La commissione Interpelli risponde a un quesito della Regione Friuli Venezia Giulia.
Previste deroghe alla disciplina vigente. Prima fra tutte l’eventualità in cui il bene venga ceduto con la clausola provata che il compratore s’impegni a modificarlo secondo quanto previsto dalla legislazione oppure a demolirlo. La circolazione a queste condizioni è possibile anche per i dpi e per gli impianti.
Il tema della vendita di attrezzature di lavoro non conformi alle norme di sicurezza è tornato di nuovo alla ribalta; la Regione Friuli Venezia Giulia, infatti, ha presentato istanza d’interpello ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008, alla commissione Interpelli presso il ministero del Lavoro per chiedere chiarimenti in merito all’ambito applicativo dell’art. 23 del citato decreto.
L’articolo, com’è noto, stabilisce il principio del divieto di vendita, noleggio e concessione in uso di attrezzature di lavoro non rispondenti alle disposizioni normative. L’articolato quesito presentato dalla Regione trae spunto, in effetti, dall’orientamento assunto dalla Cassazione penale, sez. III, 1° ottobre 2013, n. 40590 che, come vedremo, ha individuato alcuni temperamenti a questo principio che, per altro, si applica anche agli impianti e ai dispositivi di protezione individuali (dpi); proprio alla luce di questa sentenza, quindi, l’istante ha chiesto di sapere in primo luogo se possa ritenersi legittima la vendita, il noleggio o la concessione in uso nel caso in cui nel contratto sia prevista, da parte dell’acquirente, la messa a norma delle stesse prima del loro utilizzo.
La Regione, inoltre, ha chiesto anche di sapere «se l’esposizione ai fini della vendita, noleggio o concessione in uso delle attrezzature, dei dispositivi e degli impianti di cui sopra, in spazi commerciali, compresi spazi all’aperto e fiere, nel caso gli stessi (attrezzature/ dispositivi/impianti) non siano rispondenti alle disposizioni normative sulla sicurezza sul lavoro, costituisca violazione al succitato articolo, indipendentemente dal perfezionamento dell’atto di trasferimento, sotto tutte le forme indicate, anche temporanee, del bene, salvo restando la possibilità di esporre limitate parti degli stessi, non potenzialmente funzionanti se non completate dalle parti indispensabili a soddisfare la normativa vigente sulla sicurezza sul lavoro».
Il regime di tutela dell’art. 23
La commissione, con l’interpello 13 dicembre 2017, n. 1, nel rispondere al quesito sottoposto, ha fornito alcune interessanti indicazioni che, occorre ricordare, hanno un’elevata valenza poiché, secondo quanto stabilisce l’art. 12, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2008, costituiscono «…criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza»; la commissione ha, quindi, compiuto un ragionamento che può essere così riassunto nei suoi passaggi più significativi che parte dall’individuazione della ratio del citato art. 23 (vedere tabella 1).
Questa norma stabilisce, infatti, che: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione».
Come osserva giustamente la commissione, questa disposizione deve essere necessariamente letta in combinato disposto con l’art. 72 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui
all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V».
La ratio di questa disciplina, quindi, è quella di evitare la circolazione di attrezzature di lavoro, impianti e dpi non rispondenti alla normativa tecnica al fine di «…anticipare la tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, garantendo l’utilizzo unicamente di quei beni conformi ab origine ovvero di quelli preventivamente adeguati alla normativa»; si osservi che questo
divieto opera, quindi, non solo con riferimento al contratto di compravendita (art. 1470 del codice civile), ma anche a quello di noleggio (art. 1571 del codice civile) e alle altre tipologie contrattuali che, comunque, prevedono una concessione in uso (comodato, leasing).
Il divieto contenuto nell’art. 23 è stato posto in chiave strettamente prevenzionale, con il chiaro intento di reprimere soprattutto lo sviluppo di un mercato dell’usato non sicuro che, bisogna ricordare, specie nella seconda metà degli anni Novanta rischiava di affermarsi pericolosamente dopo l’introduzione del D.P.R. n. 459/1996, con il quale, com’è noto, il legislatore italiano ha dato attuazione alle direttive 89/392/Cee, 91/368/Cee, 93/44/Cee e 93/68/Cee (la cosiddetta “direttiva macchine”). Questo decreto, ora sostituito dal D.Lgs. n. 17/2010, fece emergere un vasto fenomeno di macchine usate – e non solo – immesse in commercio anche molto pericolose, per altro in tanti casi non conformi nemmeno alla previgente disciplina del D.P.R. n. 547/1955.
