Rspp, elemento cardine della sicurezza in azienda

Quali sono i compiti e i limiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione?
Dal “vecchio” D.Lgs. 626/1994 in poi il perimetro di questa figura si è via via sempre più delineato e il suo profilo, soprattutto grazie alla giurisprudenza, meglio precisato. Ma alcuni aspetti sul versante
penale devono ancora essere messi a fuoco con maggiore puntualità. Vediamo quali sono

Figura di riferimento nella gestione della sicurezza sul lavoro, unico organo collegiale della sicurezza, il Rspp ha spesso suscitato l’attenzione della Corte di Cassazione che più volte si è espressa a riguardo, richiamando e sottolineando le funzioni del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ha il dovere di coadiuvare il datore di lavoro nella valutazione dei rischi e nel coordinamento di tutte le misure idonee a evitare i rischi presenti nell’ambiente di lavoro.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura introdotta in Italia con il D.Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, emanato in attuazione di alcune direttive europee relative al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e confermata dal D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 – Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tutta la sezione III del D.Lgs. n. 81/2008 è dedicata a questa figura chiave nell’ambito della sicurezza sul lavoro, necessaria in azienda e nei cantieri civili e industriali e indispensabile per realizzare la prevenzione.
«Il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici» che «devono possedere le capacità e i requisiti professionali di cui all’articolo 32 del decreto, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati».
La nomina del Rspp è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro, prevista dall’art. 17, comma 1 lettera b) del D.Lgs. 81/2008 e deve essere nominato un Rspp obbligatoriamenteinterno all’azienda nei casi previsti dall’ art. 31 comma 6 del D.Lgs. 81/2008.
Gli addetti al servizio devono essere «in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di istruzione secondaria superiore, nonché di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative».
In alcuni casi, singolarmente indicati nella tabella 1 dell’articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, «il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza» e in questi casi deve seguire uno specifico percorso formativo e di aggiornamento i cui contenuti sono stati individuati con accordo nell’ambito della conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011.

Le regole d’ingaggio
I compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono elencati nell’articolo 33 del D. Lgs. 81/2008 e sono così sintetizzabili:
• individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
• elaborazione, per quanto di competenza, delle misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di queste misure;
• elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
• proposizione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
• partecipazione alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
• “fornitura” ai lavoratori delle informazioni di cui all’articolo 36.
In linea generale, il responsabile coordina il servizio di prevenzione e protezione cioè «l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori» (art. 2 comma, 1 lettera l), del D.Lgs. 81/2008), collaborando con il datore di lavoro, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla realizzazione del documento di valutazione dei rischi (Dvr).

Collegamento di funzioni
L’articolo 2 del “testo unico” sulla sicurezza definisce il responsabile del servizio di prevenzione e protezione come una «persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi».
Da questa definizione emerge l’intenzione del legislatore di avvicinare queste due figure portanti nel sistema della sicurezza, in modo tale da creare tra loro un vero e proprio “collegamento di funzioni”.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione trasmette al datore di lavoro le competenze tecniche e organizzative necessarie a garantire la predisposizione di tutte le misure idonee per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma non è assolutamente tenuto a controllare l’effettiva applicazione delle misure stesse, non essendo titolare di quella posizione di garanzia che la normativa ha riservato in capo al datore di lavoro, al dirigente e al preposto.
Come stabilisce l’articolo 17, comma 1, letterab), «la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi» è uno degli obblighi propri del datore di lavoro che non può delegare e il Rspp deve rispondere del suo operato al datore di lavoro e a nessun altro soggetto con cui viene a interagire nella normale pratica aziendale.
Il Rspp opera per conto del datore di lavoro che è la «persona giuridicamente posta nella posizione di garanzia, poiché l’obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il Rspp fa capo a lui stesso». Il Rspp, come affermato dalla Cassazione, «è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come avviene in qualsiasi altro settore dell’azienda, devono essere fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che è quest’ultimo che viene comunque chiamato a rispondere delle sue eventuali negligenze».
La nomina del Rspp non equivale, sicuramente, a una «delega di funzioni» tale da far venir meno, in capo al datore di lavoro, la responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica il quale non può delegare la posizione di garanzia che riveste nei confronti dei lavoratori, ma questo non esclude che il Rspp possa, in alcuni casi specifici, avere una propria responsabilità responsabilità, concorrente, nel verificarsi di un evento lesivo. Questa sembra essere la tendenza della suprema Corte che già in una pronuncia risalente a diversi anni fa aveva affermato che: «Il Rspp risponde, insieme al datore di lavoro, per il verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare» (Cass. Pen, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 2814).

Che cosa è cambiato
La giurisprudenza di legittimità si è espressa, negli ultimi anni, a favore di una maggiore responsabilizzazione del Rspp che è stato disegnato dal legislatore e rimane una figura puramente consultiva e propulsiva al fianco del datore di lavoro, ma questo non esclude che sia ipotizzabile, nei suoi confronti, una responsabilità penale «qualora, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e discipline, trascuri di segnalare una situazione di rischio, inducendo così, il datore di lavoro, a omettere l’adozione di una misura di prevenzione che si assume doverosa e la cui attuazione avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo». Questa possibilità non escluderebbe l’innegabile responsabilità del datore di lavoro, ma darebbe spazio a una responsabilità “concorrente” del Rspp. In questo senso si è espressa la Cassazione penale nella sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 con cui è stata confermata la responsabilità penale anche del Rspp in ordine all’omicidio colposo aggravato in danno di un dipendente. L’imputato in questione, prima consulente e poi Rspp dell’azienda, non poteva esimersi dal valutare dove e come venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti alcuni materiali liquidi altamente infiammabili che erano stati travasati nelle cisterne presenti sul piazzale dell’azienda, talmente grandi da non poter essere non notate. L’esistenza di questo deposito esterno all’azienda, invece, non è stato menzionato nel documento di valutazione dei rischi da parte del responsabile che ha dimostrato, così, una grave negligenza nell’assolvimento dei propri obblighi.
Nel caso in esame è stato confermato il principio secondo cui: «il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica, lo stesso opera, piuttosto, quale “consulente”, in questa materia, del datore di lavoro, il quale è e rimane direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio» (Cass.pen. n. 11492/2013).
La designazione del Rspp non equivale a «delega di funzioni» utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di “trasferire” ad altri la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori.
«L’indiscussa responsabilità del datore dilavoro, che rimane, comunque, titolare della propria posizione di garanzia relativamente all’osservanza della normativa antinfortunistica, non esclude che possa profilarsi lo spazio per una responsabilità concorrente del Rspp: anche il Rspp, che è privo di poteri decisionali e di spesa e, quindi, non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizza detta situazione».
Nel caso specifico, dunque, l’imputato – prima consulente esterno del datore di lavoro per l’elaborazione del documento di valutazione e Rspp successivamente nominato – non poteva assolutamente ignorare e non segnalare l’esistenza del deposito esterno di cisterne contenenti materiale infiammabile, dopo aver valutato l’effettiva situazione di rischio che si era creata nell’ambiente di lavoro, e se lo ha fatto, ciò è ascrivibile a colpa.

Una responsabilità “concorrente”…
Questa tendenza è stata confermata dalla suprema Corte in una successiva pronuncia, relativa a una fattispecie in cui sarebbe stata ammessa una corresponsabilità del Rspp se quest’ultimo non avesse osservato i propri obblighi e non avesse svolto adeguatamente i propri compiti come è, invece, avvenuto.
Ecco, quindi, che il dettato della Cassazione ha affermato che «non è configurabile la responsabilità penale in capo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione per il reato di lesioni colpose, aggravato dalla violazione antinfortunistica ex articolo 590, comma 2, del codice penale, qualora questo abbia diligentemente valutato e, conseguentemente segnalato, tramite un documento di valutazione rischi (Dvr) completo e idoneo, i fattori di rischio presenti in azienda, con ciò adempiendo all’obbligo, sullo stesso gravante in forza della posizione di garante ascrittagli, di impedire l’evento» (Cassazione penale, sezione IV, 10 maggio 2017, n. 27516).
In questo caso specifico il Rspp aveva adeguatamente segnalato, tramite il Dvr, il rischio per la pericolosità intrinseca delle presse presenti in azienda, aggravato dall’inidoneità dei dispositivi di protezione non conformi alla legge, e, dunque, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza di proscioglimento del reato di cui all’articolo 590, comma 2, del codice penale, emessa in favore dello stesso.

…e l’ipotesi di una “esclusiva”
La Cassazione torna sull’argomento con la sentenza n. 4941 del 1° febbraio 2018 in cui si “osa” un po’ di più e si ipotizza una responsabilità “esclusiva” del Rspp che va oltre quella “concorrente” ormai consolidata.
Nel caso in questione, viene sottoposto all’esame dei giudici di legittimità un infortunio avvenuto nel corso di opere di disboscamento, a seguito al quale era deceduto un lavoratore, colpito al capo da un ramo che egli stesso aveva provveduto a tagliare. Imputati sono sia il datore di lavoro, sia il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per aver omesso di eliminare o ridurre al minimo i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori; per aver omesso di vigilare opportunamente sulle operazioni di disboscamento; per avere omesso di informare e formare adeguatamente il lavoratore sui rischi connessi all’attività che si accingeva a svolgere.
La Corte ribadisce le linee guida in materia, confermando che:
• «il datore di lavoro si avvale dell’ausilio del Rspp per la valutazione dei rischi aziendali e per la redazione del relativo documento (Dvr);
• che “la designazione del Rspp costituisce, per il datore di lavoro, un obbligo il cui inadempimento è penalmente sanzionato”;
• che i compiti del Rspp non rientrano nelle funzioni delegabili di cui all’articolo 16 del D.Lgs n. 81/2008 e che ha l’obbligo di assolvere ai compiti indicati nell’articolo 33 del decreto”.
Rimane, dunque, fuori da ogni dubbio, il fatto che «i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici “ausiliari” del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, ma sempre eventualmente in concorso con il datore di lavoro, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale.
Sono soltanto “consulenti” e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera
si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario…»
Tutto ciò, però, come su accennato, non esclude che possa delinearsi una responsabilità penale del Rspp, per infortuni sul lavoro o tecnopatie, «sempre in concorso con il datore di lavoro» ai sensi dell’articolo 113 del codice penale, quando l’evento lesivo sia derivato da alcuni suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio».
La suprema Corte, però, nel caso in questione, si spinge un po’ avanti nel momento in cui si pone il dubbio se possa essere prospettabile «una responsabilità anche esclusiva del Rspp ogni qual volta gli infortuni e/o le malattie professionali siano riconducibili a situazioni di pericolo che il Rspp avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare al datore di lavoro.
Ciò, in particolare, se è vero «che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
I giudici di legittimità si sono domandati quale sarebbe la regola o il principio di diritto applicabile nel caso in cui il datore di lavoro avesse nominato un Rspp, altamente qualificato, ne avesse seguito sempre le direttive e i suggerimenti, ma quest’ultimo avesse omesso di segnalare una situazione di rischio specifica e sofisticata, che il datore di lavoro non sarebbe stato in grado di riconoscere.
Sicuramente il datore di lavoro avrebbe mantenuto la propria posizione di garante della sicurezza con tutti gli impegni che ne derivano a cui non ha potuto tener fede per una condotta omissiva del Rspp di cui non è stato colpevole.
In questo caso si potrebbe prospettare l’ipotesi di «una responsabilità esclusiva del Rspp, laddove si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia il frutto dell’omissione colposa di un compito professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (Cass. Pen. sez. IV, 15 luglio 2010, n. 32195).

Una questione rimasta ancora in sospeso
I giudici, però, non si spingono oltre, non generalizzano all’intera materia antinfortunistica: le affermazioni contenute nella pronuncia in esame, relative a uno specifico caso di infortunio sul lavoro e non elaborano, dunque, un principio di diritto che modifichi radicalmente i cardini della responsabilità penale in materia.
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prevede specifiche sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione: non vi è uno specifico sistema di pene che vada a sanzionare il comportamento di un Rspp che non svolga adeguatamente i propri compiti. Tutto ciò non sta a significare, come abbiamo detto, che il Rspp sia esente da responsabilità penale per reati anche gravi: nel caso in cui si verifichi un infortunio derivante da una situazione pericolosa che aveva il dovere di individuare e di segnalare, in modo tale che il datore di lavoro potesse predisporre le misure di sicurezza adeguate, sarà, comunque, co-responsabile con il datore di lavoro per l’evento l’evento lesivo.
È il passo in più che non è stato, in un certo senso, ancora “codificato”: l’ipotesi in cui al Rspp possa riconoscersi una responsabilità “esclusiva”, per colpa professionale, che vada a esonerare persino il datore di lavoro, perché l’infortunio sia derivato da una specifica situazione di rischio che solo il Rspp aveva la capacità di scorgere e di rendere nota e che il datore di lavoro non era in grado di vedere e di valutare.

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Piccoli trabattelli a prova di sicurezza

Attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto. Hanno ingombri in pianta limitati e raggiungono altezze non elevate.
Le fiancate possono essere realizzate utilizzando le scale portatili come componenti. L’accesso alla piattaforma può avvenire dall’esterno o dall’interno. Nelle attività per cui è previsto il ricorso, il lavoratore, però, è esposto ai rischi di instabilità e di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.
Non sono coperte da direttiva specifica e non possono essere marcate Ce, ma sono soggette, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il cosiddetto codice del consumo)

In alcuni contesti lavorativi, l’utilizzo di trabattelli “normali” è assai difficoltoso per cui vengono frequentemente impiegati “piccoli trabattelli”, attrezzature provvisionali di lavoro diverse da quelle previste nella Uni En 1004. Sono sono generalmente destinati a lavori di breve durata e possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente.
Gli ambienti ove più spesso vengono impiegati sono gli spazi ristretti e/o i luoghi ad altezza ridotta. I “piccoli trabattelli” assomigliano anche ad altri “dispositivi”: le scale mobili con piattaforma secondo la Uni En 131-7. Considerate le ridotte dimensioni, i piccoli trabattelli vengono generalmente usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende l’utilizzatore, gli utensili, le attrezzature e il materiale. Non vanno utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto e devono essere conformi a quanto previsto dal D.Lgs. 81/2008 e nello specifico all’art. 140. L’utilizzo di trabattelli per lavori in quota è previsto nell’art. 111 del D.Lgs 81/2008 al comma 2: «Il datore di lavoro sceglie il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego. Il sistema di accesso adottato deve consentire l’evacuazione in caso di pericolo imminente».
Il comma 5 prevede che «Il datore di lavoro, in relazione al tipo di attrezzature di lavoro adottate in base ai commi precedenti, individua le misure atte a minimizzare i rischi per i lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione, prevedendo, ove necessario, l’installazione di dispositivi di protezione contro le cadute. I predetti dispositivi devono presentare una configurazione ed una resistenza tali da evitare o da arrestare le cadute da luoghi di lavoro in quota e da prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori». I dispositivi di protezione collettiva contro le cadute possono presentare interruzioni soltanto nei punti in cui sono presenti scale a pioli o a gradini». I requisiti essenziali che i piccoli trabattelli debbono possedere sono:

• la stabilità al ribaltamento laterale;
• la sicurezza durante il montaggio e lo smontaggio;
• la sicurezza durante l’uso.

Per stabilità al ribaltamento laterale si intende la capacità che ha un piccolo trabattello a opporsi alle azioni che ne determinano il ribaltamento laterale con una rotazione intorno a un asse passante per la base dei due montanti; è dovuta al comportamento del lavoratore che si pone lateralmente al piccolo trabattello per cui il suo baricentro cade fuori dalla base di appoggio o che esercita forze sostanzialmente parallele all’impalcato (quando per esempio adopera un trapano) pur avendo il baricentro entro la base di appoggio del trabattello.

Riguardo alla stabilità, l’articolo 140 del D.Lgs. 81/2008 prevede che «I ponti su ruote devono avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai carichi ed alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati» (art. 140, comma 1).

Ulteriore risvolto su cui il legislatore pone l’attenzione ai fini della stabilità è il bloccaggio delle ruote che «devono essere saldamente bloccate con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso dispositivi appropriati devono impedire lo spostamento involontario dei ponti su ruote durante l’esecuzione dei lavori in quota» (art. 140, comma 2). Per quanto riguarda la sicurezza durante il montaggio, lo smontaggio e l’uso si deve far riferimento alle indicazioni obbligatorie del fabbricante che conosce esattamente le caratteristiche delle attrezzature e i vincoli nell’utilizzo. Queste istruzioni obbligatorie devono essere esaurienti.

I requisiti
I requisiti ai quali il piccolo trabattello deve soddisfare possono essere distinti in requisiti dimensionali e requisiti di sicurezza. I requisiti dimensionali sono legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie e alle modalità di accesso.

La Uni En 1004
La Uni En 1004: 2005 («Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestazionali») fu elaborata dal Cen TC 5 «Attrezzature di lavoro provvisionali» tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

Il Cen Tc 53 deliberò, nel 1980, di unificare la produzione di torri mobili di accesso e di lavoro parallelamente all’unificazione a livello europeo di ponteggi di servizio e di lavoro prefabbricati, Uni En 12810-2 («Ponteggi di facciata realizzati con componenti prefabbricati – Parte 2: Metodi particolari di progettazione strutturale» e Uni En 12811-3 «Attrezzature provvisionali di lavoro – Parte 3: Prove di carico». La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati con altezza da 2,5 m a 12,0 m (non esposte al vento) e da 2,5 m a 8,0 m (esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione; i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. La norma costituisce il principale riferimento tecnico per la realizzazione di queste attrezzature di lavoro che possono essere alte fino a 12m e hanno l’aspetto di “strutture”. L’importanza della Uni En 1004 è implicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII comma a. («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»). La Uni En 1004 va utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 – «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni» che non è una “solo” norma sul manuale d’istruzioni, ma rappresenta il complemento alla Uni En 1004 in quanto fornisce informazioni non contenute nella stessa e che vanno oltre i normali contenuti del manuale di istruzioni. La Uni En 1004 e la Uni En 1298 sono oggetto di revisione da parte del Cen TC 53 WG4 «Torri mobili di accesso». Le bozze contengono modifiche significative.

La Uni En 131-7
La Uni En 131-7:2013 Scale – Parte 7 («Scale movibili con piattaforma» definisce i termini e specifica le caratteristiche generali di progettazione di questa particolare tipologia di scale. Si applica alle scale movibili con piattaforma di lavoro con area massima di 1 m2 e altezza massima della stessa di 5 m, da usare da parte di una persona alla volta. Il carico massimo ammesso sulla scala è di 150 kg che comprende un carico massimo combinato dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e del materiale.

