Nel mondo imprenditoriale spesso accade, soprattutto in tempi critici per l’economia, di dover cedere impianti e macchine usate. Questo può avvenire nell’ambito di contesti più ampi, quali la cessione di un ramo di azienda o la dismissione di uno stabilimento industriale, oppure nell’ambito di operazioni più contenute, quali, per esempio, la dismissione di una linea produttiva ovvero la vendita di una singola macchina o anche solo di singoli componenti di una macchina.
In queste situazioni le aziende si pongono il problema di assicurare il massimo livello possibile di sicurezza, limitando i rischi di contestazioni. La materia è regolata, in primo luogo, dall’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale «Sono vietati la fabbricazione, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro».
La violazione di questa disposizione è sanzionata in via contravvenzionale ed è soggetta, quindi, al pari di tutte le contravvenzioni in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro punite con pena alternativa, al meccanismo di estinzione in via amministrativa ai sensi del D.Lgs. n. 758/1994 (prescrizione e notizia di reato; regolarizzazione; ammissione al pagamento nella misura del quarto del massimo della pena pecuniaria; pagamento; estinzione del reato). Il problema è dato, però, dal rischio infortunio che, nel caso in cui fosse ravvisato il nesso causale tra l’evento e la violazione della norma, comporterebbe la responsabilità concorsuale del datore di lavoro utilizzatore e del soggetto che ha ceduto la macchina non a norma. Si tenga presente che i reati di lesioni e di omicidio colposo si considerano consumati il giorno in cui si verifica la lesione o la morte. Ne deriva che colui che cede una macchina può essere chiamato a rispondere anche diversi anni dopo perché non rileva la data di cessione ma la data dell’evento (anche se, indubbiamente,più tempo passa dalla vendita e più diventa complessa la dimostrazione che la macchina fosse già irregolare all’epoca della cessione). Sebbene la norma consideri vendita, noleggio e concessione in uso, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che rilevi la cessione anche a titolo gratuito e che non rileva che il cedente lo faccia a titolo professionale, potendo integrare il reato anche solo un atto di vendita (Cass. pen., sez. III, 28 giugno 2000, n. 10342).
Il tema è quanto mai delicato per gli operatori economici perché le cessioni di macchine o impianti usati può rappresentare uno strumento importante di realizzo ma, nel contempo, diventa motivo di preoccupazione (doverosa) nel momento in cui l’attrezzatura da lavoro, nelle condizioni in cui si trova, non garantisca l’utilizzo in condizioni di completa sicurezza e, quindi, occorre valutare quali soluzioni percorrere per assicurare il rispetto della norma di prevenzione senza far scemare del tutto il valore economico dell’operazione. Le strade percorribili sono diverse e alcune di queste hanno trovato ampia applicazione nella prassi, sebbene le indicazioni giurisprudenziali siano ancora troppo poche e non particolarmente significative. Saranno analizzate queste possibili opzioni, evidenziandone aspetti positivi e rischi.
La conformità europea
Occorre preliminarmente esaminare una questione di grande rilievo e che è spesso discussa nei procedimenti per infortunio sul lavoro (indipendentemente dal tema della cessione di macchine usate), ossia il “valore” della marcatura Ce rispetto alla normativa di prevenzione. La materia oggi è regolamentata dal D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 17, recante attuazione della direttiva 2006/42/CE relativa alle macchine[1]. Il D.Lgs. n. 17/2010 non è la prima normativa nazionale in materia di sicurezza delle macchine. La materia è stata introdotta nell’ordinamento italiano con il D.P.R. n. 459/1996, attuativo della precedente direttiva comunitaria, che già aveva previsto l’obbligo di marcatura Ce. Non è rilevante approfondire le differenze tra le due normative. È opportuno evidenziare che, invece, tutte le macchine progettate, fabbricate o importate dal 1996 in avanti dovevano (e, quindi, dovrebbero) essere dotate del marchio Ce. Occorre domandarsi se la presenza della marcatura Ce rappresenti una “patente di sicurezza” ai sensi della vigente normativa di sicurezza[2], in primo luogo il D.Lgs. n. 81/2008 e le norme di attuazione e, quindi, se il marchio comunitario costituisca una condizione di asseverazione dell’adempimento del debito di sicurezza in capo al datore di lavoro. Il quesito, posto sul piano generale, assume rilievo con riferimento al problema della vendita di macchine usate perché il tema, evidentemente, si ripropone, anche con maggiori difficoltà, allorché si tratti di cedere una attrezzatura di lavoro provvista, appunto, del marchio Ce. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affrontato il tema in più occasioni, esprimendo un orientamento che può essere considerato consolidato: «Il datore di lavoro è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde dell’infortunio occorso a un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità CE o l’affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano a esonerarlo dalla sua responsabilità, e ciò a prescindere dall’eventuale configurabilità di autonome concorrenti responsabilità del costruttore.