Gli orientamenti della Cassazione penale
Alla luce di questo principio, la Cassazione penale nella citata sentenza n. 40590/2013, richiamata in alcuni sui passaggi fondamentali dalla commissione ministeriale, ha però meglio chiarito la portata dell’art. 23 del D.Lgs. n.81/2008. Bisogna precisare che la vicenda processuale riguardava un caso di vendita nel luglio del 2009 di una macchina fresatrice per la quale il Gup del tribunale di Verbania dichiarava “A. G.”, nella sua qualità di rappresentante legale della parte venditrice “T sas”, colpevole della violazione di questa norma e l’ha condannato, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di mille euro di ammenda. L’imputato aveva impugnato la decisione proponendo ricorso per Cassazione, lamentando in particolare che il macchinario ceduto era, in realtà, destinato ad altra società (“S. srl” con la specifica – e unica – finalità di essere assoggetto a riparazione da parte della “S. srl” stessa onde, poi, essere messo in commercio in condizioni di sicurezza). Gli Ermellini hanno dato pienamente ragione alla tesi difensiva del ricorrente evidenziando, da un lato, che l’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2008, in effetti non è una norma nuova in quanto già contenuta nella previgente disciplina – art. 7, comma 1, D.P.R. 547/1955; art. 6 D.Lgs. n. 626/19947 – e, dall’altro, che il concetto di vendita come esplicitato nell’art. 23 non può interpretarsi in modo assoluto. Secondo la suprema Corte, infatti, questo divieto trova un temperamento in chiave derogatoria laddove la vendita venga effettuata per un esclusivo fine riparatorio della macchina in vista di una futura utilizzazione, una volta ripristinata e messa a norma; a tal fine, secondo i giudici di legittimità, occorre accertare in concreto quali siano le condizioni di vendita, i soggetti parte dell’atto e gli obblighi gravanti sia sul venditore che sul diretto destinatario, nonché il ruolo da questi esercitato se, cioè, autorizzato a mettere a sua volta in circolazione il macchinario una volta riparato, ovvero a riconsegnarlo al venditore che potrà poi venderlo a terzi per un utilizzo sul mercato. Di conseguenza, fermo restando che è vietato l’impiego di macchinari non a norma con la conseguenza che una vendita di prodotti di tal fatta è, di regola, vietata stante la conseguenzialità e normalità dell’impiego della macchina nel ciclo produttivo, nell’ottica del passaggio del prodotto industriale alla fase economica successiva (l’utilizzo), secondo la suprema Corte laddove si accerti che «…..quest’ultimo passaggio non vi sia (come nel caso dello stazionamento del macchinario presso una ditta specializzata esclusivamente nella riparazione per la messa a norma con compiti ben specificati che inibiscono una utilizzazione successiva mediata tramite il venditore all’origine), non può ritenersi vietata la vendita dì un macchinario in quanto avente uno scopo ben circoscritto, senza alcuna previsione di utilizzazione».
Le deroghe al divieto di circolazione di attrezzature e dpi non a norma
Alla luce, quindi, anche dei richiamati orientamenti giurisprudenziali la commissione ministeriale si è allineata con indirizzo espresso dalla Cassazione, ribadendo che la circolazione di attrezzature di lavoro, di dpi ovvero di impianti non conformi, senza alcuna previsione di utilizzazione, ma con esclusivo e documentato fine demolitorio ovvero riparatorio per la messa a norma non ricadono nell’ambito di applicazione delle citate disposizioni normative, in considerazione della relativa ratio legis.
Di conseguenza, è ritenuto lecito il contratto avente a oggetto la vendita di un’attrezzatura non a norma, a condizione che non sia previsto l’utilizzo come bene strumentale da parte dell’acquirente, ma solo la sua riparazione per l’adeguamento. Sulla base di questa linee interpretativa, la commissione ha inoltre precisato che anche la mera esposizione al pubblico non ricade nel divieto dell’art. 23; di conseguenza è consentita l’esposizione in occasione di fiere, mostre ecc. di attrezzature non conformi alla vigente normativa.
Le responsabilità
Le indicazioni della commissione appaiono alquanto chiare, ma meritano un’ultima riflessione per avere un quadro sufficientemente completo; la violazione del divieto sancito nell’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2008 ha, come si è visto, notevoli riflessi sul piano della responsabilità penale in quanto i fabbricanti e i venditori sono puniti con l’arresto da tre a sei mesi o ammenda da 10.960,00 a 43.840,00 euro (art. 57, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008), per altro potrebbe fungere da circostanza aggravante per il datore di lavoro acquirente in caso d’infortunio l’aver stipulato un contratto di acquisto di un’attrezzatura di cui era consapevole della sua non conformità alla normativa tecnica (artt. 589, 590 del codice civile).
Anche sul piano della responsabilità civile i riflessi sono significativi; bisogna tener presente, infatti, che in questi casi il contratto è nullo per l’illiceità dell’oggetto, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 del codice civile, con l’obbligo per la parte venditrice di rimborsare ogni somma versata dall’acquirente (ad esempio a titolo di acconto) e fatto salvo il diritto di quest’ultimo di agire per il risarcimento dei danni 1-2. Qualora, poi, siano state indicate clausole contrattuali del tipo «accettata nello stato in cui si trova» o «idonea all’uso in cui si trova» le stesse non possono che far riferimento alle condizioni di funzionalità dell’apparecchio e non a quelle di sicurezza in quanto le stesse hanno carattere d’inderogabilità anche verso il costruttore o il venditore anch’essi come si è visto debitori di sicurezza.