È esperienza comune, tanto dei datori di lavoro e dei lavoratori, quanto degli operatori del diritto che si occupano della materia, che buona parte degli infortuni sul lavoro è originata da comportamenti abnormi o comunque inappropriati dei lavoratori.

In questo tipo di situazioni, che si verificano per le più svariate ragioni (eccessiva confidenza con l’attività, convinzione di poter svolgere meglio un determinato compito in modo diverso da quello appreso, reale o ritenuta necessità di svolgere la propria mansione in tempi più rapidi), per il datore di lavoro è sempre estremamente difficile portare una convincente difesa avanti al giudice penale e che gli consenta, quindi, di venire assolto. La ragione di questa difficoltà si rinviene, tra l’altro, nel rigore interpretativo – sia pur con temporanee oscillazioni garantiste che paiono tuttavia più rare[1] – che la suprema Corte ha da sempre offerto del concetto di condotta “abnorme”.

La condotta “abnorme”, infatti, intesa come quella condotta del lavoratore completamente avulsa dal contesto lavorativo e, come tale, capace di interrompere il nesso causale tra la colpa del datore di lavoro e l’infortunio proprio in ragione della sua straordinarietà rispetto alle mansioni svolte, ha trovato riconoscimento sporadico nelle pronunce, tanto di merito che di legittimità Ne consegue che, anche al cospetto di una realtà aziendale ben organizzata e, quindi, anche in presenza di chiare indicazioni circa le condotte da non tenere durante le attività lavorative, al verificarsi di infortuni e in presenza di una violazione (o asserita violazione) di una qualsiasi norma cautelare (generica o specifica) contestata al datore di lavoro, quest’ultimo vedeva – e vede – ampiamente ridotte le proprie chances di difesa.

Questo perché, in termini più semplici, difficilmente la giurisprudenza riconosce come abnormi comportamenti del lavoratore che, seppur espressamente vietati, trovano la propria occasione nell’ambito dell’attività lavorativa e magari originano proprio dalle specifiche mansioni (cfr. Cass. IV., 28.4.11, Millo e altri, Rv 250710; sez. IV, 10.10.2013, Rovaldi, Rv 259313; 5.3.2015, Guida, Rv 263386). In questi casi, dunque, la difesa che si fondava sulla prova, comunque non sempre facile da fornire in termini compiuti, dello svolgimento di una adeguata e specifica formazione dei lavoratori in merito alle condotte vietate, rischiava di essere sterile e “superata” dall’assunto secondo cui il datore di lavoro deve comunque e sempre prevedere ed evitare anche i comportamenti sbagliati.

Questo scenario particolarmente rigoroso e severo non era e non è mutato neppure a seguito della specificazione degli obblighi dei lavoratori contenuti nel D. Lgs. 81/2008. L’attuale impianto normativo, infatti, non considera più i lavoratori quali meri “soggetti passivi” della sicurezza, ma attribuisce loro un ruolo attivo, così come risulta dai doveri imposti dall’art. 20 comma 2 del decreto che, ad esempio, alla lettera c), stabilisce che devono utilizzare in modo corretto gli strumenti di lavoro.

Doveri, oltretutto, sanzionati penalmente dalla fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 59, D.Lgs. 81/2008, tenuto – altresì – conto che il comportamento improprio di un lavoratore può mettere in pericolo anche la salute degli altri lavoratori. Tuttavia – come si è detto – l’approccio maggioritario dell’interpretazione tende ad attribuire al datore di lavoro la responsabilità penale per l’infortunio causato dal comportamento erroneo e vietato del lavoratore.

Con la sentenza numero 174/2017 depositata il 5 aprile 2017 la quarta sezione della Cassazione, confermando una decisione della corte d’Appello di Milano, pur ribadendo i principi relativi alla definizione di condotta abnorme del lavoratore, ha riconosciuto la possibilità di tenere conto del comportamento colposo del dipendente quale elemento idoneo a fondare il giudizio di riconoscimento di particolare tenuità del fatto: «D’altro canto ai fini del riconoscimento della tenuità dell’offesa non si può non tenere in considerazione, nel diverso ambito prospettico di cui all’art. 131 bis del codice penale, il non trascurabile concorso di colpa ascrivibile alla persona offesa, che da un lato vale a ridurre il grado di antidoverosità della condotta del datore di lavoro, dall’altra concorre a mitigare i profili di offensività attribuibili alla di lui condotta omissiva».

Dalla disamina del corpo motivazionale della sentenza, si comprende che di certo non basta il comportamento colposo del lavoratore per invocare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 131 bis del codice penale, dovendo, di contro, ricorrere tutti gli altri elementi richiesti dalla norma, tuttavia il principio affermato dalla Cassazione appare di particolare importanza perché ha valorizzato l’agire colposo del dipendente ai fini del riconoscimento della tenuità del fatto. Inoltre, la suprema Corte ha anche affermato che non è ostativa al riconoscimento della speciale tenuità del fatto la qualificazione giuridica di “lesioni gravi” contenuta nel capo di imputazione, quale evento dell’infortunio.

Lo si ripete: vi devono essere “altri indici di tenuità” offerti, ad esempio, dalla prova dell’avvenuta formazione dei lavoratori, dell’inesistenza di gravi carenze nella sicurezza aziendale, nella volontà di apportare miglioramenti successivamente al fatto reato, ma la colpa del lavoratore torna ad assumere un ruolo importante da documentare e provare al giudice. Ne consegue che diventa fondamentale, per l’azienda e per il datore di lavoro, documentare in qualsiasi momento e con precisione:
• l’avvenuta realizzazione di corsi di formazione;
• il corretto addestramento degli operatori;
• l’avvenuto richiamo e le irrogazione di sanzioni disciplinari a fronte della messa in atto di comportamenti vietati e pericolosi.

Nel quadro delineato dalla Cassazione – ma ciò valeva anche prima – è fondamentale dimostrare di non aver mai tollerato comportamenti vietati o prassi illegittime, fra fonti principali degli infortuni. Oltre alla funzione preventiva – obiettivo prioritario per le aziende – oggi la Cassazione offre una ragione in più per sottolineare e stigmatizzare i comportamenti vietati, così da potersi giovare, in sede dibattimentale, della “colpa” del lavoratore.