Non si applica alle scale portatili, secondo la Uni En 131-1, alle scale portatili secondo la Uni En 131-4, alle scale portatili per servizi antincendio secondo la Uni En 1147, alle scale per sottotetto secondo la Uni En 14975, agli sgabelli a gradini secondo la Uni En 14183, alle scale, scale a castello e parapetti secondo la Uni En Iso 14122-3 e alle scale isolanti secondo la Uni En 50528. Questa tipologia di scale conosciuta anche come “scala a castello”, “scala cimiteriale” o “scala a palchetto” è utilizzata in molti ambiti per le specifiche caratteristiche costruttive.
A un tronco di salita, è provvista di piattaforma, guarda corpo e corrimano. La base è costruita per non permetterne il ribaltamento frontale e laterale, è dotata di due ruote fisse portanti per garantirne gli spostamenti e appoggia su quattro punti. Si tratta di attrezzature provvisionali di lavoro molto di use nel nostro paese. L’assenza di una standard specifico ha indotto Uni ad avviare uno progetto di norma dedicata.

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DPI: CHE COSA È CAMBIATO CON IL DECRETO PUBBLICATO SULLA GAZZETTA UFFICIALE N. 53 DELL’11 MARZO 2019

Dispositivi di protezione individuale: il D.Lgs. 17/2019 allinea l’Italia alle norme dell’Unione con un maggior onere pecuniario – e non solo – per gli eventuali illeciti. Si tratta di un intervento legislativo studiato per rendere organico il nostro ordinamento al regolamento in materia e già in vigore

Dopo una lunga attesa, anche l’Italia si allinea alle nuove disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, in materia di dispositivi di protezione individuali (Dpi). Con il D.Lgs. 19 febbraio 2019 (1), n. 17, infatti, il governo – dando attuazione alla delega contenuta nella legge 25 ottobre 2017, n. 163 – ha introdotto nel nostro ordinamento interno un nuovo regime che, secondo quantoriportato nel comunicato del consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio, ha l’obiettivo di semplificare e chiarire
il quadro esistente per l’immissione sul mercato di questi dispositivi, nonché di migliorare la trasparenza, l’efficacia e l’armonizzazione delle misure esistenti, realizzando il coordinamento con le disposizioni generali in materia di mercato, sicurezza e conformità dei prodotti.
Per comprendere l’e ettiva portata di questo nuovo importante provvedimento appare indispensabile ricordare preliminarmente che il regolamento n. 2016/425, conosciuto comunemente anche come “regolamento Dpi”, è lo strumento giuridico scelto dall’Unione europea per sanare, in primo luogo, il problema delle differenti normative nazionali dei singoli Paesi
membri che era sorto con la direttiva n. 89/686/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, ora abrogata; sono state, infatti, diverse le incongruenze registrate e si è posta, così, l’esigenza obiettiva di fare in modo che l’ambito di applicazione, i requisiti
essenziali di salute e di sicurezza e le procedure di valutazione della conformità fossero gli stessi in tutti gli Stati membri.
Com’è noto le direttive richiedono il recepimento attraverso specifici atti interni da parte dei singoli Stati e, proprio in questa fase, si generano normative nazionali che pur se di matrice europea in non pochi casi sono anche profondamente diverse l’una dall’altra: in questo senso l’esempio emblematico è la disciplina antinfortunistica in cui la direttiva 89/391/Cee del Consiglio, del 12 giugno 1989 (la cosiddetta “direttiva quadro”), mentre in Italia è stata applicata garantendo un livello di tutele ben superiore a quello minimo previsto daquesta direttiva in diversi altri Paesi, invece, ci si è limitati quasi alla mera riproduzione dei principi comunitari.
Attraverso il regolamento n. 2016/425, che com’è noto non richiede invece il recepimento interno, si è cercato, pertanto, di realizzare un vero mercato unico dei Dpi con requisiti identici, favorendo così anche la loro libera circolazione.
Al tempo stesso, però, era anche necessario da parte dell’Italia allineare la disciplina interna in materia in modo da renderla organica con il predetto regolamento Dpi e, per questo motivo, come vedremo con il D.Lgs. n. 17/2019, sono state apportate anche diverse modifiche sostanziali al D.Lgs. n.475/1992, e alcune più marginali, comunque importanti, al D.Lgs. n. 81/2008, tanto da dare vita a un nuovo regime applicativo che si potrebbe definire “Dpi 3.0”.

Ambito applicativo ed esclusioni
Concentrando ora l’attenzione sui profili più significativi del D.Lgs. n. 17/2019, da una sua prima lettura è possibile rilevare che l’art. 1, comma 1, lett. b), ha sostituito integralmente l’art. 1 del già citato D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo ora che le norme di questo decreto si applicano ai Dpi di cui all’art. 2 del regolamento n. 2016/425; per le definizioni occorre fare riferimento a quanto previsto dall’art. 3 di questo regolamento. Pertanto, rientrano nel nuovo regime i Dpi appartenenti alle tre categorie previste nell’allegato I del regolamento Dpi, progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza, i componenti intercambiabili dei Dpi essenziali per la loro funzione protettiva, nonché i sistemi di collegamento per i citati dispositivi «…che non sono tenuti o indossati da una persona, che sono progettati per collegare tali dispositivi a un dispositivo esterno o a un punto di ancoraggio sicuro, che non sono progettati per essere collegati in modo fisso e che non richiedono fissaggio prima dell’uso». Nel novellato art. 1 del D.Lgs. n. 475/1992 compare anche il richiamo all’allegato I che riportava l’elenco tassativo delle categorie Dpi escluse da questa disciplina, abrogato insieme agli allegati II, III, IV, V e VI del predetto decreto (vedere la tabella 3). Di conseguenza ora occorrerà fare riferimento a quanto stabilisce l’art. 2, comma 2, del regolamento n. 2016/425, che esclude dal suo campo diversi dispositivi di protezione sottoposti a regimi particolari: è il caso, ad esempio, di quelli da utilizzare esclusivamente su navi marittime.

Le tutele
È bene anche precisare che le nuove disposizioni si applicano ai Dpi che, secondo il citato regolamento n. 2016/425, sono «(…) nuovi sul mercato dell’Unione al momento di tale immissione sul mercato, vale a dire i Dpi nuovi di un fabbricante stabilito nell’Unione oppure i Dpi, nuovi o usati, importati da un Paese terzo”. Questi Dpi, quindi, anche se importati devono essere conformi ai nuovi requisiti per la progettazione e la fabbricazione, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori. Sotto questo profilo, quindi, la nuova disciplina appare, almeno potenzialmente, più efficace rispetto a quella previgente in termini di lotta all’ingresso nel mercato europeo di Dpi non rispondenti a questi requisiti o, peggio ancora, recanti la marcatura di conformità “Ce” posta in modo ingannevole. Di conseguenza il D.Lgs. n. 17/2019 non interessa solo i fabbricanti e i distributori, ma anche gli stessi datori di lavoro che grazie a questa nuova disciplina dovrebbero godere di maggiori tutele in fase di acquisto e d’impiego, nonché i lavoratori che potranno contare sui Dpi che dovrebbero assicurare maggiori garanzie in termini di e icacia della protezione dai rischi.

I requisiti essenziali
Il D.Lgs. n. 17/2019 ha profondamente novellato anche l’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilendo in materia di requisiti essenziali di sicurezza che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato solo se rispettano le indicazioni di cui agli articoli 4 e 5 del regolamento Dpi. Da notare, in particolare, che mentre l’art. 5 di questo regolamento rinvia a quanto stabilito dall’allegato II, che elenca numerosi requisiti inderogabili, invece l’art. 4 prevede che i Dpi possono essere messi a disposizione sul mercato «(…) solo se, laddove debitamente mantenuti in efficienza e usati ai fini cui sono destinati, soddisfano il presente regolamento e non mettono a rischio la salute o la sicurezza delle persone, gli animali domestici o i beni». In merito al concetto di «messa a disposizione sul mercato» l’art. 3, comma 1, n. 2, stabilisce che s’intende «la fornitura di Dpi per la distribuzione o l’uso sul mercato dell’Unione nell’ambito di un’attività commerciale, a titolo oneroso o gratuito».
La portata della disposizione non appare, invero, del tutto chiara in quanto se è pacifico che sono attratti da questa disciplina
tutti gli operatori economici che professionalmente forniscono i dispositivi, anche senza il corrispettivo di un prezzo, è possibile rilevare anche alcune situazioni limite, ma non troppo. È il caso, ad esempio, di un’impresa che non commercia Dpi, ma avendo in magazzino dispositivi inutilizzati intende rivenderli; oppure si pensi a un committente che concede l’uso a titolo gratuito all’appaltatore Dpi acquistati dallo stesso. L’art. 3 del D.Lgs. n. 475/1992, inoltre, nella nuova versione stabilisce anche che si considerano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza i Dpi muniti della marcatura Ce per i quali il fabbricante o il suo mandatario stabilito nel territorio dell’Unione sia in grado di presentare, a richiesta, la documentazione di cui all’art. 15 e all’allegato III del regolamento Dpi, nonché, relativamente ai dispositivi di seconda e terza categoria, la certificazione di cui agli allegati V, VI, VII e VIII sempre del già citato regolamento Dpi.

La procedura di valutazione della conformità
Inoltre, alcune modifiche sono state apportate anche all’art. 5 D.Lgs. n.475/1992, che disciplina la procedura di valutazione della conformità; in particolare il fabbricante è tenuto a eseguire, o far eseguire questa procedura di valutazione (cfr. art. 19) e a redigere la documentazione tecnica di cui all’allegato III, anche al fine di esibirla alle autorità di vigilanza per tutti i Dpi. Nella disciplina previgente, invece, era previsto che prima di procedere alla produzione di Dpi di seconda o di terza categoria, il fabbricante o il rappresentante stabilito nel territorio comunitario doveva chiedere il rilascio dell’attestato di certificazione Ce di cui all’art. 7.

Le modifiche al D.Lgs. n. 81/2008
Appaiono, invece, di minore impatto le modifiche apportate al D.Lgs. n. 81/2008, che, tutto sommato, si limitano solo ad aggiustamenti testuali; l’art. 2 del D.Lgs. n. 17/2019, infatti, ha armonizzato gli artt. 74 e 76 del cosiddetto testo unico della sicurezza sul lavoro con il predetto regolamento Dpi (vedere il testo aggiornato di questi articoli nel box 2). In particolare, nel novellato art. 76 è consacrato il principio in base al quale i Dpi devono essere conformi al regolamento (Ue) n. 2016/425; scompare, quindi, il richiamo del D.Lgs. n. 475/1992, ma resta fermo che i Dpi devono:

• essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;
• essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
• tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
• poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità.

Inoltre, in caso di rischi multipli che richiedono l’uso simultaneo di più Dpi, questi devono essere tra loro compatibili e tali da mantenere, anche nell’uso simultaneo, la propria efficacia nei confronti del rischio e dei rischi corrispondenti.

È necessario precisare che il D.Lgs. n. 17/2019 non modifica la disciplina sugli obblighi del datore di lavoro contenuta nell’art. 77 del D.Lgs. n. 81/2008; di conseguenza resta fermo il dovere di quest’ultimo di effettuare l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi e d’individuare le caratteristiche dei Dpi necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi, tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi Dpi.

Le sanzioni
Accanto a queste modifiche il legislatore delegato è intervenuto molto energicamente anche sul regime sanzionatorio, operando un vero giro di vite che eleva le responsabilità di tutti gli operatori. Basti considerare, ad esempio, che il novellato art. 14 del D.Lgs. n. 475/1992, stabilisce che il fabbricante che produce o mette a disposizione sul mercato Dpi non conformi ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi nonché l’importatore che immette sul mercato Dpi non conformi ai requisiti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 8 mila euro sino a 48 mila euro se si tratta di Dpi di prima categoria; addirittura se si tratta di Dpi di secondo o terza categoria sono previste sanzioni penali. Molteplici sanzioni sono previste anche per i distributori e per «chiunque» metta a disposizione sul mercato Dpi non conformi alle nuove disposizioni.

Lotta agli abusi
Inoltre, nel D.Lgs. n. 17/2019 è contenuta anche una norma che si potrebbe definire “antitruffa”; infatti, chiunque appone o fa apporre marcature, segni e iscrizioni che possono indurre in errore i terzi circa il significato o il simbolo grafico, o entrambi, della marcatura Ce ovvero ne limitano la visibilità e la leggibilità, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a 6 mila euro. I destinatari sono, pertanto, non solo i fabbricanti, ma anche gli importatori; ci si aspettava, però, un regime sanzionatorio più severo per questo illecito considerata la sua particolare gravità e l’esperienza maturata in questa anni dove non di grado sono stati messi in vendita a prezzi da discount da parte di alcuni operatori dispositivi recanti in modo ingannevole la marcatura Ce. Viene punito, inoltre, con la sanzione amministrativa pecuniaria da mille euro sino a sei mila euro chiunque promuove la pubblicità per Dpiu che non rispettano le prescrizioni del regolamento Dpi.

Il sistema di vigilanza
Accanto a queste modifiche si affiancano, poi, quelle introdotte dell’art.1, comma 1. lett. l), del D.Lgs. n. 17/2019, all’art.13 del D.Lgs. n. 475/1992, in materia di attività di vigilanza del mercato; le competenze restano ancora in capo al ministero dello Sviluppo economico e al ministero del Lavoro secondo quanto stabilito dal capo VI del regolamento Dpi, mentre le funzioni di controllo alle frontiere esterne sono svolte dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli conformemente agli artt. da 27 a 29 del regolamento (Ce) n. 765/2008. Nell’azione di controllo previsto anche il coinvolgimento delle Camere di commercio e dell’Ispettorato nazionale del lavoro; importante è sottolineare che la funzione di controllo è, in e etti, attribuita anche alle Asl e agli altri organi ai quali sono attribuiti compiti ispettivi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, qualora accertino che un Dpi non rispetta i requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato II del regolamento Dpi, sono tenuti a rendere informativa ai citati ministeri ai fini dell’adozione dei provvedimenti di competenza.

La sanatoria degli illeciti Sempre in materia di sanzioni deve essere anche rilevato che il legislatore ha previsto anche la possibilità per il trasgressore di sanare gli illeciti penali; infatti, alle contravvenzioni previste dall’art. 14 del
D.Lgs. n. 475/1992, per le quali sia prevista la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda,
si applica l’istituto della prescrizione in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 20 e seguenti del D.Lgs.
n.758/1994. Pertanto, ottemperando a quanto previsto dall’organo di vigilandi trenta giorni un importo pari a un quarto del massimo previsto per l’ammenda il reato commesso si estingue. Per quanto, invece, riguarda gli illeciti amministrativi la stessa disposizione esclude espressamente la possibilità di ricorrere alla cosiddetta regolarizzazione di cui al 301-bis del D.Lgs. n. 81/2008; bisogna, comunque, tener presente che alle sanzioni amministrative irrogate dalla Camera di commercio territorialmente competente, si applicano per quanto compatibili le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.

Continuità e abrogazione del D.Lgs. n. 10/1997
Resta, infine, solo da osservare che l’art. 3 del D.Lgs. n. 17/2019, stabilisce che nelle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in vigore, tutti i riferimenti alla direttiva 89/686/Cee, come accennato abrogata dal regolamento (Ue) n. 2016/425, si intendono fatti a quest’ultimo e sono letti secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato X al regolamento stesso; inoltre, è abrogato il D.Lgs. 2 gennaio 1997, n. 10, superato ormai da queste nuove disposizioni.

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Luoghi confinati una trappola da evitare

La corretta valutazione del rischio per affrontare una delle situazioni più pericolose

Una problematica già affrontata a partire dalla legislazione prevenzionistica degli anni ‘50 che, per essere efficacemente risolta, necessita di un Dvr a maglie molto strette. L’obiettivo? Non lasciare nulla al caso. Ma in quale modo deve essere svolta l’analisi dei differenti contesti al fine di individuare modalità utili a salvaguardare la salute (e la vita) degli operatori impegnati in questo tipo di ambienti? Ecco alcune proposte operative

La valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce un obbligo non delegabile del datore di lavoro, il quale deve assolvere a questo compito – non delegabile – con l’eventuale ausilio del Rspp. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura altamente specialistica che, appunto, coadiuva il datore e controfirma il documento di valutazione di cui all’articolo 17 del D.Lgs. n. 81/2008, unitamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e dell’eventuale medico competente (quando necessario).
Il comma 1 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione «deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori», anche non ricompresi in quelli tutelati dai titoli del decreto successivi al primo; mentre il comma 2 dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la suddetta valutazione debba riguardare:
• tutte le attività che vengono svolte;
• tutti i pericoli presenti nelle attività svolte;
• la valutazione del rischio di questi pericoli;
• le modalità di trattamento di tutti i rischi di questi pericoli;
• le modalità di controllo periodico di queste modalità di trattamento per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
• le modalità procedurali per la attuazione delle modalità di trattamento necessarie per esecuzione delle suddette attività.

Ovviamente l’obiettivo del Dvr di cui all’articolo 17 consiste nel consentire al datore di lavoro di prendere tutte le iniziative effettivamente necessarie a salvaguardare la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Il quadro in sintesi
La problematica dei “luoghi di lavoro confinati” fu già individuata dalla legislazione degli anni ’50: con:
• D.P.R. n. 547/1955 (art. 235, «Aperture di entrata nei recipienti», art. 236, «Lavori entro tubazione, canalizzazioni, recipienti e simili nei quali possono esservi gas e vapori tossici od asfissianti», art. 237, «Lavori entro tubazioni, canalizzazioni e simili nei quali possono esservi polveri infiammabili ed esplosivi»);
• D.P.R. n. 303/1956 (art. 25, «Lavori in ambienti di sospetto inquinamento»);
• D.P.R. n. 164/ 1956 (art. 15, «Presenza di gas negli scavi»).
Il D.Lgs n. 81/2008 tratta l’argomento degli ambienti sospetti di inquinamento o confinanti solo negli articoli 66 e 121, e nel capitolo 3 dell’allegato IV i quali si fermano a una scarna elencazione prescrittiva di regole da rispettare, mutuata dagli articoli 235, 236, 237, 244, 245, 246 247, 353, 354, 355 del vecchio D.P.R. 547/1955.Nel 2011 è stato emanato il D.P.R. n. 177 del 14 settembre 2011, il quale consta di soli quattro articoli, con lo scopo di regolamentare la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, che al comma 1 lettera a) dell’arti-colo 2 recita:«1.
Qualsiasi attività lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati può essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso dei seguenti requisiti: a) integrale applicazione delle vigenti disposizioni in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e misure di gestione delle emergenze». Si tratta dell’unico punto della legislazione italiana in materia di ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, in cui si fa riferimento al termine “valutazione dei rischi”. Inoltre, per quanto concerne i “luoghi confinati”, il D.P.R n. 177/2011 si limita a una genericissima previsione di una ipotetica valutazione dei rischi nella tipologia specifica, senza darne i requisiti minimi. Per la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza nelle attività lavorative, innanzi tutto risulta utile una indagine su numero e tipo di infortuni registrati all’Inail, nonché dalla eventuale registrazione di raccolta dati interna degli infortuni che hanno provocato solo una medicazione senza l’allontanamento dal lavoro dell’infortunato, nonché di incidenti non trasformatisi in infortunio, i cosiddetti “quasi infortuni” (near-miss) e “mancati infortuni” (near-hit). I rischi per la sicurezza e la salute sul lavoro possono essere suddivisi in:
• rischi organizzativi (connessi alla necessità di conformità legislativa generica, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni adempimento necessario previsto dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro);
• rischi infrastrutturali (connessi alla necessità di conformità legislativa delle infrastrutture, individuando, per ogni luogo di lavoro, ogni necessità prevista dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato IV del D.Lgs.n. 81/2008);
• rischi logistici (connessi alla mancata conformità legislativa delle attrezzature individuando, per ogni attrezzatura, ogni necessità prevista dalla legislazio-ne vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra cui l’allegato V del D.L-gs.n.81/2008);
• rischi lavorativi “generici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni);
• rischi lavorativi “specifici” (connessi alle modalità con cui vengono eseguite le lavorazioni, ma per i quali esiste uno specifico riferimento legislativo da rispettare per la conduzione della valutazione dei rischi);
Le prime tre tipologie di rischi dovrebbero essere trattate con l’obiettivo di eliminare ogni non conformità legislativa, rilevata a seguito dei controlli, che verranno previsti nel seguito del documento di valutazione stesso.
La quarta tipologia di rischi deve essere trattata, con la applicazione di misure di prevenzione e protezione di vario tipo: comportamenti, dotazioni, sorveglianza sanitaria, procedure, informazione, formazione e addestramento, manutenzione, monitoraggio ecc.

