Infortuni sul lavoro: il punto della sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018

 

Se i professionisti esterni, di regola, non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa prevenzionistica? Un’articolata e interessante pronuncia della suprema Corte chiarisce alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione

 

Il fatto
La sentenza in esame è stata emessa nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di due consulenti esterni di una azienda in relazione all’infortunio sul lavoro occorso a tre operai. Per il medesimo infortunio era stata accertata, in un procedimento gemello, la responsabilità del datore di lavoro, nonché Rspp, in particolare, per non aver valutato in modo adeguato i rischi aziendali e aver realizzato empiricamente, quale progettista, una macchina centrifuga caratterizzata da anomalie e carenze strutturali quali il sottodimensionamento dei meccanismi di bloccaggio della flangia.
Nel corso della realizzazione di un getto di lega di acciaio inossidabile, tre dipendenti del reparto fonderia dell’azienda che produce acciai speciali centrifugati erano stati investiti in varie parti del corpo dalla massa di acciaio liquido fuoriuscito dalla conchiglia rotante nella quale quest’ultima era contenuta. Durante la fase di solidificazione del processo di colata, infatti, il coperchio della conchiglia, detto “flangia”, si era sollevato a causa del cedimento di due dei tre dei dispositivi meccanici di bloccaggio – cedimento dovuto alla pressione generata dal metallo fuso in essa contenuto che, sottoposto a una spinta verso l’alto a causadel movimento centrifugo della conchiglia – ed era fuoriuscito improvvisamente.
L’investimento degli operai aveva determinato la morte di due lavoratori e il ferimentograve di uno.

Il merito
Nell’ambito del giudizio di merito erano stati giudicati corresponsabili due consulenti, entrambi professionisti esterni all’azienda e legati al datore di lavoro da autonomi contratti d’opera intellettuali in virtù dei quali all’uno (tale F.) era stato assegnato l’incarico di collaborare alla valutazione dei rischi all’altro (tale S.), quello
di occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario. Ai consulenti era stato contestato di non aver in particolare valutato il rischio meccanico di proiezione a distanza del metallo fuso, di aver predisposto barriere balistiche laterali e dispositivi di protezione individuali tutti inidonei.
Il presupposto sul quale è stata ritenuta, secondo la Corte di Appello, la «corresponsabilità» di:
• F. deriva dal suo inserimento ex contractu, ancorché si tratti di “consulenza generalizzata” in relazione alla messa in sicurezza delle macchine, nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda. Ciò avrebbe comportato l’assunzione di una posizione di garanzia in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, giudicata nel caso di specie inadeguata (così ha argomentato il giudice di primo grado: se un soggetto, come il F, «si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (..) non è esente da (co) responsabilità»);
• S. deriva dalla sua investitura ex contractu in relazione agli adempimenti di certificazione del macchinario che sarebbero stati connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.

