «Il datore di lavoro, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, trasmette all’Ispels, per il tramite del medico competente, la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro di cui al comma 1»).
Nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, nell’eventualità di mancata trasmissione all’Inail, tramite il medico competente, della cartella sanitaria e di rischio del lavoratore interessato, unitamente alle annotazioni individuali contenute nel registro degli esposti, il datore di lavoro e il dirigente dell’impresa sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 1.800 euro.

La modalità telematica
Il decreto interministeriale 25 maggio 2016 n. 183, recante il «Regolamento recante regole tecniche per la realizzazione e il funzionamento del Sinp, nonché le regole per il trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81», tratta appunto delle regole tecniche per il funzionamento del sistema informativo per la prevenzione degli infortuni (Sinp) e prevede l’acquisizione telematica da parte dell’Inail dei dati contenuti nei Registri di esposizione, a partire dal 12 ottobre 2017. A tale scopo, è stato realizzato un servizio informatizzato per la trasmissione, da parte del datore di lavoro, dei registri di esposizione, accessibile tramite i servizi online del portale istituzionale dell’Inail.
L’introduzione del registro online consente di rendere immediatamente disponibili, oltre che all’Inail, ai servizi di prevenzione delle Asl territoriali, le informazioni contenute nei registri di esposizione delle singole imprese.

La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43
La circolare Inail 12 ottobre 2017, n. 43, riportale informazioni più dettagliate sulle modalità di trasmissione telematica dei registri.
In particolare, ai fini dell’adempimento di quanto previsto dalla normativa vigente nei confronti di Inail e delle aziende sanitarie locali competenti per territorio, in una prima fase, a decorrere dal 12 ottobre 2017, con questo provvedimento l’Inail ha reso possibile al datore di lavoro titolare di posizione assicurativa territoriale (Pat), nonché ai soggetti abilitati dal datore di lavoro stesso, di utilizzare il nuovo servizio telematico “registro di esposizione”.
Gli altri datori di lavoro pubblici e privati, comunque assoggettati al medesimo obbligo, fino al 13 maggio 2018, hanno avuto la possibilità di inoltrare i dati afferenti al registro di esposizione tramite Pec, utilizzando il modello disponibile sul sito istituzionale dell’Inail, procedendo a un unico invio contestuale tramite posta certificata all’istituto, (all’indirizzo dmil@postacert. INAIL.it) e all’indirizzo di posta certificata
della Asl (Ast) territorialmente competente, sulla base dell’unità produttiva. Inoltre, la circolare in questione precisa che i dati contenuti nei registri di esposizione cartacei trasmessi entro l’11 ottobre 2017, così come i dati dei registri di esposizione ricevuti tramite Pec dopo la suindicata data, sono inseriti all’interno del precedente archivio informatico e che sarebbero stati resi disponibili nel registro online entro il mese di marzo 2018.
Il datore di lavoro e i suoi delegati possono inserire, modificare, visualizzare i dati e trasmettere il registro mentre il medico competente, qualora abilitato dal datore di lavoro all’utilizzo del nuovo servizio online può inserire, modificare e visualizzare i dati ma non può effettuare la trasmissione del Registro che rimane in carico al datore di lavoro e ai suoi delegati.
È inoltre possibile preimpostare i dati anagrafici delle aziende e delle unità produttive, al fine di agevolare i datori di lavoro nel processo di compilazione e trasmissione del registro. Sono poi state inserite funzioni
di facilitazione nella selezione per il settore economico (Ateco) e per la scelta e inserimento della professione e mansione del lavoratore esposto. È stata, altresì, prevista una funzione specifica per consentire di aggiungere le annotazioni individuali per singolo lavoratore esposto, prestante servizio per l’unità produttiva selezionata.

La circolare Inail 15 maggio 2018, n. 22
Con la circolare 15 maggio 2018, n. 22, a decorrere dal 14 maggio 2018, l’Inail ha consentito anche ai datori di lavoro, non titolari di posizione assicurativa territoriale (Pat), la trasmissione telematica alla stessa Inail e alla Asl (Ast) territorialmente competente sulla base dell’unità produttiva, al posto della Pec, di modo che il registro online è immediatamente accessibile ai funzionari dei servizi di prevenzione delle aziende sanitarie locali tramite l’inserimento delle credenziali in loro possesso nell’area dei servizi online del sito web dell’Inail.
Inoltre, questa seconda circolare precisa che l’Istituto sta progressivamente rendendo disponibili, nel relativo applicativo informatico registro di esposizione, i dati dei registri che i datori di lavoro hanno trasmesso in formato cartaceo e che saranno progressivamente inseriti anche i dati dei registri di esposizione pervenuti all’Istituto tramite Pec entro la data del 13 maggio 2018.