Come fare
Viene definito dalle linee guida Inail «luogo di lavoro confinato» uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture di accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può accadere un incidente importante che può portare a un infortunio grave o mortale, in presenza di agenti chimici pericolosi (per esempio, gas, vapori, polveri).
Un’altra definizione, più schematica, viene introdotta dalla normativa americana Osha 1910.146, «Permit required confined spaces», che ha definito luogo (o spazio) di lavoro confinato come quello spazio che presenta tre caratteristiche:
• abbastanza grande e configurato in modo tale che un lavoratore possa accedervi interamente ed eseguire il lavoro assegnato;
• limitata o ristretta apertura per l’accesso o l’uscita;
• non progettato per un’attività lavorativa continua.

Genericamente, ma non esaustivamente, le caratteristiche di un «luogo confinato» sono:
• difficoltà di accesso tramite aperture di ingresso/uscita (passi d’uomo, pozzetti d’ispezione, boccaporti) dalle dimensioni ridotte e dall’ubicazione ergonomicamente disagevole;
• dimensioni fisiche spesso limitate;
• condizioni di ventilazione sfavorevoli (ricambi d’aria limitati, insufficienti o del tutto assenti; possibilità di ristagno, formazione o adduzione di inquinanti);
• illuminazione scarsa o assente;
• microclima e altre caratteristiche ergonomiche sfavorevoli;
• difficoltà di comunicazione ordinaria e in emergenza.

Per quanto riguarda l’accesso, è possibile desumere dalla norma Uni En 547-3:2009 «Sicurezza del macchinario – Misure del corpo umano- parte 3 – Dati antropometrici» la quale specifica i dati antropometrici, richiesti dalla Uni En 547-1 e dalla Uni En 547-2 per calcolare le dimensioni delle aperture di accesso utilizzate nel macchinario: una persona adulta occupa mediamente lo spazio di una elisse avente asse maggiore di 60 cm e asse minore di 45 cm. Queste dimensioni vanno aumentate qualora si preveda di utilizzare bombole o Dpi che aumentino gli ingombri. All’interno degli «luoghi confinati» si registra tragicamente un elevato numero di infortuni mortali, con varie cause.

Le fasi per la conduzione di una sistematica valutazione dei rischi nei luoghi confinati dovrebbero essere strutturate nel seguente modo:
• individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale;
• individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle competenze del personale che può accedere in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di prevenzione e di protezione adatte, in ogni luogo confinato individuato;
• individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato individuato.

La locuzione «ogni luogo confinato individuato» è stata volutamente ripetuta per sottolineare la forte necessita di effettuare una valutazione specifica per ogni fatti-specie di accesso in luogo confinato individuato e non già una semplice generica, quanto sommaria, valutazione dei rischi disconnessa dalla reale situazione, che in genere risulta variabile non solo nello spazio geometrico, ma anche nel tempo: in questo modo risulta più possibile la risoluzione del problema dell’obbligo del committente di cui all’art.3, comma 1 del D.P.R. 177/2011, che così recita: «Prima dell’accesso nei luoghi nei quali devono svolgersi le attività lavorative di cui all’articolo 1, comma 2, tutti i lavoratori impiegati dalla impresa appaltatrice, compreso il datore di lavoro ove impiegato nelle medesime attività, o i lavoratori autonomi devono essere puntualmente e dettagliatamente informati dal datore di lavoro committente sulle caratteristiche dei luoghi in cui sono chiamati a operare, su tutti i rischi esistenti negli ambienti, ivi compresi quelli derivanti dai precedenti utilizzi degli ambienti di lavoro, e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione alla propria attività. L’attività di cui al precedente periodo va realizzata in un tempo sufficiente e adeguato all’effettivo completamento del trasferimento delle informazioni e, comunque, non inferiore ad un giorno».È appena il caso di rilevare che, abitualmente, questo obbligo di “informazione” viene assolto in maniera del tutto generica e sommaria da parte del committente, fino a essere addirittura totalmente ignorato (e in tal caso andando a ricadere nel-lo stesso errore, che ha quasi sempre determinato la mole di infortuni mortali negli anni passati).

Individuazione di ogni luogo confinato, con indicazione del suo uso passato e attuale
Il Rspp, accompagnato dal datore di la-voro o dal suo incaricato, deve eseguire un accurato sopralluogo dei luoghi di la-voro, al fine di individuare aree definibili come «luoghi confinati» e di individuare per ognuno di quelli individuati tali tutte le attività che sono state svolte in passato e quelle attuali. In occasione dello stesso sopralluogo l’Rspp dovrebbe indagare presso il personale operativo più anziano, con lo scopo di individuare l’elenco di altre attività non riscontrate allo stato attuale (attività poco frequenti e/o attività svolte solo dal personale esterno). Dopo l’individuazione, ogni accesso al luogo confinato dovrebbe essere identificato, tramite l’apposizione di una cartellinistica monitoria, conforme alla norma tecnica Uni En Iso 7010:2012, che limiti l’accesso al-le sole persone autorizzate, riportandolo su una planimetria.

Individuazione delle caratteristiche geometriche di ogni luogo confinato individuato

In occasione dello stesso sopralluogo, do-vrebbe essere presa ogni possibile informa-zione sulle dimensioni geometriche di ogni luogo confinato individuato, richiedendo una planimetria dell’interno di ogni luogo confinato e rappresentando tutti i dati relativi.

Individuazione delle competenze e specializzazioni del personale che può accedere in ogni luogo confinato
Successivamente, devono essere definite le informazioni.

Individuazione dei pericoli e valutazione dei rischi in ogni luogo confinato
Quindi, in relazione alle attività lavorative da eseguire all’interno del luogo di lavoro confinato, si deve passare all’individuazione dei potenziali pericoli specifici del luogo di lavoro, quali: asfissia (anche meccanica) o intossicazione dovuta a esalazioni di sostanze tossiche o nocive o alla presenza di materiale, intrappolamento, eventuale presenza di elementi meccanici pericolosi, folgorazione, caduta dall’alto ecc., ai quali vanno a sommarsi i rischi propri delle attività lavorative previste.
Per ciascuno dei rischi specifici individuati si deve assegnare alla “gravità del pericolo” (G) un valore da 1 a 3 e alla probabilità di accadimento del pericolo (P) un valore da 1 a 4, elaborando una tabella.
La norma tecnica Uni 10449:2008 stabilisce i casi in cui deve essere predisposto un “Permesso di lavoro” :
• lavoro con divieto d’uso di fiamma o scintilla;
• lavoro implicante l’uso di fiamma – sorgente di calore – gas – liquidi o materiali infiammabili;
• lavoro di scavo;
• lavoro su circuiti e apparecchiature elettriche;
• lavoro negli spazi confinati

Individuazione delle misure di prevenzione e di protezione da adottare in ogni luogo confinato
Successivamente, in relazione ai rischi specifici presenti nel luogo di lavoro confinato, deve essere elaborata una tabella.

Individuazione delle misure di controllo e monitoraggio in ogni luogo confinato
L’individuazione delle misure di controllo e monitoraggio per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza viene definito in una tabella nella quale viene anche la periodicità dei controlli e dei monitoraggi individuati. Sulla base della precedente valutazione, per ogni punto di accesso deve essere elaborata una procedura di accesso e permanenza nel luogo confinato per poter eseguire le lavorazioni previste durante l’accesso in maniera sicura.

Procedura generale di valutazione e gestione dei rischi:
• valutazione dei rischi in ambienti confinati;
• principi generali per la corretta gestione dei rischi;
• modalità di esecuzione del lavoro

Sistemi e procedure di lavoro sicuri:
• nomina di un supervisore dei lavori e organizzazione con “permessi di lavoro”;
• impiego di operatori idonei al tipo di lavoro;
• localizzazione ed estensione del rischio;
• isolamento dell’ambiente confinato rispetto ad altri ambienti pericolosi;
• verifica dell’idoneità delle vie di accesso/uscita;
• ventilazione dell’ambiente;
• verifica dell’aria contenuta nell’ambiente confinato;
• risanamento/bonifica atmosfera dell’ambiente confinato;
• gestione dell’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi non eliminabili;
• utilizzo di autorespiratori;
• utilizzo di altri Dpi necessari;
• utilizzo di attrezzature di lavoro adegua-te alla specifica situazione e di attrezzature speciali;
• illuminazione;
• sistema di comunicazione;
• controllo e allarme;
• istruzioni di emergenza;
• modalità di accesso all’ambiente confinato;previsione e gestione delle emergenze.

Procedure di emergenza:
• idoneità degli addetti al soccorso;
• comunicazioni.

Equipaggiamenti di soccorso e rianimazione:
• servizio di pubblico soccorso;
• classificazione di pericolosità di ambienti confinati e relative procedure;
• procedura per zone a minimo rischio;
• procedura per zone a elevato rischio.

Gestione degli appalti
Nel caso in cui le lavorazioni previste vengano appaltate a fornitori, ai sensi dell’articolo 3 del D.P.R. n. 177/2011, deve essere loro fornita la valutazione dei rischi relativa al punto di accesso del luogo confinato, in cui deve svolgere le attività in appalto, fermo restando la necessita del preventivo controllo dei requisiti e delle capacità tecniche del fornitore:
• idoneità tecnico professionale;
esperienza attività in spazi confinati (il 30% della forza lavoro deve avere esperienza almeno triennale);
• informazione e formazione sui rischi legati all’attività in spazi confinati (compreso il datore di lavoro nel caso svol-gesse l’attività);
• addestramento per l’uso delle attrezzature utili all’accesso (imbracatura, apparecchi per la protezione delle vie respiratorie Apvr ecc.) secondi il tipo di rischio presente.
Edwards William Deming, il padre della qualità, a chi diceva «abbiamo fatto sempre così», rispondeva che era arrivata l’ora di cambiare.

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Credito d’imposta RICERCA & SVILUPPO: gli incentivi

Incentivi per la realizzazione di investimenti in Ricerca & Sviluppo attribuibili a tutte le imprese ottenendo un’agevolazione fiscale sotto forma di credito d’imposta

Gli investimenti agevolabili riguardano:
RICERCA FONDAMENTALE, RICERCA INDUSTRIALE, SVILUPPO SPERIMENTALE, PRODUZIONE E COLLAUDO DI PRODOTTI.

Le agevolazioni sono attribuite a tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020, senza alcun limite in relazione a:
– forma giuridica;
– settore produttivo (anche agricoltura);
– dimensioni (es. in termini di fatturato);
– regime contabile.

Non si applica a:
– soggetti con redditi di lavoro autonomo;
– soggetti sottoposti a procedure concorsuali non finalizzate alla continuazione dell’esercizio dell’attività economica;
– imprese che fanno ricerca conto terzi commissionata da imprese residenti;
– enti non commerciali (per attività istituzionale).

L’obiettivo è agevolare le attività di Ricerca e Sviluppo sperimentale che apportino miglioramenti significativi delle linee o delle tecniche di produzione o dei prodotti all’interno dell’azienda.
Il beneficio in credito d’imposta è riconosciuto, fino ad un importo massimo annuale di 10 milioni € per ciascun beneficiario, a condizione che siano sostenute spese per attività R&S almeno pari a 30.000€.

Sono agevolabili gli investimenti relativi a:
– PERSONALE impiegato nelle attività di R&S (dipendente dell’impresa, collaboratore autonomo a condizione che svolga attività presso le strutture del beneficiario)
– SPESE RELATIVE A CONTRATTI DI RICERCA CON UNIVERSITA’, ENTI DI RICERCA e SIMILI
– QUOTA DI AMMORTAMENTO DI STRUMENTI E ATTREZZATURE E LABORATORIO
– COMPETENZE TECNICHE E PRIVATIVE INDUSTRIALI
– SPESE PER LA CERTIFICAZIONE CONTABILE FINO A 5000 EURO per le sole imprese non obbligate per legge alla revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale

La misura dell’agevolazione è del 50% delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi d’imposta 2012, 2013, 2014. Dal 2019, duplice aliquota di incentivazione in funzione delle spese (50%-25%).

Come si accede al Credito di imposta R&S?
Si accede in maniera automatica con successiva compensazione mediante presentazione del modello F24a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di sostenimento dei costia seguito dell’avvenuto rilascio di una certificazione contabile da parte di un revisore legale dei conti o società di revisione legale dei conti.
È inoltre prevista la redazione e conservazione di una relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo.

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Nel 2018, di nuovo allarme per i morti sul lavoro

Un significativo incremento delle denunce che aumentano del 10,1% rispetto all’anno precedente. In agosto il picco di casi collettivi, complice il disastro del ponte Morandi a Genova e gli incidenti verificatisi in Puglia. Segno “più” anche per le segnalazioni di infortuni e delle patologie di origine professionale. Nel mirino gli uomini

Il quadro che emerge dai dati Inail sugli infortuni sul lavoro per il 2018 conferma l’inversione di tendenza del fenomeno infortunistico rispetto ai due anni precedenti.
Aumentano le denunce di infortunio mortale con 104 casi in più rispetto al 2017, passando da 1029 a 1133. I dati Inail, disponibili al 31 dicembre 2018, sono pubblicati nella sezione «Open data» del portale dell’Istituto e sono provvisori
in quanto l’iter amministrativo e sanitario delle denunce si consoliderà solo a metà del 2019. Dati che saranno pubblicati, come ogni anno, nella «Relazione annuale» dell’Istituto e che forniranno una lettura
dettagliata sulla definizione dell’iter amministrativo delle denunce offrendo un resoconto sui casi denunciati, riconosciuti negativi e in istruttoria.
Il mese di agosto ha registrato un picco di 132 infortuni mortali contro i 78 dell’agosto dell’anno precedente, che in termini percentuali equivale a un aumento del 70% circa, alcuni dei quali causati da incidenti plurimi, ovvero che hanno coinvolto più di un lavoratore. Infatti, nel solo mese di agosto si è contato quasi lo stesso numero di di Valeria Rey, giornalista vittime dell’intero 2017. Tra gli eventi dello scorso anno il crollo del ponte Morandi a Genova ha causato 15 casi mortali sul lavoro e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, hanno provocato la morte di 16 braccianti. Il numero degli incidenti plurimi nel 2018 ha coinvolto più del doppio dei lavoratori dell’anno precedente. Nei 24 incidenti plurimi del 2018 hanno perso la vita 82 lavoratori rispetto ai 15 incidenti plurimi del 2017 che hanno causato 42 morti. Sul piano nazionale i dati rilevati al 31 dicembre 2018 evidenziano un aumento del 5,4% degli incidenti avvenuti in occasione di lavoro, che sono passati da 746 casi a 786 e in particolare di quelli in itinere, ovvero
fuori dall’azienda con o senza mezzo di trasporto, con un aumento del 22,36% che in termini assoluti equivale a 64 casi in più rispetto al 2017 (da 283 a 347).
La gestione «Industria e servizi» ha registrato un incremento di infortuni mortali del 14,9% rispetto al 2017 pari a 128 casi (da 857 a 985); l’«Agricoltura» ha segnato una diminuzione del 7% con 10 casi in meno (da 141 a 131) e la gestione «Conto Stainfortuni to» un decremento del 45% con 14 casi in meno. Il settore di attività economica più colpito è quello del trasporto e magazzinaggio con 28 casi mortali in più seguito dal settore del noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese con 26 casi mortali e dal settore delle costruzioni con 21 casi in più. Sul fronte della distribuzione geografica il Nord-Ovest conferma il trend crescente degli infortuni mortali dell’anno scorso con 47 casi (da 258 a 305), dei quali 24 in Lombardia. Seguono il Nord-Est con 24 casi (da 249 a 273) che riguardano il Veneto, il Centro con tre casi (da 211 a 214) e il Sud con 35 (da 223 a 258) con il record della Campania che ha registrato da sola 27 infortuni mortali.
Rispetto al 2017, l’aumento degli infortuni mortali riguarda in maniera significativa i lavoratori di sesso maschile, i cui casi denunciati sono stati 102 in più (da 927 a 1.029), mentre per la componente femminile si sono registrati due decessi in più (da 102 a 104). L’incremento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, da 861 a 952, pari all’84% del totale, sia quelle dei lavoratori extracomunitari, da 119 a 130 e comunitari (da 49 a 51). Guardando la distribuzione degli infortuni per classi di età emerge che un caso mortale su due ha coinvolto lavoratori di età compresa tra i 50 e i 69 anni, con 85 casi. La fascia maggiormente colpita è quella dai 50-54 anni con 39 casi (da 153 a 192), seguita dalla classe d’età 55-59 con 34 casi (da 211 a 177) e dalla classe 60-64 con 10 casi (da 119 a 129).

Infortuni
In aumento anche le denunce di infortunio che nel 2018 sono cresciute dello 0,9%, vale a dire che rispetto alle 653.433 denunce del 2017 si è passati a 641.261 denunce. Gli incrementi riguardano sia i casi avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743 (+0.6%), sia quelli in itinere che sono aumentati del 2,8%, da 95.849 casi a 98.518. quella «Conto Stato» dell’1,4%, da 104.393 a 105.898, tre quarti dei casi riguardano studenti delle scuole statali. In «Agricoltura», invece, si registra una diminuzione dell’1,8%, da (33.820 a 33.207).
L’analisi della distribuzione geografica evidenzia un aumento delle denunce nel Nord-Est del 2,2%, nel Nord-Ovest dell’1,1% e al Sud dello 0,8%. Diminuiscono, invece, al Centro dello 0,8% e nelle Isole dell’1%. La Provincia autonoma di Bolzano segna il maggior incremento di denunce con un aumento del 5,4%, seguito dal Friuli Venezia Giulia e Molise con +3,9%, mentre i decrementi maggiori si sono registrati nella Provincia autonoma di Trento con -6,5%, in Valle d’Aosta con -4,5% e in Abruzzo -3%.In aumento dell’1,4% le denunce dei lavoratori maschi (da 406.689 a 412.300) a fronte dello 0,1% di quelle delle donne.L’incremento ha interessato soprattutto i lavoratori extracomunitari con +9,3% di denunce e in misura più contenuta quelli comunitari (+1,2%), mentre le denunce di infortunio dei lavoratori italiani, che rappresentano circa l’84%, del totale sono in calo dello 0,2%.

Malattie professionali
Le denunce per malattia professionale che nel 2017, avevano registrato per la prima volta nell’ultimo quinquennio una diminuzione, tornano a crescere nel 2018 del 2,5%, vale a dire 1.456 casi in più, passando da 58.129 a 59.585. L’incremento maggiore è quello registrato nella gestione «Industria e servizi», pari al 2,8%, da 46.136 denunce a 47.424. Segue l’«Agricoltura» con l’1,8%, da 11.287 a 11.491 denunce, mentre nel «Conto Stato» si è registrata una significativa diminuzione pari al 5,1%, da 706 a Sempre marcata la differenza tra le denunce al maschile e quelle al femminile: 1.328 in più per la componente maschile (da 42.251 a 43.579), pari al 3,1% rispetto alle 128 di quella femminile che segna un aumento dello 0,8% (da 15.878 a 16.006). L’incremento delle denunce dei lavoratori italiani, che rappresentano il 93% sul totale delle denunce, è stato del 2,4% (da 54.348 a 55.659) mentre molto più significativo quello delle denunce dei lavoratori stranieri, pari all’8,6% (da 1.147 a 1.246). Per i lavoratori extracomunitari l’aumento si è attestato all’1,7% (da 2.634 a 2.680).

I dati al 31 dicembre del 2018 evidenziano sul piano nazionale sia un incremento dello 0,6% degli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, passati da 539.584 a 542.743, sia di quelli in itinere che hanno fatto registrare un incremento del 2,8%, da 95.849 a 98.518. La gestione «Industria e servizi» registra un aumento degli infortuni dell’1%, dai 497.220 casi del 2017 ai 502.156 del 2018 e L’analisi territoriale evidenzia che gli aumenti maggiori si rilevano nelle Marche (6.039 casi denunciati, +673), in Calabria (2.625 casi denunciati, +411), nel Lazio (3.901 casi, +239), in Toscana (8.009 casi, +227) e in Puglia (3.379 casi, +220). In controtendenza, si evidenziano: il Veneto (3.209 casi, -327), la Sardegna (4.432 casi, -212) e la Campania (2.953 casi, -130). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (36.637 casi), insieme a quelle del sistema nervoso (6.681 con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.574), continuano a essere anche nel 2018 le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio (2.613) e dai tumori (2.461).

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I corsi per la sicurezza? Devono essere distinti

La suddivisione riguarda i Rspp, gli Aspp, i coordinatori nei cantieri e i professionisti antincendio. La risposta è partita prendendo come riferimento l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che ha attuato una profonda riforma dell’intera disciplina formativa

Uno dei tratti più caratteristici del D.Lgs. n. 81/2008 è sicuramente l’attribuzione di una valenza fondamentale, ai fini della prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, alla formazione come processo educativo rivolto a tutti
i soggetti che, a vario titolo, fanno parte del sistema aziendale, fino ad arrivare agli stessi formatori.
Il legislatore, infatti, ha coniato un modello formativo universale che, per certi versi, risulta addirittura più avanzato rispetto a quello adottato da altri Paesi europei, che, tuttavia, se tutto sommato risulta abbastanza cristallino sul piano dei principi generali che lo governano, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la disciplina attuativa che presenta, invero, molteplici lati oscuri.
Sotto alcuni profili, infatti, si potrebbe dire che oggi affrontare la formazione delle
risorse umane sul piano della safety è diventato, ormai, come addentrarsi in una “selva oscura”, luogo misterioso e irto di pericoli e sorprese, capaci di mettere a dura prova anche i professionisti più esperti; fuor di metafora, appare sempre più evidente che l’attuale normativa a carattere regolamentare contenuta nei diversi accordi Stato-Regioni presenta numerose (troppe) criticità che messe su di un foglio una dietro l’altra potrebbero, forse, risultare più lunghe della barba di Ezechiele… Palese indice sintomatico di questo quadro frustante sono, invero, i numerosissimi interventi della Commissione del ministero del Lavoro chiamata continuamente a esprimersi sui quesiti in materia di formazione, presentati da istituzioni di ogni tipo, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008; basti pensare che dal 2013 si contano ben sedici interpelli in materia di formazione, cui da ultimo si aggiunge quello del 31 gennaio 2018, n.1 (pubblicato lo scorso 8 febbraio). nei cantieri sia quale aggiornamento per la qualifica di professionista antincendio . Al tempo stesso ha anche chiesto di sapere se sia possibile erogare questo corso sotto forma, da un lato, di aggiornamento per Rspp, Aspp e coordinatori per la sicurezza
e, contemporaneamente, dall’altro lato, quale convegno o seminario di aggiornamento per i professionisti antincendio. In merito ha fatto anche rilevare che «la particolarità di questi corsi, organizzati da alcuni soggetti formatori, sta dunque nel fatto che attraverso un unico corso formativo, e quindi un’unica sessione, si ottiene l’attestazione valida per diversi obblighi formativi e distinte qualifiche professionali». Nel rispondere ai quesiti sottoposti, la Commissione è partita da quanto prevede l’accordo Stato-Regioni del 7 luglio 2016 che, com’è noto, ha operato una profonda riforma della disciplina attuativa sulla formazione obbligatoria e l’aggiornamento
non solo degli Rspp e Aspp, ma anche di altre figure, chiarendo con una maggiore puntualità i vincoli organizzativi dei corsi, specie per quanto riguarda l’e-learning.
Viene osservato preliminarmente che nell’allegato A di questo accordo sono stabiliti la durata e i contenuti minimi dei percorsi formativi per i Rspp e gli Aspp, con la previsione al punto 9 di una specifica disciplina sul loro “aggiornamento” ; sulla base delle disposizioni in esso contenute, la Commissione ministeriale ritiene, quindi, che ai fini dell’aggiornamento dei Rspp e degli Aspp non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’aggiornamento di qualifiche specifiche diverse.
Fanno eccezione a questo principio generale la partecipazione ai corsi di aggiornamento per formatori per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, e a quelli per coordinatori per la sicurezza (in fase di progettazione e in fase di esecuzione), ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008.
E ancora, viene ulteriormente precisato che, ai fini dell’aggiornamento per coordinatori per la sicurezza, il punto 9 dell’accordo in questione specifica che non sia valida la partecipazione a corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse, con le uniche eccezioni di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

E convegni e seminari? Molto interessante appare anche la risposta fornita alla seconda parte del quesito. Secondo la Commissione non è possibile che il medesimo evento possa essere configurato sia come corso di aggiornamento sia come convegno o seminario. Ciò alla luce di quanto stabilisce il già citato punto 9 dell’allegato A dell’accordo del 7 luglio 2016, che ne differenzia le modalità di attuazione. L’orientamento seguito dalla Commissione appare, quindi, chiaro: l’evento deve essere preventivamente qualificato univocamente come corso o convegno o seminario e ciò, evidentemente, anche in relazione ai vincoli che pone l’efficacia della formazione.

Il meccanismo “bidirezionale”
La posizione assunta dalla Commissione del ministero del Lavoro pur se appare condivisibile non sembra, tuttavia, del tutto chiara è merita qualche ulteriore breve osservazione.

Bisogna evidenziare a scanso di possibili nuovi equivoci, infatti, che il già citato punto 9 dell’allegato A in relazione ai compiti di Rspp e Aspp prevede che l’aggiornamento non deve essere di carattere generale o una mera riproduzione di argomenti e contenuti già proposti nei corsi base, ossia di prima formazione, ma deve trattare evoluzioni, innovazioni, applicazioni pratiche e approfondimenti collegate al contesto produttivo e ai rischi specifici del settore, con riferimento a diverse tematiche: aspetti ti giuridico-normativi e tecnico-organizzativi; sistemi di gestione e processi organizzativi; fonti di rischio specifiche dell’attività lavorativa o del settore produttivo; tecniche di comunicazione. Ora, è pur vero che la stessa norma stabilisce il principio generale in base al quale «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di formazione finalizzati all’ottenimento e/o all’aggiornamento di qualifiche specifiche (…) non è da ritenersi valida» ma, come richiamato dalla stessa Commissione, sussistono due deroghe.L’accordo, infatti, recita testualmente che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per formatore per la sicurezza sul lavoro, ai sensi del decreto interministeriale 6 marzo 2013, è da ritenersi valida e viceversa». Viene stabilito, pertanto, un meccanismo “bidirezionale” tra i corsi di aggiornamento per Rspp e Aspp e quello dei formatori, riprodotto, invero, anche per quanto riguarda il rapporto tra aggiornamento di Rspp e Aspp con quello di Csp e Cse. Infatti, è espressamente previsto che «Ai fini dell’aggiornamento per Rspp e Aspp, la partecipazione a corsi di aggiornamento per coordinatore per la sicurezza, ai sensi dell’allegato XIV del D.Lgs. n. 81/2008, è da ritenersi valida e viceversa». Quindi, è alla luce di quest’ultima disposizione che la Commissione ha ritenuto che nel caso dell’aggiornamento dei coordinatori per la sicurezza nei cantieri non è da ritenersi valida la partecipazione ai corsi di formazione finalizzati a qualifiche specifiche diverse (ad esempio, Rls, formatore, addetto antincendio, dirigente ecc.), a eccezione appunto di quelli relativi all’aggiornamento per Rspp e Aspp.

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Assente alla formazione sulla sicurezza? Licenziato

L’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare un po’ rigido ma, sostanzialmente, si pone in sintonia con il decreto legislativo 81/2008, con il quale, per altro, è stato consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore. La mancata partecipazione, inoltre, avrebbe anche messo in crisi il rapporto fiduciario fra il dipendente e il datore, con conseguente risoluzione del contratto

Nel corso dell’ultimo quinquennio, il filone giurisprudenziale sulla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro sta ingrossandosi sempre più e proietta su un quadro a tinte chiaro-scure un datore di lavoro sempre più “nudo” nel momento in cui la sua condotta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dei giudici. Bisogna riconoscere, infatti, che sempre più frequentemente proprio la violazione del dovere formativo è considerata la causa di molti infortuni sul lavoro e comporta l’applicazione di pesanti sanzioni penali in capo al datore di lavoro e allo stesso ente secondo quanto stabilisce il D.Lgs. n. 231/2001. Tuttavia, il dovere formativo grava anche sullo stesso lavoratore il quale, com’è noto, secondo quanto stabilisce l’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli e etti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Un dovere, questo, che si estrinseca nella partecipazione, da parte del prestatore di lavoro, ai corsi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; la sua violazione, però, non ha un rilievo solo sul piano penale ma, come vedremo, anche su quello civilistico in quanto l’assenza ingiustificata ai corsi può legittimare, a determinate condizioni, il licenziamento per motivi disciplinari.
Molto significativa appare in merito la sentenza 7 gennaio 2019, n. 138, con la quale la Corte di Cassazione, sezione “Lavoro” (presidente: Bronzini; relatore: Cinque), ha messo a fuoco diversi profili che inducono anche a compiere alcune riflessioni sul potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro e sugli obblighi di obbedienza e diligenza del lavoratore sul piano della formazione obbligatoria.
Come vedremo, l’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare, invero, un po’ rigido ma tutto sommato si pone in perfetta sintonia con il D.Lgs. n. 81/2008, con il quale per altro è stato definitivamente consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore diventano quest’ultimo, a pieno titolo, un debitore di sicurezza.

Il fatto
La vicenda processuale a rontata dalla suprema Corte risale al 2013: un datore di lavoro aveva contestato al proprio dipendente di non aver partecipato, senza alcuna giustificazione, al corso in materia di salute e di sicurezza sul lavoro organizzato dall’azienda. E aveva deciso, quindi, di recedere dal contratto di lavoro subordinato (art. 2094 del codice civile) intimando il licenziamento per giusta causa motivato, appunto, dal fatto che il lavoratore non aveva «….preso parte alla formazione obbligatoria sull’accordo Stato-Regioni, con contestuale contestazione della recidiva in riferimento a due analoghe condotte sanzionate con provvedimenti di natura conservativa».
Successivamente, il lavoratore era ricorso al giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del licenziamento ritenuto illegittimo.
Tuttavia, la sua tesi difensiva non era stata accolta e il recesso unilaterale del datore di lavoro era stato ritenuto fondato.
Anche la Corte d’Appello aveva confermato in pieno la legittimità del licenziamento disciplinare; il lavoratore aveva così proposto ricorso per Cassazione, censurando l’operato dei giudici di merito sotto molteplici profili. Il dipendente licenziato, infatti, in primo luogo ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 7, comma 8, della legge n. 300/1970 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile per avere la Corte di merito dato valore, ai fini della recidiva, a fattispecie non contestate che avrebbero determinato la fondatezza del licenziamento e la gravità degli addebiti in violazione del “principio di immodificabilità” e di “tipicità della contestazione” in quanto ha ampliato il campo d’indagine dei fatti posti a
base del recesso che erano solo quelli di cui alla lettera del 10 maggio 2013.
Il lavoratore ha, inoltre, anche lamentato la violazione ed errata applicazione degli artt. 71 e 72 del contratto collettivo di lavoro
«Chimici, lavorazione vetro, industria», in relazione all’art. 360, n. 3 codice di procedura civile per avere la corte territoriale, sulla base di una errata interpretazione delle suddette disposizioni, ritenuta sussistente l’ipotesi di recidiva pur non essendo state irrogate, nei dodici mesi precedenti dalla contestazione disciplinare, tre sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Al tempo stesso ha fatto anche rilevare la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 codice di procedura civile, per avere nuovamente affermato la Corte d’Appello la legittimità del licenziamento pur non essendovi, a suo avviso, alcun documento, atto oppure elemento che potesse giustificare questa conclusione. Inoltre, nell’articolato ricorso, è stata anche lamentata la violazione ed errata applicazione dell’art. 2119 del codice civile, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile perché non è dato comprendere da quale elemento di prova la corte di merito ha potuto trarre il suo convincimento circa l’idoneità del comportamento del lavoratore a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro. Infine, il ricorrente ha contestato anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 2 e 13753 del codice civile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato che, per un’unica condotta (assenza dal lavoro dal 12 luglio all’11 settembre 2013) erano stati adottati nei confronti dello stesso due provvedimenti disciplinari e, quindi, a suo avviso uno dei due provvedimenti sanzionatori irrogati era illegittimo e, conseguentemente, le condotte sanzionabili erano due e non tre come sostenuto dall’azienda che, per altro, a suo dire ha seguito un modus operandi in contrasto con l’art. 1375 del codice di procedura civile che impone la buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Cassazione ha, tuttavia, respinto il ricorso ritenendolo infondato, sulla base di un articolato ragionamento che è possibile così sintetizzare. Secondo i giudici di legittimità, un primo elemento di rilievo è che l’assenza ingiustificata al corso di formazione
in materia di sicurezza sul lavoro, che – occorre sottolineare – rientra nell’attività cui si obbliga il lavoratore con il contratto, si affianca ad altre assenze sul lavoro.
La Corte d’Appello, infatti, ha tenuto conto, al fine di valutare la legittimità del recesso datoriale e la sussistenza della recidiva, i due episodi effettivamente ritenendoli con un accertamento in fatto congruamente motivato, autonomi e distinti.
In relazione, invece, agli altri addebiti, non oggetto della lettera di licenziamento, sono stati considerati quali “circostanze confermative” della significatività degli altri (oggetto della contestazione) ai fini di una valutazione complessiva della gravità della condotta, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità del provvedimento sanzionatorio. Secondo la Cassazione ciò non viola, quindi, “il principio d’immutabilità della contestazione” come più volte affermato in sede di legittimità.
Per altro, fanno osservare ancora i giudici, che l’art. 72 del contratto di lavoro di riferimento prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso di recidiva nella “medesima mancanza” di cui all’art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo) nonché nelle fattispecie di cui ai punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti.
La contrattazione collettiva ha distinto l’ipotesi della “recidiva specifica”, che consente al datore di lavoro di procedere al licenziamento senza preavviso in caso di sua eventualità, da quella cosiddetta “plurima/ impropria” che richiede, invece, una pregressa triplice sospensione per particolari e tipizzati illeciti disciplinari. Sotto questo profilo, la ricostruzione esegetica, oltre a essere conforme al dato letterale, è secondo i giudici logica e ragionevole avendo le parti contrattuali voluto prevedere un diverso regime (appunto la necessità delle tre pregresse sospensioni) per alcune tipologie disciplinari ben individuate. Nel caso de quo ricorre, pertanto, l’ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento
a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Per questi motivi, quindi, nel caso di specie è da considerarsi legittimo il licenziamento in quanto, per e etto di quanto stabilito dal citato art. 72, lett. I, del contratto collettivo nazionale di lavoro in questione, non è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa, ma quella espulsiva. I giudici di merito, quindi, si sono adeguati al principio in base al quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario delle sanzioni disciplinari con e etto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore rispetto alle norme di etica o del comune vivere civile.

Lesione del vincolo fiduciario
La Cassazione ha, inoltre, anche posto in risalto che nel caso di specie il fatto che il lavoratore sia stato ingiustificatamente assente al corso di formazione in materia di sicurezza indetto dall’azienda in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 determina anche una grave violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui ai già richiamati artt. 1175 e 1375 del codice civile, tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e da rendere, quindi, proporzionata la sanzione irrogata.

Sotto questo profilo giova anche ricordare che l’art. 20, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce l’obbligo da parte del lavoratore di «osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale»; queste disposizioni sono espressione tipica del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, funzionali all’assolvimento dell’obbligazione di sicurezza (art. 2087 del codice civile).L’inosservanza, quindi, della disposizione aziendale di partecipare a un corso di formazione in materia di sicurezza costituisce, secondo quanto stabilisce l’art. 2119 del codice civile, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Bisogna considerare, infatti, che l’art. 18, comma 1, lett. l) e l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, pongono in capo al datore di lavoro e al dirigente – secondo le attribuzioni e le competenze a esso conferite – l’obbligo di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza. Di conseguenza, questo obbligo non poteva essere rimesso alla discrezionalità del lavoratore e, infatti, il già citato art. 20, comma 2, lett. h), del D.Lgs. n.81/2008, pone in capo allo stesso il dovere di «partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro», con la previsione in caso di violazione della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 245,70 a 737,10 euro (art. 59, comma 1, lett. a)). Questa disposizione, quindi, risulta strettamente funzionale anche alla concreta attuazione, in ambito aziendale, del “modello prevenzione collaborativo”, su cui si fonda il D.Lgs. n. 81/2008. Appare chiaro, quindi, che la condotta tenuta dal lavoratore abbia assunto una gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e lo stesso, in quanto è stato messo seriamente in pericolo il “bene sicurezza” sul lavoro che, per altro, si autonomizza rispetto al titolare (cfr. art. 32 e 41 Cost.). Occorre ricordare in merito che, secondo un’autorevole dottrina, questa disciplina protettiva ha un’alta funzione di garanzia del diritto alla salute del cittadino lavoratore «garanzia che deriva da necessità sociali e trova oggi il suo fondamento principale nella rilevanza costituzionale del lavoro. Essa opera sia di fronte allo Stato, sia nei rapporti intersoggettivi, funzionando – in relazione a questi ultimi – come limite di ordine pubblico all’autonomia privata. In sostanza, poiché lo Stato da un lato ritiene di interesse generale la salute pubblica e dall’altro garantisce l’integrale tutela del lavoro in ogni sua forma, l’integrità fisica del lavoratore assume rilevanza generale; per cui, tutelandola, lo Stato tutela un bene generale, al quale è interessata – nel suo complesso – l’intera collettività».

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Denominazioni chiare per ciascuna funzione

Dove? Negli incarichi e nei documenti di “sistema”. È quanto suggerisce – fra le righe – la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione, sez. IV penale, 7  febbraio 2018, n. 10740 offrendo alcuni utili e significativi spunti di riflessione, nell’interesse di tutta la filiera della sicurezza, dal datore di lavoro fino ai preposti senza dimenticare i dirigenti

 

Con la sentenza 7 febbraio 2018, n. 10740, la Corte di Cassazione (sez. IV penale) torna a occuparsi di requisiti, caratteristiche e finalità della delega di funzioni.
Pur ribadendo concetti ormai noti in tema di necessaria forma scritta, la sentenza offre – tra le righe – alcuni spunti di riflessione in ordine al necessario utilizzo, negli incarichi e nei documenti di “sistema”, di denominazioni chiare, nonché in ordine all’interazione tra le diverse e compresenti posizioni di datore di lavoro, dirigenti e preposti.

Il fatto
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il datore di lavoro era stato condannato per le lesioni subite da un operaio che, mentre stava sostituendo alcuni isolatori dell’alta tensione su un impianto in quota, aveva perso l’equilibrio scivolando lungo un pendio e rovinando contro una roccia.
Sia in primo che in secondo grado, il datore di lavoro era stato ritenuto colpevole per non aver correttamente valutato e gestito nel Pos le specifiche condizioni ambientali in cui il lavoratore si trovava a operare (art. 71 comma 2 lettere a) e b) e punto n. 3.2.5. allegato 6, D.Lgs. 81/2008).
I giudici di merito, infatti, avevano ritenuto che la previsione di una linea vita di aggancio durante lo svolgimento della mansione, avrebbe evitato l’infortunio. Il datore di lavoro aveva ricorso, quindi, per la Cassazione della sentenza, assumendo (oltre a una non corretta valutazione in fatto delle condizioni ambientali e delle cause dell’incidente) di aver validamente delegato compiti e responsabilità ad altro soggetto, evidenziando che l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello sarebbe consistito:
• nell’aver ritenuto invalida la delega conferita perché carente della forma scritta, mentre la qualifica di “dirigente delegato” sarebbe emersa dai documenti allegati (in particolare, sembra, dal Pos prodotto dal Pm);
• nel non aver considerato e adeguatamente valutato che, in ragione delle dimensioni incaricati sia il dirigente sia il preposto (responsabile della sicurezza nel cantiere) di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere opportunamente aggiornato il Pos.

La legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10740 del 7 febbraio 2018, ha rigettato il ricorso, sulla base dei seguenti rilievi:
• la necessità della forma scritta per la validità della delega di funzioni non è più contestabile (art. 16, D.Lgs. 81/2008) a nulla rilevando i precedenti giurisprudenziali – antecedenti alla normativa in vigore – citati a difesa; aggiunge, però anche, la Corte, che non possono equivalere a una “delega di funzioni” documenti che non abbiano un contenuto chiaramente a essa riconducibile;
• la presenza di ulteriori funzioni, quali quella del dirigente (nella specie qualificato come construction manager) e del preposto (nella specie qualificato come capo cantiere), pur affiancate al datore di lavoro nella gestione della sicurezza, non valgono a esonerarlo dalla propria responsabilità e dai doveri di intervento connessi ai propri poteri. La sentenza in commento offre, allora, l’occasione, non solo per richiamare le caratteristiche e le finalità della delega di funzioni rispetto a quelle connesse alla posizione di dirigente e preposto, ma anche – forse – per sottolineare come, spesso, l’utilizzo di una terminologia espressamente definita dalla norma possa garantire una più chiara ricostruzione della fattispecie e dei diversi ruoli dei soggetti chiamati a gestirla. Quanto al primo aspetto. Come sempre, occorrerebbe conoscere le dinamiche esatte del processo per poter comprendere appieno tutti i passaggi della sentenza e alcune affermazioni che, al lettore del solo provvedimento finale, potrebbero apparire a tratti anche “singolari”. Nelle premesse in fatto, pare infatti di capire che il ricorrente avesse sostenuto la sussistenza, ancora oggi, della possibilità di validamente conferire una delega di funzioni in assenza di forma scritta; ciò, a maggior ragione, in imprese di grandi dimensioni, articolate per settori e funzioni cui sono incaricati specifici soggetti. Pare anche, però, che lo stesso ricorrente facesse riferimento all’esistenza di documenti “equivalenti”, ovvero e nello specifico, a un Pos a firma del datore di lavoro e sottoscritto dal dirigente e dal preposto, nel quale gli stessi era stati formalmente incaricati della gestione della sicurezza.
In relazione alla forma scritta della delega di funzioni, si è già detto molto e non si ritiene necessario soffermarsi troppo anche in considerazione dell’ormai inequivoco contenuto della normativa vigente (art. 16, D.Lgs. 81/2008) che – oltre alla forma scritta – richiede anche la data certa. Il profilo “formale” oggetto di valutazione da parte della sentenza appare invece più interessante se affrontato, non tanto con riferimento alla mera presenza o meno di forma scritta, quanto alla possibilità che a documenti – comunque esistenti nel sistema di gestione della sicurezza sebbene per altre finalità – possano ricondursi, attraverso un esercizio interpretativo dei loro contenuti sostanziali, gli effetti della delega funzioni.
Ipotizzando (per quanto emerge dal testo) che si trattasse di fattispecie sottoposta alla disciplina di cui al titolo IV del D.Lgs. 81/2008 e che, quindi, l’imputato fosse il datore di lavoro dell’impresa esecutrice, lo stesso avrebbe sostenuto che dal Pos sarebbe emerso (oltre ad altri aspetti sui quali si tornerà in seguito) che «(omissis) era il dirigente delegato alla sicurezza». Secondo la Cassazione invece «i documenti prodotti in atti a firma (omissis) (il datore di lavoro, n.d.a.) con oggetto conferimento dei ruoli di construction manager” a (omissis) del (omissis) e di “capo cantiere” a (omissis) del (omissis), entrambi firmati dai dipendenti (omissis), non hanno in realtà il concreto contenuto della delega di funzioni». Questa conclusione (per quanto molto sintetica) ci può indurre a due riflessioni: non pare, da un lato, che i giudici abbiano escluso a priori la possibilità di qualificare un documento (comunque denominato) come “delega di funzioni” facendone conseguire gli effetti di legge purché lo stesso contenga tutti i requisiti di cui all’art. 16 D. Lgs. 81/2008;
• è altrettanto evidente, dall’altro, che quegli elementi distintivi devono apparire chiaramente nel documento richiamato e che, per evitare che il significato e l’efficacia che vogliamo conferire ai documenti di sistema sia messo in dubbio o sia comunque sottoposto a una valutazione interpretativa a posteriori, dobbiamo dare a quei documenti forma e contenuti chiari.
Questa conclusione risulta condivisibile in ragione degli effetti della delega di funzioni attraverso la quale «(…) il datore di lavoro ha la possibilità (…) di trasferire in capo ad altro soggetto poteri ed obblighi originariamente appartenenti al delegante in materia di sicurezza sul lavoro. In sostanza il datore può trasferire in capo ad altro soggetto la sua posizione di garanzia (…)» (Cassazione penale, sez. IV, 19.07.2012, n. 41063).
Tornando ora alla fattispecie esaminata, il Pos è un documento redatto ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. 81/2008 e, in estrema sintesi, contiene, con riferimento al singolo cantiere, la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione e protezione; è quindi evidente che non è finalizzato, di per sé, all’individuazione di posizioni di garanzia, né tanto meno al conferimento di deleghe. Lo stesso non poteva e non può, pertanto, essere considerato “equivalente” alla delega a meno che non ne contenga ogni elemento sostanziale e formale. Ancora e analogamente, al termine di manager construction non è chiaramente e inequivocabilmente riconducibile – se non attraverso una attività interpretativa e probatoria – una specifica definizione, né alcun specifico obbligo o responsabilità, dalla normativa antinfortunistica previsti.
Quanto al secondo aspetto. La Corte di Cassazione affronta, poi e come anticipato, il tema della compresenza di diverse posizioni di garanzia e della sostanziale
differenza tra la presenza delle figure del dirigente (o del preposto) e di una delega di funzioni. Il datore di lavoro aveva assunto, tra l’altro e infatti, la propria assenza di responsabilità in ragione dell’incarico conferito a due soggetti, rispettivamente come construction manager e capo cantiere, di riferire eventuali fattori di rischio non previsti, affinché potesse essere aggiornato il Pos. La Cassazione ricorda che, in assenza di una valida delega di funzioni (i cui requisiti non erano rispettati dalle nomine a construction manager e capo cantiere) questi soggetti sono «figure ipoteticamente concorrenti nel vasto settore della responsabilità ma, in ogni caso, la presenza dei due non esonera (…) il datore di lavoro, siccome incaricato dal consiglio di amministrazione (…) di tutti i poteri e di tutte le responsabilità in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro».
Ciò nel solco del già affermato principio per cui «Il vigente sistema di tutela della sicurezza del lavoro prevede una pluralità di figure di garanti tutti autonomamente responsabili in relazione agli obblighi a ciascuno di loro imposti» (Cassazione n. 51190/2015) non venendo meno «(…) il nesso di causalità tra la condotta omissiva (o commissiva) del titolare di una posizione di garanzia (…) per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’art. 41, comma 1, codice di procedure penale» (Cassazione n. 49349/2015).
Con particolare riferimento, quindi, alla posizione di garanzia del datore e del dirigente (sui quali, in rapporto alle rispettive attribuzioni e competenze, incombono gli obblighi coincidenti di cui all’art. 18 D. Lgs. 81/2008) gli obblighi e le responsabilità del primo possono essere trasferite solo sul secondo unicamente attraverso una valida delega di funzioni, diversamente potendo invece concorrere; analogamente e ancora distinto è il ruolo del preposto, destinatario a sua volta di specifici e autonomi obblighi e responsabilità. In assenza di delega di funzioni, quindi, l’uno può essere esonerato da responsabilità a svantaggio dell’altro nella misura in cui l’evento sia causalmente connesso in via esclusiva al mancato adempimento dell’obbligo riferito alla posizione di garanzia ricoperta. Anche in questa prospettiva, quindi, una corretta rappresentazione delle funzioni di ognuno può facilitare l’accertamento dei reali apporti in sede di giudizio.

Conclusioni
Ciò che forse dalle motivazioni di questa sentenza si può trarre è certamente il consiglio di utilizzare, nella redazione dei documenti, non solo (e ovviamente) le forme richieste dalla legge, ma – quanto più possibile – le categorie e le definizioni in essa presenti e disciplinate espressamente. Molto spesso, infatti, soprattutto nell’ambito di società multinazionali, ma anche per le più svariate ragioni in ambito nazionale, le imprese tendono a utilizzare costruzioni documentali e termini diversi da quelli della norma (construction manager lo abbiamo visto nella sentenza, ma si potrebbero citare molti altri esempi) anche per individuare funzioni specificamente dalla stessa disciplinate. Questo può poi comportare, in caso di evento “patologico”, una diversa interpretazione delle funzioni da parte degli inquirenti e dei giudici e, conseguentemente, la necessità di dover dimostrare (cosa non sempre agevole a posteriori) la riconducibilità delle singole funzioni alle categorie di legge.
Ogni realtà aziendale, poi e soprattutto se di medio-grandi dimensioni, dovrebbe svolgere periodicamente una esame del proprio organigramma della sicurezza e del complessivo sistema di procure, deleghe e nomine, al fine di verificare, da un lato, che le posizioni corrispondano effettivamente ai soggetti individuati (secondo il principio di effettività) e, dall’altro, che ogni soggetto del sistema sia a conoscenza non solo dei compiti lui affidati, ma anche di quelli che competono ad altre figure, così da evitare pericolose sovrapposizioni e ingerenze, garantendo al sistema la maggiore efficienza possibile.

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Con il nuovo bando Isi per il 2019, l’Inail ha messo sul piatto 370 milioni di euro di finanziamenti a fondo perduto. Un incremento del 48% rispetto all’edizione precedente.

Fra le altre novità: l’ampliamento della platea di beneficiari e i progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute, alla sicurezza sul lavoro e alla responsabilità sociale. Occhio però alle scadenze.

 

Con il comunicato del 20 dicembre 2018 (in Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre 2018, n. 295) l’Inail ha reso noto la pubblicazione del nuovo bando Isi giunto, ormai, alla nona edizione. Le linee strategiche di questo importante incentivo alla prevenzione sono state rese note dallo stesso istituto assicuratore con la delibera Civ 27 novembre 2018, n. 20, e mirano a un più efficace contrasto del preoccupante trend che ha visto chiudere il 2018 con una lunga scia d’infortuni sul lavoro, anche plurimi, nei settori più disparati.
Per il 2019 si apre, quindi, una nuova stagione dove l’Inail ha messo sul piatto qualcosa come 370 milioni di euro circa di nuovi incentivi a fondo perduto, ossia la cifra più alta da quando nel 2010 questo strumento – diventato ormai strutturale – è stato attuato in Italia, con una crescita delle risorse messe in campo di circa +48% rispetto all’edizione precedente.
Proprio questo particolare meccanismo incentivante conferisce all’Italia la palma d’oro di Paese leader a livello europeo in questo campo, grazie soprattutto al grande impegno diffuso in questi anni dall’Inail per cercare di agevolare i datori di lavoro nell’effettuazione degli investimenti in salute e sicurezza sul lavoro. Il dato negativo, purtroppo, è che nella legge 30 dicembre 2018, n. 145 (la legge di bilancio per il 2019) il legislatore ha scelto la strada del depotenziamento di questo strumento, cosa questa che lascia invero alquanto perplessi. Come vedremo, comunque, con questo nuovo bando sono state messe in campo
diverse azioni che vanno accolte molto positivamente, tra cui spiccano l’ampliamento della platea dei beneficiari, attraverso un meccanismo redistributivo più flessibile e ad ampio respiro, e una maggiore attenzione alla diffusione dei modelli organizzativi e di gestione con la scomposizione dell’asse 1 in due sotto assi.

Inclusi ed esclusi
Sono numerosi i profili critici di questo nuovo e complesso bando e concentrando l’attenzione su quelli più significativi occorre precisare, in primo luogo, che per quanto riguarda la platea dei beneficiari possono presentare la domanda di contributo le imprese, anche individuali e di armamento, ubicate su tutto il territorio nazionale iscritte alla Cciaa, che soddisfino i requisiti previsti dagli avvisi regionali/provinciali. Pertanto, anche in questa occasione, restano escluse le attività professionali in considerazione presumibilmente anche del ridotto rilievo In termini di trend infortunistico. Sono altresì escluse le imprese che si trovano in liquidazione volontaria o sono state assoggettate a una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo ecc.).
Da notare, poi, che l’asse 2 di finanziamento è aperto anche gli enti del cosiddetto terzo settore. Nel bando, comunque, sono specificati in dettaglio i soggetti destinatari e quelli esclusi e molteplici condizioni di partecipazione, differenziati per asse di finanziamento.

I requisiti generali
Questi soggetti, inoltre, devono soddisfare anche i numerosi requisiti previsti dai bandi regionali/provinciali che, si badi bene, devono essere mantenuti anche successivamente alla presentazione della domanda, fino alla realizzazione del progetto e alla sua rendicontazione.
In particolare, è richiesto che il soggetto partecipante deve avere attiva nel territorio della Regione (o Provincia autonoma) l’unità produttiva per la quale s’intende realizzare il progetto. Nel bando è precisato che, in virtù di quanto dispone l’art. 2, comma 1, lett. t) del D.Lgs. n. 81/2008, per “unità produttiva” s’intende lo stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.
Le imprese assicurate presso l’Inail devono indicare nella domanda la posizione assicurativa di riferimento. Per le imprese di armamento, invece, relativamente a progetti riguardanti navi e imbarcazioni, è considerata unità produttiva la nave/ imbarcazione per la quale deve essere predisposto il piano di sicurezza (cfr. D.Lgs. n. 271/1999); la sede Inail competente è quella nel cui ambito territoriale insiste la sede legale dell’armatore. Inoltre, trattandosi di un beneficio normativo, anche in questo caso il soggetto partecipante dovrà essere in regola con i versamenti contributivi dovuti all’Inps e alla cassa edile, nonché con premio assicurativo contro gli infortuni e le malattie professionali dovuto all’Inail, attestati dal documento unico di regolarità contributiva (Durc).

Il nuovo modello di “Patto d’integrità”
In questo quadro così complesso di requisiti e condizioni per la partecipazione, una menzione particolare merita l’obbligo da parte del partecipante di sottoscrivere il modello di “Patto d’integrità” (modulo G),
che manda in soffitta quello del 2014; l’Istituto assicuratore, infatti, con la determina presidenziale 17 dicembre 2018, n. 524, ha approvato il nuovo schema che ha una precisa finalità: mettere nero su bianco l’impegno reciproco di lealtà, correttezza, trasparenza nei rapporti, nonché contrastare nelle procedure concorsuali l’illegalità e le infiltrazioni criminali. Nel modello è previsto, quindi, che il soggetto partecipante è tenuto ad attestare di non aver concluso contratti di lavoro dipendente o autonomo e comunque di non aver attribuito incarichi ed ex dipendenti dell’Inail, che hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’Istituto nei propri confronti, per il triennio successivo alla cessazione del rapporto, così come espresso nell’orientamento Anac n. 24/2015 (il cosiddetto divieto di pantouflage o revolving doors).
Analogamente nel caso di ricorso ad aziende di consulenza per l’assistenza nella procedura lo stesso soggetto partecipante ha altresì l’espresso divieto di avvalersi di quelle nelle quali, per quanto a sua conoscenza, operano a qualsiasi titolo ex dipendenti Inail che abbiano interrotto il proprio rapporto da meno da tre anni e che durante la loro attività di servizio abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali nelle materie oggetto della selezione. Occorre, inoltre, sottolineare che con la presentazione del modello il soggetto partecipante si impegna anche a garantire la tracciabilità dei movimenti finanziari legati alla fruizione del beneficio e a non porre in essere alterazioni del regolare svolgimento delle gare in accordo con altre aziende.
Il modulo G deve essere sottoscritto dal titolare o dal legale rappresentante dell’impresa/ ente; questo patto sarà successivamente controfirmato dal responsabile della sede Inail competente ed «…è da considerarsi parte integrante del provvedimento di concessione del finanziamento, anche se non materialmente allo stesso allegato, in quanto conservato agli atti della pratica»; nella predisposizione della domanda occorrerà, quindi, porre molto attenzione a questo modello in quanto la mancata presentazione determina un effetto molto grave: l’esclusione dalla procedura di concessione del beneficio.

Così la ripartizione
Concentrando ora l’attenzione su alcuni dei profili procedurali fondamentali, occorre rilevare che il meccanismo di attribuzione di base delle risorse è rimasto sostanzialmente invariato, con la concessione
di un contributo in conto capitale che può coprire fino al 65% delle spese sostenute per ogni progetto ammesso, sulla base dei parametri e degli importi minimi e massimi specificati dal bando per ciascun asse di finanziamento, erogato dopo la verifica tecnico-amministrativa e la realizzazione del progetto. Rispetto al bando precedente, è rimasta ferma anche la classica struttura basata su cinque assi di finanziamento, ossia:
• asse 1 (Isi “Generalista”) – progetti di investimento (1.1) e progetti per l’adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale (1.2);

• asse 2 (Isi “Tematica”) – progetti per la riduzione del rischio da movimentazione manuale di carichi (Mmc);

• asse 3 (Isi “Amianto”) – progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;

• asse 4 (Isi “Micro e piccole imprese”) progetti per micro e piccole imprese operanti in specifici settori di attività (Ateco 2007 A03.1, C13, C14, C15);

• asse 5 (Isi “Agricoltura”) – progetti per le micro e piccole imprese operanti nel settore della produzione agricola primaria dei prodotti agricoli. Si osservi che, come nei bandi precedenti, anche in questa occasione i soggetti destinatari possono presentare una sola domanda di finanziamento in una sola Regione o Provincia autonoma, per una sola tipologia di progetto tra quelle sopra indicate riguardante una sola unità produttiva; come in passato le risorse sono distribuite a livello regionale.

Investimenti per il miglioramento di salute e sicurezza
Alcune riflessioni merita in particolare l’asse 1 che, come accennato, quest’anno è stato scisso in due sotto assi; da rilevare che ancora una volta la parte più consistente delle risorse messe a disposizione, pari a 180.308.344 euro, è destinata ai progetti d’investimento del sotto asse 1.1, relativi a tutti i settori merceologici e profili di rischio, volti al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori e rigorosamente funzionali alla riduzione, eliminazione e/o prevenzione della medesima causa d’infortunio o del fattore di rischio indicata dall’impresa nella domanda; il bando prevede dieci tipologie d’intervento
ammissibili con punteggi differenziati che unitamente ad alcuni altri parametri concorrono alla determinazione del punteggio e occorre sottolineare che sono ammissibili a finanziamento progetti relativi a una sola tipologia di intervento prevista.
Molto articolato è il quadro delle spese ammissibili al finanziamento e quelle escluse; in particolare quelle considerate come ammissibili sono sia le spese di progetto che quelle tecniche e assimilabili. Le prime sono tutte le spese direttamente necessarie all’intervento, nonché quelle accessorie o strumentali funzionali alla sua realizzazione e indispensabili per la sua completezza; viceversa, le spese accessorie o strumentali sono quelle funzionali alla realizzazione del progetto e indispensabili per la sua completezza che non siano direttamente riconducibili alla riduzione del rischio di cui alla tipologia d’intervento indicata nella domanda e non devono essere prevalenti rispetto a quelle direttamente riconducibili alla riduzione del rischio.
Non sono, invece, finanziabili né le spese sostenute per l’aggiornamento della valutazione dei rischi (art. 17, 28 e 29 D.Lgs. n. 81/2008) né quelle relative alla compilazione della domanda di finanziamento, nonché quelle espressamente richieste dalle direttive di prodotto a carico del fabbricante.
Viceversa, per i progetti di cui alle tipologie di intervento c), d) e h), per i quali è prevista la vendita o la permuta dei trattori agricoli o forestali e/o delle macchine sostituiti nell’ambito del progetto, nella presentazione della domanda on line, l’importo del finanziamento ammissibile è calcolato operando, sulla quota a carico di Inail, la decurtazione della somma pari al 50% dell’importo preventivato per la vendita o permuta; in fase istruttoria, l’importo concedibile sarà valutato con riferimento all’importo effettivo di vendita o di permuta. In ogni caso, l’importo concesso con provvedimento emesso a seguito della verifica tecnico/amministrativa di cui all’art. 19 del bando non potrà superare il valore del finanziamento ammissibile; parimenti, l’ammontare del finanziamento erogabile a seguito della verifica della documentazione attestante la realizzazione del progetto (art. 22) non potrà superare l’importo precedentemente concesso con il predetto provvedimento. Nel caso, invece, di acquisto di trattori agricoli o forestali e/o di macchine, le spese ammissibili per l’acquisto devono essere calcolate, al netto dell’Iva, con riferimento ai preventivi presentati e, comunque, nei limiti dell’80% del prezzo di listino di ciascun trattore agricolo o forestale o macchina. Da rilevare, poi, che le spese tecniche e assimilabili sono finanziabili entro la percentuale massima del 10% rispetto ai costi di cui al punto A (spese di progetto), con un importo massimo complessivo di 10 mila euro, a eccezione del mero acquisto di macchine per il quale la percentuale massima ammissibile è pari al 5% rispetto ai costi di cui al punto A, con un importo massimo complessivo di 5 mila euro; l’importo massimo concedibile per la perizia asseverata è pari a 1.200 euro.

La condivisione con le parti sociali con le parti sociali
Ancora una volta sarà importante anche la condivisione del progetto con le parti sociali.
Infatti, la condivisione con gli organismi paritetici o gli enti bilaterali comporta l’attribuzione di ben 13 punti che scendono a 10 se la condivisione è con due o più parti sociali di cui almeno una di rappresentanza delle aziende e una di rappresentanza dei lavoratori.
Da notare, inoltre, che nel bando sono previsti anche gli enti bilaterali che, invero, non sono però contemplati dal D.Lgs. n. 81/2008; inoltre, occorre tener presente che secondo quanto stabilisce l’art. 2, comma 1, lett. ee) del predetto decreto gli organismi paritetici sono quelli costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Lo “zoccolo duro” del Dvr
L’intervento per cui si richiede il finanziamento deve, però, essere necessariamente anche riscontrabile nel documento di valutazione dei rischi (artt. 17 e 28, D.Lgs. n. 81/2008) da presentare in fase di conferma e completamento della domanda (cfr. tipologie d’intervento a, b, c, d, e, h, i). Il bando, infatti, prevede espressamente che il fattore di rischio relativo alla tipologia di intervento del sotto asse 1.1 deve essere coerente con l’attività aziendale di cui alla voce di tariffa selezionata nella domanda e, quindi, coerente e rilevabile nel citato Dvr nei casi previsti dall’allegato 1.1.
Nel caso in cui sia stato redatto il Dvr standardizzato ai sensi dell’art. 29, comma 5 e 6 del D.Lgs. n. 81/2008, il soggetto partecipante dovrà inviare copia della modulistica relativa alle procedure standardizzate, di cui al D.M. 30 novembre 2012, avente data certa o attestata ai sensi dell’art. 28, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008 1; l’uso di questo strumento, tuttavia, non appare molto consigliato in quanto essendo basato più sul concetto di pericolo che su quello di rischio potrebbe generare difficoltà in fase di controllo e, per altro, alla fine dei conti non apporta molti benefici rispetto alla compilazione del Dvr “ordinario”.
Nel bando, inoltre, è precisato che i soggetti non tenuti alla redazione del Dvr neanche nella forma prevista dalle procedure standardizzate possono inviare una relazione sottoscritta dal titolare dell’impresa (rappresentante legale se ente del terzo settore) nella quale siano descritti: il ciclo produttivo, gli ambienti di lavoro e la disposizione dei macchinari (layout) e i rischi aziendali. Per le imprese del settore “pesca”, invece, il riferimento è il piano di sicurezza in cui deve essere riscontrabile il fattore di rischio corrispondente alla tipologia d’intervento selezionata (cfr. D.LBOX gs. 17 agosto 1999, n. 298). Il progetto d’intervento dovrà trovare, quindi, una specifica corrispondenza in termini di rischio e di misure nel Dvr: è questo il classico zoccolo duro che caratterizza da sempre il bando Isi e sul quale occorre sempre riflettere attentamente prima di presentare investimenti che potrebbero non trovare – come spesso accade – quell’indispensabile e coerente collegamento con gli esiti della valutazione dei rischi formalizzati appunto nel Dvr o in documenti equivalenti.

Mog e responsabilità sociale spunta la nuova Iso 45001
Sempre nell’asse 1, come accennato, fa il suo debutto anche il nuovo sotto asse 1.2, relativo ai progetti per l’adozione di Mog relativi alla salute e la sicurezza sul lavoro (cfr. art. 30 D.Lgs. n. 81/2008) e di responsabilità sociale. Bisogna ricordare che nella già citata delibera Civ n. 20/2018, è stato posto un particolare accento sulla rilevanza del finanziamento di questi interventi; sul piatto ci sono ben due milioni di euro che dovrebbero servire da stimolo a molte imprese a dotarsi di sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (Sgssl); per altro non va nemmeno dimenticato che questa strada rappresenta, ormai, un passaggio obbligato anche in chiave di responsabilità amministrativa delle società e degli enti in genere del D.Lgs. n. 231/2001, in caso d’infortunio sul lavoro o malattia professionale in dipendenza dei reati di lesioni gravi o gravissime e di omicidio colposo (artt. 589, 590 del codice penale ).
La novità prevista dal bando è il debutto dei Sgssl realizzati seguendo la nuova Iso 45001:2018, che comporta l’attribuzione di ben 90 punti se il sistema è certificato, che è l’innovativo standard internazionale su cui conformare questi sistemi di nuova generazione, integrati con qualità (Iso 9001:2015) e ambiente (Iso 14001:2015). Inoltre, come precisato nell’allegato 1.2 sono finanziabili anche i progetti di adozione di un Sgssl previsto da accordi Inail-parti sociali, nonché i progetti di adozione di un Sgssl non certificato, ma conforme alle linee guida Uni-Inail del 2001 o alla Uni Iso 45001:2018; un punteggio più basso è, invece, previsto per i Mog non asseverati, realizzati in base alle procedure semplificate di cui al decreto del ministero del Lavoro 3 febbraio 2014, e per l’adozione di un sistema di responsabilità sociale certificato Sa 8000. Come per il sotto asse 1.1 è prevista anche la norma premiale che riconosce un punteggio aggiuntivo a quei progetti che sono condivisi con gli organismi paritetici e gli enti bilaterali o che prevedono l’asseverazione del Sgssl secondo quanto stabilisce l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2008; al momento gli unici due settori dove è “praticabile” l’asseverazione sono l’edilizia (cfr. Uni/PdR 2:2013) e quello dei servizi ambientali territoriali (cfr. Uni/PdR 22:2016). Sul piano procedurale, i progetti possono riguardare tutti i lavoratori facenti capo a un unico datore di lavoro anche se operanti in più sedi o più regioni; in questo caso la domanda di contributo potrà essere presentata o presso una sola delle sedi Inail nel cui territorio opera almeno una parte dei lavoratori coinvolti nell’intervento o dove è situata la sede legale dell’impresa. Da rilevare, poi, che l’impresa dovrà mantenere il Mog per i tre anni successivi alla data di erogazione del saldo del finanziamento e in caso di certificazione la stessa va mantenuta per un triennio a decorrere dalla data della certificazione stessa.

I limiti
Alcune considerazioni devono essere compiute, inoltre, per quanto riguarda i limiti degli incentivi. Per gli assi 1, 2, 3 sull’importo delle spese ritenute ammissibili è concesso un finanziamento in conto capitale nella misura del 65% ed entro il tetto massimo pari a 130 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a cinque mila euro. Tuttavia, per le imprese fino a 50 dipendenti che presentano progetti per l’adozione di Mog e di responsabilità sociale non è fissato il limite minimo di finanziamento; la stessa misura dell’agevolazione è prevista per l’asse 4, ma in questo caso il finanziamento massimo erogabile è pari a 50 mila euro e il finanziamento minimo ammissibile è pari a due mila euro. Per l’asse 5, invece, il finanziamento in conto capitale è nella misura del 40% per i soggetti destinatari dell’asse 5.1 (generalità delle imprese agricole) che sale al 50% per i soggetti destinatari dell’asse 5.2 (giovani agricoltori), con un tetto massimo di finanziamento erogabile pari a 60 mila euro e uno minimo è pari a mille euro.

Spese ammesse e no
Come in passato si tratta, quindi, di un incentivo molto appetibile e per quanto riguarda le spese ammesse il principio generale che rientrano nell’agevolazione le spese documentate direttamente necessarie alla realizzazione del progetto, le eventuali spese accessorie o strumentali funzionali alla realizzazione dello stesso e indispensabili per la sua completezza, nonché le eventuali spese tecniche, così come previste negli allegati 1.1, 1.2, 2, 3, 4 e 5 dei bandi regionali, al netto dell’Iva; inoltre, le spese ammesse a finanziamento devono essere riferite a progetti non realizzati e non in corso di realizzazione alla data del 30 maggio 2019. Lo stesso bando, poi, prevede anche un lungo elenco di spese non ammissibili, alcune già viste per il sotto asse 1.1 come, ad esempio, quelle per l’hardware, software e sistemi di protezione informatica (fatta eccezione per quelli dedicati all’esclusivo funzionamento d’impianti o macchine oggetto del progetto di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza), i mobili e arredi ecc.

Assegnazione del contributo e regola “de minimis”
Resta fermo che, come detto, i finanziamenti sono erogati dall’Istituto assicuratore a fondo perduto e vengono assegnati fino a esaurimento, secondo l’ordine cronologico d’invio e sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (ad esempio gestiti dal fondo di garanzia delle Pmi e da Ismea); agli stessi si applica anche la regola del cosiddetto de minimis. Inoltre, il bando stabilisce ancora che per le domande di finanziamento che non prevedono il noleggio con patto di acquisto, il soggetto destinatario il cui progetto comporti un finanziamento di ammontare pari o superiore a 30 mila euro può richiedere un’anticipazione fino al 50% dell’importo del finanziamento stesso, compilando l’apposita sezione del modulo di domanda on line.

Regime di contrasto agli abusi
Interessante è notare, poi, che oltre l’obbligo per il soggetto richiedente di presentare il modello di “patto d’integrità” e il Dvr nei casi previsti, nonché essere in regola con il Durc, sulla base delle pregresse esperienze – non sempre positive – maturate nel corso di questi anni il bando Isi è anche disseminato da molteplici altri vincoli introdotti per prevenire possibili abusi dei benefici. Sotto questo profilo, a mero titolo esemplificativo, i progetti devono essere realizzati nei luoghi di lavoro nei quali è esercitata l’attività lavorativa al momento della presentazione della domanda e l’eventuale variazione del luogo di lavoro è ammissibile solo qualora sia debitamente motivata e non comporti la modifica dei parametri i cui punteggi hanno consentito il raggiungimento della prevista soglia di ammissione. Al tempo stesso, non può trattarsi di progetti che comportino un ampliamento della sede produttiva con la costruzione di un nuovo fabbricato o l’ampliamento della cubatura preesistente, né possono comportare l’acquisto di beni usati o l’acquisto di beni indispensabili per avviare l’attività dell’impresa.
Inoltre, il progetto deve essere realizzato in immobili già nella disponibilità dell’impresa (in proprietà, locazione o comodato) alla data di pubblicazione del bando, ossia il 20 dicembre 2018.

Procedure e verifiche
Resta da compiere, poi, alcune precisazioni sulle tappe procedurali e il quadro delle verifiche che saranno effettuate sulle domande presentate.
A partire dalla data dell’11 aprile 2019 le imprese avranno a disposizione, tramite il sito www.inail.it, una procedura informatica che consentirà loro, attraverso un percorso guidato, d’inserire la domanda di contributo con le modalità indicate negli avvisi regionali; la chiusura di questa prima fase è prevista per ore 18 del 30 maggio 2019. Nella sezione “Servizi online”, le imprese registrate al sito Inail avranno a disposizione l’applicativo per la compilazione della domanda, che consentirà di effettuare simulazioni relative al progetto da presentare – e, quindi, di verificare il raggiungimento del “punteggio soglia” di ammissibilità – e di salvare la domanda inserita; se le caratteristiche del progetto sono in linea con quelle richieste dal bando e viene raggiunta la “soglia minima di ammissibilità” per la presentazione della domanda (120 punti), è possibile partecipare alla fase successiva d’invio telematico della stessa. Dal 6 giugno 2019 le imprese che avranno raggiunto o superato la soglia minima di ammissibilità, salvato definitivamente la propria domanda e soddisfatti i requisiti previsti per il rilascio del “codice identificativo” (Ci), potranno accedere all’interno della procedura informatica per effettuare il download del proprio Ci che li identificherà in maniera univoca; la stessa procedura, mediante un’apposita funzionalità, rilascerà un documento contenente questo codice che dovrà essere custodito dall’impresa e utilizzato nel giorno dedicato all’inoltro telematico.
La terza fase, poi, è quella dell’invio della domanda (click-day); come in passato le imprese potranno inviare tramite lo sportello informatico la domanda di ammissione al finanziamento, utilizzando il Ci attribuito alla propria domanda; il Ci, dopo l’invio telematico della relativa domanda, sarà annullato dallo sportello informatico e, quindi, non sarà più utilizzabile.
Le domande pervenute saranno, così, poste in ordine cronologico di arrivo e al termine di ogni singola registrazione l’utente visualizzerà un messaggio che attesta la corretta presa in carico dell’invio.
Ancora una volta per conoscere le date e gli orari dell’apertura e della chiusura dello sportello informatico per l’invio delle domande sarà necessario, però, attendere la pubblicazione, a partire dal 6 giugno 2019 sul sito dell’Inail, della relativa comunicazione.
Appare opportuno sottolineare che occorre prestare molta attenzione al fattoche le suddette date potranno essere differenziate, per ambiti territoriali o assi di finanziamento, in base al numero di domande pervenute e alla loro distribuzione. Sarà poi l’Inail a effettuare entro il termine di 120 giorni (decorrenti dalla scadenza dei 30 giorni per la presentazione della documentazione ex art.18) la verifica tecnico-amministrativa finalizzata all’accertamento dell’effettiva sussistenza di tutti gli elementi dichiarati nella domanda on line e la corrispondenza con i parametri che hanno determinato l’attribuzione dei punteggi. In caso di ammissione al finanziamento, il progetto deve essere realizzato e rendicontato entro 365 giorni decorrenti dalla data di ricezione della comunicazione di esito positivo della verifica, fermo restando quanto stabilito dall’art. 9 con riferimento ai progetti che hanno inizio a partire dal 31 maggio 2019. Ai fini del riscontro del termine di 365 giorni fa fede la data della predetta comunicazione e nello stesso sono ricompresi i tempi necessari per l’ottenimento delle autorizzazioni o certificazioni richieste. Inoltre, il termine per la realizzazione del progetto e per la rendicontazione è prorogabile su richiesta motivata per un periodo non superiore a sei mesi.
Nel caso di concessione della proroga, il soggetto destinatario che ha beneficiato dell’anticipazione del finanziamento dovrà presentare, a copertura dell’ulteriore periodo concesso, un’integrazione della garanzia fideiussoria già costituita per l’anticipazione del finanziamento stesso.

