Non devono mancare determinati requisiti di “natura” e di “gestione”

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale,9 novembre 2018, n. 51006, pur escludendola gestione non a norma e l’abbandono di rifiuti,ha comunque condannato un titolare di un’impresa agricola per il reato di cui all’articolo 137,D.Lgs. n. 152/2006 (scarichi illeciti). E nel farlo,si è pronunciata da una prospettiva diversa rispetto a precedenti orientamenti, su un elemento indicato come potenzialmente discriminante. Vediamo quale

La corte di Cassazione è stata chiamata, ancora una volta, a doversi esprimere relativamente a un caso in cui si pone la necessità di dover «distinguere tra scarichi e rifiuti», ovvero quando le acque reflue siano da fare rientrare in una tipologia piuttosto che nell’altra, con la conseguente applicazione della relativa disciplina. Nel caso specifico, la Corte ha definito scarichi industriali, oltre i reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti dove si svolgono attività artigianali e di prestazione di servizi, qualora le caratteristiche qualitative di questi siano diverse da quelle delle acque domestiche. La conclusione, però, è stata che, anche qualora si possa essere in presenza di scarichi di acque reflue, con la conseguente applicazione della relativa disciplina e sottrazione dall’ambito dei rifiuti, non devono mancare determinati requisiti e caratteristiche di “natura” e di “gestione” dello scarico.

Fatto
La vicenda in esame ha portato la suprema Corte a esprimersi e a ribadire le proprie posizioni su determinate questioni su cui, negli anni, si è andata consolidando una specifica giurisprudenza. Il titolare di un’azienda agricola era stato dichiarato, in primo e in secondo grado, colpevole del reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. 152/2006, per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali derivanti dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti all’allevamento di tacchini. L’imputato, nel proporre ricorso in Cassazione, avverso la pronuncia dei giudici dell’appello, ha addotto l’insussistenza del reato di cui sopra a causa della mancanza di un siste-ma stabile di collettamento da cui sarebbe derivato il carattere occasionale dell’operazione; oltre al fatto che sarebbe stata incerta anche la qualificazione delle acque provenienti dal lavaggio del capannone come “industriali”, potendo contenere, a giudizio del ricorrente, al massimo residui di materia organica e non certo sostanze chimiche che potessero connotare la pericolosità delle acque reflue.

La sentenza della suprema Corte

Acque reflue industriali: dalla definizione…
Al contrario, come accennato in precedenza, la Corte non ha avuto dubbi nel qualificare come “acque reflue industriali” quelle provenienti e scaricate dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, facendo opportuno riferimento a precedenti pronunce secondo cui «nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive». In questa accezione, inoltre, devono ricomprendersi «tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, e che non si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali inquinanti on connessi con le attività esercitate nello stabilimento» (Cassazione penale, sez. III, 5 febbraio 2009, n.12865). Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2015, n. 3199).

…alla qualificazione come scarichi
Una volta assodato il fatto che nella nozione di acque reflue industrialirientrano anche quelle provenienti – come nel caso di specie – dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali, la questione è stata incentrata sulla qualificazione di queste acque reflue come “scarichi”. L’imputato aveva addotto, in propria difesa, l’occasionalità delle immissioni di cui, facendo riferimento alle fotografie fornite dagli ispettori incaricati del sopralluogo, non esisteva una prova chiara. Il suddetto motivo di impugnazione, però, non ha convinto i giudici della suprema Corte che hanno confermato la colpevolezza dell’imputato per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006 e hanno colto l’occasione per confermare l’orientamento espresso in materia. In particolare, facendo riferimento a una precedente pronuncia, i giudici hanno ribadito che «non è certo l’episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione in esame, rilevando, invece, ai fini della sua configurabilità, l’esistenza, attesa la sua natura di reato di pericolo», di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell’ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo» (sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45634).

Il nesso funzionale e diretto

Quando esclude una disciplina…
Un altro aspetto sottolineato dai giudici della suprema Corte al fine della configurabilità del reato in questione è l’esistenza di «uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo». In una recente sentenza, la Corte ha definito la sottile distinzione tra i casi in cui le acque reflue devono essere considerate “scarichi” o “rifiuti”.
Sulla base di quanto afferma l’articolo 74, D.Lgs. n. 152/2006, per scarico deve intendersi «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo acque superficiali» da cui ne consegue che «in tutti i casi in cui non sussista un nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore debba applicarsi la disciplina sui rifiuti, che secondo l’articolo 185 del D.Lgs. n. 152/2006, opera anche in relazione alle acque di scarico». La pronuncia ha affermato che «in caso di raccolta di reflui in vasche, con successivo sversamento in un terreno e ruscellamento in un torrente, non potesse trovare applicazione la disciplina sugli scarichi, non potendo il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale essere considerato diretto e non essendo lo stesso attuato senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento» (Cassazione pena-le, sez. III, n. 38848/2017). In questo caso, dunque, l’imputato, che svolgeva attività di pulitura e confezionamento di ortaggi e raccoglieva le acque reflue derivanti in vasche senza autorizzazione, era stato stato condannato per gestione illecita e abbandono di rifiuti ex articoli 192, 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006.

… e quando ne ammette un’altra
Diverso è apparso il caso in esame nel quale, come sopra accennato, i giudici hanno confermato la colpevolezza del titolare dell’azienda agricola per il reato di cui all’articolo 137, D.Lgs. n. 152/2006, avendo effettuato scarichi di acque reflue industriali, derivanti dalle operazioni di lavaggio dei capannoni. Nella fattispecie, come in altri casi citati, è stata messa in evidenza l’esistenza del «nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore» che la Corte aveva sempre sottolineato come l’elemento che, qualora assente, avrebbe determinato l’applicazione della disciplina sui rifiuti (articolo 185, D.Lgs.152/2006) anche in relazione alle acque di scarico; in questo caso, però, lo stesso elemento è stato posto in senso positivo, non più a escludere, ma ad ammettere l’applicazione della disciplina sugli scarichi. La configurabilità del reato di cui all’articolo 137 citato, nel caso di specie, è derivata proprio dalla constatazione dell’esistenza di uno «stabile sistema di collettamento che univa il ciclo produttore del refluo con il suolo», costituito dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta.