Recipienti in pressione: la sicurezza prima di tutto

Il decreto legislativo 19 maggio 2016, n. 82, ha modificato il decreto legislativo 27 settembre 1991, n. 311, in attuazione della direttiva 2014/29/Ue ed è vigente dal 26 maggio 2016. La nuova direttiva europea 2014/29/Ue[1], regola la sicurezza legata alla progettazione, alla realizzazione e all’immissione sul mercato dei recipienti semplici in pressione (simple pressure vessels – spv). Quest’ultima norma introduce alcune novità rispetto alla precedente direttiva 2009/105/Ce[2] che ha subito sostanziali modifiche e di cui ne rappresenta, quindi, una refusione.

La direttiva 2014/29/Ue a partire del 20 aprile 2016 ha abrogato la direttiva 2009/105/Ce che, a sua volta, aveva in precedenza abrogato la direttiva 87/404/ Cee, che era stata la prima direttiva europea a occuparsi dei recipienti semplici in pressione, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 311/1991.

Occorre puntualizzare che questi recipienti semplici in pressione, spv, spesso si trovano installati a supporto di diverse attrezzature che utilizzano aria compressa o azoto per il loro funzionamento. Pertanto, se i recipienti svp, provvisti dei relativi accessori di sicurezza e controllo, non sono progettati, fabbricati e installati secondo le normative di sicurezza possono introdurre rischi non trascurabili negli ambienti di vita e di lavoro.

Questi, infatti, possono essere trovarti installati:

  • a valle di compressori d’aria come serbatoi di stoccaggio di aria compressa;
  • a valle di impianti di produzione di aria medicale a servizio degli ospedali, dopo i serbatoi criogenici (azoto e/o ossigeno) e dell’apposito miscelatore. Sono fornite le indicazioni essenziali ai fabbricanti di recipienti semplici in pressione, nel processo di certificazione che porta alla marcatura Ce dei spv prima della immissione sul mercato, oppure ai datori di lavoro/utilizzatori ai fini dell’utilizzo in sicurezza dei svp, nel rispetto del D.M. n. 329/2004, del D.Lgs. n. 81/2008 e del D.M. 11 aprile 2011.

Caratteristiche tecniche e dimensionali

Bisogna evidenziare fin da subito che il D.Lgs. n. 82/2016 regola la progettazione, realizzazione e immissione sul mercato dei spv, fabbricati in serie che presentano le seguenti caratteristiche:

– recipienti saldati;
– pressione interna relativa superiore a 0,5 bar;
– recipienti contenenti aria o azoto, non destinati a essere esposti alla fiamma;
– le parti e i componenti che contribuiscono alla resistenza del recipiente alla pressione sono fabbricati in acciaio di qualità non legato, in alluminio non legato oppure in lega di alluminio ricotto;
– pressione massima di esercizio “ps” inferiore o pari a 30 bar, e prodotto di questa pressione per la capacità Del recipiente (ps x v) inferiore o pari a 10.000 bar x litro;
– temperatura minima di esercizio non inferiore a °C -50;
– temperatura massima di esercizio non superiore a °C 300 per l’acciaio e °C 100 per i recipienti di alluminio o lega di alluminio;
– recipiente costituito dei seguenti elementi:

  1. parte cilindrica a sezione retta circolare chiusa da due fondi;
  2. fondi a chiusura della parte cilindrica prima descritta possono essere bombati con la concavità rivolta all’esterno e/o da fondi piani;

– l’asse di rivoluzione di questi fondi è la stessa della parte cilindrica.

Per quanto riguarda il campo di applicazione, occorre puntualizzare che i limiti della ps 30 bar e del prodotto ps in bar per volume in litri (ps x v) pari a 10.000, sono dei limiti superiori. Superati questi limiti la normativa di riferimento diventa la direttiva 2014/68/Ue (nuova ped). Quindi, per i recipienti di grosse dimensioni saranno seguite le procedure di certificazione previste dalla direttiva ped. Il decreto legislativo 19 maggio 2016, n. 82, non si applica:

  • ai recipienti appositamente previsti per usi nucleari e che, se difettosi, possono causare un’emissione di radioattività;
  • ai recipienti appositamente previsti per l’installazione su o per la propulsione di navi o aeromobili;
  • agli estintori.

Gli obblighi dei produttori…

In conformità all’art. 10, D.Lgs. n. 82/2016, all’atto dell’immissione sul mercato dei recipienti il cui prodotto ps x v è : superiore a 50 bar x l, i fabbricanti garantiscono che siano stati progettati e fabbricati conformemente ai requisiti essenziali di sicurezza di cui all’allegato I al D.Lgs. n. 81/2016; mentre se è inferiore o pari a 50 bar x l, i fabbricanti devono garantire che siano stati progettati e fabbricati conformemente alla corretta prassi costruttiva in uno degli stati membri.

Per i recipienti il cui prodotto ps x v è superiore a 50 bar x l, i fabbricanti sono tenuti a preparare la documentazione tecnica di cui all’allegato II ed eseguire o far eseguire la pertinente procedura di valutazione della conformità di cui all’articolo 8, D.Lgs. n. 82/2016.

Per un recipiente il cui prodotto ps x v è superiore a 50 bar x l, qualora la conformità sia stata dimostrata mediante questa procedura, i fabbricanti devono redigere una dichiarazione di conformità Ue e appongono la marcatura Ce e le iscrizioni di cui all’allegato III, punto I, D.Lgs. n. 82/2016.

I fabbricanti devono conservare la documentazione tecnica e la dichiarazione di conformità Ue per un periodo di dieci anni dalla data in cui il recipiente è stato immesso sul mercato e devono garantire la predisposizione delle procedure necessarie affinché la produzione in serie continui a essere conforme al D.Lgs. n. 82/2016. A tal fine, sono obbligati e tenere in debito conto le modifiche della progettazione o delle caratteristiche del prodotto, nonché le modifiche delle norme

armonizzate o delle altre specifiche tecniche con riferimento alle quali è dichiarata la conformità di un recipiente. Qualora necessario, in considerazione dei rischi presentati da un recipiente, i fabbricanti devono eseguire, per proteggere la sicurezza dei consumatori finali, una prova a campione sui recipienti messi a disposizione sul mercato, esaminano i reclami, i recipienti non conformi e i richiami dei recipienti, mantengono, se del caso, un registro degli stessi e informano i distributori di questo monitoraggio.

I fabbricanti, inoltre, devono assicurare che sui recipienti che hanno immesso sul mercato sia apposto un numero di tipo, di serie o di lotto che ne consenta l’identificazione, e indicare sul recipiente il loro nome, la loro denominazione commerciale registrata o il loro marchio registrato e l’indirizzo postale al quale possono essere contattati (l’indirizzo deve indicare un unico punto in cui il fabbricante può essere contattato e le informazioni relative al contatto vanno redatte anche in lingua italiana). Devono poi garantire che il recipiente sia accompagnato dalle istruzioni e dalle informazioni sulla sicurezza di cui all’allegato III, punto 2, in lingua italiana. Queste istruzioni e informazioni sulla sicurezza, al pari di qualunque etichettatura, devono essere chiare, comprensibili e intelligibili.

I fabbricanti che ritengono o hanno motivo di ritenere che un recipiente da essi immesso sul mercato non sia conforme al D.Lgs. n. 82/2016, devono prendere immediatamente le misure correttive necessarie per rendere conforme lo stesso recipiente, per ritirarlo o richiamarlo, a seconda dei casi. Inoltre, qualora il recipiente presenti un rischio, i fabbricanti sono tenuti a informare immediatamente le autorità nazionali competenti degli Stati membri in cui hanno messo a disposizione sul mercato il recipiente, indicando in particolare i dettagli concernenti la non conformità e qualsiasi misura correttiva adottata. A seguito di una richiesta motivata di un’autorità nazionale competente, i fabbricanti sono tenuti a fornire a quest’ultima tutte le informazioni e la documentazione, in formato cartaceo o elettronico, necessarie per dimostrare la conformità del recipiente alla norma, in una lingua che possa essere facilmente compresa dall’autorità stessa; per i recipienti immessi sul mercato in Italia, in lingua italiana (cooperando l’autorità, su sua richiesta, su qualsiasi azione intrapresa per eliminare i rischi presentati dai recipienti immessi sul mercato).

…e degli importatori e distributori

Gli importatori devono immettere sul mercato solo recipienti conformi. Prima di immettere sul mercato recipienti il cui prodotto ps x v è superiore a 50 bar x l, gli importatori devono assicurarsi che il fabbricante abbia eseguito l’appropriata procedura di valutazione della conformità di cui all’articolo 8, D.Lgs. n. 82/2016. Gli stessi importatori devono assicurarsi che il fabbricante abbia preparato la documentazione tecnica, che il recipiente rechi la marcatura Ce e le iscrizioni di cui all’allegato III, punto 1, sia accompagnato dai documenti prescritti e che il fabbricante abbia rispettato le prescrizioni di cui all’articolo 10, commi 5 e 6, D.L 82/2016. Gli importatori sono tenuti a indicare sul recipiente il loro nome, la loro denominazione commerciale registrata o il loro marchio registrato e l’indirizzo postale al quale possono essere contattati oppure, qualora questo non sia possibile, in un documento di accompagnamento del recipiente. Le informazioni relative al contatto devono essere in lingua italiana.

Gli importatori devono garantire che il recipiente sia accompagnato dalle istruzioni e dalle informazioni sulla sicurezza di cui all’allegato III, punto 2, in lingua italiana. Gli importatori che ritengono o hanno motivo di ritenere che un recipiente immesso sul mercato non sia conforme al D.Lgs. n. 82/2016 devono prendere immediatamente le misure correttive necessarie per rendere conforme questo recipiente, per ritirarlo o richiamarlo, a seconda dei casi. Inoltre, qualora il recipiente presenti un rischio, gli importatori sono tenuti a informare immediatamentele autorità nazionali competenti degli Stati membri in cui hanno messo a disposizione sul mercato il recipiente, indicando, in particolare, i dettagli relativi alla non conformità e qualsiasi misura correttiva presa. Un importatore o distributore è ritenuto un fabbricante ai fini del D.Lgs. n. 82/2016 ed è soggetto agli obblighi del fabbricante, di cui all’articolo 10, quando immette sul mercato un recipiente con il proprio nome o marchio commerciale o modifica un recipiente già immesso sul mercato in modo tale da poterne condizionare la conformità al D.Lgs. n. 82/2016.

Procedura e dichiarazione di conformità Ue

In merito alla procedure di valutazione della conformità, ai sensi dell’articolo 12, D.Lgs. n. 82/2016, occorre evidenziare quanto segue.

Prima della fabbricazione, i recipienti il cui prodotto ps x v è superiore a 50 bar x l devono essere sottoposti all’esame Ue, secondo determinate modalità:

  • per i «recipienti fabbricati conformemente alle norme armonizzate di cui all’articolo 12», occorre procedere, a scelta del fabbricante, in uno dei due seguenti modi:

– accertamento dell’adeguatezza del progetto tecnico del recipiente, effettuato esaminando la documentazione tecnica e gli elementi di prova, senza esame di un prototipo di recipiente

(modulo B – tipo di progetto);

– accertamento dell’adeguatezza del progetto tecnico del recipiente, effettuato esaminando la documentazione tecnica e gli elementi di prova, unito a un esame di un prototipo, rappresentativo della produzione prevista, del recipiente finito (modulo B – tipo di produzione).

  • per i «recipienti fabbricati non rispettando o rispettando soltanto parzialmente le norme armonizzate di cui all’articolo 12», il fabbricante deve sottoporre a esame un prototipo rappresentativo della produzione prevista del recipiente finito e la documentazione tecnica e gli elementi di prova per l’esame e la valutazione dell’adeguatezza del progetto tecnico del recipiente (modulo B – tipo di produzione).

Prima dell’immissione sul mercato, i recipienti devono essere sottoposti alle seguenti procedure. Se il prodotto ps x v . superiore a 3000 bar x l: conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione unito a prove sul recipiente sotto controllo ufficiale (modulo C1)

II, punto 2. Se il prodotto ps x v . inferiore o pari a 3000 bar Å x l e superiore a 200 bar Å x l, a scelta del fabbricante, a uno dei seguenti moduli:

  • conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione unito a prove sul recipiente sotto controllo ufficiale (modulo C1) ;
  • conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione, unito a controlli sul recipiente effettuati sotto controllo ufficiale a intervalli casuali (modulo C2). Se il prodotto ps x v . inferiore o pari a 200 bar x l e superiore a 50 bar Å x l, a scelta del fabbricante, a uno dei seguenti moduli:

– conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione unito a prove sul recipiente sotto controllo ufficiale (modulo C1);

– conformità al tipo basata sul controllo interno della produzione (modulo C).

I fascicoli e la corrispondenza relativi alle procedure di valutazione della conformità evidenziati devono essere redatti in una delle lingue ufficiali dello Stato membro in cui . stabilito l’organismo notificato o in una lingua da quest’ultimo accettata.

L’articolo 12, D.Lgs. n. 82/2016, evidenzia che:

  • la dichiarazione di conformità Ue deve attestare il rispetto dei requisiti essenziali di sicurezza;
  • la dichiarazione di conformità Ue deve avere la struttura tipo di cui all’allegato IV, contenere gli elementi specificati ed essere continuamente aggiornata; va tradotta nella lingua o nelle lingue richieste dallo Stato membro nel quale il recipiente . immesso o messo a disposizione sul mercato;
  • con la dichiarazione di conformità Ue il fabbricante si assume la responsabilità della conformità.

Vigilanza

Ai recipienti che rientrano nell’ambito dell’articolo 1, D.Lgs. n. 82/2016, si applicano gli articoli 15, paragrafo 3, e da 16 a 29, regolamento (Ce) n. 765/2008. Le funzioni di autorità di vigilanza del mercato sono svolte dal ministero dello Sviluppo economico, attraverso l’Inail, l’Enea altri organismi tecnici dello Stato.

Corrosione

Prima di entrare nel merito dell’utilizzo in sicurezza dei recipienti semplici in pressione, occorre che l’utilizzatore evidenzi se il particolare recipiente installato sia soggetto a corrosione oppure no (analisi che compete allo stesso). In base a questo giudizio cambiano in modo sostanziale gli obblighi conseguenti così come evidenziato nella tabella 2.

Nelle prescrizioni dell’allegato I al D.Lgs. n. 82/2016 si evidenzia che i recipienti, tenuto conto dell’impiego prescritto, devono essere adeguatamente protetti contro la corrosione. Nelle «Istruzioni per l’uso e informazioni sulla sicurezza» previste dall’allegato III al D.Lgs. n. 82/2016, devono figurare le seguenti indicazioni:

  • informazioni:

– pressione massima di esercizio (ps in Bar);

– temperatura massima di esercizio (T max in °C);

– temperatura minima di esercizio (T min in °C);

– capacità del recipiente (v in l);

– nome, denominazione commerciale o marchio registrato e indirizzo del fabbricante;

  • l’utilizzazione prevista del recipiente;
  • le condizioni di manutenzione e di installazione necessarie per garantire la sicurezza dei recipienti.

Quindi, nella realtà i vari fabbricanti, oltre a produrre generalmente apparecchi verniciati solo esternamente e lasciati allo stato grezzo internamente, possono fornire gli stessi recipienti, a richiesta dell’utilizzatore, con protezioni particolari quali la zincatura a bagno caldo o altri idonei rivestimenti interni.

In ultima analisi, è possibile affermare (tranne nei casi di protezione interna adeguata dei recipienti, che deve essere evidenziata nelle informazioni fornite dal fabbricante e consegnate all’utilizzatore), ci si trova nella situazione di non escludere nel tempo la presenza di corrosione.

In conclusione, se si è nell’incertezza, conviene seguire una impostazione più cautelativa nei confronti della sicurezza, prevedendo la presenza di corrosione nel tempo e, quindi, seguire gli adempimenti più restrittivi in termini di riqualificazioni periodiche (D.M. n. 329/2004) o di verifiche periodiche previste dal D.M. 11 aprile 2011.

Impiego in sicurezza

In merito all’esercizio, occorre evidenziare che la normativa vigente da seguire, da parte del datore di lavoro/utilizzatore, risulta essere:

  • il D.M. 1° dicembre 2004, n. 329;
  • il D.M. 11 aprile 2011.

È opportuno evidenziare che il D.M. 11 aprile 2011, all’allegato II, punto 4.1.1, esplicita che, nell’applicazione dell’allegato VII al D.Lgs. n. 81/2008, con le nuove disposizioni relative alle verifiche periodiche, «restano ferme le esclusioni e le esenzioni delle verifiche periodiche per le attrezzature di cui agli art. 2 e 11 del DM 329/04».

A oggi questa normativa è applicata a tutti i recipienti semplici in pressione a prescindere dalle direttive comunitarie (riportate nel paragrafo iniziale) con le quali sono stati costruiti in Bar);

– temperatura massima di esercizio (T max in °C);

– temperatura minima di esercizio (T min in °C);

– capacità del recipiente (v in l);

– nome, denominazione commerciale o marchio registrato e indirizzo del fabbricante;

  • l’utilizzazione prevista del recipiente;
  • le condizioni di manutenzione e di installazione necessarie per garantire la sicurezza dei recipienti.

Quindi, nella realtà i vari fabbricanti, oltre a produrre generalmente apparecchi verniciati solo esternamente e lasciati allo stato grezzo internamente, possono fornire gli stessi recipienti, a richiesta dell’utilizzatore, con protezioni particolari quali la zincatura a bagno caldo o altri idonei rivestimenti interni.

In ultima analisi, è possibile affermare (tranne nei casi di protezione interna adeguata dei recipienti, che deve essere evidenziata nelle informazioni fornite dal fabbricante e consegnate all’utilizzatore), ci si trova nella situazione di non escludere nel tempo la presenza di corrosione.

In conclusione, se si è nell’incertezza, conviene seguire una impostazione più cautelativa nei confronti della sicurezza, prevedendo la presenza di corrosione nel tempo e, quindi, seguire gli adempimenti più restrittivi in termini di riqualificazioni periodiche (D.M. n. 329/2004) o di verifiche periodiche previste dal D.M. 11 aprile 2011.

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I quaderni dell’Inail: soluzioni per il cantiere

Attrezzature utili per raggiungere posti di lavoro in quota, possono essere impiegate in appoggio e non in appoggio. Sono ritenute conformi alla legislazione, se il fabbricante le dichiara in linea con le indicazioni fornite dal D.Lgs. n. 81/2008 e se esistono norme tecniche europee di prodotto cui riferirsi.

Le scale portatili sono attrezzature di lavoro dotate di pioli o gradini sui quali una persona può salire, scendere e sostare per brevi periodi. Permettono di superare dislivelli e raggiungere posti di lavoro in quota; possono essere trasportate e installate a mano senza l’ausilio di mezzi meccanici. Le scale portatili possono essere divise in due famiglie in base al loro posizionamento in uso: in appoggio e non in appoggio. Fra le scale in appoggio possono essere considerate, per esempio, le seguenti tipologie: scala in appoggio semplice ad un solo tronco, scala in appoggio innestabile a più tronchio all’italiana, scala in appoggio a sfilo a due o tre tronchi sviluppata a mano o con un meccanismo a fune. Fra le scale non in appoggio possono essere elencate tipologie quali: scala doppia a due tronchi autostabile che permette la salita da un lato o dai due lati, scala movibile con piattaforma, sgabello. Esistono poi le scale trasformabili che permettono la combinazione delle precedenti due famiglie, ovvero assumono configurazioni tali da permettere l’utilizzo sia in appoggio che in posizione doppia. Una scala portatile può essere ritenuta conforme alla legislazione nazionale vigente in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro quando il fabbricante la dichiara conforme al D.Lgs. n. 81/2008. Esistono normative tecniche europee di prodotto di riferimento, per esempio, come la serie En 131. Il fabbricante può provare la conformità della scala portatile al D.Lgs. n. 81/2008 dimostrando con calcoli e/o prove, mediante l’applicazione di una specifica di prodotto da lui ritenuta la più opportuna, di aver soddisfatto i requisiti di cui all’art. 113, oppure dichiarando la conformità al D.Lgs. n. 81/2008, mediante l’applicazione dell’Allegato XX. Quest’ultimo prevede che sia riconosciuta la conformità delle scale portatili al D.Lgs. n. 81/2008 se:

  • sono costruite conformemente alla norma tecnica Uni En 131 – 1 e 2;
  • il fabbricante fornisce le certificazioni previste dalla norma tecnica Uni En 131 – 1 e 2 emesse da un laboratorio ufficiale;
  • sono accompagnate da un foglio o da un libretto recante una serie di informazioni sul tipo di prodotto, sul corretto impiego dello stesso, sulla manutenzione e conservazione. Sul libretto dovranno anche essere riportati gli estremi del laboratorio che ha effettuato le prove previste dalla norma tecnica Uni En 131 – 1 e 2, i numeri di identificazione dei certificati e la data del loro rilascio. Infine, dovrà essere riportata una dichiarazione del fabbricante di conformità alla norma tecnica Uni En

131 – 1 e 2. La circostanza che il D.Lgs. n. 81/2008 utilizzi la norma Uni En 131 ai fi ni della conformità al decreto stesso, non significa che una scala conforme al D.Lgs. n. 81/2008 senza l’intervento dell’Allegato XX e, quindi, della Uni En 131, non sia ritenuta sicura. La finalità è solo quella di fornire uno strumento normativo condiviso per verificare i disposti di resistenza e stabilità richiesti dalla stessa norma. Il D.Lgs. n. 206/2005, riguardante il codice del consumo, con particolare riferimento alla sicurezza generale dei prodotti, si applica laddove non siano presenti nella normativa vigente disposizioni specifiche sul prodotto; inoltre, fornisce delle indicazioni sulle priorità nella scelta delle disposizioni legislative e delle norme applicabili al prodotto, per cui, in mancanza di disposti europei e nazionali sulle scale domestiche, utilizzando la norma Uni En 131 si dovrebbe avere la presunzione di conformità sulla sicurezza delle scale portatili in questo ambito.

Il fabbricante è libero di seguire o meno, comunque, la Uni En 131, l’importante è che garantisca che il prodotto sia sicuro applicando la norma o altra specifica di pari o superiore efficacia, a seguito di opportuna valutazione dei rischi sull’utilizzo della scala. Per quanto concerne la scelta delle attrezzature più idonee ai fini della sicurezza, l’articolo 111, D.Lgs. n. 81/2008, al comma 2 riporta che «Il datore di lavoro dispone affinché sia utilizzata una scala a pioli quale posto di lavoro in quota solo nei casi in cui l’uso di altre attrezzature di lavoro considerate più sicure non è giustificato a causa del limitato livello di rischio e della breve durata di impiego oppure delle caratteristiche esistenti dei siti che non può modificare». Fra i rischi da eliminare/ridurre, riguardanti l’utilizzo della scala portatile, occorre ricordare, in particolare, lo scivolamento alla base e lo sbandamento. Il D.Lgs. n. 81/2008, per quanto riguarda la stabilità delle scale portatili, dispone che «le scale portatili devono essere provviste di: a) dispositivi antisdrucciolevoli alle estremità inferiori dei due montanti; b) ganci di trattenuta o appoggi antisdrucciolevoli alle estremità superiori, quando sia necessario per assicurare la stabilità della scala». Inoltre, «quando l’uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti pericolo di sbandamento, esse devono essere adeguatamente assicurate o trattenute al piede da altra persona».

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Amianto: procedure e adempimenti per andare a colpo sicuro

Gestire il rischio amianto significa affrontare varie fasi di un processo quali: accertarne la presenza in qualsiasi contesto (residenziale, industriale, artigianale, commerciale, pubblico), valutare il rischio correlato a questa presenza, effettuare una corretta manutenzione dei manufatti nei quali è stata ne è accertata presenza, progettare interventi di bonifica nel rispetto di specifiche procedure, effettuare appropriate operazioni di bonifica ed eseguire un corretto smaltimento finale. Considerato il grado di rischio per la salute e per l’ambiente, connesso a ciascuna di queste fasi, queste ultime devono essere necessariamente gestite da professionisti e imprese, qualificati e abilitati. Proprio per questo motivo la normativa italiana vigente prevede la predisposizione di specifici corsi di formazione professionale, con rilascio di titoli di abilitazione mentre le imprese che intendono svolgere le attività di bonifica da amianto sono obbligate a iscriversi all’Albo nazionale gestori ambientali, nella categoria 10 “Bonifica dei beni contenenti amianto”. Questa deve essere la principale consapevolezza del committente, pubblico o privato, che deve commissionare le attività di cui sopra, le quali devono essere attuate tenendo conto di una serie di elementi come il quadro legislativo in materia, i compiti e gli obblighi dei soggetti coinvolti, le specifiche procedure gestionali inerenti a ciascuna di esse e così via.

L’accertamento

Accertare la presenza di amianto in un edificio, sia esso privato o pubblico, è il primo obbligo per il proprietario e/o il gestore delle attività perché solo così si può essere certi di privilegiare la protezione delle persone e dell’ambiente, senza incorrere in esposizioni inconsapevoli al rischio. Sono tanti, in particolare gli enti pubblici, titolari di patrimoni edilizi, che non hanno ancora provveduto a questo tipo di accertamento.

Il legislatore non precisa chi debba effettuare l’attività iniziale di individuazione delle strutture sospettate di contenere amianto e del successivo eventuale prelievo di campioni di massa e di aria, da sottoporre a laboratori qualificati, per cui chiunque sarebbe autorizzato a eseguirla esponendo così a rischi rilevanti persone e ambienti. Inoltre, ai sensi dell’articolo 248 del cosiddetto testo unico sicurezza (D.Lgs. n. 81/2008) i datori di lavoro, prima di intraprendere lavori di demolizione o di manutenzione, hanno l’obbligo di adottare qualsiasi misura necessaria per l’individuazione della presenza di materiali a potenziale contenuto di amianto, eventualmente chiedendo informazioni ai proprietari dei locali. In caso di minimo dubbio sulla presenza di amianto in un materiale o in una costruzione, è necessario applicare le disposizioni previste dalla normativa vigente per i manufatti contenenti amianto. A questo proposito si ritiene semplicistico e banale, “chiedere” informazioni a chi semplicemente ha la titolarità giuridica dei locali, come prevede il legislatore. Solo in ambito lavorativo e limitatamente ai campioni di aria, il legislatore, all’articolo 253 del testo unico sicurezza riguardante il “Controllo dell’esposizione” in ambiente di lavoro, al comma 2, precisa che il prelievo dei campioni di aria “deve essere effettuato da personale in possesso di idonee qualifiche nell’ambito del servizio all’articolo 31”, vale a dire del servizio di prevenzione e protezione aziendale. Assoamianto ribadisce da anni che la ricerca corretta ed esaustiva della presenza di amianto dovrebbe essere affidata a chi ha le competenze per farlo come ad esempio a un coordinatore amianto, abilitato ex art. 10, legge n. 257/1997 e art. 10, D.P.R. 8 agosto 1994, a seguito della frequenza e superamento di un corso abilitante di 50 ore con verifica finale, perché questo soggetto potrà effettuare una ricerca mirata essendo in possesso di adeguate conoscenze sia circa gli ambiti ove è presente il rischio amianto sia relativamente alle tipologie di manufatti sospettati di contenere amianto, individuando, innanzitutto, le strutture sospette, predisponendo uno specifico protocollo procedurale inerente ai campionamenti dei materiali ed eventualmente ai monitoraggi ambientali. Solo in questo modo è possibile attuare criteri e procedure finalizzate a garantire una sufficiente rappresentatività dei campioni, evitando, oltre che l’esposizione dell’operatore ,la contaminazione dell’ambiente circostante mediante l’adozione di appropriate procedure operative. I campioni devono essere in seguito trasmessi a un laboratorio qualificato e autorizzato che procederà all’accertamento dell’eventuale presenza di amianto, della tipologia del medesimo, nonché eventualmente anche del dato quantitativo (percentuale in peso) sul contenuto. È necessario evidenziare come l’obbligo dell’accertamento della presenza di amianto vada nella stessa direzione del censimento dell’amianto, previsto dalla normativa italiana.

Il censimento

Riconosciuta la pericolosità dell’amianto, e in attuazione di specifiche direttive Ce, lo Stato italiano – con la legge n. 257 del 27 marzo 1992 – ha dettato norme per la cessazione dell’impiego e per il suo smaltimento controllato. Questa legge prevede, tra l’altro, all’articolo 10, il censimento degli edifici nei quali sono presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile, con priorità per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico o di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti. Anche il D.P.R. 8 agosto 1994, all’articolo 12, prevede il censimento degli edifici nei quali sono presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile, che ha carattere obbligatorio e vincolante per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico e di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti.

A questo fine occorre fornire almeno i seguenti elementi informativi: dati relativi al proprietario dell’edificio, dati relativi all’edificio, dati relativi ai materiali contenenti amianto. Solo poche Regioni hanno istituito l’obbligo della denuncia di tutti i manufatti, compatti e friabili contenenti amianto. Sarebbe opportuno invece che questo obbligo generalizzato venisse esteso all’intero territorio nazionale. Finora, infatti, sono non molti i Comuni, le Province e le Regioni che hanno eseguito o fatto eseguire un censimento diffuso dei manufatti contenenti amianto in edifici sia pubblici sia privati. Per quanto riguarda questi ultimi, il più delle volte gli enti che vi hanno provveduto hanno scelto la strada dell’autonotifica nel senso che hanno predisposto schede da far compilare ai cittadini e successivamente da restituire. Probabilmente questa non rappresenta la scelta più appropriata, in quanto indagare sulla presenza di amianto nell’ambito di un edificio, sia esso pubblico o privato, e accertarne l’effettiva presenza in materiali sia friabili sia compatti è compito che non può essere affidato semplicisticamente al proprietario o a chiunque non sia esperto della materia: per questa attività, infatti, sono strettamente necessarie conoscenze specifiche che può possedere soltanto chi ha seguito un corso di formazione ad hoc o almeno di informazione (la legge prevede specifici corsi di formazione per operatori e coordinatori amianto nonché per responsabili tecnici di imprese di bonifica da amianto). Pertanto, in questa ipotesi di autonotifica, innanzi tutto le schede dovrebbero essere uniformi sull’intero territorio nazionale e dovrebbero essere compilate e sottoscritte solo da chi ha specifiche competenze come ad esempio un coordinatore amianto, abilitato ex art. 10, legge n. 257/97, e art. 10, D.P.R. 8 agosto 1994.

La valutazione

Una volta accertata la presenza di amianto, è necessario eseguire la valutazione del relativo rischio, ai sensi del D.M. Sanità 6 settembre 1994. In particolare, occorre fornire indicazioni circa l’eventuale possibilità che l’amianto possa deteriorarsi o essere danneggiato nel corso delle normali attività. Il decreto ministeriale stabilisce che, per la valutazione della potenziale esposizione a fibre di amianto del personale presente nell’edificio, sono utilizzabili due tipi di criteri:

  • l’esame delle condizioni dell’installazione, al fine di stimare il pericolo di un rilascio di fibre dal materiale;
  • la misura della concentrazione delle fibre di amianto aerodisperse all’interno dell’edificio (monitoraggio ambientale).

Questo è quanto prescrive la normativa specifica. Invece, in Italia, per la valutazione del rischio amianto sono stati adottati algoritmi da vari organismi, utilizzabili e applicabili da chiunque, anche da chi non ha alcuna preparazione specifica e molto spesso questi algoritmi consentono una valutazione abbastanza approssimativa del delicato e importante rischio amianto.

Purtroppo, frequentemente nel nostro Paese questi algoritmi sono considerati in piena sostituzione della valutazione ex D.M. 6 settembre 1994. Questo approccio non è accettabile, non solo perché questi algoritmi non sono affatto previsti dalla legge vigente, ma principalmente perché presentano un alto grado di soggettività. Occorrerebbe limitarne l’uso e in ogni caso considerarli solo in aggiunta, ma non in sostituzione, della valutazione ex D.M. 6 agosto 1994.

Invece, anche la valutazione del rischio amianto, così importante per la sicurezza e la protezione delle persone e dell’ambiente dovrebbe essere unicamente affidata a personale tecnico esperto e adeguatamente formato, come ad esempio a un “coordinatore amianto”, come già ricordato, abilitato ex legge n. 257/1992 e D.P.R. 8 agosto 1994.

La figura

La figura responsabile del rischio amianto, introdotta dal D.M. 6 settembre 1994, che deve essere nominata dal proprietario e/o dal gestore delle attività, con compiti di controllo e coordinamento di tutte le attività manutentive che possono interessare i materiali di amianto, è certamente rilevante per la gestione del rischio amianto in qualsiasi contesto (residenziale, industriale, artigianale, commerciale, pubblico ecc.). Non è affatto accettabile che per essa il legislatore nazionale non abbia previsto alcuna formazione, visti gli importanti compiti cui questa figura è preposta, i quali presuppongono necessariamente competenze e conoscenze specifiche. Solo qualche Regione ha previsto, per questa figura, una formazione obbligatoria. Un obbligo di questo tipo andrebbe esteso all’intero territorio nazionale come da anni proposto da Assoamianto che in più occasioni ha ribadito la stretta necessità di istituzionalizzare la formazione specifica per questa figura. Il piano nazionale amianto, edizione marzo 2013, dal titolo “Linee di intervento per un’azione coordinata delle amministrazioni statali e territoriali”, approvato dal consiglio dei ministri il 21 marzo 2013, presentato al pubblico l’8 aprile 2013 e poi sottoposto al vaglio della conferenza Stato-Regioni, ha finalmente recepito questa proposta, prevedendo l’”istituzione di specifico patentino per la figura del responsabile amianto,” ma purtroppo il piano non è ancora operante.

Gli interventi

Secondo il D.M. Sanità 6 settembre 1994 “Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, la bonifica dall’amianto può eseguirsi con uno dei seguenti tre interventi.