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Privacy: le novità per salute e sicurezza

Le principali Faq dell’Autorità chiariscono alcuni aspetti fondamentali del tema

Il D.Lgs. n. 101/2018 allinea il codice italiano al regolamento (Ue) n. 2016/679, ma non sospende le attività ispettive del Garante. Tra le direttrici fondamentali che sono state inserite nell’articolato nel provvedimento, troviamo il controllo a distanza e il divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

L’entrata in vigore, il 25 maggio 2018, del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, ha portato a una nuova rivoluzione in materia di protezione dei dati personali; non
ci sono settori economici, infatti, che possano ritenersi esenti da questo nuovo regime della privacy che, per altro, ha pesanti riflessi anche sulla gestione dei processi di salute e di sicurezza sul lavoro, come
del resto emerge anche scorrendo il documento “storico” del Garante del 31 marzo 2008, in cui mise una serie di paletti all’allora nascente D.Lgs. n. 81/2008, soprattutto in ordine alla tenuta della documentazione e alla gestione dei dati sanitari. Il regolamento (Ue) n. 2016/679 (cosiddetto “Rgpd”) ha posto, tuttavia, anche il problema per il legislatore italiano di armonizzare la disciplina interna con questo importante provvedimento che, com’è noto, non richiede ulteriori provvedimenti recettivi da parte dei singoli Stati membri.
La risposta non è stata immediata, come ci si attendeva, ma, sia pure con ritardo, è arrivata con il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016» (in Gazzetta Ufficiale 4 settembre 2108, n. 205), con il quale si è completata la prima fase del delicato processo di adeguamento della disciplina italiana a quella europea contenuta nel regolamento (Ue) 2016/679, che, per altro, prevede anche un pesante apparato sanzionatorio. Al tempo stesso, come si vedrà, l’Autorità garante per la privacy ha anche dettato, in data 8 ottobre 2018, istruzioni operative sul registro dei trattamenti che fanno seguito a quelle del 1° ottobre sulla definizione delle liti pendenti, che forniscono importanti indicazioni per gli operatori. Favorita la linea della continuità Il provvedimento, in vigore dal 19 settembre 2018, armonizza, quindi, le disposizioni contenute nel «Codice in materia di protezione dei dati personali» (D.Lgs. n. 196/2003), con quelle introdotte dal citato regolamento europeo n. 2016/679, abrogando anche numerose disposizioni in esso contenute. Un primo profilo da mettere subito in risalto è che con il D.Lgs. n. 101/2018, il legislatore italiano ha operato una precisa scelta di fondo: al fine di assicurare un’indispensabile continuità tra la nuova e la previgente disciplina ha introdotto un periodo transitorio in cui sono fatti salvi i provvedimenti del Garante e le autorizzazioni che saranno oggetto di un successivo riesame. L’art. 21, comma 1, infatti, stabilisce che sarà il Garante ad adottare un apposito provvedimento generale, da porre in consultazione pubblica entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, che stabilirà le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali già adottate, relative alle situazioni di trattamento di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettere c) ed e), 9, paragrafo 2, lettera b) e 4, nonché al capo IX del regolamento (Ue) 2016/679, che risultano compatibili con le disposizioni del medesimo regolamento e del D.Lgs. n. 101/2018 e, ove occorra, provvederà al loro aggiornamento.
Le autorizzazioni generali sottoposte a verifica ritenute incompatibili con le disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/679, cesseranno di produrre i loro effetti dal momento della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato provvedimento generale; il comma 3 stabilisce, inoltre, che le autorizzazioni generali adottate dal Garante prima della data di entrata in vigore del decreto – quindi come già accennato il 19 settembre 2018 – relative a trattamenti diversi da quelli indicati al comma 1 cessano di produrre effetti alla predetta data. Peraltro, occorre osservare che lo stesso Garante con provvedimento generale 19 luglio 2018, n. 424, già aveva preannunciato che, nelle more del perfezionamento dell’iter legislativo di adeguamento del quadro normativo nazionale, sarebbero restate in vigore, sia pure temporaneamente, le autorizzazioni generali adottate in data 15 dicembre 2016, tra le quali le più significative riguardanti la salute e la sicurezza sul lavoro sono:
• la n. 1/2016, in materia di rapporto di lavoro;

• la n. 2/2016, in materia di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;

• la n. 4/2016 per i professionisti.

Molto significativa è, inoltre, anche la funzione promozionale attribuita al Garante che avrà, così, il delicato compito di emanare le regole deontologiche concernenti il trattamento dei dati personali in alcuni settori (giornalismo, lavoro, statistica e ricerca scientifica) coinvolgendo i soggetti interessati.