Il datore di lavoro, infatti, è il principale destinatario delle norme antinfortunistiche previste a tutela della sicurezza dei lavoratori ed ha l’obbligo di conoscerle e di osservarle indipendentemente da carenze od omissioni altrui e da certificazioni pur provenienti da autorità di vigilanza. Tale posizione di garanzia concorre con quella del costruttore, ma non è ad essa subordinata, in quanto la prossimità dell’imprenditore-datore alla fonte dei rischi, alle concrete modalità di lavoro e di eventuale elusione dei sistemi di sicurezza, gli consente immediatamente di percepire l’esposizione al pericolo dei lavoratori impiegati nell’utilizzo dei macchinari» (Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2011, n. 33285; in senso conforme Cass. pen., sez. IV, 22 maggio 2009, n. 36889, che ha posto l’accento anche sul profilo dell’utilizzo conforme della macchina; vedere anche Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 35909). Significativa anche la sentenza, meno recente, ma più diffusamente motivata sul punto specifico, secondo la quale «Altrettanto infondate sono le censure proposte in relazione al marchio CE apposto sulla macchina, atteso che esso, come giustamente si è sostenuto nella sentenza impugnata, certamente – anche in considerazione della sua natura autocertificatoria – non esonera da responsabilità chi produce o mette in vendita macchinari realizzati senza il rispetto delle norme antinfortunistiche. (…) Il vizio rilevato era chiaramente e facilmente percepibile dall’imputato; donde l’affermazione di responsabilità per avere lo stesso introdotto nella sua azienda e messo a disposizione dei suoi dipendenti una macchina realizzata senza il rispetto delle norme antinfortunistiche. Norme del cui assoluto ed integrale rispetto egli, quale datore di lavoro della vittima, e responsabile della sicurezza dell’ambiente di lavoro, avrebbe dovuto accertarsi, nulla rilevando la marchiatura CE che come già osservato, non esonera da responsabilità, in ragione dell’accertata non conformità della macchina ai previsti requisiti di sicurezza» (Cass. pen., sez. IV, 12 giugno 2008, n. 37060). Quindi, il quadro giurisprudenziale è sufficientemente chiaro nell’individuare un onere del produttore della macchina e del datore di lavoro che la utilizza di verificare la sussistenza dei requisiti di sicurezza di cui al D.Lgs. n. 81/2008 pur in presenza di marcatura Ce.
Le sentenze pongono l’accento sul datore di lavoro in relazione al fatto che l’esposizione al pericolo del lavoratore deriva direttamente dalla sua attività e, poi, perché, nel passaggio tra il produttore e l’utilizzatore, si verifica indubbiamente un incremento di problematiche di sicurezza correlate alla mediazione comportamentale dell’uso della macchina. Le sentenze esaminate non si diffondono nella ricerca di fondamenta normative all’interpretazione proposta, liquidando il tema attraverso un richiamo alla preminenza del bene tutelato. In proposito, occorre rilevare che il D.Lgs. n. 17/2010 ha un allegato tecnico di contenuto approfondito e molto ampio per quanto concerne i criteri di sicurezza delle macchine (allegato I, «Requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute relativi alla progettazione e alla costruzione delle macchine»). Tuttavia, è la stessa normativa macchine a suggerire che la marcatura Ce non esaurisce il debito di sicurezza posto a carico del costruttore, del venditore e, in ogni caso, del fruitore. L’articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 17/2010, prevede, infatti, che «possono essere immesse sul mercato ovvero messe in servizio unicamente le macchine che soddisfano le pertinenti disposizioni del presente decreto legislativo e non pregiudicano la sicurezza e la salute delle persone».
Il successivo articolo 6, relativo alla sorveglianza sul mercato, prevede, al comma 4, che «qualora sia constatato che una macchina provvista della marcatura ‘CE’, accompagnata dalla dichiarazione CE di conformità e utilizzata conformemente alla sua destinazione o in condizioni ragionevolmente prevedibili rischia di compromettere la salute e la sicurezza delle persone e, all’occorrenza, degli animali domestici o dei beni, il Ministero dello sviluppo economico, con provvedimento motivato e notificato all’interessato, previa verifica dell’esistenza dei rischi segnalati, ordina il ritiro della macchina dal mercato,ne vieta l’immissione sul mercato ovvero la messa in servizio o ne limita la libera circolazione, indicando i mezzi di impugnativa avverso il provvedimento stesso ed il termine entro cui è possibile ricorrere; gli oneri relativi al ritiro dal mercato delle macchine o ad altra limitazione alla loro circolazione sono a carico del fabbricante o del suo mandatario».