  • Rimozione: elimina ogni potenziale fonte di esposizione e ogni necessità di attuare specifiche cautele per le attività che si svolgono nell’edificio. Comporta un rischio estremamente elevato per i lavoratori addetti e produce notevoli quantitativi di rifiuti pericolosi che devono essere correttamente smaltiti. In genere, richiede l’applicazione di un nuovo materiale, in sostituzione dell’amianto rimosso.
  • Incapsulamento: trattamento dell’amianto con prodotti penetranti o ricoprenti che (secondo il tipo di prodotto usato) tendono a inglobare le fibre di amianto, a ripristinare l’aderenza al supporto, a costituire una pellicola di protezione sulla superficie esposta. Non richiede la successiva applicazione di un prodotto sostitutivo e non produce rifiuti. Il rischio per i lavoratori addetti è generalmente minore rispetto alla rimozione. È il trattamento di elezione per i materiali poco friabili di tipo cementizio. Permanendo l’amianto nell’edificio, occorre mantenere un programma di controllo e manutenzione.
  • Confinamento: installazione di una barriera a tenuta che separi l’amianto dalle aree occupate dell’edificio. Se non viene associato a un trattamento incapsulante, il rilascio di fibre continua all’interno del confinamento. Rispetto all’incapsulamento, presenta il vantaggio di realizzare una barriera resistente agli urti. Occorre sempre un programma di controllo e manutenzione, in quanto l’amianto rimane nell’edificio; inoltre la barriera installata per il confinamento deve essere mantenuta in buone condizioni. Rispetto agli altri due interventi presenta un costo più contenuto.

Il decreto citato prevede altresì pochissimi esempi di manutenzione, bonifica e smaltimento di manufatti (amianto friabile, rimozione con la tecnica del glove bag, rimozione di copertura in cemento amianto), lasciando quindi senza alcuna indicazione sia l’organo di controllo e vigilanza sia l’impresa di bonifica relativamente agli interventi inerenti ad altri tipi di manufatti, frequentemente rinvenibili, ciascuno caratterizzato da propria specificità, come ad esempio canne fumarie in cemento amianto (in particolare murate), pavimenti vinilici contenenti amianto, terreni contaminati con amianto friabile o compatto e così via. Sarebbe pertanto auspicabile un ampliamento della casistica relativa a interventi di manutenzione, bonifica e smaltimento relativamente anche ad altri manufatti, presenti all’interno o all’esterno degli edifici o siti, oltre ai pochi previsti dal D.M. 6 settembre 1994. Con riferimento poi all’articolo 256 del testo unico sicurezza, comma 2, i lavori di demolizione o di rimozione dell’amianto possono essere effettuati solo da imprese rispondenti ai requisiti di cui all’articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, vale a dire iscritte all’albo gestori ambientali nella categoria 10 “Bonifica dei beni contenenti amianto”, dotate di personale gestionale e operativo (coordinatori operatori e amianto), abilitato ai sensi dell’articolo 10 della legge 27 marzo 1992 n. 257 e del D.P.R. 8 agosto 1994. Il medesimo articolo precisa altresì che, prima dell’inizio dei lavori di demolizione o di rimozione dell’amianto ovvero di materiali contenenti amianto da edifici, da strutture, da apparecchi e da impianti, nonché dai mezzi di trasporto, il datore di lavoro deve predisporre un piano di lavoro. Questo piano deve prevedere le misure necessarie per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro e la protezione dell’ambiente esterno. Copia del piano di lavoro deve essere inviata all’organo di vigilanza (asl competente per territorio) almeno trenta giorni prima dell’inizio dei lavori. Inoltre, se entro questo periodo di trenta giorni l’organo di vigilanza non formula motivata richiesta di integrazione o modifica del piano di lavoro e non rilascia prescrizione operativa, il datore di lavoro può eseguire i lavori. L’obbligo del preavviso di trenta giorni prima dell’inizio dei lavori non si applica nei casi di urgenza. In questa ultima ipotesi, oltre alla data di inizio, deve essere fornita dal datore di lavoro indicazione anche dell’orario di inizio delle attività. La trasmissione del piano di lavoro sostituisce gli adempimenti inerenti alla presentazione della notificaall’organo di vigilanza competente per territorio di cui all’articolo 250 del testovunico sicurezza. Inoltre, il datore di lavoro deve provvedere affinché i lavoratori o i loro rappresentanti abbiano accesso alla documentazione. Ciò premesso, si ritiene utile e opportuno prevedere la stesura e presentazione del piano di lavoro per qualsiasi intervento di bonifica (rimozione, incapsulamento e confinamento) e non solo per rimozione o demolizione come prevede l’articolo 212 oppure di incapsulamento previo trattamento preliminare, come previsto nell’Allegato 2 al D.M. 20 agosto 1999, non solo perché qualsiasi intervento di bonifica di manufatti contenenti amianto deve comunque essere eseguito da impresa qualificata, ma anche perché è possibile che in un intervento di semplice incapsulamento o confinamento possa rompersi, ad esempio, anche una sola lastra, per cui si ricadrebbe nell’obbligo di presentare un piano di lavoro per poter effettuare poi la sua rimozione. Pertanto, appare logico, opportuno e utile prevedere che per qualsiasi intervento di bonifica l’impresa di bonifica da amianto predisponga e presenti un piano di lavoro. Inoltre, sarebbe opportuno e utile che l’articolo 256, comma 5, del testo unico sicurezza prevedesse, all’occorrenza, il subentro di una nuova impresa (ad esempio, la seconda impresa potrebbe sottoscrivere il piano di lavoro della prima impresa e integrare la documentazione con i propri dati).

Un approccio innovativo

Ai sensi del D.M. Ambiente 27 settembre 2010, i rifiuti di amianto o contenenti amianto (rca) possono essere conferiti esclusivamente nelle seguenti tipologie di discarica:

  • discarica per rifiuti pericolosi, dedicata o dotata di cella dedicata;
  • discarica per rifiuti non pericolosi, dedicata o dotata di cella monodedicata, nella quale possono essere conferiti sia i rifiuti individuati dal codice cer 170605 (materiali da costruzione contenenti amianto) sia le altre tipologie di rifiuti contenenti amianto, purché sottoposti a processi di trattamento ai sensi di quanto previsto dal D.M. n. 248/2004 e con valori conformi indicati nel D.M. 3 agosto 2005, verificati con periodicità stabilita dall’autorità competente presso l’impianto di trattamento. Inoltre, il D.M del ministero dell’Ambiente, di concerto con i ministeri della Salute e delle Attività produttive, 29 luglio 2004, n. 248, in vigore dal 20 ottobre 2004, disciplina le modalità di trasporto e deposito dei rifiuti di amianto, nonché il trattamento, l’imballaggio e la ricopertura di questi rifiuti nelle discariche. In particolare, il provvedimento prende in considerazione anche i processi di trattamento finalizzati alla totale trasformazione cristallochimica dell’amianto, rendendo così possibile il suo riutilizzo prevedendo la possibilità dell’implementazione nel nostro Paese degli impianti di inertizzazione dell’amianto, che rappresentano lo smaltimento innovativo dell’amianto. La risoluzione del parlamento europeo 2012/2065(Ini) del 14 marzo 2013, reca “Minacce per la salute sul luogo di lavoro legate all’amianto e prospettive di eliminazione di tutto l’amianto esistente”, e asserisce in sostanza di non ritenere il conferimento dei rifiuti contenenti amianto (rca) in discarica un sistema sicuro, sostenendo che gli impianti di inertizzazione sono di gran lunga preferibili e, infine, invitando la commissione a promuovere nel territorio dell’Unione la realizzazione di centri di trattamento e inertizzazione dei rca, prevedendo la graduale cessazione di ogni conferimento in discarica di questi rifiuti. Importante incentivare questi impianti o almeno metterli in grado di essere operativi, con l’introduzione di norme, ancora mancanti, come codici procedurali attuativi relativi ad aspetti progettuali e gestionali.

Il coordinatore

La legge n. 257/92 e il D.P.R. 8 agosto 1994 prevedono la predisposizione di specifici corsi di formazione professionale con rilascio di titoli di abilitazione. I corsi di formazione vengono articolati in relazione al livello professionale del personale a cui sono diretti:

  • operativo, rivolto ai lavoratori addetti alle attività di rimozione, smaltimento e bonifica;
  • gestionale, rivolto a chi dirige sul posto le attività di rimozione, smaltimento e bonifica.

I corsi di livello operativo hanno una durata minima di trenta ore e sono mirati all’acquisizione della sensibilizzazione alla sicurezza e della consapevolezza del rischio, nonché all’uso corretto dei sistemi di protezione e al rispetto delle procedure operative. Il testo unico sicurezza specifica meglio e integra gli argomenti da trattare in questi corsi e chiarisce che il datore di lavoro deve assicurare che tutti i lavoratori esposti o potenzialmente esposti a polveri contenenti amianto devono ricevere una formazione sufficiente e adeguata, a intervalli regolari. I corsi di livello gestionale hanno una durata minima di cinquanta ore e sono differenziati per gli addetti alle attività di bonifica (rimozione o altre modalità) di edifici, impianti, strutture coibentati con amianto e per gli addetti alle attività di smaltimento dei rifiuti di amianto. Questi corsi comprendono anche le responsabilità e i compiti della direzione delle attività, i sistemi di controllo e di collaudo, i criteri di scelta dei sistemi di protezione. Il rilascio dei relativi titoli di abilitazione avviene da parte delle Regioni o Province autonome previa verifica finale dell’acquisizione degli elementi di base relativi alla sicurezza e alla prevenzione del rischio da amianto con riferimenti specifici all’attività cui saranno addetti i discenti. Il coordinatore amianto, in possesso del patentino abilitante regionale, rappresenta la figura con il grado più alto di preparazione in materia di gestione del rischio amianto. Questo soggetto può, pertanto, sovraintendere alle attività di bonifica e smaltimento dell’amianto, ma anche a quelle di accertamento e valutazione del rischio. Inoltre, qualora in possesso di diploma o laurea tecnica e relative abilitazioni professionali, nonché di abilitazione in qualità di coordinatore della sicurezza come previsto dal testo unico sicurezza, il coordinatore amianto potrebbe essere preposto, in modo competente e consapevole, non solo al coordinamento della sicurezza in cantieri di bonifica da amianto, ma anche alla progettazione degli interventidi bonifica, specialmente di quelli inerenti ai manufatti contenenti amianto in matrice friabile, che spesso, invece, anche in ambito pubblico, sono semplicemente affidati all’impresa di bonifica e sommariamente contemplati nel suddetto piano di lavoro senza però che venga predisposto un organico progetto di bonifica, corredato degli opportuni e necessari elaborati. Al contrario, un committente consapevole e attento potrebbe affidare questo tipo di progettazione – e relativa direzione lavori – a un coordinatore amianto, competente e neutrale, ovviamente, come detto, in possesso anche di altre specifiche abilitazioni di legge, il quale potrebbe contemperare adeguatamente: le esigenze di sicurezza e protezione dell’ambiente e delle persone, la scelta delle più opportune tecniche di bonifiche, l’utilizzo delle più appropriate tecnologie, le esigenze di economia, i corretti adempimenti, dialogando in modo competente con l’asl di riferimento, l’impresa incaricata della bonifica e il proprio committente. È possibile, pertanto, affermare che gli aspetti gestionali inerenti alla presenza di amianto sul territorio, così fortemente antropizzato, hanno tuttora un’importanza primaria, ma devono anche presupporre una fondata competenza del soggetto preposto e una profonda consapevolezza del problema e del relativo rischio da parte dei proprietari e dei responsabili della gestione dei patrimoni edilizi, pubblici e privati. A questo proposito, Assoamianto ha proposto più volte l’istituzione di albi regionali e/o nazionale dei coordinatori amianto abilitati ex art. 10, D.P.R. 8 agosto 1994 per consentire alla collettività di poter scegliere consulenti per censimenti e mappature, per valutazione rischio amianto, per gestione dei materiali contenenti amianto.

Le compravendite

Sarebbe importante oltreché corretto che quando si trasferisce la proprietà di un immobile con manufatti contenenti amianto venisse segnalata obbligatoriamente al compratore la presenza di questi manufatti e, nel contempo, si consegnasse al medesimo compratore anche la relativa valutazione del rischio amianto in quanto tale valutazione rappresenta un preciso obbligo, previsto dal D.M. 6 settembre 1994, immediatamente successivo all’accertamento della presenza di amianto. Sarebbe quindi necessario, ad esempio, consegnare al compratore, al momento della transazione immobiliare, un fascicolo che contemplasse la presenza e l’ubicazione di amianto nell’edificio nonché il suo stato di conservazione. In Italia, però, la normativa non prevede nulla in questione. Alla conferenza governativa sul tema “Amianto e patologie correlate: stato dell’arte e prospettive”, svoltasi dal 22 al 24 novembre 2012 a Venezia, Assoamianto ha proposto di prevedere, per le compravendite immobiliari, la certificazione attestante l’eventuale presenza di manufatti contenenti amianto e la relativa valutazione del rischio ex D.M. 6 settembre 1994. Il piano nazionale amianto, scaturito dalla conferenza, ha recepito questa proposta, anche se in misura ridotta, precisando che “…si propone, per le compravendite immobiliari, l’obbligo di certificazione attestante la presenza o assenza di manufatti contenenti amianto nell’edificio, ma, come detto, questo piano non è ancora operativo, per cui accade di frequente che la transazione immobiliare avvenga senza avere consapevolezza della presenza di questi manufatti.

I contributi per i lavori

Per quanto riguarda gli immobili d’impresa, l’Inail, annualmente, con i bandi Isi provvede a finanziare in conto capitale le spese sostenute per progetti di miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ivi compresa la bonifica da amianto. Il contributo concesso alle imprese è pari al 65% dell’investimento, viene concesso fino a un massimo di 130 mila euro, è erogato a seguito del superamento della verifica tecnico-amministrativa e la conseguente realizzazione del progetto ed è cumulabile con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito. Per ciò che concerne invece i contributi per i lavori di bonifica da amianto in edifici civili, purtroppo, in Italia, finora non sono stati previsti contributi statali (fatta eccezione per i lavori di bonifica urgenti previsti dal D.M Ambiente 18 marzo 2003, n.101, come individuati dalle Regioni o dalle Province autonome). Soltanto alcune Regioni e qualche Comune hanno previsto incentivi per i normali lavori di bonifica da amianto però limitati nel tempo e nell’entità. Attualmente, l’unica agevolazione è rappresentata dalla detrazione fiscale delle spese per interventi di ristrutturazione edilizia, ivi compresi interventi di bonifica da amianto. A questo proposito, la legge 11 dicembre 2016, n. 232 (legge di bilancio 2017), in vigore dal 1° gennaio 2017, operando ancora una volta una proroga, stabilisce che, con riferimento alle spese documentate relative a interventi di ristrutturazione edilizia, sostenute fino al 31 dicembre 2017, la detrazione fiscale rimane fissata al 50% delle spese sostenute, fino a un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96 mila euro per unità immobiliare. Dal 1° gennaio 2018 la detrazione tornerà alla misura ordinaria del 36% e con il limite di 48 mila euro per unità immobiliare. Occorrerebbe lasciare questa percentuale al 50% almeno per i lavori di bonifica da amianto anche negli anni successivi al 2017.

I lavori sulle unità immobiliari residenziali e sugli edifici residenziali per i quali spetta l’agevolazione fiscale sono: interventi di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia, effettuati su tutte le parti comuni ristrutturazione edilizia effettuati sulle singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi categoria catastale, anche rurali e sulle loro pertinenze.

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Lavori in quota: i rischi, i livelli e le attrezzature

La disciplina in vigore a partire dal D.Lgs. n. 235/2003

Risposta

Il lavoro in quota non può essere svolto senza il ricorso all’ausilio di attrezzature di lavoro che consentano l’accesso e la permanenza dei lavoratori alle postazioni di lavoro. La materia relativa alla tutela delle condizioni di lavoro in questo specifico settore ha ricevuto una disciplina iniziale nel D.Lgs. n. 235/2003, provvedimento con il quale, dal 19 luglio 2005, l’Italia recepì le indicazioni contenute nella direttiva 2001/45/Ce, nell’ottica di una riduzione al minimo dei rischi professionali in ambiente di lavoro. Invero, l’obiettivo della “eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico” costituisce una delle misure generali di tutela previste dall’art. 15, comma 1, lettera c) del D.Lgs. n. 81/2008 (già contenuta nella previsione del previgente art. 3, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 626/1994). Il testo unico della sicurezza sul lavoro ha confermato la disciplina precedente, dettando le prescrizioni minime specifiche per l’uso delle scale a pioli, dei ponteggi e dei sistemi a fune nei lavori temporanei in quota. In particolare, sono stati codificati parametri e criteri per la valutazione del rischio di caduta dall’alto, i quali operano come standard legali di riferimento per l’accertamento e la valutazione della colpa specifica dei soggetti obbligati. E’ questo uno dei pochi casi in cui il legislatore ha elaborato criteri utili per la valutazione del rischio prevenzionale, mediante la fissazione di norme cosiddette “programmatiche”. Se è corretto rimarcare, nella perdurante assenza di schemi legali di emanazione istituzionale, e a valenza cogente, l’eccessiva genericità dell’obbligo riferito all’(auto)valutazione dei rischi professionali, ciò non è a dirsi nel caso di specie, ove la normativa ha posto criteri sia assoluti sia comparatistico- relativi, per l’assolvimento degli obblighi di legge. Il quomodo agere debeatur trova così precisi riferimenti normativi, cui il datore di lavoro deve rigidamente attenersi, pena l’insufficienza qualitativa del documento di valutazione dei rischi (dvr).