Controllo a distanza e divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

Un’altra direttrice strategica fondamentale, seguita in materia di lavoro, la si rinviene nell’art. 15, D.Lgs. n. 101/2018, che ha novellato l’art. 171, D.Lgs. n. 193/2006, riguardante le violazioni delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori, stabilendo che, in caso di violazione delle norme contenute negli articoli 4, comma 1, e 8, legge n. 300/1970 (cosiddetto “Statuto dei lavoratori”) si applica il regime sanzionatorio già previsto dell’art. 38 della stessa legge.
Non si tratta, in effetti, di un’innovazione assoluta, ma la strada seguita dal legislatore anche in questo caso è quella di un più efficace coordinamento sistematico delle nuove disposizioni con quelle poste a tutela della libertà e della dignità del lavoratore della legge n. 300/1970; è necessario ricordare, in particolare, che l’art. 4, comma 1, stabilisce il divieto generale in base al quale gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (ad esempio personal computer fissi e portatili, tablet, telefoni cellulari eccetera) possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) o dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) o, in mancanza, previa autorizzazione rilasciata dalla competenze sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
L’art. 8, legge n. 300/1970, invece, fa espresso divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore; si tratta, invero, di una disposizione molto importante e per altro bisogna ricordare anche dibattuta in tema d’indagini sul personale finalizzate alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato.
In caso di violazione, pertanto, di queste disposizioni secondo quanto confermato dal novellato art.171, D.Lgs. n. 193/2006, il trasgressore sarà passibile delle sanzioni previste dall’art. 38, legge n. 300/1970, quindi, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, l’ammenda da euro 154,94 a euro 1.549,37 o l’arresto da 15 giorni a un anno.

Controlli: nessuna sospensione all’orizzonte
Un altro profilo di notevole rilievo è la disciplina sui controlli; il D.Lgs. n. 101/2018, ha messo fine ad alcuni rumor, risultati poi infondati, su alcune previsioni della versione definitiva del decreto che andavano nella direzione di uno stop temporaneo delle attività di controllo.
Viceversa, nel provvedimento in questione, non è prevista alcuna sospensione dell’attività ispettiva dell’Autorità garante fino ad aprile 2019; occorre considerare, infatti, che l’art. 22, comma 13, infatti, stabilisce
che «Per i primi otto mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Garante per la protezione dei dati personali tiene conto, ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative e nei limiti in cui risulti compatibile con le disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679, della fase di prima applicazione delle disposizioni sanzionatorie».
Invero, non è molto chiara l’esatta portata di questa previsione ma, almeno da una prima lettura, sembra di capire che, fino al 18 maggio 2019, l’attività sanzionatoria del Garante dovrebbe essere più “mite” e improntata alla valutazione di diversi fattori, come l’aver avviato le procedure di adeguamento e aver pianificato le diverse attività necessarie per garantire il rispetto della nuova normativa.
Da questa previsione, pertanto, non emerge alcuna sospensione del potere ispettivo, ma solo una fase transitoria in cui si tiene in considerazione che, in sede di prima applicazione di una normativa alquanto complessa come quella del regolamento europeo n. 2016/679, sono maggiori le difficoltà di adeguamento dei sistemi e delle procedure; di conseguenza, nell’applicare le sanzioni il Garante dovrà tener conto di diversi elementi come del resto già previsto nelle linee guida del Comitato europeo (ex WP29) del 3 ottobre 2017.