Occorre ancora citare il disposto di cui all’articolo 4, comma 1, D.Lgs. n. 17/2010, secondo il quale «le macchine provviste della marcatura ‘CE’ e accompagnate dalla dichiarazione CE di conformità, i cui elementi sono previsti dall’allegato II, parte 1 sezione A, sono ritenute rispondenti alle disposizioni del presente decreto legislativo». Insomma, nel momento in cui si ammette che una macchina provvista del marchio Ce e conformemente utilizzata possa «rischiare di compromettere la salute dei lavoratori», ecco che diventa abbastanza intuibile la ragione che giustifica il motivo di rimprovero colposo. Infatti, sarà sempre possibile trovare negli allegati tecnici al D.Lgs. n. 81/2008, attraverso gli articoli 70 e 71 (requisiti di sicurezza delle attrezzature da lavoro)e le norme tecniche contenute nell’allegato V, una regola tecnica di sicurezza che non sia stata rispettata. In ogni caso, il ricorso all’art. 2087, codice civile, consente di coprire anche le zone di tutela non espressamente considerate da una specifica disposizione. La prassi giudiziaria, al di là delle sentenze della Corte di Cassazione commentate (che sono poche perché pochi sono i processi in materia giunti fino alla Corte di legittimità), evidenzia una sostanziale tendenza a contestare un profilo di colpa allorquando la marcatura Ce manchi nei casi in cui è dovuta e a ritenere sostanzialmente irrilevante la presenza del marchio Ce a fronte di condizioni di pericolosità della macchina che hanno determinato un infortunio sul lavoro. È appena il caso di evidenziare che, nel momento in cui si imbocca la strada di ritenere che la marcatura Ce non assolva al debito di sicurezza, è gioco forza ritenere che anche l’assenza del marchio, laddove prescritto, non possa essere ritenuto quale autonomo profilo di colpa rilevante in ordine al determinismo di un evento di danno, in ragione del fatto che anche una macchina sprovvista di conformità Ce può essere non di meno sicura[3]. In questi casi, potranno essere applicate, ricorrendone i presupposti, le sanzioni specifiche previste dal D.Lgs. n. 17/2010, ma non potrà essere ravvisata la responsabilità per l’eventuale evento di danno per carenza del nesso causale.
Possibili soluzioni
Una volta chiarito che la presenza della marcatura Ce non fa venir meno il dovere di verifica, tanto a carico del produttore quanto a carico del datore di lavoro e così pure a carico del cedente, della conformità alla normativa di prevenzione, è appena il caso di precisare che la marcatura Ce rappresenta comunque un primo passo importante nella valutazione di conformità di una macchina, in ragione del fatto che l’allegato I al D.Lgs. n. 17/2010 prevede i «requisiti essenziali di sicurezza», che poi tanto essenziali non sono, solo considerando gli aspetti contemplati e laddove lo si confronti con l’allegato V al D.Lgs. n. 81/2008[4]. Inoltre, occorre precisare che la cessione, in quanto tale, non comporta l’obbligo di marcatura Ce e, quindi, il venditore non dovrà provvedere alla marcatura di macchine che aveva acquistato prima dell’entrata in vigore di questo obbligo (D.P.R. n. 459/1996).
Detto questo, è possibile soffermarsi sugli adempimenti/cautele da considerare per vendere macchine o impianti usati senza creare un rischio per la salute dei lavoratori, senza violare l’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008 (o meglio, riducendo per quanto possibile il rischio di incriminazione sotto questo profilo e per eventi dannosi che dovessero accadere nell’ambito dell’attività del datore di lavoro acquirente), prendendo in esame, in modo necessariamente sintetico, le ipotesi di maggior interesse nella prassi. In termini generali, è possibile affermare che ogni cessione deve essere accompagnata dalla consegna del libretto d’uso e manutenzione[6]. Questo è un aspetto che può diventare problematico rispetto a macchine molto datate, ma che può essere risolto attraverso la ricerca presso la casa produttrice (laddove esista ancora), ovvero tramite la rete, anche utilizzando documentazione tecnica riguardante macchine simili, ovvero ancora mediante l’ausilio di un tecnico che sia in grado di redigere un libretto che affronti, quantomeno, le più significative problematiche di sicurezza correlate all’uso, alla manutenzione, al montaggio e allo smontaggio della macchina. In questo ambito, inoltre, deve essere considerata la disposizione di cui all’art. 72, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, per la quale «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisisti di sicurezza di cui all’allegato V».