La filosofia generale di tutela muove dall’affermazione di principio, contenuta nel quarto considerando della direttiva 2001/45/Ce, ove si legge che il rispetto delle prescrizioni minime volte a garantire un maggior livello di salute e di sicurezza in caso di uso di attrezzature di lavoro messe a disposizione per l’esecuzione di lavori temporanei in quota, è un elemento “essenziale per salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. In effetti, nei cantieri edili l’incidenza infortunistica causalmente riconducibile al rischio di caduta dall’alto è elevata, e ancor più elevata la percentuale di mortalità.

Il punto di partenza sul piano del metodo è e rimane, anche per i lavori temporanei in quota, l’individuazione e la valutazione dei rischi professionali: in questo ambito il datore di lavoro, in base a quanto dispone l’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008, ha l’obbligo di scegliere le attrezzature di lavoro “più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure”. Questo criterio principale riceve ulteriore irrobustimento dal criterio della “priorità” delle misure di protezione collettiva (contro le cadute) rispetto alle misure di protezione individuale (le prime offrono in genere una protezione migliore, come riconosce il dettato dell’art. 15, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 81/2008, il quale costituisce il recepimento dell’art. 6, par. 2, lett. d) della direttiva quadro 89/391/Cee, e del decimo considerando della direttiva 2001/45/Ce). Inoltre, le dimensioni delle attrezzature di lavoro devono essere “confacenti” alla “natura dei lavori da eseguire, alle sollecitazioni prevedibili e ad una circolazione priva di rischi”. L’idoneità del sistema di accesso ai posti di lavoro in quota deve essere valutata, al momento della scelta, in rapporto “alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego”, nonché alla possibilità di evacuazione in caso di pericolo imminente e all’assenza di rischi ulteriori di caduta. Al fine di esplicitare la ineludibile ratio legis involgente i criteri di scelta dell’attrezzatura di lavoro intrinsecamente più idonea (tra quelle di omologa species) a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, il citato art. 111 del testo unico detta i criteri per il concreto utilizzo delle singole attrezzature (scale a pioli e sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi) nell’effettuazione dei lavori temporanei in quota, rispetto ad altre attrezzature di lavoro considerate più sicure (alle quali, ciò nonostante, è consentito e lecito rinunciare): si tratta della fissazione di punti di “equilibrio” la cui finalità prioritaria è di conciliare una (limitata) riduzione del livello di tutela, compensata dalla minor durata di esposizione dei lavoratori al rischio derivante dallo svolgimento del lavoro in quota.

I criteri di utilizzo delle singole attrezzature di lavoro possono essere così riassunti:

  • per le scale a pioli, la sussistenza di condizioni di “limitato livello di rischio” e di “breve durata di impiego”, oppure caratteristiche esistenti dei siti, non modificabili da parte del datore di lavoro;
  • per i sistemi a funi alle quali il lavoratore è direttamente sostenuto, il conseguimento di un livello di sicurezza accettabile (quand’anche di entità non limitata) risultante dall’attività di valutazione dei rischi (il che implica appunto la facoltà di rinunciare all’impiego di un’attrezzatura di lavoro considerata più sicura); ciò sempre che si versi in condizioni di “breve durata di impiego”, nonchè di caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare.

In relazione alla durata dei lavori e ai vincoli di carattere ergonomico, il datore di lavoro deve prevedere l’impiego di un sedile munito degli appositi accessori. Esaurita la fase valutativa legata alla scelta preliminare dell’attrezzatura di lavoro, nonché la successiva fase decisionale legata al suo concreto utilizzo nel contesto lavorativo-ambientale prescelto, l’ulteriore criterio dettato dall’art. 111, comma 5 del D.Lgs. n. 81/2008, è quello della “minimizzazione” dei rischi specifici insiti nelle singole attrezzature di lavoro. Questa previsione è una declinazione specifica del principio enunciato nella misura generale di tutela, risolventesi nell’obbligo di riduzione al minimo dei rischi professionali (art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008). Tra le misure prevenzionistiche suppletivamente obbligatorie, ove necessario (il documento di valutazione dei rischi ne espliciterà le ragioni positive o negative), sono stati indicati i cosiddetti dispositivi anticaduta, i quali, per quanto possibile, devono prevenire lesioni ai lavoratori, in ogni caso di caduta (sia a terra sia in sospensione) da postazioni di lavoro in quota.

L’art. 111, comma 6 introduce poi il principio della sicurezza equivalente per l’esecuzione di lavori di natura particolare, i quali richiedono l’eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute (con obbligo di immediato ripristino anche nel caso di temporanee sospensioni del lavoro: ad esempio la pausa mensa, o la fine dell’orario di lavoro giornaliero). L’art. 111, comma 7, da riferirsi ai lavori in esterno (“Il datore di lavoro effettua i lavori temporanei in quota soltanto se le condizioni meteorologiche non mettono in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori”), è di non facile interpretazione, in assenza di ogni riferimento all’entità del pericolo per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e alla sua natura astratta o concreta (idest: “imminente”, in quanto rapportata ad un intervallo temporale). Vale la pena di osservare, al riguardo, che il punto 1 dell’Allegato XI del D.Lgs. n. 81/2008 consente l’esecuzione di lavori in quota, pur particolarmente aggravati dalle condizioni ambientali (tra le quali vanno sicuramente ricomprese le condizioni meteorologiche), laddove la citata previsione dell’art. 111, in situazioni di minor rischio (che possono verificarsi anche in cantiere), pone al contrario un esplicito divieto. L’art. 111, comma 8, obbliga il datore di lavoro a impartire disposizioni idonee affinché sia vietato (e rispettato il divieto di) assumere e somministrare bevande alcoliche e superalcoliche ai lavoratori “addetti ai cantieri temporanei e mobili e ai lavori in quota”. Circa poi la valenza delle disposizioni di legislazione regionale inerenti all’obbligo di installazione delle linee vita fin dalla fase di progettazione tecnica dell’opera, va detto che esse non esonerano in ogni caso nè il committente (tramite i coordinatori), né il datore di lavoro dall’attività di valutazione del rischio di caduta dall’alto, valutazione che deve essere effettuata avendo quale criterio la priorità nell’utilizzo delle misure di protezione collettive rispetto a quelle individuali, così come dispone l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008. Ciò significa che l’esistenza della linea vita non risolve di per sé la problematica inerente alla valutazione del rischio, ma ne è solo la precondizione fattuale. Occorre invero distinguere tra dimensione progettuale dell’obbligo e dimensione prevenzionistica di quest’ultimo (rivolta alla tutela delle condizioni di lavoro): la circostanza ell’esistenza della linea vita non indica di per sé che il rischio di caduta sia per ciò solo “minimizzato”, conformemente al combinato disposto degli artt. 15, 111 e 115 del D.Lgs. n. 81/2008. Tra l’altro la linea vita, quale dispositivo di ancoraggio installato permanentemente alla struttura dell’edificio, è solo un elemento del sistema di protezione anticaduta, il quale prevede sempre l’utilizzo associato, da parte del lavoratore, di un dpi (“cordino”). Ed essendo questi dpi, ai sensi dell’art. 4, comma 6, lett. h) del D.Lgs 475/1992, ascrivibili alla “terza” categoria (art. 77 commi 4, lett. h) e 5 lett. a) del D.Lgs. 81/2008), il datore di lavoro ha l’obbligo di informare, formare e addestrare i lavoratori che ne fanno uso. Dunque, l’obbligo di predisposizione/installazione delle linee vita vale sia quale requisito di ambito progettuale sia quale condizione di valenza prevenzionistica.

Sul versante sanzionatorio, vi è poi una notazione singolare: mentre la violazione dell’obbligo di minimizzazione dei rischi professionali, stabilito in via generale, all’art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008 è priva di sanzione penale, qualora la medesima violazione investa la scelta e/o l’utilizzo delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota, essa è soggetta alla sanzione penale dell’arresto sino a due mesi o dell’ammenda da 548,00 a 2.192,00 euro (artt. 111, comma 5 e 159, comma 2, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008). Analogamente, la violazione dell’obbligo di adottare, nella scelta delle attrezzature di lavoro, il criterio della priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, stabilito in via generale, all’art. 15, comma 1, lettera i) del D.Lgs. n. 81/2008 non è assoggettata ad alcuna sanzione, mentre lo è la medesima violazione riferita alla scelta delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota (artt. 111, comma 1, lett. a) e 159, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008: arresto fino a sei mesi o ammenda da 2.740,00 a 7.014,40 euro).

Nei casi ora indicati, si registra il fenomeno per il quale una norma avente natura “programmatica” (qual è l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008) si converte in norma “contravvenzionale”: il che non è senza conseguenze. Questa “conversione” infatti obbliga necessariamente l’organo di vigilanza a entrare nel merito dei contenuti di qualità del documento di valutazione dei rischi, intervenendo direttamente con la procedura di accertament odi cui al D.Lgs. n. 758/94, laddove, negli altri casi di insufficienza del dvr non costituenti autonoma fattispecie contravvenzionale, l’istituto applicabile quello della “disposizione” prevenzionistica di cui all’art. 11, comma 2 del D.P.R. n. 520/55. Questo “salto di qualità” nella struttura del sistema sanzionatorio rispetto ad altre tipologie di rischio professionale potrebbe giustificarsi con la natura e il grado elevati dei rischi per i lavori in quota (tant’è che nel sesto considerando della direttiva 2001/45/Ce è espressa la valutazione che: “I lavori in quota possono esporre i lavoratori a rischi particolarmente elevati per la loro salute e sicurezza”); tuttavia, non si capisce perché il legislatore non l’abbia esteso a tutte le lavorazioni previste dal D.P.C.M. 14 ottobre 1997, n. 412 (regolamento recante l’individuazione delle attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati), come ad esempio i lavori in sotterraneo e nelle gallerie, anche comportanti l’impiego di esplosivi, ai lavori mediante cassoni in aria compressa e ai lavori subacquei. Nel caso poi che, sotto il profilo della minimizzazione dei rischi professionali nella scelta e/o nell’utilizzo delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota, ovvero nell’adozione del criterio della priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, il documento di valutazione dei rischi sia non soltanto insufficiente, ma addirittura carente di valutazione, si pone la questione se siano congiuntamente contestabili sia la violazione dell’art. 29, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2008 (al solo datore di lavoro), sia la violazione del successivo art. 111 del decreto (contestabile anche ai dirigenti prevenzionistici), ovvero, in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 del codice penale e dell’art. 298 del testo unico, si debba fare riferimento solo alla seconda. Forse il legislatore meglio avrebbe fatto a prevedere, per la valutazione dei rischi relativi all’effettuazione di lavori temporanei in quota, uno statuto integrativo dell’obbligo generale di valutazione dei rischi di cui all’art. 29 del D.Lgs. n. 81/2008, non assoggettato ex se a sanzione in caso di inosservanza, ma ricadente nella sanzione generale prevista dall’art. 29 ora citato. Vi erano tra l’altro precedenti significativi, come l’art. 11 del D.Lgs. n. 151/2001 (lavoratrici madri), e l’art. 7, comma 1 della legge n. 977/67 (lavoro dei bambini e degli adolescenti).

La notazione finale di sintesi è che la disciplina di recepimento della direttiva europea 2001/45/Ce, attualmente riprodotta nel titolo IV, Capo II del D.Lgs. n. 81/2008, è in linea con la centralità del momento della scelta, da parte del datore di lavoro, dell’attrezzatura di lavoro più idonea; obbligo riconosciuto come originariamente “tipico” dell’attività di valutazione dei rischi professionali, nello stesso testo dell’art. 29, comma 1 del testo unico. L’auspicio è che il richiamo forte – da parte del legislatore – all’obbligo della minimizzazione del rischio, renda questa scelta massimamente funzionale alle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro. Per quanto attiene, invece, al principio di continuità normativa tra le abrogate disposizioni del D.Lgs. n. 626/1994 e quelle del D.Lgs. n. 81/2008 che le hanno sostituite, con conseguente persistenza della sanzione penale (salva l’applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio più favorevole), la corte di Cassazione ha già avuto modo di esprimersi in senso positivo con la sentenza n. 26754 (Cass. pen. sez. III, 12 luglio 2010).

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Gli obblighi di sicurezza per cedere macchine usate

Nel mondo imprenditoriale spesso accade, soprattutto in tempi critici per l’economia, di dover cedere impianti e macchine usate. Questo può avvenire nell’ambito di contesti più ampi, quali la cessione di un ramo di azienda o la dismissione di uno stabilimento industriale, oppure nell’ambito di operazioni più contenute, quali, per esempio, la dismissione di una linea produttiva ovvero la vendita di una singola macchina o anche solo di singoli componenti di una macchina.

In queste situazioni le aziende si pongono il problema di assicurare il massimo livello possibile di sicurezza, limitando i rischi di contestazioni. La materia è regolata, in primo luogo, dall’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale «Sono vietati la fabbricazione, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro».

La violazione di questa disposizione è sanzionata in via contravvenzionale ed è soggetta, quindi, al pari di tutte le contravvenzioni in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro punite con pena alternativa, al meccanismo di estinzione in via amministrativa ai sensi del D.Lgs. n. 758/1994 (prescrizione e notizia di reato; regolarizzazione; ammissione al pagamento nella misura del quarto del massimo della pena pecuniaria; pagamento; estinzione del reato). Il problema è dato, però, dal rischio infortunio che, nel caso in cui fosse ravvisato il nesso causale tra l’evento e la violazione della norma, comporterebbe la responsabilità concorsuale del datore di lavoro utilizzatore e del soggetto che ha ceduto la macchina non a norma. Si tenga presente che i reati di lesioni e di omicidio colposo si considerano consumati il giorno in cui si verifica la lesione o la morte. Ne deriva che colui che cede una macchina può essere chiamato a rispondere anche diversi anni dopo perché non rileva la data di cessione ma la data dell’evento (anche se, indubbiamente,più tempo passa dalla vendita e più diventa complessa la dimostrazione che la macchina fosse già irregolare all’epoca della cessione). Sebbene la norma consideri vendita, noleggio e concessione in uso, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che rilevi la cessione anche a titolo gratuito e che non rileva che il cedente lo faccia a titolo professionale, potendo integrare il reato anche solo un atto di vendita (Cass. pen., sez. III, 28 giugno 2000, n. 10342).

Il tema è quanto mai delicato per gli operatori economici perché le cessioni di macchine o impianti usati può rappresentare uno strumento importante di realizzo ma, nel contempo, diventa motivo di preoccupazione (doverosa) nel momento in cui l’attrezzatura da lavoro, nelle condizioni in cui si trova, non garantisca l’utilizzo in condizioni di completa sicurezza e, quindi, occorre valutare quali soluzioni percorrere per assicurare il rispetto della norma di prevenzione senza far scemare del tutto il valore economico dell’operazione. Le strade percorribili sono diverse e alcune di queste hanno trovato ampia applicazione nella prassi, sebbene le indicazioni giurisprudenziali siano ancora troppo poche e non particolarmente significative. Saranno analizzate queste possibili opzioni, evidenziandone aspetti positivi e rischi.

La conformità europea

Occorre preliminarmente esaminare una questione di grande rilievo e che è spesso discussa nei procedimenti per infortunio sul lavoro (indipendentemente dal tema della cessione di macchine usate), ossia il “valore” della marcatura Ce rispetto alla normativa di prevenzione. La materia oggi è regolamentata dal D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 17, recante attuazione della direttiva 2006/42/CE relativa alle macchine[1]. Il D.Lgs. n. 17/2010 non è la prima normativa nazionale in materia di sicurezza delle macchine. La materia è stata introdotta nell’ordinamento italiano con il D.P.R. n. 459/1996, attuativo della precedente direttiva comunitaria, che già aveva previsto l’obbligo di marcatura Ce. Non è rilevante approfondire le differenze tra le due normative. È opportuno evidenziare che, invece, tutte le macchine progettate, fabbricate o importate dal 1996 in avanti dovevano (e, quindi, dovrebbero) essere dotate del marchio Ce. Occorre domandarsi se la presenza della marcatura Ce rappresenti una “patente di sicurezza” ai sensi della vigente normativa di sicurezza[2], in primo luogo il D.Lgs. n. 81/2008 e le norme di attuazione e, quindi, se il marchio comunitario costituisca una condizione di asseverazione dell’adempimento del debito di sicurezza in capo al datore di lavoro. Il quesito, posto sul piano generale, assume rilievo con riferimento al problema della vendita di macchine usate perché il tema, evidentemente, si ripropone, anche con maggiori difficoltà, allorché si tratti di cedere una attrezzatura di lavoro provvista, appunto, del marchio Ce. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affrontato il tema in più occasioni, esprimendo un orientamento che può essere considerato consolidato: «Il datore di lavoro è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde dell’infortunio occorso a un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità CE o l’affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano a esonerarlo dalla sua responsabilità, e ciò a prescindere dall’eventuale configurabilità di autonome concorrenti responsabilità del costruttore.