La legittimità
La suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza di condanna agli e etti civili pronunciata nei confronti di S. ritenendo impossibile accertare al di là di ogni ragionevole dubbio un’eventuale responsabilità a suo carico per gli infortuni occorsi. La Corte ha cassato, invece, con rinvio la sentenza di condanna di F. rispetto alla posizione del quale dovrà essere celebrato un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale si uniformerà
ai principi di diritto affermati. Con la sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018, in sostanza, la suprema Corte nell’affrontare lo specifico tema della responsabilità in materia di sicurezza dei «consulenti» del
datore di lavoro statuisce che:
• i consulenti, in quanto soggetti estranei alla compagine aziendale e destinatari di un incarico di consulenza generale, non sono destinatari “in linea generale” della normativa prevenzionistica e, come tale, di posizioni di garanzia. E ciò a differenza del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ai quali la disciplina è formalmente e direttamente rivolta;
• ferma la sopracitata regola, i consulenti possono assumere la veste di «corresponsabili» a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale. A tal fine è necessario che, in relazione alle circostanze del caso concreto sia possibile, in alternativa, affermare che abbiano acquisito la veste di garante «di fatto» oppure abbiano realizzato una condotta cooperativa causalmente connessa all’evento e nella consapevolezza dell’altrui condotta.
Tra i destinatari della normativa prevenzionistica non vi sono (di regola) i consulenti.
Con riguardo al primo punto, la Corte è chiara nell’affermare come i consulenti esterni che non sono riconducibili all’organizzazione aziendale non sono tra i destinatari diretti della normativa sulla sicurezza. La disciplina prevenzionistica è, infatti, rivolta anzitutto nei confronti del datore di lavoro che è il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile e, quindi, dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e di assumere direttamente le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazionidi rischio. Al datore di lavoro si aggiungono, altresì, come destinatari il “dirigente” (art. 18, D.Lgs. cit.) «che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso» e il “preposto” (art. 19, D.Lgs. cit.) «colui che attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione».
La suprema Corte, sotto questo profilo, afferma «il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel Rspp ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica».
Ciò comporta che i consulenti anche qualora si inseriscano nel processo di valutazione dei rischi aziendali non sono perciò solo automaticamente «corresponsabili» unitamente alle figure istituzionali e questo perché l’avvalimento di soggetti tecnici esterni non implica necessariamente e automaticamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro. Ma se dunque i consulenti esterni, di regola,
non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa sulla sicurezza?
«Corresponsabilità» dei consulenti esterni: sì, se ricorre in concreto il cosiddetto intreccio cooperativo. La natura colposa dei delitti in materia di infortuni sul lavoro (omicidio colposo e lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro) impone di ricorrere – nel caso in cui gli illeciti siano riconducibili a una pluralità di soggetti – all’istituto della cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale che si caratterizza, a differenza del concorso di cui all’art. 110 del codice penale dal difetto della volontà di partecipare con altri alla realizzazione del delitto. Non a caso di parla di cooperazione in luogo di concorso.
A questo fine, oltre alla pluralità di soggetti, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, il contributo causale alla realizzazione dell’evento e la consapevolezza
(e non la volontà) da parte ci ciascun partecipe di agire in concomitanza con l’azione di altri. Si tratta di un istituto cui è assegnato il compito di estendere la responsabilità penale colposa a condotte astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto.
La Corte, per assegnare contenuto a questo istituto, richiama un precedente del 2013 (Cass. pen. sez. IV – ud. 3 ottobre 2013; 18 ottobre 2013, sent. n. 43083) nel quale si afferma che la rilevanza penale del contributo
anche atipico si coglie “in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori del delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione e alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia».
In quella occasione, la Cassazione aveva confermato la sentenza di condanna per cooperazione in omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza nei confronti dell’amministratore
della società subaffittuaria di una stalla in relazione al decesso del soggetto incaricato dalla proprietà del fabbricato e committente dei lavori (quindi di un soggetto diverso) alla rimozione di alcune lastre di fibrocemento poste a copertura del tetto. Il giudizio aveva confermato che l’operazione, infatti, avvenne nella consapevolezza da parte dell’imputato, per quanto rileva, dell’omessa predisposizione da parte del committente di misure di protezione a tutela dell’operatore a fronte del rischio evidente di caduta dall’alto (consapevolezza
cooperazione) e addirittura fornendo il mezzo di elevazione delle lastre sostitutive al livello della copertura (condotta agevolatrice causalmente connessa).
In sostanza, la Corte ha ricostruito in capo all’agente/cooperante un “dovere giuridico di astensione” – pur in difetto di posizione di garanzia – allorché si trovi a operare in una situazione di rischio “immediatamente e distintamente percepibile”: in questo contesto, qualora la mancata astensione (condotta cooperativa) si traduca in un’agevolazione o aggravamento del rischio che poi si concretizza (l’infortunio) e il contributo causale alla realizzazione dell’evento sia giuridicamente apprezzabile (e provato) l’agente ne risponderà penalmente ex art. 113 del codice penale.
In sintesi, la condotta di “cooperazione”, di per sé penalmente a contenuto neutro, riceve la qualifica di condotta colposa, quindi penalmente rilevante, soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, a cui ci si limita volontariamente ad aderire. L’istituto della cooperazione colposa, pertanto, estende l’area del penalmente rilevante anche alle condotte dei cooperanti le quali di per sé non violino alcuna regola cautelare ma siano adesive all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta «assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento».
Afferma, infatti, la Corte che anche quando il coinvolgimento integrato di più soggetti non sia imposto dalla legge o da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, e sia contingenza oggettivamente definita
senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza «l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte queste situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così
un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Questa pretesa “d’interazione prudente” individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v.Cass., sez. 4, n. 1428/2011, Rv. 252940)».