Questa norma riguarda le macchine per le quali non sono previste «specifiche disposizioni legislative e regolamentai di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto» (articolo 70, comma 1); di qui la ragione per la quale ha ricevuto un’attenzione e un’applicazione assai scarse. La violazione di questa norma è sanzionata soltanto in via amministrativa (articolo 87, ultimo comma, D.Lgs. n. 81/2008), ma ben può costituire fondamento di rimprovero colposo per eventi di danno che dovessero essere causalmente riconducibili alla sua inosservanza.
La certificazione di sicurezza
Quella di far “certificare” la macchina a un esperto di sicurezza è senza dubbio la strada più sicura, se percorribile[7]. Si tratta di una sorta di perizia tecnica con la quale un esperto del settore attesta di avere visionato e provato la macchina e di averne riscontrato, alla data dell’esame, la conformità ai requisiti di sicurezza. Questa impostazione, indubbiamente seria e cautelativa, ha dei limiti che non hanno bisogno di essere evidenziati, soprattutto allorquando si tratti di macchine molto vecchie e, quindi, non più in linea con le tecniche costruttive attuali. L’ausilio di un tecnico ha anche un vantaggio in termini di ricostruzione e/o implementazione della documentazione tecnica di cui deve essere corredata ogni attrezzatura da lavoro.
Il “divieto di utilizzo”
La soluzione più praticata è senz’altro quella di cedere la macchina specificando che la stessa, nello stato in cui si trova, non può essere utilizzata perché insicura. Sono ipotizzabili alcune opzioni. Quella certamente meno rischiosa è la cessione ai fini di lavorazione. La macchina è ceduta a un soggetto che dovrebbe curarne la messa a norma:
- per poi metterla in uso;
- per poi rivenderla.
Questa opzione ha trovato riconoscimento in una significativa sentenza della Corte di Cassazione: «Il divieto di vendita di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia di salute e sicurezza sul lavoro non opera ove detta vendita sia effettuata per un esclusivo fine riparatorio in vista di una successiva utilizzazione degli stessi» (Cass. pen., sez. III, 3 maggio 2013, n. 40590). Dalla motivazione di questa sentenza si evince in modo chiaro come sia necessario andare a verificare le condizioni di vendita. Questo significa che, per poter praticare questa opzione, occorre prestare molta attenzione all’aspetto contrattuale. Inoltre, è importante che l’acquirente abbia le capacità tecniche per poter valutare ed effettuare le operazioni di messa a norma. Questo non significa che debba essere necessariamente un’azienda che produce il tipo di macchina in questione, o addirittura la stessa impresa produttrice della macchina di cui si tratta, ma occorre quantomeno che l’acquirente possegga strumenti e competenze tecniche sufficienti in relazione all’attivitàda compiere. L’azienda che effettua le modifiche potrà poi restituire la macchina al mittente, ovvero venderla a terzi, ovvero trattenerla, modificando, quindi, il titolo da contratto d’opera a vendita per il futuro utilizzo.
Il semplice «divieto di utilizzo», nel caso di cessione ad aziende che non effettuano attività di messa a norma, rappresenta la strada più semplice e meno onerosa, ma anche quella che presta il fianco alle maggiori obiezioni. Prima fra tutte, una di rilievo formale, in ragione del fatto che l’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008, pone un divieto di cessione di macchine non a norma che, per come è posto e per quelle che sono le sue finalità, non pare poter soffrire eccezioni di questo tipo. In secondo luogo, l’imposizione di un «divieto di utilizzo fino a messa a norma» lascia il tempo che trova in ragione del fatto che il venditore non ha possibilità alcuna di verificare che questo divieto sia effettivamente rispettato dall’acquirente, né è ragionevole che lo faccia. Si tratta, insomma, di una soluzione che rischia di essere considerata non rispettosa del divieto di cui all’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008. Senz’altro preferibile è la scelta di effettuare una sorta di vendita di cosa futura.
Cioè, nel contratto è precisato che la vendita diventerà operativa soltanto allorquando sarà data conferma dell’avvenuta messa a norma. La macchina è trasferita, quindi, ma al solo fine della sua messa a norma (da parte del futuro compratore o di altra azienda), stabilendo un termine entro il quale la vendita debba essere perfezionata. Attenzione, però, che se si procede in questo senso, bisogna poi ottenere la prova dell’avvenuta messa a norma e questo potrebbe rivelarsi un aspetto problematico.