Il datore di lavoro, infatti, è il principale destinatario delle norme antinfortunistiche previste a tutela della sicurezza dei lavoratori ed ha l’obbligo di conoscerle e di osservarle indipendentemente da carenze od omissioni altrui e da certificazioni pur provenienti da autorità di vigilanza. Tale posizione di garanzia concorre con quella del costruttore, ma non è ad essa subordinata, in quanto la prossimità dell’imprenditore-datore alla fonte dei rischi, alle concrete modalità di lavoro e di eventuale elusione dei sistemi di sicurezza, gli consente immediatamente di percepire l’esposizione al pericolo dei lavoratori impiegati nell’utilizzo dei macchinari» (Cass. pen., sez. IV, 6 aprile 2011, n. 33285; in senso conforme Cass. pen., sez. IV, 22 maggio 2009, n. 36889, che ha posto l’accento anche sul profilo dell’utilizzo conforme della macchina; vedere anche Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 35909). Significativa anche la sentenza, meno recente, ma più diffusamente motivata sul punto specifico, secondo la quale «Altrettanto infondate sono le censure proposte in relazione al marchio CE apposto sulla macchina, atteso che esso, come giustamente si è sostenuto nella sentenza impugnata, certamente – anche in considerazione della sua natura autocertificatoria – non esonera da responsabilità chi produce o mette in vendita macchinari realizzati senza il rispetto delle norme antinfortunistiche. (…) Il vizio rilevato era chiaramente e facilmente percepibile dall’imputato; donde l’affermazione di responsabilità per avere lo stesso introdotto nella sua azienda e messo a disposizione dei suoi dipendenti una macchina realizzata senza il rispetto delle norme antinfortunistiche. Norme del cui assoluto ed integrale rispetto egli, quale datore di lavoro della vittima, e responsabile della sicurezza dell’ambiente di lavoro, avrebbe dovuto accertarsi, nulla rilevando la marchiatura CE che come già osservato, non esonera da responsabilità, in ragione dell’accertata non conformità della macchina ai previsti requisiti di sicurezza» (Cass. pen., sez. IV, 12 giugno 2008, n. 37060). Quindi, il quadro giurisprudenziale è sufficientemente chiaro nell’individuare un onere del produttore della macchina e del datore di lavoro che la utilizza di verificare la sussistenza dei requisiti di sicurezza di cui al D.Lgs. n. 81/2008 pur in presenza di marcatura Ce.

Le sentenze pongono l’accento sul datore di lavoro in relazione al fatto che l’esposizione al pericolo del lavoratore deriva direttamente dalla sua attività e, poi, perché, nel passaggio tra il produttore e l’utilizzatore, si verifica indubbiamente un incremento di problematiche di sicurezza correlate alla mediazione comportamentale dell’uso della macchina. Le sentenze esaminate non si diffondono nella ricerca di fondamenta normative all’interpretazione proposta, liquidando il tema attraverso un richiamo alla preminenza del bene tutelato. In proposito, occorre rilevare che il D.Lgs. n. 17/2010 ha un allegato tecnico di contenuto approfondito e molto ampio per quanto concerne i criteri di sicurezza delle macchine (allegato I, «Requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute relativi alla progettazione e alla costruzione delle macchine»). Tuttavia, è la stessa normativa macchine a suggerire che la marcatura Ce non esaurisce il debito di sicurezza posto a carico del costruttore, del venditore e, in ogni caso, del fruitore. L’articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 17/2010, prevede, infatti, che «possono essere immesse sul mercato ovvero messe in servizio unicamente le macchine che soddisfano le pertinenti disposizioni del presente decreto legislativo e non pregiudicano la sicurezza e la salute delle persone».

Il successivo articolo 6, relativo alla sorveglianza sul mercato, prevede, al comma 4, che «qualora sia constatato che una macchina provvista della marcatura ‘CE’, accompagnata dalla dichiarazione CE di conformità e utilizzata conformemente alla sua destinazione o in condizioni ragionevolmente prevedibili rischia di compromettere la salute e la sicurezza delle persone e, all’occorrenza, degli animali domestici o dei beni, il Ministero dello sviluppo economico, con provvedimento motivato e notificato all’interessato, previa verifica dell’esistenza dei rischi segnalati, ordina il ritiro della macchina dal mercato,ne vieta l’immissione sul mercato ovvero la messa in servizio o ne limita la libera circolazione, indicando i mezzi di impugnativa avverso il provvedimento stesso ed il termine entro cui è possibile ricorrere; gli oneri relativi al ritiro dal mercato delle macchine o ad altra limitazione alla loro circolazione sono a carico del fabbricante o del suo mandatario».

Occorre ancora citare il disposto di cui all’articolo 4, comma 1, D.Lgs. n. 17/2010, secondo il quale «le macchine provviste della marcatura ‘CE’ e accompagnate dalla dichiarazione CE di conformità, i cui elementi sono previsti dall’allegato II, parte 1 sezione A, sono ritenute rispondenti alle disposizioni del presente decreto legislativo». Insomma, nel momento in cui si ammette che una macchina provvista del marchio Ce e conformemente utilizzata possa «rischiare di compromettere la salute dei lavoratori», ecco che diventa abbastanza intuibile la ragione che giustifica il motivo di rimprovero colposo. Infatti, sarà sempre possibile trovare negli allegati tecnici al D.Lgs. n. 81/2008, attraverso gli articoli 70 e 71 (requisiti di sicurezza delle attrezzature da lavoro)e le norme tecniche contenute nell’allegato V, una regola tecnica di sicurezza che non sia stata rispettata. In ogni caso, il ricorso all’art. 2087, codice civile, consente di coprire anche le zone di tutela non espressamente considerate da una specifica disposizione. La prassi giudiziaria, al di là delle sentenze della Corte di Cassazione commentate (che sono poche perché pochi sono i processi in materia giunti fino alla Corte di legittimità), evidenzia una sostanziale tendenza a contestare un profilo di colpa allorquando la marcatura Ce manchi nei casi in cui è dovuta e a ritenere sostanzialmente irrilevante la presenza del marchio Ce a fronte di condizioni di pericolosità della macchina che hanno determinato un infortunio sul lavoro. È appena il caso di evidenziare che, nel momento in cui si imbocca la strada di ritenere che la marcatura Ce non assolva al debito di sicurezza, è gioco forza ritenere che anche l’assenza del marchio, laddove prescritto, non possa essere ritenuto quale autonomo profilo di colpa rilevante in ordine al determinismo di un evento di danno, in ragione del fatto che anche una macchina sprovvista di conformità Ce può essere non di meno sicura[3]. In questi casi, potranno essere applicate, ricorrendone i presupposti, le sanzioni specifiche previste dal D.Lgs. n. 17/2010, ma non potrà essere ravvisata la responsabilità per l’eventuale evento di danno per carenza del nesso causale.

Possibili soluzioni

Una volta chiarito che la presenza della marcatura Ce non fa venir meno il dovere di verifica, tanto a carico del produttore quanto a carico del datore di lavoro e così pure a carico del cedente, della conformità alla normativa di prevenzione, è appena il caso di precisare che la marcatura Ce rappresenta comunque un primo passo importante nella valutazione di conformità di una macchina, in ragione del fatto che l’allegato I al D.Lgs. n. 17/2010 prevede i «requisiti essenziali di sicurezza», che poi tanto essenziali non sono, solo considerando gli aspetti contemplati e laddove lo si confronti con l’allegato V al D.Lgs. n. 81/2008[4]. Inoltre, occorre precisare che la cessione, in quanto tale, non comporta l’obbligo di marcatura Ce e, quindi, il venditore non dovrà provvedere alla marcatura di macchine che aveva acquistato prima dell’entrata in vigore di questo obbligo (D.P.R. n. 459/1996).

Detto questo, è possibile soffermarsi sugli adempimenti/cautele da considerare per vendere macchine o impianti usati senza creare un rischio per la salute dei lavoratori, senza violare l’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008 (o meglio, riducendo per quanto possibile il rischio di incriminazione sotto questo profilo e per eventi dannosi che dovessero accadere nell’ambito dell’attività del datore di lavoro acquirente), prendendo in esame, in modo necessariamente sintetico, le ipotesi di maggior interesse nella prassi. In termini generali, è possibile affermare che ogni cessione deve essere accompagnata dalla consegna del libretto d’uso e manutenzione[6]. Questo è un aspetto che può diventare problematico rispetto a macchine molto datate, ma che può essere risolto attraverso la ricerca presso la casa produttrice (laddove esista ancora), ovvero tramite la rete, anche utilizzando documentazione tecnica riguardante macchine simili, ovvero ancora mediante l’ausilio di un tecnico che sia in grado di redigere un libretto che affronti, quantomeno, le più significative problematiche di sicurezza correlate all’uso, alla manutenzione, al montaggio e allo smontaggio della macchina. In questo ambito, inoltre, deve essere considerata la disposizione di cui all’art. 72, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, per la quale «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisisti di sicurezza di cui all’allegato V».

Questa norma riguarda le macchine per le quali non sono previste «specifiche disposizioni legislative e regolamentai di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto» (articolo 70, comma 1); di qui la ragione per la quale ha ricevuto un’attenzione e un’applicazione assai scarse. La violazione di questa norma è sanzionata soltanto in via amministrativa (articolo 87, ultimo comma, D.Lgs. n. 81/2008), ma ben può costituire fondamento di rimprovero colposo per eventi di danno che dovessero essere causalmente riconducibili alla sua inosservanza.

La certificazione di sicurezza

Quella di far “certificare” la macchina a un esperto di sicurezza è senza dubbio la strada più sicura, se percorribile[7]. Si tratta di una sorta di perizia tecnica con la quale un esperto del settore attesta di avere visionato e provato la macchina e di averne riscontrato, alla data dell’esame, la conformità ai requisiti di sicurezza. Questa impostazione, indubbiamente seria e cautelativa, ha dei limiti che non hanno bisogno di essere evidenziati, soprattutto allorquando si tratti di macchine molto vecchie e, quindi, non più in linea con le tecniche costruttive attuali. L’ausilio di un tecnico ha anche un vantaggio in termini di ricostruzione e/o implementazione della documentazione tecnica di cui deve essere corredata ogni attrezzatura da lavoro.

Il “divieto di utilizzo”

La soluzione più praticata è senz’altro quella di cedere la macchina specificando che la stessa, nello stato in cui si trova, non può essere utilizzata perché insicura. Sono ipotizzabili alcune opzioni. Quella certamente meno rischiosa è la cessione ai fini di lavorazione. La macchina è ceduta a un soggetto che dovrebbe curarne la messa a norma:

  • per poi metterla in uso;
  • per poi rivenderla.

Questa opzione ha trovato riconoscimento in una significativa sentenza della Corte di Cassazione: «Il divieto di vendita di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia di salute e sicurezza sul lavoro non opera ove detta vendita sia effettuata per un esclusivo fine riparatorio in vista di una successiva utilizzazione degli stessi» (Cass. pen., sez. III, 3 maggio 2013, n. 40590). Dalla motivazione di questa sentenza si evince in modo chiaro come sia necessario andare a verificare le condizioni di vendita. Questo significa che, per poter praticare questa opzione, occorre prestare molta attenzione all’aspetto contrattuale. Inoltre, è importante che l’acquirente abbia le capacità tecniche per poter valutare ed effettuare le operazioni di messa a norma. Questo non significa che debba essere necessariamente un’azienda che produce il tipo di macchina in questione, o addirittura la stessa impresa produttrice della macchina di cui si tratta, ma occorre quantomeno che l’acquirente possegga strumenti e competenze tecniche sufficienti in relazione all’attivitàda compiere. L’azienda che effettua le modifiche potrà poi restituire la macchina al mittente, ovvero venderla a terzi, ovvero trattenerla, modificando, quindi, il titolo da contratto d’opera a vendita per il futuro utilizzo.

Il semplice «divieto di utilizzo», nel caso di cessione ad aziende che non effettuano attività di messa a norma, rappresenta la strada più semplice e meno onerosa, ma anche quella che presta il fianco alle maggiori obiezioni. Prima fra tutte, una di rilievo formale, in ragione del fatto che l’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008, pone un divieto di cessione di macchine non a norma che, per come è posto e per quelle che sono le sue finalità, non pare poter soffrire eccezioni di questo tipo. In secondo luogo, l’imposizione di un «divieto di utilizzo fino a messa a norma» lascia il tempo che trova in ragione del fatto che il venditore non ha possibilità alcuna di verificare che questo divieto sia effettivamente rispettato dall’acquirente, né è ragionevole che lo faccia. Si tratta, insomma, di una soluzione che rischia di essere considerata non rispettosa del divieto di cui all’articolo 23, D.Lgs. n. 81/2008. Senz’altro preferibile è la scelta di effettuare una sorta di vendita di cosa futura.

Cioè, nel contratto è precisato che la vendita diventerà operativa soltanto allorquando sarà data conferma dell’avvenuta messa a norma. La macchina è trasferita, quindi, ma al solo fine della sua messa a norma (da parte del futuro compratore o di altra azienda), stabilendo un termine entro il quale la vendita debba essere perfezionata. Attenzione, però, che se si procede in questo senso, bisogna poi ottenere la prova dell’avvenuta messa a norma e questo potrebbe rivelarsi un aspetto problematico.

Questa ipotesi, evidentemente, è praticabile soltanto rispetto a contraenti di provata affidabilità. La soluzione meno impegnativa, di più facile realizzazione ma che non elimina però totalmente il rischio, è quella di prevedere nel contratto che la macchina, nello stato in cui si trova, non può essere utilizzata, che sono necessarie tutta una serie di modifiche e che il compratore si impegna a non metterla in uso fino a quando non saranno ripristinate le condizioni di sicurezza. Questa ipotesi è cautelativa solo in parte, per le stesse ragioni esaminate con riferimento all’ipotesi del mero divieto di utilizzo.

La cessione…

…come rottame

Questa è una soluzione che non presenta difficoltà, anche laddove sia stabilito che la rottamazione debba essere fatta a cura dell’acquirente. L’unico problema è che, in questo caso, la cessione deve avere un prezzo giustificabile rispetto a un rottame, o qualche cosa di più, ma mai avvicinarsi a un prezzo che potrebbe far pensare che la macchina è ceduta come tale, ancorché usata[9]. In questi casi è necessario che il cedente acquisisca un documento dal quale sia possibile dedurre l’avvenuta rottamazione della macchina.

…di un impianto complesso

In questo contesto la soluzione più lineare è quella di stabilire che lo smontaggio, il trasporto e il successivo montaggio sia rimesso a totale cura dell’acquirente. In questa ipotesi, anche i profili di sicurezza riguardanti il futuro utilizzo di macchine e di attrezzature di lavoro sarebbero inevitabilmente mediati dall’attività del montatore e/o assemblatore, riducendo ulteriormente il rischio che possa derivarne una contestazione a carico del venditore.

I profili da considerare sono due:

  • la gestione della sicurezza e della tutela ambientale nella fase di smontaggio;
  • la gestione della sicurezza per il futuro utilizzatore.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ipotesi più cautelativa risulta essere quella di approntare un contratto di comodato gratuito del sito, almeno nella parte strettamente necessaria alle operazioni di smontaggio, con esplicita previsione riguardante i temi ambientali. In questo caso, anche rispetto a lavori che dovessero rientrare nel Titolo V, D.Lgs. n. 81/2008 (cantieri), l’acquirente assumerebbe la qualità di “committente” a tutti gli effetti. Anche gli adempimenti ambientali (gestioni rifiuti demolizione; eventuale cessione rifiuti soggetti a recupero (per esempio, ferro) possono essere riferiti, sempre attraverso una chiara previsione contrattuale, all’acquirente. Per quanto riguarda il secondo aspetto, sono percorribili le strade indicate ai precedenti punti, fermo restando che la sicurezza di un impianto dipende anche, in maniera significativa, dalle modalità con cui è rimontato, dalla eventualità che siano aggiunte e/o sostituite parti dello stesso, dal contesto produttivo in cui è inserito. Questi aspetti possono comportare elementi di complicazione, ma rappresentano, per il venditore, condizioni che possono anche portare all’esenzione di responsabilità, nella misura in cui la situazione di insicurezza derivi, non da caratteristica intrinseca dell’impianto o di una parte degli elementi che lo compongono, ma da fattori correlati al montaggio, all’assemblaggio e, comunque, all’utilizzo nel processo produttivo del cessionario.

…di un componente

È difficile dare una indicazione univoca, per il semplice fatto che occorrerebbe verificare, nel caso specifico, l’oggetto della cessione: infatti, sono identificabili alcune componenti che, in quanto tali, non hanno nessun rilievo diretto sulla sicurezza. Ve ne sono altre che, invece, devono avere delle caratteristiche intrinseche di sicurezza, pur a prescindere della macchina in cui andranno a essere montate.

…di un ramo d’azienda

Le regole esaminate non dovrebbero variare allorquando la cessione di macchine o impianti usati avvenga nell’ambito di un più ampio contratto di vendita o affitto di ramo d’azienda. Peraltro, è opportuno segnalare che la Corte di Cassazione, in una sentenza isolata ma abbastanza recente, ha espresso diverso avviso (Cass. pen., sez. III 22 maggio 2012, n. 19416).

…in sede di liquidazione o nell’ambito concorsuale

Stante le finalità delle norme, non sembra vi siano ragioni per escluderne l’applicazione, ovvero per prospettare margini di applicazione differenziata, nei casi in cui la vendita sia effettuata nell’ambito di procedure a evidenza pubblica, quali le procedure concorsuali o alcune forme di liquidazioni. L’articolo 23 ammette, al comma 2, solo la deroga relativa alle società di leasing, alle quali è richiesto unicamente di accertare che i beni siano corredati della documentazione prescritta dalla normativa.