Violazioni pregresse: parte la sanatoria

Sempre sul piano sanzionatorio, occorre anche sottolineare che l’art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche la definizione agevolata delle violazioni pregresse in materia di protezione dei dati personali; in deroga all’art.16, legge n. 689/1981, per i procedimenti sanzionatori riguardanti le violazioni di cui agli artt. 161, 162, 162-bis, 162-ter, 163, 164, 164-bis, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, e le violazioni delle misure di cui agli artt. 33 e 162, comma 2-bis, medesimo decreto che, alla data di applicazione del regolamento europeo, risultino non ancora definiti con l’adozione dell’ordinanza- ingiunzione, è ammesso il pagamento in misura ridotta di una somma pari a due quinti del minimo edittale. Si tratta, quindi, di una sanatoria che riguarda tutti quei procedimenti sanzionatori relativi a condotte illecite poste in essere prima del 25 maggio 2018; fatti salvi i restanti atti del procedimento eventualmente già adottati, il pagamento potrà essere effettuato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, ossia il 18 dicembre 2018. L’art. 18 – che, è bene precisare, detta ulteriori disposizioni in materia – ha, quindi, una sua precisa ratio, ovvero produrre un effetto deflattivo del contezioso sorto per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del regolamento europeo n. 2016/679.
Come già accennato in merito è intervenuto recentemente anche l’Autorità garante e con comunicato del 1° ottobre 2018 ha fornito importanti istruzioni operative per chiarire ai soggetti pubblici e privati come usufruire della definizione agevolata dei procedimenti sanzionatori pendenti. Da osservare, in particolare, che nelle domande più frequenti (Faq) pubblicate sul proprio sito web2, l’Autorità ha precisato che, qualora decida di non definire in maniera agevolata i procedimenti sanzionatori pendenti, il contravventore ha la facoltà di pagare l’intero importo contenuto nell’atto di contestazione oppure di presentare nuove memorie difensive entro il 16 febbraio 2019.
In quest’ultimo caso, il Garante, esaminate le nuove memorie presentate nei termini, potrà, in alternativa, disporre l’archiviazione degli atti ove ne ricorrano i presupposti, ovvero adottare specifica ordinanza- ingiunzione con la quale potrà determinare la somma dovuta per la violazione e ingiungerne il pagamento all’autore della violazione e alle persone che vi sono obbligate solidalmente. Nella stessa Faq è inoltre sottolineato che «Il termine per il Garante per disporre l’archiviazione degli atti o per adottare una specifica ordinanza-ingiunzione è di 5 anni ai sensi dell’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689; tale termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute è stato espressamente interrotto dall’art. 18, comma 5, del decreto legislativo n. 101 del 10 agosto 2018 e pertanto decorrerà nuovamente a partire dal 19 settembre 2018 (data di entrata in vigore del d.lgs. 101/2018). Il termine ultimo per l’archiviazione degli atti o per l’adozione di un provvedimento di ordinanza-ingiunzione, in tali casi, sarà quindi quello del 19 settembre 2023».
Da rilevare, inoltre, che sempre nelle Faq è chiarito che, per effetto del già citato art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, possono avvalersi della definizione agevolata soltanto i contravventori che abbiano ricevuto, entro il 25 maggio 2018, l’atto con il quale sono notificati gli estremi della violazione o l’atto di contestazione immediata di cui all’art. 14, legge n. 689/1981.

Registro delle attività di trattamento: i chiarimenti del Garante e le ricadute sui professionisti

Per quanto, invece, riguarda la tenuta del registro dei trattamenti, il D.Lgs. n. 101/2018 non ha introdotto innovazioni in materia come ci si attendeva, lasciando più saggiamente, quindi, un ampio spazio d’intervento all’Autorità garante che come accennato l’8 ottobre 2018 ha fornito diversi e importanti chiarimenti sui soggetti obbligati e le regole di tenuta. Bisogna ricordare che questo registro deve essere predisposto dal titolare e dal responsabile del trattamento ed è un documento contenente le principali informazioni (si veda l’art. 30, regolamento n. 2016/679) relative alle operazioni di trattamento svolte da un’impresa, un’associazione, un esercizio commerciale, un libero professionista o altro soggetto obbligato. Come precisato dell’Autorità garante, l’obbligo di redigere questo registro costituisce uno dei principali elementi di accountability del titolare, poiché rappresenta uno strumento «idoneo a fornire un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno della propria organizzazione, indispensabile ai fini della valutazione o analisi del rischio e dunque preliminare rispetto a tale attività»; la stessa Autorità, inoltre, ricorda che sono tenuti a redigere il registro le imprese o le organizzazioni con almeno 250 dipendenti e – al di sotto dei 250 dipendenti – qualunque titolare o responsabile che effettui trattamenti che possano presentare rischi, anche non elevati, per i diritti e le libertà delle persone o che effettui trattamenti non occasionali di dati oppure trattamenti di particoprivacy lari categorie di dati (come i dati biometrici, dati genetici, quelli sulla salute, sulle convinzioni religiose, sull’origine etnica eccetera) o anche di dati relativi a condanne penali e a reati. Il campo applicativo è, quindi, molto vasto e, come emerge delle importanti Faq del Garante riportate di seguito, per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, coinvolge non solo i medici competenti, ma anche altri professionisti che trattano tali dati in questo ambito.

Le altre novità di rilievo in sintesi

Resta, infine, solo da rilevare brevemente che il D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche alcune ulteriori innovazioni di rilievo; in particolare, nel codice della privacy (D.Lgs. n. 196/2003), è stato introdotto il nuovo articolo 154-bis, che, al comma 4, prevede che, in considerazione delle esigenze di semplificazione delle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla raccomandazione 2003/361/Ce, il Garante stabilirà le modalità semplificate di adempimento degli obblighi del titolare del trattamento. Al tempo stesso, è stato ridotto da 16 a 14 anni il limite di età entro cui il consenso al trattamento dei dati personali dei minori deve essere esercitato da chi ne abbia la responsabilità genitoriale. Inoltre, per quanto riguarda il curriculum vitae inviato ai fini dell’instaurazione di un rapporto di lavoro, non è più necessario esprimere il consenso al trattamento dei dati in esso contenuti, ma chi lo riceve deve fornire al primo contatto utile successivo le informazioni previste dall’articolo 13, regolamento n. 2016/679.

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