Redistribuzione delle risorse
All’interno di questo articolato quadro, occorre anche segnalare la particolare rilevanza del meccanismo di redistribuzione delle risorse: gli importi dello stanziamento iniziale attribuiti alla direzione regionale potranno, infatti, subire variazioni in aumento o diminuzione in relazione all’entità delle domande inviate on line e confermate con l’invio della documentazione a completamento della domanda stessa. Quindi, l’eventuale nuovo stanziamento a seguito della redistribuzione sarà approvato con determina del direttore centrale prevenzione dell’Inail.

Considerazioni conclusive
La strada seguita dall’Inail deve essere accolta molto positivamente in quanto il bando Isi è stato rimodulato espansivamente, come si è visto sia per la notevole entità delle risorse messe in campo e sia per le iniziative ammesse che promuovono azioni specie nei settori critici dove, negli ultimi mesi, la sensazione è che si sia un po’ allentata l’attenzione al tema della salute e dalla sicurezza sul lavoro.
Si tratta, quindi, di un’importante occasione da non sprecare che, per altro, come accennato arriva in un momento molto delicato in quanto per effetto dell’art.1, comma 1122, della legge n. 145/2018, il legislatore per compensare le minori entrate derivanti dalla revisione delle tariffe dei premi assicurativi dovuti all’Inail ha previsto per il triennio 2019-2021 una riduzione complessiva delle risorse da destinare al bando Isi di circa trecento milioni.

 

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SOLI IN VETTA

Nella scelta del modello ricontrollo è necessario prendere in considerazione l’idoneità specifica alle condizioni e alle circostanze e la definizione di procedure per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità

 

LAVORO IN SOLITARIO: COME VALUTARE I RISCHI

Che il lavoro sia cambiato negli ultimi anni è ormai fuori discussione; assieme a esso, sono mutate la percezione e le aspettative legate a esso. Ciò che più legittimamente ci si aspetta è che il lavoro non sia pericoloso per le persone che lo eseguono e che queste siano tutelate verso i potenziali pericoli che incontrano. Negli ultimi anni queste rinnovate sensibilità hanno portato ad analizzare aspetti del lavoro in modi che non erano mai stati presi in considerazione, come nel caso della sicurezza del lavoro in solitario.
Si tratta di una condizione che è sempre esistita (si pensi ai postini, agli autisti, agli agricoltori eccetera); tuttavia, solo recentemente si è sviluppata una particolare sensibilità verso i problemi connessi a lavorare
da soli, spesso in zone isolate, con il pericolo di non essere soccorsi tempestivamente o a atto, o di essere soggetti a condizioni ambientali inaspettate, trovandosi quindi impreparati a proteggersi. Il datore di lavoro ha il dovere di considerare anche questi aspetti nella sua valutazione di tutti i rischi lavorativi, anche perché si tratta dei “rischi particolari” previsti all’articolo 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Solo per alcune attività la norma e gli standard individuano precise strategie per la gestione del rischio.
Solo alcuni Paesi hanno a rontato in maniera sistematica questo problema, come si vedrà nel seguito.

SVIZZERA
L’istituto che gestisce l’assicurazione obbligatoria per i lavoratori in Svizzera, la Suva,
nel suo Lavorare da soli può essere pericoloso – Guida per i datori di lavoro e gli addetti alla sicurezza stabilisce che «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». In particolare, l’istituto specifica che «Si raccomanda di verificare di volta in volta se, eventualmente, un’altra persona in contatto visivo non possa essere assegnata contemporaneamente a un altro incarico. Se questo non è possibile, la persona tenuta a lavorare da sola deve avere la possibilità di chiedere aiuto in qualsiasi momento in caso di emergenza, ad esempio usando il telefono fisso, il telefono cellulare, la radiotrasmittente, l’allarme via radio o tramite l’eventuale impianto di sorveglianza in dotazione nell’azienda. Per “caso di emergenza” si intende, ad esempio, una situazione critica, un infortunio, un disturbo di salute imprevisto o uno stato d’ansia».
Per valutare il rischio dei lavoratori «tenuti a lavorare da soli», Suva definisce una valutazione dei rischi “PxD” (probabilità x danno) con una matrice 5×5, da basare su un campione standard di 1.000 lavoratori.
Lavori che possono essere svolti da soli, purché in contatto visivo o vocale con altre persone
Per la maggior parte dei lavori che non devono essere eseguiti da una persona sola, è sufficiente che l’operatore abbia un contatto visivo o vocale con altre persone.
Un contatto visivo o a voce con altre persone è indispensabile, ad esempio, nelle seguenti attività:

• lavori su macchine in cui esiste il pericolo che alcune parti del corpo finiscano nelle zone di imbocco o si impiglino in utensili o elementi rotanti (ad esempio macchine utensili);
• lavori su sistemi tecnici in esercizio particolare, ad esempio regolazione di macchine utensili od operatrici, riparazione di guasti o eliminazione di intoppi nella produzione, interventi di manutenzione;
• lavori forestali connessi a pericoli particolari;
• lavori in zone pericolose solitamente inaccessibili e di conseguenza non protette;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori con Dpi anticaduta (sistema di arresto caduta).

Lavori che richiedono la sorveglianza diretta da parte di un’altra persona
Certi lavori sono talmente critici che la persona in servizio deve essere sempre sorvegliata direttamente da un’altra persona (ad esempio quando si entra nei pozzi), che ha unicamente l’incarico di sorvegliare la persona e non può svolgere altri compiti. Per questi lavori critici bisogna elaborare un concetto di salvataggio con la collaborazione di specialisti della sicurezza sul lavoro (Mssl). I mezzi di soccorso necessari devono essere messi a disposizione sul posto prima di iniziare i lavori.
In caso d’infortunio o di fronte a una situazione critica, il sorvegliante deve dare immediatamente l’allarme. A questo proposito, il sorvegliante deve essere istruito, prima di iniziare i lavori, sui possibili pericoli, sui compiti di sorveglianza e su come prestare i primi soccorsi.

Lavori regolamentati da disposizioni particolari
Alcuni lavori, secondo la normativa svizzera, richiedono tassativamente la presenza di una terza persona, quali, senza obbligo di esaustività:
• lavori su installazioni elettriche sotto tensione;
• utilizzo di sorgenti radioattive al di fuori di locali di irradiazione;
• verniciatura a spruzzo all’interno di recipienti;
• lavori all’interno di recipienti e locali stretti;
• lavori di smantellamento;
• impianti termici e camini di fabbrica;
• lavori in sospensione a corde portanti;
• lavori in canalizzazioni;
• lavori forestali particolarmente pericolosi;
• lavori sulle ferrovie;
• lavori sui piloni dell’alta tensione;
• lavori in aria compressa e d’immersione subacquea.

Requisiti relativi alle «persone tenute a lavorare da sole»
I lavoratori classificati come «persone tenute a lavorare da sole» devono:
• avere compiuto 18 anni di età;
• essere in possesso di idoneità psichica.
Non sono idonee o lo sono solo a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono insicure nei lavori di gruppo;
– hanno paura in posti di lavoro in cui devono lavorare da sole;
– soffrono di disturbi psichici o malattie mentali;
– presentano disturbi della concentrazione;
• essere in possesso di idoneità fisica. Non sono idonee o lo sono a determinate condizioni, ad esempio, le persone che:
– sono soggette a capogiri, svenimento, crisi epilettiche, paralisi, dispnea, asma eccetera;
– sono a ette da malattie dell’apparato circolatorio o metaboliche (malattie cardiache, ipertensione, diabete);
– hanno una dipendenza patologica da alcool, farmaci, droghe;
– sono sotto l’e etto di farmaci sedativi o stimolanti;
– so rono di determinate allergie (ad esempio alle punture di insetti);
• sono in possesso di idoneità intellettuale.
Nella valutazione, dice la norma, occorre tenere in considerazione i fattori psicosociali derivanti, ad esempio, dalla difficoltà a mantenere i contatti con altre persone nel tempo libero a causa dell’orario o del posto di lavoro, in caso di lavoro notturno o di posti di lavoro isolati.

Criteri per la sorveglianza del lavoratore

Campo 1 della matrice della valutazione dei rischi
La sorveglianza tecnica non sostituisce in alcun caso la presenza di una seconda persona. Resta vietato svolgere questi compiti da soli.

Campo 2 della matrice della valutazione dei rischi
A determinate condizioni, la sorveglianza diretta può essere sostituita con un sistema di sorveglianza continua, indipendente dalla volontà, mediante un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme.
La sorveglianza continua per mezzo di un impianto di sorveglianza con organizzazione d’allarme può essere adatta alle seguenti attività:
• lavori di trasporto e immagazzinamento da eseguire a piedi, con gru o carrelli automatici nel settore della produzione, in un deposito o in una cella frigorifera
• giri d’ispezione all’interno di impianti di vaste dimensioni, ad esempio in stabilimenti chimici, discariche, impianti di depurazione delle acque e incenerimento dei rifiuti.

Campo 3 della matrice della valutazione dei rischi
Per le attività ricadenti in questo campo, la sorveglianza può essere svolta secondo questi criteri:
• sorveglianza periodica. La sorveglianza periodica viene eseguita da una persona o tramite un impianto di sorveglianza;
• sorveglianza periodica effettuata da un’altra persona. La persona in questione (ad esempio superiore, custode o guardiano) sorveglia la persona tenuta a lavorare da sola a intervalli di tempo prestabiliti;
• sorveglianza periodica tramite un impianto di sorveglianza. L’impianto di sorveglianza monitora periodicamente la persona tenuta a lavorare da sola e fa scattare automaticamente l’allarme in caso di emergenza;
• sorveglianza attiva del posto tramite Gps.
Un apparecchio di allarme dotato di un sistema Gps può essere localizzato individualmente da una centrale di sorveglianza situata a pochi metri di distanza.

 

STATI UNITI
L’occupational safety and health administration Ohsa Usa non a ronta direttamente
il tema del lavoro in solitario nella sua Part 1910 — Occupational Safety and Health Standards, facendone piuttosto l’oggetto di prescrizioni negli standard specifici per attività.

Lavori elettrici
La Part 1910.269(l)(2), riguardante la generazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, stabilisce che una serie di attività devono essere svolte solo in presenza di almeno due persone.

Cantieri navali
La Part 1915, che si occupa di regolare le attività nei cantieri navali, al numero
1915.84.

Attività in sotterraneo
La Part 1926, che norma le attività di costruzioni civili, al numero 1926.800.

 

REGNO UNITO
Il Health and safety at work act britannico del 1974 e il The management of health and safety at work regulations del 1999 non affrontano direttamente l’argomento del lavoro in solitario. Ai datori di lavoro, comunque, è richiesto di valutare con cura e definire le modalità con cui affrontare
i rischi dal lavoro in solitario. I datori di lavoro hanno il dovere di esaminare i rischi per i lavoratori in solitario e adottare misure per evitare o controllare i rischi, quando necessario.
Norme specifiche regolano alcune attività ad alto rischio dove è necessaria la presenza di almeno due persone. Queste sono ad esempio:
• lavori in spazio confinati;
• lavori in prossimità di conduttori elettrici esposti;
• lavori nel settore sociale o sanitario, dove si può avere a che fare con persone e situazioni imprevedibili;
• trasporto di esplosivi;
• operazioni in immersione;
• lavori di fumigazione.

Lo standard Bs 8484:2016
Il British standard institute (Bsi), sotto la sollecitazione del consiglio nazionale dei capi della polizia (National police chiefs council, Npcc, a quei tempi denominato Acpo) ha prodotto lo standard Bs 8484:2016, alla sua seconda versione, che disciplina la fornitura di servizi per lavoratori solitari (Provision of lone worker services). Singolare è stato l’antefatto che ha portato all’emanazione dello standard: nel Regno Unito, il Npcc è responsabile della gestione dei servizi di primo intervento (l’equivalente del 112 italiano); sulla base della loro esperienza con l’industria degli allarmi antintrusione, è emersa come la mancanza di controllo in una fase iniziale del mercato abbia portato a un enorme numero di falsi allarmi con conseguente spreco di preziose risorse. Per questo motivo, gli operatori del Npcc hanno valutato come essenziale l’emissione di uno standard per gestire il tasso di falsi allarmi dovuti a lavoratori in solitario. L’introduzione della Bs 8484 nelle fasi iniziali dell’industria dei servizi alle organizzazioni che impiegano lavoratori in solitario ha evitato gli anni di duro lavoro che sono stati, invece, necessari all’industria degli allarmi antintrusione, per ridurre i falsi allarmi alla gestibile quota attuale dello 0,1%.

La Bs 8484:2016 stabilisce requisiti:
• per le organizzazioni che forniscono i servizi di monitoraggio dei lavoratori in solitario;
• per le attrezzature da utilizzare per dare l’allarme;
• per le centrali che rilevano l’allarme;
• per le organizzazioni che forniscono soccorso.

 

ITALIA
Il lavoratore in solitario può essere definito come colui che si trova a svolgere la sua attività, per una organizzazione, senza la presenza personale di almeno un collega. L’attività può essere eseguita sia all’interno che all’esterno dello stabilimento aziendale, definito come il perimetro all’interno del quale il datore di lavoro esercita le proprie prerogative.
Gli obblighi a carico del datore di lavoro, in relazione ai lavoratori in solitario, sono diversi.
Il campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008 al riguardo è molto ampio:
• art. 15, comma 1), lettera a): «Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza»;
• art. 17, comma 1), lettera a) «Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28».
Peraltro, la necessità, per il datore di lavoro, di organizzare un e icace sistema di gestione delle emergenze che si adatti alle e ettive condizioni di lavoro, è già direttamente presente nel testo unico: «Il datore di lavoro, tenendo conto della natura
dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o della unità produttiva, sentito il medico competente ove nominato, prende
i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre eventuali persone presenti sui luoghi di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati» (art. 45, comma 1).
All’interno del corpus delle norme applicabili alle attività lavorative, diverse prescrivono la presenza di due o più persone in situazioni particolari. Ad esempio, il regio decreto del 9 gennaio 1927, n. 147 «Approvazione del regolamento speciale
per l’impiego dei gas tossici» prescrive al dello stabilimento in cui sono manipolati gas tossici «di curare che il proprio personale abilitato, adibito alla esecuzione delle operazioni inerenti all’impiego del gas tossico (…) sia di idato: ad entrare nei locali nei quali viene utilizzato il gas tossico se non per gruppi di due persone».
Il D.Lgs. n. 81/2008 proibisce sia in maniera indiretta che diretta che una serie di attività siano svolte da personale isolato.

Formazione
Le procedure di operatività e di soccorso riguardanti attività da svolgere in solitario devono essere oggetto di particolare formazione che il datore di lavoro deve somministrare ai lavoratori, secondo quanto previsto dall’art. 36, D.Lgs. n. 81/2008.

Il processo di valutazione dei rischi
Elemento chiave del sistema per la prevenzione dell’ordinamento italiano e internazionale so di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno. è la valutazione dei rischi, che significa, letteralmente, considerarli.
Il datore di lavoro deve, quindi considerare i rischi cui può essere esposto un lavoratore in solitario.
Questi possono essere:
• il pericolo derivante dalla possibilità di non potere essere soccorsi, sia in caso di infortunio lavorativo che di malore o evento accidentale;
• il pericolo che questo malore possa accadere;
• il pericolo di operare in un ambiente estraneo, non conosciuto;
• le conseguenze, non trascurabili, del disagio psicologico e sociale del lavoratore, conseguente alla sua particolare condizione.

Non tutte le condizioni lavorative dovranno essere sottoposte a valutazione dei rischi per decidere se farle svolgere a un lavoratore solitario; la norma nazionale è, infatti, ben chiara su quali operazioni debbano essere svolte da almeno due lavoratori.

Per quanto riguarda la definizione dei criteri di accettabilità da adottare nel processo di valutazione dei rischi, la norma non fornisce indicazioni. Potrebbe esser adeguato il discrimine proposto dalla norma svizzera, per il motivo che essa indica un criterio generale cui attenersi, non limitandosi a un elenco di attività proibite, come negli altri casi riportati: «Non è consentito svolgere un’attività isolata se questo può comportare un pericolo di ferimento che richiede l’aiuto immediato di una seconda persona». Intendendo come “attività isolata” ogni attività senza la presenza in contatto diretto di colleghi o terzi, si eviterà di includere le attività che prevedono operazioni e spostamenti in contesti urbani – o comunque antropizzati – tra quelle da fare svolgere tassativamente almeno da due persone. La motivazione di questa scelta è perché si tratta di una situazione (quella di trovarsi in presenza di persone che ci sono estranee) cui sono soggette tutte le persone nella loro condizione ordinaria di vita, indipendentemente dal fatto che in quel momento svolgano un’attività lavorativa o meno.

Pericolo di non potere essere soccorso
Nel valutare il pericolo di non potere essere soccorso, avranno spazio rilevante considerazioni relative a:
• tipologia e magnitudo del rischio lavorativo cui è esposto il lavoratore in solitario;
• condizione di salute dello stesso, con particolare considerazione della combinazione tra le richieste fisiche della prestazione lavorativa e l’età del soggetto;
• condizioni delle aree di lavoro, intese sia come accessibilità delle stesse e condizioni fisiche delle aree e delle vie di accesso, sia come presenza o meno di altre persone anche se non appartenenti all’organizzazione lavorativa;
• distanza dai presidi di primo soccorso aziendali o pubblici, se questi siano facilmente accessibili, o se, a causa della distanza e delle vie di comunicazione, il soccorso possa non essere tempestivo.
A questo riguardo, è necessario segnalare che la norma già mette in carico al datore di lavoro l’obbligo di organizzare in maniera efficace le comunicazioni con il sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale. A questo proposito, il D.M. n. 388/2003 a erma: «Nelle aziende o unità produttive che hanno lavoratori che prestano la propria attività in luoghi isolati, diversi dalla sede aziendale o unità produttiva, il datore di lavoro è tenuto a fornire loro un mezzo di comunicazione idoneo per raccordarsi con l’azienda al fine di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 5). E ancora: «Nelle aziende o unità produttive di gruppo A e di gruppo B, il datore di lavoro deve garantire le seguenti attrezzature (…) un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale» (art. 2, comma 2).