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Cassazione: anche il lavoratore deve fare la sua parte

È esperienza comune, tanto dei datori di lavoro e dei lavoratori, quanto degli operatori del diritto che si occupano della materia, che buona parte degli infortuni sul lavoro è originata da comportamenti abnormi o comunque inappropriati dei lavoratori.

In questo tipo di situazioni, che si verificano per le più svariate ragioni (eccessiva confidenza con l’attività, convinzione di poter svolgere meglio un determinato compito in modo diverso da quello appreso, reale o ritenuta necessità di svolgere la propria mansione in tempi più rapidi), per il datore di lavoro è sempre estremamente difficile portare una convincente difesa avanti al giudice penale e che gli consenta, quindi, di venire assolto. La ragione di questa difficoltà si rinviene, tra l’altro, nel rigore interpretativo – sia pur con temporanee oscillazioni garantiste che paiono tuttavia più rare[1] – che la suprema Corte ha da sempre offerto del concetto di condotta “abnorme”.

La condotta “abnorme”, infatti, intesa come quella condotta del lavoratore completamente avulsa dal contesto lavorativo e, come tale, capace di interrompere il nesso causale tra la colpa del datore di lavoro e l’infortunio proprio in ragione della sua straordinarietà rispetto alle mansioni svolte, ha trovato riconoscimento sporadico nelle pronunce, tanto di merito che di legittimità Ne consegue che, anche al cospetto di una realtà aziendale ben organizzata e, quindi, anche in presenza di chiare indicazioni circa le condotte da non tenere durante le attività lavorative, al verificarsi di infortuni e in presenza di una violazione (o asserita violazione) di una qualsiasi norma cautelare (generica o specifica) contestata al datore di lavoro, quest’ultimo vedeva – e vede – ampiamente ridotte le proprie chances di difesa.

Questo perché, in termini più semplici, difficilmente la giurisprudenza riconosce come abnormi comportamenti del lavoratore che, seppur espressamente vietati, trovano la propria occasione nell’ambito dell’attività lavorativa e magari originano proprio dalle specifiche mansioni (cfr. Cass. IV., 28.4.11, Millo e altri, Rv 250710; sez. IV, 10.10.2013, Rovaldi, Rv 259313; 5.3.2015, Guida, Rv 263386). In questi casi, dunque, la difesa che si fondava sulla prova, comunque non sempre facile da fornire in termini compiuti, dello svolgimento di una adeguata e specifica formazione dei lavoratori in merito alle condotte vietate, rischiava di essere sterile e “superata” dall’assunto secondo cui il datore di lavoro deve comunque e sempre prevedere ed evitare anche i comportamenti sbagliati.

Questo scenario particolarmente rigoroso e severo non era e non è mutato neppure a seguito della specificazione degli obblighi dei lavoratori contenuti nel D. Lgs. 81/2008. L’attuale impianto normativo, infatti, non considera più i lavoratori quali meri “soggetti passivi” della sicurezza, ma attribuisce loro un ruolo attivo, così come risulta dai doveri imposti dall’art. 20 comma 2 del decreto che, ad esempio, alla lettera c), stabilisce che devono utilizzare in modo corretto gli strumenti di lavoro.

Doveri, oltretutto, sanzionati penalmente dalla fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 59, D.Lgs. 81/2008, tenuto – altresì – conto che il comportamento improprio di un lavoratore può mettere in pericolo anche la salute degli altri lavoratori. Tuttavia – come si è detto – l’approccio maggioritario dell’interpretazione tende ad attribuire al datore di lavoro la responsabilità penale per l’infortunio causato dal comportamento erroneo e vietato del lavoratore.

Con la sentenza numero 174/2017 depositata il 5 aprile 2017 la quarta sezione della Cassazione, confermando una decisione della corte d’Appello di Milano, pur ribadendo i principi relativi alla definizione di condotta abnorme del lavoratore, ha riconosciuto la possibilità di tenere conto del comportamento colposo del dipendente quale elemento idoneo a fondare il giudizio di riconoscimento di particolare tenuità del fatto: «D’altro canto ai fini del riconoscimento della tenuità dell’offesa non si può non tenere in considerazione, nel diverso ambito prospettico di cui all’art. 131 bis del codice penale, il non trascurabile concorso di colpa ascrivibile alla persona offesa, che da un lato vale a ridurre il grado di antidoverosità della condotta del datore di lavoro, dall’altra concorre a mitigare i profili di offensività attribuibili alla di lui condotta omissiva».

Dalla disamina del corpo motivazionale della sentenza, si comprende che di certo non basta il comportamento colposo del lavoratore per invocare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 131 bis del codice penale, dovendo, di contro, ricorrere tutti gli altri elementi richiesti dalla norma, tuttavia il principio affermato dalla Cassazione appare di particolare importanza perché ha valorizzato l’agire colposo del dipendente ai fini del riconoscimento della tenuità del fatto. Inoltre, la suprema Corte ha anche affermato che non è ostativa al riconoscimento della speciale tenuità del fatto la qualificazione giuridica di “lesioni gravi” contenuta nel capo di imputazione, quale evento dell’infortunio.

Lo si ripete: vi devono essere “altri indici di tenuità” offerti, ad esempio, dalla prova dell’avvenuta formazione dei lavoratori, dell’inesistenza di gravi carenze nella sicurezza aziendale, nella volontà di apportare miglioramenti successivamente al fatto reato, ma la colpa del lavoratore torna ad assumere un ruolo importante da documentare e provare al giudice. Ne consegue che diventa fondamentale, per l’azienda e per il datore di lavoro, documentare in qualsiasi momento e con precisione:
• l’avvenuta realizzazione di corsi di formazione;
• il corretto addestramento degli operatori;
• l’avvenuto richiamo e le irrogazione di sanzioni disciplinari a fronte della messa in atto di comportamenti vietati e pericolosi.

Nel quadro delineato dalla Cassazione – ma ciò valeva anche prima – è fondamentale dimostrare di non aver mai tollerato comportamenti vietati o prassi illegittime, fra fonti principali degli infortuni. Oltre alla funzione preventiva – obiettivo prioritario per le aziende – oggi la Cassazione offre una ragione in più per sottolineare e stigmatizzare i comportamenti vietati, così da potersi giovare, in sede dibattimentale, della “colpa” del lavoratore.

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Macchine e marcatura CE: la verifica si impone

Tutte quelle in servizio devono essere certificate e rispondere alla direttiva 2006/42 oppure, se in servizio in Italia prima del 21 settembre 1996, devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008

Il quadro normativo

Per promuovere il concetto di mercato aperto nell’area economica europea, tutti gli Stati membri sono tenuti ad adottare una legislazione che definisca i requisiti di sicurezza fondamentali per le macchine e il loro uso, mediante il recepimento delle direttive Ce. Le macchine che non soddisfano questi requisiti non possono essere commercializzate all’interno dei Paesi dell’area economica europea e non possono essere utilizzate. La “direttiva macchine” è applicata alle macchine e alle “quasi macchine” e ne stabilisce i requisiti essenziali ai fini della sicurezza e della tutela della salute, come definiti nell’Allegato I al D.Lgs. n. 17/2010. La “direttiva macchine” è applicata anche ai componenti di sicurezza che sono immessi separatamente sul mercato. Inizialmente, la “direttiva macchine” 89/392/Cee (in seguito sostituita dalla direttiva 98/37/Ce) è stata recepita in Italia con il decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 459, «Regolamento per l’attuazione delle direttiva 89/392/CEE, 93/44/CEE e 93/68/CEE concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine», entrato in vigore il 21 settembre 1996. La “nuova direttiva macchine” (direttiva 2006/42/Ce) ha sostituito la versione precedente (98/37/Ce) alla fine del 2009 ed è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 17. La norma attualmente vigente, pertanto, è il D.Lgs. n. 17/2010 ma è di fondamentale importanza la data di entrata in vigore della precedente “direttiva macchine” D.P.R. n. 459/1996 in quanto il 21 settembre 1996 costituisce la data di discrimine per le macchine poste in esercizio prima o dopo questo termine, le quali possono avere, pertanto, caratteristiche sensibilmente diverse e devono essere sottoposte a una verifica differente. Il D.P.R. n. 459/1996 ha introdotto importanti novità quali, per esempio, l’obbligatorietà della marcatura Ce per tutte le macchine messe in servizio dopo il 21 settembre1996.

Le due norme fondamentali di riferimento per la verifica dei requisiti di sicurezza delle macchine sono:

  • il D.Lgs. n. 17/2010;
  • l’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008, requisiti generali di sicurezza delle macchine. Tutte le macchine a oggi in servizio, infatti, devono avere marcatura Ce e rispondere alle prescrizioni della “nuova direttiva macchine” D.Lgs. n.17/2010 oppure, nel caso di macchine messe in servizio in Italia prima del 21 settembre 1996 e che, quindi, non riportano la marcatura Ce, devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008.

Macchine e quasi-macchine Il D.Lgs. n. 17/2010 definisce il campo di applicazione e chiarisce che cosa si intende con “macchine” e “quasi macchine”.

La segatrice a nastro per metalli può essere definita macchina in quanto svolge la lavorazione per la quale è concepita (taglio metalli) in autonomia, azionata dall’energia elettrica e non occorre che sia incorporata ad altre macchine o quasi-macchine. Invece, l’attuatore è una “quasi-macchina”, azionata elettricamente, che permette il movimento di organi di trasmissione. Per poter svolgere un lavoro occorre che l’attuatore sia incorporato a un altro elemento.

La “macchina” propriamente detta è «un insieme equipaggiato o destinato ad essere equipaggiato di un sistema di azionamento diverso dalla forza umana o animale diretta, composto di parti o di componenti, di cui almeno uno mobile, collegati tra loro solidamente per un’applicazione ben determinata». Con il termine “macchina” possono essere identificati anche i seguenti prodotti:

  • le attrezzature intercambiabili
  • i componenti di sicurezza
  • i dispositivi amovibili di trasmissione meccanica
  • gli accessori di sollevamento
  • le catene, le funi e le cinghie
  • le macchine

Un insieme dei prodotti sopra elencati costituisce una macchina anche nel caso manchino gli elementi di collegamento al sito di impiego o di allacciamento alle fonti di energia e di movimento. La progettazione e la costruzione delle macchine devono tener conto dell’uso previsto per la macchina stessa sia che si tratti di una macchina da utilizzare in un luogo di lavoro, sia che l’utilizzo sia previsto da parte di terzi o consumatori. Le “quasi-macchine” sono insiemi che costituiscono quasi una macchina, ma che, da soli, non sono in grado di garantire un’applicazione ben determinata. Le quasi macchine sono unicamente destinate a essere incorporate o assemblate ad altre macchine o ad altre quasi-macchine o ad apparecchi per costituire una macchina. Per esempio, un sistema di azionamento è una “quasi-macchina”.

Verifica di conformità

Oggi tutte le macchine, per poter essere commercializzate e, quindi, utilizzate in Italia, devono avere marcatura Ce e rispondere alle prescrizioni della nuova direttiva macchine D.Lgs.17/2010. Le macchine costruite prima del D.P.R. n. 459/1996 devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008. Le macchine marcate Ce risultano conformi agli obblighi previsti dalla direttiva 2006/42/Ce, quindi, dal suo regolamento di applicazione in Italia, il D.Lgs. n. 17/2010. Nel caso una macchina marcata Ce non risulti conforme ai requisiti previsti dal D.Lgs. n. 17/2010, il ministero può richiederne il ritiro dal mercato. È di fondamentale importanza che gli utilizzatori non apportino mai di propria iniziativa modifiche alle macchine in quanto manutenzioni scorrette o manomissioni delle macchine o dei microinterruttori compromettono la conformità della stessa. Sono comunque garantite le manutenzioni ordinarie e i ripristini degli apprestamenti di sicurezza.

La manutenzione è una parte importante del processo per la riduzione dei rischi sulle macchine. Nel caso di macchine messe in servizio in Italia prima del 21 settembre 1996 e che non riportano la marcatura Ce, queste devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008. Nel caso siano presenti macchine prive di marcatura Ce, non è obbligatorio “rottamare” la macchina ma non è nemmeno possibile utilizzarla senza aver verificato che la stessa sia conforme ai requisiti generali minimi di sicurezza previsti dall’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008. Il verificatore dovrà accertare che la macchina risponda ai requisiti minimi di sicurezza, riportati nell’Allegato V al D.Lgs. n. 81/2008. Affinchè una macchina, pur rispondente ai requisiti minimi ma priva di marcatura Ce e messa in servizio prima del 21 settembre1996, possa essere utilizzata, è necessario che un professionista abilitato rediga una perizia asseverata che la certifichi. Nel caso la macchina non risponda ai requisiti minimi di sicurezza, dovranno essere individuate le migliorie di sicurezza da realizzare, necessarie a rendere conforme la macchina e, una volta realizzate queste modifiche, sarà redatta la perizia asseverata di certificazione della macchina.

 

 

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Mog 231: una risorsa non solo per le “grandi”

Edilizia: è falsa convinzione che non sia applicabile nelle piccole realtà.

La stesura del modello di organizzazione, gestione e controllo, fra le altre cose, può favorire l’azienda sotto molteplici aspetti e rappresenta, per alcuni precisi illeciti, una sorta di esonero dalla responsabilità amministrativa. Ma a determinate condizioni. 

È opinione diffusa che i “modelli di organizzazione, gestione e controllo” (mog), che devono essere adottati ai sensi dell’articolo 6, D.Lgs. n. 231/2001, siano faccenda delle sole grandi imprese o, quantomeno, di aziende che per dimensioni e organizzazione sono (teoricamente) in grado di dedicare maggiori risorse (umane ed economiche) alla pianificazione e alla progettazione di un mog. Si tratta di una impostazione sbagliata che può portare a gravi rischi per le imprese più esposte all’impatto delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 231/2001 (responsabilità amministrativa di impresa). Infatti, le sanzioni dirette all’impresa, sia pecuniarie che interdittive per periodi più o meno lunghi (sospensioni: delle autorizzazioni, delle attività, a poter contrarre con la pubblica amministrazione eccetera), sono applicate a tutte le imprese. Dai dati statistici è possibile ricavare che le piccole e medie imprese rappresentano circa il 99% del totale a livello italiano ed europeo e che il 55% della ricchezza dell’Unione europea deriva da queste realtà imprenditoriali; di queste pmi il 92% sono micro-imprese con meno di 10 lavoratori. Dopo aver inquadrato il problema sul piano tecnico-giuridico, sono presentati gli indirizzi operativi per la stesura di modelli semplificati per l’organizzazione e la gestione della sicurezza (mog) nelle piccole e medie imprese (pmi), presentando un caso nel settore delle costruzioni. In quanto ai costi per una impresa che già rispetta il D.Lgs. n. 81/2008, questi ultimi derivano solo dal poco tempo che la stessa deve dedicare alla sua implementazione. Il vero onere si viene a creare quando si verifica un infortunio. Infatti, a seguito di eventi negativi in una azienda si avranno dei costi diretti e indiretti che spesso mettono le aziende in seria difficoltà. Occorre evidenziare che al convegno mondiale sulla sicurezza lavoro, organizzato a Istanbul nel settembre del 2011, sono stati presentati studi in cui è stato evidenziato che per “1 euro” investito in interventi di prevenzione e/o protezione dai rischi lavorativi la stessa azienda “guadagna” oltre “2,2 euro”.

IL RIFERIMENTO LEGISLATIVO

Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche come società, imprese, associazioni ed enti. La norma rappresenta un fattore di assoluta innovazione nel quadro normativo italiano in quanto, contrariamente alla massima societas delinquere non potest, afferma il principio secondo il quale, non solo i singoli individui, ma anche le società, le imprese, le associazioni, gli enti possono rispondere in sede penale di fatti illeciti materialmente commessi nell’interesse o a vantaggio di essi, da una persona fisica che risulti in qualche modo legata all’ente stesso. La strada scelta per contrastare la commissione di alcuni specifici reati in modo più incisivo è stata, quindi, quella di responsabilizzare direttamente le società, le imprese, le associazioni e gli enti, i quali sono tenuti a svolgere una maggiore vigilanza sull’operato dei propri dipendenti e a prevenire, per quanto possibile, questi reati, pena una serie di sanzioni. Prima del D.Lgs. n. 231/2001, soltanto l’autore del fatto illecito (persona fisica) doveva rispondere penalmente per il fatto illecito compiuto. L’ente di appartenenza non era coinvolto e continuava a svolgere regolarmente le proprie attività. Dopo il D.Lgs. n. 231/2001, sia l’autore del fatto illecito (persona fisica) che l’ente (società, impresa eccetera) di appartenenza rispondono penalmente per l’illecito compiuto. Quindi, è stata introdotta una responsabilità che riguarda l’intero ente, generando conseguentemente la necessità di un nuovo modello di organizzazione avente la finalità di un efficace effetto di deterrenza rispetto alla commissione di specifici reati. Alla luce di questo la norma offre una possibilità di esenzione per gli enti che si impegnino volontariamente nella prevenzione di questi reati, predisponendo al proprio interno un modello di organizzazione, gestione e controllo specifico. L’adozione di un “modello di organizzazione, gestione e controllo” non è obbligatorio, ma è suggerito dal D.Lgs. n. 231/2001. L’applicazione di questo decreto comporta il beneficio di una forma di esonero dalla responsabilità amministrativa dell’ente, se quest’ultimo è in grado di dimostrare, in sede giudiziaria per uno dei reati considerati, di aver adottato ed efficacemente attuato un “mog 231” idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Inoltre, la stesura di un “mog 231” può favorire l’azienda secondo molteplici aspetti, per esempio:

  • evitare l’applicazione delle sanzioni pecuniarie e interdittive;
  • ridurre i rischi illeciti;
  • ridurre la possibilità di esclusioni da appalti e sub-appalti pubblici;
  • tutelare l’investimento dei soci e degli azionisti in relazione al danno economico dovuto all’attuazione dei reati;
  • tutelare l’immagine dell’azienda;
  • evitare perdite di produzione;
  • prevenire spese legali;
  • evitare l’insoddisfazione del cliente;
  • evitare il calo di morale e di senso di appartenenza del personale.