Questo principio è stato ribadito anche successivamente in un caso nel quale è stata confermata, a titolo di cooperazione colposa, la responsabilità dell’amministratore di una società gerente un complesso sciistico per l’infortunio mortale occorso a un bambino rimasto incastrato in un gonfiabile, allestito nell’area di proprietà del complesso, ma sradicatosi a seguito di vento di burrasca ampiamente previsto (Cass. pen. sez. feriale, ud. 25 agosto 2015 – 13 ottobre 2015 n. 41158). La suprema Corte, peraltro, ha ricondotto all’istituto previsto dall’art. 113 del codice penale la fonte di «corresponsabilità» anche del responsabile del serviziodi prevenzione e protezione di un’azienda sanitaria per l’infortunio occorso a seguito di una sovratensione dell’impianto elettrico a un paziente della struttura in terapia elettromedicale (Cass. pen. sez. IV – ud. 24 gennaio 2013 – 11 marzo 2013, n. 11492). Pur affermando che il Rspp «non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica» operando quale “consulente” del datore di lavoro «nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori» e, come tale, operando in mancanza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, egli può nondimeno “concorrere” con la responsabilità del datore di lavoro.
Nel dettaglio «anche il Rspp (…) può essere ritenuto (co)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
La mancata doverosa segnalazione di un rischio da parte del Rspp è stata dunque qualificata come concausa dell’evento dannoso consapevolmente connessa all’azione posta in essere dal garante. Quindi, se è vera la conclusione (rassicurante per i professionisti esterni coinvolti in materia di sicurezza aziendale) che questi non sono tra i destinatari diretti della normativa cautelare di settore è vero, altresì, che il rischio di un coinvolgimento a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale è ugualmente effettivo.
Ogni procedimento penale nel quale verranno chiamati a rispondere a questo titolo richiederà peraltro, la Corte lo ribadisce con forza, un accertamento probatorio mirato a verificare e ricostruire in concreto i termini della condotta cooperativa fornita. Tenuto conto che la «corresponsabilità» del consulente potrà trovare fondamento tanto nel caso dell’assunzione di “fatto” di una posizione di garanzia quanto nel caso, come visto, di una condotta cooperativa anche solo agevolatrice ma causalmente rilevante e consapevole all’azione altrui, l’accertamento probatorio potrà assumere complessità variabile. Ciò tenendo, peraltro, conto che i delitti in materia si caratterizzano per essere per lo più reati colposi omissivi impropri caratterizzati cioè dal punire non già il semplice mancato compimento di un’azione doverosa bensì l’evento cagionato dall’omissione del comportamento doveroso finalizzato a prevenirlo (la morte o le lesioni). Ne consegue che alla complessità dell’accertamento deriva a cascata il rischio di esposizione dell’imputato all’alea di una ricostruzione della “verità processuale” lontana da quella fattuale, ferma l’evidenza che già ordinariamente i due concetti non sono pienamente e necessariamente sovrapponibili. La Corte con la sentenza in commento cerca di offrire coordinate rassicuranti al fine di consentire agli operatori del diritto di navigare senza incognite e non perdersi nel mare dell’accertamento probatorio.

Un discrimine da considerare
Qualora il coinvolgimento del “consulente” avvenga sulla base dell’acquisizione di una posizione di garanzia riconducibile all’esercizio “di fatto” delle funzioni tipiche di una delle diverse figure di garante, la ricostruzione degli obblighi cautelari deve essere operata «accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro».
Nel caso di specie la suprema Corte ha scrutinato la sentenza impugnata per verificare se e come la Corte territoriale avesse in concreto ricostruito la posizione di garanzia ascritta di fatto agli imputati. L’esito negativo di questa verifica deriverebbe dal fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare in modo accurato «le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato» pur avendo accertato il difetto di delega (investitura formale) e dell’attribuzione specifica di compiti, non ricostruibile sulla base della “consulenza sia pure generalizzata”.

La cooperazione causalmente rilevante e consapevole
Come anticipato, qualora il coinvolgimento del “consulente” non derivi dall’assunzione anche di fatto di una posizione di garanzia, l’accertamento giuridico del contributo cooperativo fornito nei termini rigorosamente descritti assume profili di complessità probatori- giuridici non indifferenti.
In questo caso, del pari, occorre infatti – afferma la Corte – che «una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che di adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento».
Nel caso di specie questa complessità si è tradotta in un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per il consulente S., incaricato di collaborare con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare il macchinario al cui utilizzo erano intenti gli operai infortunati. Afferma la Corte che «i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità».
Al contrario, quanto alla posizione di F., questa necessità di accertamento ha condotto, come anticipato, a una sentenza di annullamento con rinvio affinché la Corte territoriale verifichi, dandone conto, alla luce dei principi affermati dalla suprema Corte se il coinvolgimento di F. sia riconducibile a una condotta di cooperazione rilevante ai sensi dell’art. 113 del codice penale. Ciò significa che all’esito del giudizio ben potrebbe esserne affermata la penale responsabilità in relazione all’infortunio occorso ai tre dipendenti. Il rischio, non solo del coinvolgimento nel processo penale ma delle conseguenze da esso derivanti nel caso di condanna, inducono pertanto a ritenere necessario, nella fase prodromica del rapporto di collaborazione delineare con precisione e attenzione i contenuti della prestazione professionale richiesta.
Se una “consulenza generalizzata”, infatti, consente di escludere in linea generale in capo ai professionisti esterni all’azienda l’assunzione formale di garanti delle norme cautelari in materia di sicurezza non altrettanto consente di mettere al riparto gli interessati da rischi di una chiamata in causa a titolo di «corresponsabilità» in caso di infortuni. Di più. Una tale falsa partenza implicherebbe la necessità di valutare globalmente gli elementi fattuali della vicenda per come concretamente avvenuta i quali potrebbero condurre a una ricostruzione diversa (rispetto agli accordi contrattuali) e più gravosa a danno dell’interessato.