Considerazioni relative all’idoneità psicofisica del lavoratore
Nel processo di valutazione dei rischi l’idoneità psicofisica del lavoratore ha uno spazio rilevante: in collaborazione con il medico competente aziendale occorrerà effettuare considerazioni relative ai criteri
di idoneità dei lavoratori impegnati in solitario. Queste considerazioni dovranno prendere in considerazione almeno:
• le condizioni generali di salute del lavoratore, anche considerando fattori permanenti – quali, ad esempio, l’età – o transitori, come ad esempio lo stato di gravidanza della lavoratrice/lavoratore;
• la domanda fisica delle attività da svolgere;
• le conseguenze dello stress psicologico cui può essere soggetto il lavoratore in conseguenza del lavoro in solitario.

Pericolo di operare in un ambiente sconosciuto
Un lavoratore solitario può operare sempre all’interno del medesimo ambiente, ad esempio un presidio, una guardiania o recarsi periodicamente in una posizione definita, al di fuori dello stabilimento lavorativo. Qualora ciò non fosse, doversi recare in un ambiente non conosciuto può costituire un fattore di aggravio del rischio; occorre, infatti, prendere in considerazione la possibilità che si debbano affrontare rischi per i quali non si era preparati né attrezzati.

Conseguenze del disagio psicologico e sociale del lavoratore
La valutazione di questo aspetto è opportuno prenda in considerazione:
• l’eventuale disagio del lavoratore conseguente a non potere avere rapporti con alcuno durante le ore di lavoro. Questo nel caso il lavoratore solitario presti la sua opera continuativamente in zone remote, senza alcuna presenza umana;
• il rischio che può correre il lavoratore che si trovi, senza supporto alcuno, a operare in situazioni di disagio sociale. Questo rischio è sia di carattere psicologico (spavento) che fisico (aggressione).
La valutazione dello stress lavoro-correlato – e quindi anche di quello indotto da quella particolare situazione lavorativa che è il lavoro in solitario – è un obbligo previsto dall’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.

Valutazione dei rischi
I rischi cui sono soggetti i lavoratori in solitario derivano da condizioni eterogenee. Un fattore discriminante importante è quello relativo ai posti di lavoro in cui il lavoratore presta il proprio servizio, che possono essere:
• interni allo stabilimento aziendale, in postazioni fisse come, ad esempio, posti di monitoraggio, guardianie, sale controllo o in movimento, ad esempio mansioni di vigilanza;
• esterni allo stabilimento aziendale, ma comunque nella disponibilità più o meno totale del datore di lavoro, come cabine, impianti, comunque in aree segregate;
• esterni allo stabilimento aziendale, al di fuori della disponibilità del datore di lavoro, come ad esempio tutti gli spazi pubblici.
Negli ultimi due casi, la valutazione del rischio dovrà prendere necessariamente in considerazione anche tutte le attività svolte dal lavoratore a partire dal momento in cui lascia lo stabilimento aziendale. Il criterio per il processo di valutazione dei rischi potrebbe partire prendendo in considerazione subito il problema centrale del lavoro in solitario: il rischio di non essere soccorso. L’analisi della correlazione tra questo rischio e l’esito degli incidenti cui è ragionevole pensare possano essere esposti i lavoratori sarà la base del meccanismo di decision-making che definirà i criteri di accettabilità della valutazione del rischio.

Altri fattori ricordati, quali:
• i rischi derivanti da dovere operare in ambienti estranei,
• il disagio psicologico e sociale del lavoratore in solitario,
• considerazioni relative l’idoneità psicofisica del lavoratore, dovuta a condizioni permanenti o temporanee saranno considerati come fattori aggiuntivi della valutazione.

Rischio di non essere soccorso
La prima discretizzazione da eseguire riguarda l’analisi dell’esito del potenziale incidente che può occorrere al lavoratore, in conseguenza di un infortunio lavorativo, evento accidentale o malore; analisi che deriva dalla valutazione dei rischi aziendale.

Analisi delle possibilità di essere soccorso (S)
Le possibilità di essere soccorso, in relazione con le caratteristiche dell’area, possono essere definite in questo modo:
• nell’area sono presenti altre persone, anche se non appartenenti alla medesima organizzazione del lavoratore o non impegnate nelle medesime aree lavorative, che possono attivare sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale o prestare la prima assistenza in caso di incidente. Questa condizione, tipicamente, è quella di coloro che lavorano senza il supporto di colleghi in aree pubbliche, frequentate. Le attività sono quelle di autisti, fattorini e simili;

• nell’area non sono presenti altre persone, ma i presidi di primo soccorso possono essere facilmente raggiunti. Un esempio può essere quello di un lavoratore che svolge un servizio di vigilanza in solitario, all’interno di uno stabilimento, in cui le attrezzature di primo soccorso sono disponibili solo in alcune posizioni;
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore con l’uso di mezzi ordinari.
Si tratta delle attività che vengono svolte in aree remote, che però sono raggiungibili con le strade ordinarie.
• nell’area non sono presenti altre persone e i presidi di primo soccorso possono essere raggiunti o raggiungere il lavoratore solo utilizzando veicoli speciali. Sono le attività che vengono svolte in aree remote, dove però l’assenza di strade ordinarie rende necessario l’utilizzo di mezzi fuoristrada o elicotteri per prestare il soccorso e procedere all’evacuazione medicale.

Analisi dell’incidente (I)
Tralasciando per un attimo la possibilità del lavoratore di essere colpito da un malore, analisi che sarà fatta in seguito, le categorie possono essere:
• incidente lieve, i cui esiti sono recuperati da parte del lavoratore in un arco di tempo che va da qualche minuto a qualche ora, non ne pregiudicano la capacità lavorativa e per i quali un soccorso ritardato non provoca particolari ripercussioni sulla salute del lavoratore;
• incidente medio, le cui conseguenze vengono recuperate dal lavoratore in qualche giorno. il lavoratore ha pregiudicate le capacità lavorative, ma non la mobilità o almeno non in misura tale da non potersi allontanare da luogo di lavoro normalmente accessibile. un soccorso tempestivo è auspicabile anche se un moderato ritardo non è un fattore rilevante di aggravamento delle sue condizioni di salute;
• incidente grave. Il lavoratore può recuperarne dalle conseguenze nel giro di settimane, solo con l’ausilio di un appropriato trattamento medico. Sia le capacità lavorative che la mobilità sono fortemente pregiudicate ed è necessario un soccorso immediato per evitare il rapido aggravamento delle condizioni di salute dell’infortunato;
• incidente mortale o che conduce alla morte nel giro di qualche ora.

Valutazione del rischio (R=SxI)
Assegnando un peso da 1 a 4 sia alla valutazione delle conseguenze dell’incidente che della possibilità di essere soccorso, dove 1 è la situazione meno e 4 quella più gravosa, e correlando le analisi, si ottiene la base per una valutazione dei possibili scenari.

Valutazione dei pericoli aggiuntivi
Il primo passo della valutazione dei rischi viene eseguito correlando in astratto il pericolo di non essere soccorso con il potenziale esito di un incidente che può occorrere durante l’attività lavorativa. Queste considerazioni, però, devono essere integrate dalla valutazione di altre condizioni che possono aggravare la situazione in caso di incidente occorso a un lavoratore
solitario.

Malori
La possibilità che al lavoratore occorra un malore che possa diventare un fattore di criticità in caso di lavoro in solitario, deve essere valutata dal medico competente.
Il lavoratore può essere:
• pienamente idoneo al lavoro in solitario;
• non idoneo, in conseguenza delle condizioni di salute, temporanee o permanenti, che possono essere un fattore che può causare o aggravare gli esiti di un incidente occorso lavorando in solitario.
È opportuno che il medico competente, al momento della redazione di una limitazione di idoneità di questo genere, specifichi esaurientemente gli ambiti delle condizioni di lavoro: se relativa al lavoro solitario interno all’azienda o al suo esterno, in posizione fissa o mobile.

Ambiente sconosciuto
Operare in un ambiente sconosciuto può portare a doversi confrontare con situazioni che si manifestano improvvisamente o per le quali non si era preparati e attrezzati.
Un ambiente sconosciuto diventa conosciuto dopo che si è provveduto a ispezionarlo.

Disagio psicologico e sociale
Il disagio psicologico e sociale affrontato dal lavoratore può essere:
• dovuto alle particolari condizioni dell’azienda e della mansione, da valutare secondo quanto previsto dall’ art. 28, comma 1-bis, D.Lgs. 81/2008;
• dovuto alla necessità di trascorrere lunghi periodi di tempo (definibili in via di prima approssimazione in settimane) senza contatti con altri;
• indotto alla necessità di operare in ambienti con particolari condizioni di stress psicologico e sociale, anche con pericolo di aggressione.

Valutazione finale dei rischi (Rf)
Il processo di valutazione del rischio da lavoro in solitario, viene completata integrandola con la valutazione dei pericoli aggiuntivi.
Potrebbe essere accettabile:
• attribuire dei pesi (coe icienti) da 1 a 4 a ciascuna delle situazioni, secondo la politica dell’azienda;
• moltiplicare l’esito del processo di valutazione preliminare dei rischi con il maggiore dei coefficienti dei pericoli aggiuntivi;
• confrontare il risultato ottenuto con la griglia di accettabilità predisposta.

Misure di mitigazione
Di erenti tecniche per la mitigazione dei rischi del lavoro in solitario possono essere
individuate. Tipicamente, a seconda delle circostanze:
• non sarà possibile il lavoro in solitario, e all’operatore dovrà essere affiancato un collega, con mansioni di collaborazione o di assistenza, recupero e salvataggio. Tipico il caso del lavoratore in assistenza all’esterno dei luoghi confinati, variamente formato e attrezzato per il recupero;
• il lavoratore solitario sarà controllato attraverso processi attivi, tipo dovere telefonare o dare una voce o eseguire un’operazione a scadenze temporali prefissate;
• il lavoratore in solitario potrà essere controllato attraverso processi passivi, indipendenti dalla sua volontà. Negli anni sono stati sviluppati sistemi con riprese video, segnalatori di accesso/uscita, dispositivi uomo-morto, che segnalano l’allarme per posture particolari o periodi di immobilità continuati, programmabili, così come rilevatori Gps per indicare la posizione del lavoratore, e tutte le possibili combinazioni di questi sistemi.
Il collegamento con il sistema di governo e di vigilanza può essere assicurato da onde radio e dispositivi a radiofrequenza per spazi limitati, telefonia cellulare o satellitare per aree più estese.
È importante ricordare che le misure di prevenzione e protezione dovranno essere adottate nel rispetto dell’articolo 15 «Misure generali di tutela», D.Lgs. n. 81/2008, rispetto della politica aziendale in materia di tutela del lavoro, e possono essere:
• la limitazione delle attività per le quali è previsto l’impiego di lavoratori in solitario;
• la predisposizione di procedure per il controllo degli ambienti di lavoro in cui si trovano a prestare la loro opera i lavoratori in solitario;
• la limitazione del numero dei lavoratori esposti ai rischi conseguenti al lavoro in solitario, definendone i requisiti di idoneità sanitaria e di formazione;
• l’utilizzo di tecniche e apparecchiature per il controllo e il soccorso remoto dei lavoratori in solitario.
È, inoltre, necessario ricordare come il controllo del lavoratore debba rispettare le norme del contratto di lavoro e quelle sulla privacy.

Conclusioni
Non esiste un sistema universale per il controllo del lavoratore in solitario e tutti i sistemi finora ideati sono soggetti a problemi più o meno critici che non ne assicurano una funzionalità al 100%. Nella scelta del sistema di controllo è necessario prendere in considerazione:
• l’idoneità specifica, della soluzione e delle attrezzature utilizzate, alle condizioni di lavoro e alle circostanze in cui questo viene eseguito;
• la definizione di un sistema di procedure, regole e strategie per il miglior governo del sistema e per la gestione delle criticità, sia quelle ineliminabili proprie del sistema sia quelle relative sempre alle condizioni di lavoro e alle condizioni al contorno.

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Per le scale portatili una marcatura ad hoc

Dispositivi non coperti da una direttiva specifica e non garantiti dal Ce

La recente norma Uni En 131-3: 2018 fornisce consigli sull’utilizzo in sicurezza di questo tipo di attrezzature contemplate nello scopo e nel campo di applicazione della Uni En 131-1 e conformi ai requisiti della Uni En 131-1 e della Uni En 131-2. Obiettivo: informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoli potenziali e descrivere le precauzioni di sicurezza o le azioni richieste a fini prevenzionistici

 

Le scale portatili devono riportare la marcatura Uni En 131 e/o il riferimento alla conformità al D.Lgs. n. 81/2008, se sono impiegate in un così chiamato “non luogo di lavoro” (Uni En 131) o in un “luogo di lavoro” (Uni En 131/D.Lgs. n. 81/2008). La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura costituisce una sorta di carta di indentità del dispositivo atta a informare il lavoratore in relazione a uno o più pericoll potenziali e a descrivere le precauzioni di sicurezza e/o le azioni richieste o per evitare questo tipo di pericolo (Iso 17724:2003, definizione 3.58 modificata).
Il fabbricante deve immettere sul mercato prodotti intrinsecamente sicuri che vanno utilizzati correttamente dal lavoratore facendo riferimento ai pittogrammi apposti su di essi, eventualmente corredati da istruzioni scritte.
La norma Uni En 131-3: 2018 – che rispetto a quella precedente appare più snella, schematica e di facile lettura – ha introdotto novità che permettono una marcatura più agevole. La norma infatti prevede tra l’altro la distinzione tra le disposizioni relative alla marcatura di sicurezza, che devono essere riportate sulla scala, le istruzioni per l’utilizzatore presenti nell’apposito libretto e la descrizione dettagliata dei segnali fondamentali di sicurezza in conformità alla Iso 3864-2 e dei simboli delle informazioni di sicurezza supplementari.

Riduzione del rischio

L’eliminazione e/o la riduzione dei rischi è uno dei cardini fondamentali del D.Lgs 81/2008 che nell’art. 15 individua le misure per «la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza» (comma a), «l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico» (comma c), «la riduzione dei rischi alla fonte» (comma e) e «la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso» (comma f).

La Uni En 131-3:2018 contiene un elenco, non esaustivo, dei pericoli e degli esempi delle relative cause che costituiscono ragioni frequenti per gli incidenti che si verificano durante l’uso delle scale e su cui si basano le informazioni contenute nella norma stessa. Le cause sono le seguenti:
• perdita di stabilità causata, fra l’altro, da posizione non corretta della scala (come angolazione non corretta di una scala di appoggio o apertura non completa di una scala doppia);
• condizione della scala (per esempio, piedini antiscivolamento mancanti per scale dí appoggio) e condizioni climatiche avverse (quali il vento);
• movimentazione (ad esempio, trasferimento della scala nella posizione di lavoro);
• scivolamento, inciampo e caduta dell’utilizzatore causati tra l’altro da azioní non sicure dell’utilizzatore (come salire la scala a due pioli per volta, scendere scivolando lungo i montanti);
• cedimento strutturale della scala dovuto, ad esempio, al sovraccarico della scala;
• pericoli di natura elettrica dovuti fra l’altro a operazionì inevitabili su parti sotto tensione (per esempio, ricerca guasti) o a collocazione delle scale troppo vicino ad apparecchiature elettriche sotto tensione (come linee elettriche aeree).

Contenuti
Secondo la Uni En 131-1: 2015 la scala è un dispositivo con gradini o pioli sulla quale una persona può salire o scendere. Una scala portatile è una scala che può essere trasportata e installata a mano.

Marcatura di base sulla scala
Le informazioní di base della marcatura possono essere fornite sotto forma di segnali di sicurezza o testo. La marcatura deve comprendere:
1. identità e indirizzo del produttore e/o del distributore, incluso l’indirizzo del sito web per le informazioni relative alla scala;
2. tipo di scala e modi possibili di utilizzo (descrizione del tipo, numero e lunghezza delle parti, lunghezza massima della scala in uso, altezza massima di appoggio misurata nella posizione di utilizzo secondo le raccomandazioni dei fabbricante);
3. classificazione di uso “professionale” o “non professionale” come specificato nella Uni En 131-2;
4. numero della norma generale Uni En 131 o, qualora esista una norma dedicata (per esempio una scala multiposizione con cerniere secondo la Uni En 131-4) il numero di tale norma (per esempio Uni En 131-4);
5. mese e anno di produzione e/o numero di serie (può essere anche stampigliato); peso della scala (in kg) e carico massimototale (in kg);
6. isolamento, se previsto.

Le informazioni di cui ai punti 1., 2., 3. e 5. devono comparire anche sull’imballaggio o devono essere altrimenti chiaramente visibili al consumatore prima dell’acquisto.

La marcatura di sicurezza di base deve essere fissata a tutte le scale e parti delle scale che possono essere utilizzate separatamente, sotto forma di simbolo chiaramente visibile. La marcatura che indichi il piolo/gradino più elevato che deve essere utilizzato per sostarvi deve essere posta sul montante della scala adiacente o sull’ultimo/consentito o sul primo/non consentito piolo/gradíno o sull’etichetta della marcatura dì sicurezza. I segnali di sicurezza si distinguono fra segnali di base e supplementari. I segnali di sicurezza di base hanno forma rotonda, triangolare o quadrata in conformità alla Iso 3864-1, Iso 3864-3 e si deve basare sul modello per i segnali di sicurezza della Uni En Iso 7010 con una dimensione minima d e h di 15 mm. I segnali di sicurezza supplementari hanno forma quadrata e istruiscono l’utilizzatore di una scala su ciò che è necessario e ciò che non è ammesso per un uso sicuro, al fine di evitare incidenti, per esemplo la caduta dalla scala. “Richiesto” è indicato da un segno di spunta verde e “Non ammesso” da una X rossa.
Rispetto ai segnali di sicurezza di base i simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza possono includere numeri, lettere e simboli più dettagliati (più precisi). L’altezza minima h dei simboli delle informazioni aggiuntive di sicurezza è di 15 mm.
La norma Uni En 131-3 al prospetto 1 illustra i requisiti minimi per la marcatura di sicurezza, le istruzioni per l’utilizzatore e
i simboli obbligatori per tutte le tipologie di scale portatili. A tal fine, il fabbricante deve fornire nelle istruzioni tutte le informazioni riportate nella tabella 1 che costituisce un estratto del citato prospetto 1.
La scala movibile con piattaforma è quella prevista nella Uni En 131-7:2013.

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