Un “abito” fatto su misura Occorre evidenziare fin da subito che non esiste un “modello di organizzazione 231” valido per tutte le pmi in generale. Quindi, di volta in volta, bisogna predisporre un “abito” appropriato su misura per ogni impresa. I reati previsti a oggi (è prevedibile che nel tempo possano essere aggiunti altri reati) dal D.Lgs. n. 231/2001 sono, in sintesi:

  1. reati in danno e nei rapporti con la pubblica amministrazione;
  2. abusi di mercato;
  3. reati societari;
  4. reati in tema di falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo;
  5. reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;
  6. reati contro la personalità individuale;
  7. reati contro la vita e l’incolumità individuale
  8. reati transnazionali;
  9. reati di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo;
  10. delitti di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene;
  11. ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (reati contro il patrimonio mediante frode);
  12. delitti informatici e trattamento illecito;
  13. delitti di criminalità organizzata;
  14. delitti contro l’industria e il commercio;
  15. delitti in materia di violazione del diritto d’autore;
  16. induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria;
  17. reati ambientali (art. 25-undecies, D.Lgs. n. 231/2001)…

Logicamente, per una pmi, in generale, e per le imprese di costruzioni, in particolare, non tutti i reati elencati comportano uno stesso livello di rischio, in alcuni casi si tratta di reati che portano a rischi trascurabili per il tipo di attività dell’impresa. Per un’impresa di costruzioni, del livello di rischio lordo (inteso come combinazione di gravità e probabilità del reato in assenza di un modello di prevenzione reati) connesso a ciascuna fattispecie di reato.

Da questa è possibile ricavare che il rischio inerente alla sicurezza e alla salute dei lavoratori per un’impresa di costruzioni risulta essere “alto”.

ECCO LE INNOVAZIONI DEL D.Lgs n.81/2008

I reati di cui al D.Lgs. n. 231/2001, commessi con violazione delle norme infortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro (art. 25-septies), comporta un livello di rischio alto. L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008 aggiornato e integrato ha fornito, alle realtà imprenditoriali, la possibilità di attuare all’interno della propria organizzazione un sistema di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori (sgsl), che si configura come lo strumento più idoneo per definire le procedure per lo svolgimento delle attività di prevenzione e protezione nei luoghi di lavoro e che rappresenta le modalità di organizzazione e di programmazione delle varie fasi lavorative e le modalità di coordinamento fra i soggetti coinvolti. L’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008, «Modelli di Organizzazione e di gestione», infatti, contempla un «modello di organizzazione e gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni di cui al D.Lgs. 231/01». Si tratta di uno strumento a carattere puramente volontario che un’organizzazione può decidere di adottare per gestire meglio la sicurezza della propria azienda, avendo così un maggiore controllo dei rischi. In sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle linee guida Uni-Inail per un sgsl del 2001 o al british standard Ohsas 18000:2007 si presumono conformi ai requisiti per le parti corrispondenti. Inoltre, con il D.M. 13 febbraio 2014 (gazzetta ufficiale del 24 febbraio 2014, n 45) sono state recepite le procedure semplificate di cui alla Commissione consultiva del 27 novembre 2013, per l’adozione e la efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza nelle pmi ai sensi dell’art. 30, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008. Il fine di tutto questo è che le imprese che su base volontaria adottano ed efficacemente attuano un mog con riferimento alla salute e sicurezza sul lavoro possono prevenire le conseguenze previste dall’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, e dell’art. 300, D.Lgs. n. 81/2008. Infine, occorre evidenziare che, da studi effettuati dall’Inail negli anni precedenti, se sono confrontati gli indici infortunistici di aziende omologhe per settore produttivo e territorio di appartenenza ma che hanno l’unica differenza di avere o non avere adottato dei sistemi di gestione sicurezza lavoro, è possibile evidenziare che le aziende che hanno un sgsl hanno una forte riduzione dell’indice di frequenza (if): nel settore delle costruzioni ( – 33%), nel settore della chimica (– 26%), nel settore metallurgico (– 6%), nelle industrie tessili (- 64%), nei trasporti (– 13%) eccetera, in complesso i dati portano ad un “if” pari a – 27% in termini generali.

STRUTTURA DEL MOG: ELEMENTI ESSENZIALI

Un modello di organizzazione e gestione ex D.Lgs. n. 231/2001 è composto da due parti separate:

  • una parte generale che fornisce:
  1. le informazioni sulla realtà dell’ente e sulla sua attività;
  2. la normativa di riferimento;
  3. la funzione del modello adottato e i suoi principi ispiratori;
  4. la composizione dell’organismo di vigilanza;
  5. le modalità di formazione obbligatoria del personale;
  6. le modalità di diffusione del modello all’interno dell’ente e all’esterno;
  • una parte speciale che contiene:
  1. i reati presupposto ipotizzabili;
  2. le funzioni coinvolte;
  3. le modalità di commissione del reato;
  4. le procedure di controllo al fine di mitigare e gestire i rischi. Inoltre, il modello 231 prevede i seguenti documenti:
  • il codice etico;
  • il sistema disciplinare;
  • il regolamento dell’organismo di vigilanza.

FASI DI IMPLEMENTAZIONE

Prima di poter procedere all’avvio del modello è necessario aver stabilito una corretta politica aziendale, da riportare in un documento denominato “politica del mog della società …”, che sarà alla base di tutto il processo d’implementazione. Premesso questo, le fasi di implementazione di un mog sono:

  • fase 1, avvio–plan utile a: – analizzare il sistema di organizzazione e controllo al fine di far emergere eventuali carenze rispetto ai protocolli di buona prassi (come, per esempio, quelli indicati nella guida Ance 2013); – definire un piano di azioni da svolgere per dotare l’azienda di tutti i protocolli previsti; – identificare gli obiettivi guida per il successivo risk-assessment, attraverso l’identificazione delle aree/processi/responsabili esposti ai reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001; – per ciascun processo sensibile individuato dovranno essere indicate, infine, le modalità di svolgimento delle relative attività e indicate, se rilevanti, le specifiche procedure alle quali attenersi, prevedendo, in particolare:
  1. i protocolli per la formazione e l’attuazione delle decisioni;
  2. le modalità di gestione delle risorse finanziarie;
  3. gli obblighi di informazione all’organismo di vigilanza;
  • fase 2, risk assessment che conduce a un’analisi e a una valutazione del rischio sulle aree/processi potenzialmente esposti ai reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001, attraverso la mappatura dei processi sensibili in termini di: – reato potenziale; – potenziale modalità di attuazione del reato; – funzioni coinvolte; – breve sintesi del processo sensibile; – identificazione per ogni processo delle criticità rispetto ai protocolli di prevenzione di riferimento – definizione delle aree/processi di business, riscontrabili nel modello 231 di riferimento, ma sui quali sono probabili differenze sostanziali in termini di oggetto e di modalità operativa. L’attività di risk assessment si svolge con la collaborazione delle funzioni operative aziendali; – definizione delle aree/processi specifici; il risk assessment si svolge con la collaborazione della struttura aziendale;
  • fase 3, gap analysis-azioni, che conduce alla realizzazione del piano di implementazione da attuare per lo sviluppo del modello di organizzazione e controllo 231 aziendale tenendo conto delle carenze emerse nella fase 2 durante il risk assessment. Il piano definirà, per ciascuno dei processi sensibili identificati, le azioni da implementare al fine di completare lo sviluppo del mog dell’azienda considerata. Il piano così definito sarà condiviso con tutti i responsabili competenti dell’azienda; • fase 4, attivazione del mog: – condivisione e formalizzazione del codice disciplinare, funzionigramma, deleghe, organismo di vigilanza, piano di comunicazione e formazione; – definizione, condivisione e formalizzazione di protocolli e procedure per ciascun processo sensibile; – formalizzazione del modello di organizzazione e controllo 231.

IL DOCUMENTO DI POLITICA

La politica deve essere riportata in un documento ufficiale firmato dal vertice aziendale nel quale dovrà chiaramente emergere la volontà e l’impegno a prevenire la possibilità che tutti i soggetti aziendali possano commettere i reati individuati come “presupposto”. La politica è fondamentale e possono essere individuati due approcci differenti:

  1. politica con approccio “tattico”: presa la decisione di implementare un mog, il vertice aziendale esegue una iniziale e minuziosa fotografia di tutti i processi aziendali, definita “analisi iniziale”, e in base a tutti i rischi di commissione di reato presupposto riscontrati, stabilisce un metodo comune d’intervento per focalizzare gli obiettivi che si impegna formalmente a raggiungere;
  2. politica con approccio “strategico”: in questo caso il vertice aziendale, indipendentemente da un’analisi iniziale, definisce “a priori” la propria visione generale dell’azienda, i valori fondamentali in cui risiede il suo “credo”, la sua strategia. Subito dopo, il vertice aziendale valuta le condizioni della propria organizzazione e, in armonia ai propri valori, sceglie la più opportuna metodologia dell’intervento da porre in essere, ovvero indica quali sono gli obiettivi che vorrebbe raggiungere, come e cosa intende fare per ottenerli e assume un impegno “morale” di miglioramento continuo. I contenuti di una politica aziendale di un mog comportano sempre l’“impegno” dell’alta direzione: – a rispettare e applicare integralmente la legislazione cogente; – a prevenire la commissione dei reati presupposto, attraverso l’individuazione di aree a rischio e azioni di continuo di miglioramento; – a verificare periodicamente e ad aggiornare la politica.

LA MATRICE DELLA RESPONSABILITÀ

Per attuare quanto indicato nelle fasi 1 e 2 è necessario realizzare una matrice delle responsabilità (ovvero, “chi fa cosa”), cioè devono essere individuati i processi sensibili, ovvero a “rischio di reato”, effettivamente presenti nella propria realtà aziendale. Ogni processo riporta le proprie singole attività. Per ogni attività svolta nel singolo processo dovranno anche essere definite le procedure contenenti gli specifici protocolli di controllo e di prevenzione riguardanti:

  • la formazione e l’attuazione delle decisioni;
  • le modalità di gestione delle risorse finanziarie;
  • gli obblighi di informazione all’organismo di vigilanza. È buona norma, come ben riportato nella guida Ance 2013, esplicitare sempre:
  • chi: indicare il nominativo del responsabile dello specifico protocollo di controllo;
  • come: precisare il criterio da seguire per applicare il protocollo;
  • dove: definire in che modo è registrato il controllo (registro, verbali eccetera)
  • quando: definire la fase temporale di esecuzione del controllo

VDR: GAP ANALYSIS

Per l’attuazione della fase 3 e per la finale fase 4 è fondamentale avere una buona valutazione del rischio. Occorre premettere che l’insieme dei processi mirati al consolidamento dell’immagine aziendale nel rispetto delle norme costituisce la cosiddetta “compliance aziendale”. In altre parole, tutto quello che, in generale, interviene al fine di non incorrere in sanzioni che potrebbero danneggiare la reputazione dell’azienda nei confronti dei clienti, dei partner e di tutti gli stakeholder (cosiddetti, portatori d’interesse). Questo significato di compliance è utilmente applicabile nelle aziende del settore delle costruzioni in quanto, in quest’ambito, la reputazione è un elemento imprescindibile nella conduzione dell’azienda. La differenza tra la compliance e l’internal auditing consiste nel fatto che quest’ultimo è solo uno dei processi della stessa finalizzato al controllo trasversale tra le varie funzioni aziendali, per lo sviluppo dell’attività di prevenzione e lo stimolo per l’attuazione delle buone prassi, ovvero tutte attività che salvaguardano l’immagine e la reputazione aziendale nel tempo. Conseguentemente, è chiaro che, dal punto di vista operativo-funzionale, nel mog gli obiettivi aziendali saranno, in sintesi:

  • obiettivo 1: efficacia ed efficienza delle attività operative;
  • obiettivo 2: attendibilità delle informazioni di bilancio;
  • obiettivo 3: conformità a leggi e regolamenti. Fatta questa premessa, è evidente che, ai fini dell’elaborazione di un modello esimente, emerge la necessità di una valutazione del rischio ben strutturata, costruita in base a concetti di risk management e risk assessment. «Per “rischio” si intende qualsiasi variabile o fattore che nell’ambito dell’azienda, da soli o in correlazione con altre variabili, possano incidere negativamente sul raggiungimento degli obiettivi indicati dal decreto 231 (in particolare all’art. 6, comma 1, lett. a); pertanto, a seconda della tipologia di reato, gli ambiti di attività a rischio potranno essere più o meno estesi»[1]. Pertanto, è fondamentale individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati. Questa visione evidenzia due aspetti fondamentali del rischio:
  • aspetto regolamentare, che rappresenta la conseguenza diretta della violazione;
  • aspetto reputazionale, che ne rappresenta la conseguenza indiretta

In sintesi, l’applicazione delle tecniche di risk assessment configura un intervento che inizia dai processi operativi aziendali con l’obiettivo i valutarne il grado di rispondenza alle norme e si conclude con la predisposizione del piano di interventi correttivi/migliorativi per eliminare il gap riscontrato.

RISCHIO INERENTE O LORDO

A ogni rischio di non conformità derivante da un requisito normativo identificato tramite le attività di pre-assessment, si attribuisce un valore potenziale, detto “rischio inerente” o “rischio lordo” che si basa su:

  • frequenza (o probabilità) del rischio: frequenza di accadimento dell’evento rischioso in grado di influire negativamente sul raggiungimento degli obiettivi di conformità;
  • peso (o impatto) del rischio: impatto economico – patrimoniale dell’evento rischioso.

I valori di peso e di frequenza, così come i punteggi relativi attribuiti, devono essere congruenti con i criteri adottati dalle funzioni di revisione interna e risk management. È anche necessario decidere, fin da questa fase, se un indice di rischiosità “basso” o “trascurabile” implica necessariamente che non sia intrapresa alcuna ulteriore azione di assessment. Il processo sistematico di valutazione del “rischio potenziale” di commissione di un reato presupposto, denominato appunto “risk assessment”, può essere riassunto, quindi, come il processo di stima dei fattori di rischio associati alle specifiche attività dell’impresa di costruzione. L’intervento può essere definito di “compliance risk assessment” e sarà articolato nelle seguenti attività:

  • valutazione del rischio inerente (o rischio lordo) – rischio implicito nella natura stessa dell’attività e presente in ogni business, prodotto o processo. La sua stima non tiene in considerazione i controlli eventualmente esistenti;
  • valutazione di adeguatezza dei controlli in essere – valutazione ex ante circa l’esistenza di controlli per la mitigazione del rischio e il loro grado di copertura;
  • determinazione del rischio residuo (o rischio netto) – è il rischio che rimane dopo l’applicazione dei controlli di cui alla fase precedente. In questa fase, nella stima del rischio residuo, si tiene generalmente conto dell’esistenza di controlli, ma non necessariamente della loro efficacia o continuità di applicazione.

NEL SETTORE DELLE COSTRUZIONI

Ai fini dell’attuazione della fase 4, è possibile puntualizzare alcuni aspetti tra “mog 231”, sgsl e D.Lgs. n. 81/2008, perché spesso in fase applicativa, ancora oggi, si fa un po’ di confusione, con gravi conseguenze in casi di contenzioso. Per una piccola e media impresa del settore delle costruzioni è opportuno considerare che:

  • attuare un “mog 231” significa considerare tutti i reati-presupposto dell’elenco di cui al D.Lgs. n. 231/2001. Se l’impresa sceglie l’implementazione di un modello parziale potrà avvantaggiarsi del beneficio esimente della responsabilità amministrativa solo se il modello risulterà idoneo a gestire la prevenzione della tipologia di reati contemplati, ma per i restanti reati, previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 e non inclusi nel modello, non potrà godere di alcuna possibilità esimente;
  • per le attività svolte tipicamente da pmi nel settore delle costruzioni, molti dei reati-presupposto non risultano configurabili e, infatti, molte scuole di pensiero considerano che la valutazione del “rischio 231” possa essere incentrato solo sui reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime (art. 300, D.Lgs. n. 81/2008), commessi con violazione delle norme antinfortunistiche (art. 25-septies), sui reati commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione (art. 25), su alcuni reati societari (art. 25-ter) e sui reati ambientali (art. 25-undecies);
  • il D.Lgs. n. 81/2008 è focalizzato sull’incolumità dei lavoratori sui luoghi di lavoro, avendo quali obiettivi la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, prevedendo, a tal fine, molti reati sanzionati come funzione preventiva rispetto al rischio di infortunio o di malattia professionale, che non costituiscono “illecito rilevante ai sensi del D.Lgs.  n. 231/2001”;
  • vi è una differenza sostanziale tra il mog come inteso nel D.Lgs. n. 231/2001 e l’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008. In particolare, occorre precisare che un sgsl non costituisce di per sé stesso un “mog 231” per la prevenzione dei reati ex D.Lgs. n. 231/2001 (anche se vi sarà la presunzione di conformità per le parti corrispondenti ai requisiti elencati all’art. 30, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008) perché sarà privo di altri elementi essenziali richiesti dal D.Lgs. n. 231/2001 quali, per esempio, l’organismo di vigilanza, il codice etico, l’introduzione di un sistema disciplinare specifico;
  • un “mog 231” correttamente adottato può avere, invece, efficacia esimente anche in assenza di un sgsl.