Questa ipotesi, evidentemente, è praticabile soltanto rispetto a contraenti di provata affidabilità. La soluzione meno impegnativa, di più facile realizzazione ma che non elimina però totalmente il rischio, è quella di prevedere nel contratto che la macchina, nello stato in cui si trova, non può essere utilizzata, che sono necessarie tutta una serie di modifiche e che il compratore si impegna a non metterla in uso fino a quando non saranno ripristinate le condizioni di sicurezza. Questa ipotesi è cautelativa solo in parte, per le stesse ragioni esaminate con riferimento all’ipotesi del mero divieto di utilizzo.
La cessione…
…come rottame
Questa è una soluzione che non presenta difficoltà, anche laddove sia stabilito che la rottamazione debba essere fatta a cura dell’acquirente. L’unico problema è che, in questo caso, la cessione deve avere un prezzo giustificabile rispetto a un rottame, o qualche cosa di più, ma mai avvicinarsi a un prezzo che potrebbe far pensare che la macchina è ceduta come tale, ancorché usata[9]. In questi casi è necessario che il cedente acquisisca un documento dal quale sia possibile dedurre l’avvenuta rottamazione della macchina.
…di un impianto complesso
In questo contesto la soluzione più lineare è quella di stabilire che lo smontaggio, il trasporto e il successivo montaggio sia rimesso a totale cura dell’acquirente. In questa ipotesi, anche i profili di sicurezza riguardanti il futuro utilizzo di macchine e di attrezzature di lavoro sarebbero inevitabilmente mediati dall’attività del montatore e/o assemblatore, riducendo ulteriormente il rischio che possa derivarne una contestazione a carico del venditore.
I profili da considerare sono due:
- la gestione della sicurezza e della tutela ambientale nella fase di smontaggio;
- la gestione della sicurezza per il futuro utilizzatore.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ipotesi più cautelativa risulta essere quella di approntare un contratto di comodato gratuito del sito, almeno nella parte strettamente necessaria alle operazioni di smontaggio, con esplicita previsione riguardante i temi ambientali. In questo caso, anche rispetto a lavori che dovessero rientrare nel Titolo V, D.Lgs. n. 81/2008 (cantieri), l’acquirente assumerebbe la qualità di “committente” a tutti gli effetti. Anche gli adempimenti ambientali (gestioni rifiuti demolizione; eventuale cessione rifiuti soggetti a recupero (per esempio, ferro) possono essere riferiti, sempre attraverso una chiara previsione contrattuale, all’acquirente. Per quanto riguarda il secondo aspetto, sono percorribili le strade indicate ai precedenti punti, fermo restando che la sicurezza di un impianto dipende anche, in maniera significativa, dalle modalità con cui è rimontato, dalla eventualità che siano aggiunte e/o sostituite parti dello stesso, dal contesto produttivo in cui è inserito. Questi aspetti possono comportare elementi di complicazione, ma rappresentano, per il venditore, condizioni che possono anche portare all’esenzione di responsabilità, nella misura in cui la situazione di insicurezza derivi, non da caratteristica intrinseca dell’impianto o di una parte degli elementi che lo compongono, ma da fattori correlati al montaggio, all’assemblaggio e, comunque, all’utilizzo nel processo produttivo del cessionario.
…di un componente
È difficile dare una indicazione univoca, per il semplice fatto che occorrerebbe verificare, nel caso specifico, l’oggetto della cessione: infatti, sono identificabili alcune componenti che, in quanto tali, non hanno nessun rilievo diretto sulla sicurezza. Ve ne sono altre che, invece, devono avere delle caratteristiche intrinseche di sicurezza, pur a prescindere della macchina in cui andranno a essere montate.
…di un ramo d’azienda
Le regole esaminate non dovrebbero variare allorquando la cessione di macchine o impianti usati avvenga nell’ambito di un più ampio contratto di vendita o affitto di ramo d’azienda. Peraltro, è opportuno segnalare che la Corte di Cassazione, in una sentenza isolata ma abbastanza recente, ha espresso diverso avviso (Cass. pen., sez. III 22 maggio 2012, n. 19416).
…in sede di liquidazione o nell’ambito concorsuale
Stante le finalità delle norme, non sembra vi siano ragioni per escluderne l’applicazione, ovvero per prospettare margini di applicazione differenziata, nei casi in cui la vendita sia effettuata nell’ambito di procedure a evidenza pubblica, quali le procedure concorsuali o alcune forme di liquidazioni. L’articolo 23 ammette, al comma 2, solo la deroga relativa alle società di leasing, alle quali è richiesto unicamente di accertare che i beni siano corredati della documentazione prescritta dalla normativa.