CONCLUSIONI

Sono state fornite le indicazioni essenziali per una corretta predisposizione di un mog ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, specifico e pertinente per le pmi, utilizzando a titolo esemplificativo un caso inerente al settore delle costruzioni. Per le attività svolte tipicamente dalle piccole e medie imprese nel settore delle costruzioni, molti dei reati-presupposto non risultano configurabili. Da questo, a seconda della tipologia di impresa, la stessa può optare per un “mog completo” redatto in conformità del D.Lgs. n. 231/2001 oppure può optare per un “mog parziale”. In conclusione, non esiste un modello di organizzazione comune applicabile a tutte le pmi, in generale, e, in particolare, per le imprese di costruzioni che spesso sono delle micro-imprese.

È necessario predisporre, di volta in volta, un “abito” organizzativo appropriato che tenga conto dell’attività e dei rischi conseguenti per ogni singola impresa secondo l’impostazione e la sensibilità dei vertici aziendali.

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Autorimesse: in vigore le nuove norme

La regola tecnica di prevenzione incendi potrà essere applicata alle attività con superficie complessiva superiore a 300 metri quadrati. Il decreto, in vigore dal 2 aprile di quest’anno, è stato pubblicato sulla G.U del 3 marzo e introduce l’approccio già previsto dal codice.

 

Con il decreto 21 febbraio 2017 è stata approvata la regola tecnica verticale di prevenzione incendi per le attività di autorimessa, individuate con il numero 75 nell’allegato 1 del D.P.C.M 1° agosto 2011, n. 151. L’obiettivo di questo provvedimento non è di abrogare le preesistenti disposizioni, bensì di offrire l’opportunità di adottare anche per le attività di autorimessa il nuovo approccio alla progettazione antincendio introdotto con il decreto 3 agosto 2015 (codice di prevenzione incendi). Come per quelle di recente emanazione, anche l’utilizzo di questa nuova regola tecnica prevede l’applicazione congiunta del codice di prevenzione incendi, in quanto la sua funzione è di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice stesso.

IL PROVVEDIMENTO

Il D.M. 21 febbraio 2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 52 del 3 marzo 2017, è composto di quattro articoli e un allegato (vedere tabella 5). In particolare, con il primo articolo sono approvate le norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di autorimessa contenute nell’allegato 1 al decreto. Per quanto concerne il campo di applicazione, attraverso l’articolo 2 è stabilito che queste norme possono essere applicate alle attività di autorimessa, sia esistenti sia di nuova realizzazione, di superficie complessiva coperta superiore a m² 300. Si tratta delle attività individuate con il numero 75 nell’allegato 1 del D.P.R. 151/2011[1]. Si evidenzia che con l’articolo 2 è inoltre precisato che le disposizioni di prevenzione incendi contenute nella nuova regola tecnica si possono applicare in alternativa a quelle dettate dai decreti del ministro all’Interno del 1° febbraio 1986[2] e del 22 novembre 2002[3]. Attraverso l’articolo 3 sono invece definite le modifiche al decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015[4] (vedere il box 1). In effetti, è con questo articolo che la regola tecnica contenuta nell’allegato al decreto 21 febbraio 2017 diventa parte integrante del nuovo codice di prevenzione incendi. In particolare, è stabilito che nella sezione V (“Regole tecniche verticali”) del codice è aggiunto il capitolo “V.6”, nel quale sono contenute le norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di autorimessa. Il decreto termina con l’articolo 4 attraverso il quale è stabilito che il decreto è in vigore il trentesimo giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (cioè, il 2 aprile 2017).

LA STRUTTURA

La struttura della nuova regola verticale è la stessa utilizzata per quelle di recente pubblicazione: “Campo di applicazione”, “Definizioni”, “Classificazioni”, “Profili di rischio”, “Strategia antincendio” e altre specifiche tecniche (vedere la tabella 5). Di fatto con il “Campo di applicazione” e le “Classificazioni” sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree ecc.). Nel punto concernente i “Profili di rischio” (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice (“Determinazione dei profili di rischio delle attività”). Con la sezione “Strategia antincendio” sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (“Reazione al fuoco”, “Resistenza al fuoco”, “Compartimentazione”, “Esodo” ecc.). Infine, con la sezione “Metodi” sono fornite le indicazioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Nel dettaglio, la nuova regola tecnica, che si inserisce nella sezione V del codice di prevenzione incendi, è divisa in otto parti: “Scopo e campo di applicazione” (V 6.1), “Definizioni” (V 6.2), “Classificazioni” (V 6.3), “Profili di rischio” (V 6.4), “Strategia antincendio” (V 6.5), “Valutazione del rischio di esplosione” (V 6.6), “Metodi” (V 6.7), “Riferimenti” (V 6.8). Per quanto concerne lo “Scopo e campo di applicazione” (punto V 6.1), è specificato che la regola tecnica verticale reca disposizioni di prevenzione incendi riguardanti le attività di autorimessa con superficie superiore a m2 300. Si segnala che sono state previste due esclusioni. In particolare, è stabilito che ai fini della regola tecnica non sono considerate autorimesse le aree coperte destinate al parcamento di veicoli dove ogni posto auto sia accessibile direttamente da spazio scoperto (o con un percorso massimo inferiore a due volte l’altezza del piano di parcamento) e gli spazi destinati all’esposizione, alla vendita o al deposito di veicoli provvisti di quantitativi limitati di carburante per la semplice movimentazione nell’area. Le definizioni utilizzate nella nuova regola tecnica sono specificate con il secondo punto (V 6.2). Di fatto, con questo punto sono contenute le definizioni necessarie per uniformare l’applicazione della norma. Con il terzo punto (V 6.3), è data la “Classificazione” delle autorimesse e delle aree dell’attività. In particolare è specificato che ai fini antincendio le autorimesse sono classificate in relazione alla tipologia di servizio, alla superficie dell’autorimessa o del compartimento, alle quote massime e minime dei piani “h” dell’autorimessa. Per quanto riguarda le aree dell’attività, con questo punto sono classificate sia quelle interne sia quelle comunicanti (vedere la tabella 7). Profili di rischio e strategia La regola tecnica verticale per le attività di autorimessa prosegue con il punto V. 6.4 “Profili di rischio”. Come per le altre regole tecniche verticali, per questo aspetto è precisato che i profili di rischio devono essere determinati secondo la metodologia indicate al capitolo G.3 del codice di prevenzione incendi. È opportuno ricordare che la prima sezione del codice di prevenzione incendi definisce le specifiche concernenti la determinazione dei profili di rischio delle attività. In particolare attraverso il punto G.3 sono indicate sia le tipologie di profilo di rischio sia i metodi di determinazione. Al riguardo si evidenzia che ai fini della valutazione del rischio di incendio sono individuate tre tipologie di profilo di rischio utilizzate per attribuire i livelli di prestazione:

  • Rvita: profilo di rischio relativo alla salvaguardia della vita umana (attribuito per ciascun compartimento dell’attività);
  • Rbeni: profilo di rischio relativo alla salvaguardia dei beni economici (attribuito per l’intera attività);
  • Rambiente: profilo di rischio relativo alla tutela dell’ambiente (attribuito per l’intera attività). In particolare, il profilo di rischio Rvita è attribuito per compartimento in relazione ai seguenti fattori:
  • δocc: caratteristiche prevalenti[5] degli occupanti che si trovano nel compartimento antincendio;
  • δα: velocità caratteristica prevalente di crescita dell’incendio riferita al tempo tα impiegato dalla potenza termica per raggiungere 1000 kW. Mentre il profilo di rischio Rbeni è valutato per l’intera attività in funzione del carattere strategico dell’opera e del suo valore storico, culturale, architettonico o artistico e dei beni contenuti. Infine, il profilo di rischio Rambiente, valutato per l’intera attività, consiste nel rischio di danno ambientale che può ritenersi mitigato dall’applicazione delle misure antincendio connesse ai profili di rischio Rvita e Rbeni, che permettono di considerare non significativo questo tipo rischio. Di fatto, questi profili di rischio sono indicatori semplificati che consentono di valutare il rischio di incendio dell’attività, permettono di attribuire livelli di prestazione e di individuare le misure antincendio necessarie a garantire alti livelli di sicurezza. Le misure antincendio da applicare alle attività di autorimessa sono indicate con il punto V 6.5 (“Strategia antincendio”). In particolare, è richiesta l’applicazione di tutte le misure antincendio definite nel codice di prevenzione incendi (attribuendo i livelli di prestazione secondo i criteri in esso definiti). Al riguardo si evidenzia che nella Sezione S del codice di prevenzione incendi sono indicate le misure antincendio, definiti i criteri per l’attribuzione dei livelli di prestazione e la scelta delle soluzioni progettuali. Si segnala che con questo punto è inoltre richiesta la rispondenza alle prescrizioni dettate dal codice per le aree a rischio specifico e quelle per le aree a rischio atmosfere esplosive (sezioni V.1 e V.2 del codice).

 

INDICAZIONI COMPLEMENTARI O SOSTITUTIVE

Con i successivi punti della regola sono definite le indicazioni complementari per reazione al fuoco, resistenza al fuoco, compartimentazione, esodo, gestione della sicurezza antincendio, controllo dell’incendio, controllo di fumo e calore e sicurezza degli impianti tecnologici. In particolare, per la reazione al fuoco (punto V 6.5.1) è stabilito che nelle aree dedicate a ricovero, sosta e manovra dei veicoli (aree classificate TA) non è ammesso il livello di prestazione I (capitolo S.1 del codice) e che le strutture portanti e separanti degli autosilo devono essere realizzate con materiali del gruppo GM0 di reazione al fuoco (capitolo S.1 del codice). In merito alla resistenza al fuoco (punto V 6.5.2) è specificato che la classe dei compartimenti delle autorimesse (con esclusione di quelle isolate) non può mai essere inferiore a quanto previsto in tabella V.6-1 della regola (vedere la tabella 1). Particolare attenzione è data agli autosilo per i quali è previsto che l’edificio debba avere indipendenza strutturale rispetto alle altre opere da costruzione e che deve essere separata con elementi di resistenza al fuoco almeno di classe 120.

COMPARTIMENTO ED ESODO

Le indicazioni complementari per la compartimentazione sono trattate con il punto V 6.5.3 attraverso il quale è inizialmente specificato che l’autorimessa deve sempre costituire un compartimento autonomo. Per quanto concerne le autorimesse classificate SA, AA e HA (vedere tabella 7) è ammessa nello stesso compartimento la presenza di aree o locali destinati a depositi di materiali combustibili (escluse sostanze o miscele pericolose) di superficie lorda complessiva non superiore a m2 25 e con carico di incendio specifico qf ≤ 300 MJ/m2 , a condizione che non siano classificati come aree a rischio specifico. Inoltre, è stabilito che devono costituire compartimento autonomo anche le aree destinate a depositi di materiali combustibili con carico di incendio specifico non superiore a 1200MJ/m2 (non classificate come aree a rischio specifico) e i locali tecnici rilevanti ai fini della sicurezza antincendio. Per quanto riguarda la comunicazione dell’autorimessa con altre attività, inizialmente è stabilito che deve avvenire tramite filtro e, per le autorimesse di tipo SA, AA e HC (vedere tabella 7), è precisato che possono comunicare con attività non aperte al pubblico tramite varchi muniti di chiusure almeno E30- Sa. Per la comunicazione le aree TM2 e TT, è prevista l’adozione di varchi muniti di chiusure con caratteristiche di resistenza al fuoco determinate secondo il capitolo S.2 del codice e comunque non inferiore a 30. Quando l’autorimessa comunica tramite un sistema d’esodo comune con altre attività aperte al pubblico, è richiesto che i compartimenti di queste attività siano sempre a prova di fumo proveniente dall’autorimessa. In merito all’esodo con il punto V 6.5.4 è evidenziato che le aree interne agli autosilo non devono essere accessibili al pubblico e che per la determinazione dell’affollamento si deve tenere conto anche del personale addetto.

GESTIONE DELLA SICUREZZA

Particolare attenzione è rivolta alla gestione della sicurezza antincendio che, ricordiamo, rappresenta la misura antincendio organizzativa e gestionale necessaria a garantire nel tempo un adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio. In particolare, attraverso il punto V 6.5.5 è fissato l’obbligo di installare la cartellonistica riferita ai divieti e alle limitazione di esercizio e sono ribaditi i comportamenti da far rispettare. In particolare, è precisato che nelle autorimesse deve essere vietato fumare o usare fiamme libere, depositare o travasare fluidi infiammabili, eseguire operazioni di riempimento e svuotamento dei serbatoi di carburante. Inoltre, è previsto che devono essere adottate misure gestionali atte a impedire operazioni di manutenzione e riparazioni dei veicoli (o prove di motori) al di fuori delle aree appositamente predisposte e l’accesso di veicoli con evidenti perdite di carburante. Particolare attenzione è rivolta all’eventuale presenza di veicoli alimentati a gpl. Al riguardo è precisato che per le autovetture con impianto dotato di sistema di sicurezza (conforme al regolamento Ece/Onu 67-01) il parcamento è consentito nei piani fuori terra e nei piani interrati (non oltre la quota -6 metri), invece per quelle prive di questo tipo di dispositivo il parcamento è consentito solo nei piani fuori terra non comunicanti con piani interrati. Il punto V 6.5.5 termina con la precisazione che per le attività di autorimessa la gestione della sicurezza deve sempre prevedere la determinazione delle aree di sosta, del numero e della tipologia dei veicoli.

FUMO E CALORE

La regola tecnica prosegue con i punti dedicati sistemi di lotta contro gli incendi. Di fatto, con i punti V 6.5.6 e V 6.5.7 sono definite le caratteristiche e il dimensionamento dei presidi antincendio e dei sistemi per lo smaltimento e l’evacuazione di fumo e calore. Al riguardo si segnala che oltre alle specifiche indispensabili per individuare la giusta soluzione progettuale è richiesto che l’attività sia sempre dotata di misure di controllo dell’incendio (di cui alla sezione S.6 del codice) secondo i livelli di prestazione previsti in tabella V.6-2 (vedere la tabella 2). Ai fini dell’eventuale applicazione della norma Uni 10779[6], è richiesta l’adozione dei parametri di progettazione minimi riportati in tabella V.6-3 (vedere la tabella 3) con l’obbligo di prevedere almeno la protezione interna. Inoltre, per quanto concerne la progettazione di un eventuale impianto automatico di controllo o estinzione dell’incendio di tipo sprinkler secondo la norma Uni En 12845[7], è stabilito che l’alimentazione idrica deve essere almeno di tipo singola superiore. In merito al controllo di fumi e calore attraverso il punto V 6.5.7 sono dettate le specifiche tecniche per il dimensionamento dei sistemi per il loro smaltimento e la loro evacuazione. Al riguardo si evidenzia che è stabilito che l’attività deve essere dotata di misure di controllo di fumi e calore previste dalla sezione S.8 del codice e, per il livello di prestazione, è richiesto il rispetto dei parametri indicati nella tabella V.6-4 (vedere la tabella 4). Inoltre, è specificato che, in caso di installazione di un sistema di controllo di fumo e calore, deve essere previsto un quadro di comando e controllo in posizione protetta e segnalata presso il piano d’accesso per soccorritori, in grado di realizzare e segnalare il ciclo di apertura/chiusura del sistema naturale di controllo del fumo e calore o marcia/arresto del sistema forzato di controllo del fumo e calore. Infine, è richiesto di progettare il sistema in modo da garantire che le squadre di soccorso abbiano sempre la possibilità di comandarne il funzionamento durante l’incendio. Si evidenzia che per la funzione di controllo del fumo e calore e di aerazione ordinaria è precisato che può essere svolta dallo stesso impianto a doppio impiego (dual-purpose).

SICUREZZA DEGLI IMPIANTI E RISCHIO DI ESPLOSIONE

Per ridurre situazioni pericolose in caso di incendio con il punto V 6.5.8 della regola sono definite soluzioni tecniche per il dispositivo di sezionamento di emergenza, per la protezione dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell’impianto elettrico e per il sistema monta auto. In particolare, è richiesta l’installazione di un dispositivo di sezionamento di emergenza che consenta con una sola manovra di togliere tensione a tutto l’impianto elettrico dell’autorimessa (compreso quello di box alimentati da un impianto elettrico separato) e che sia installato all’esterno del compartimento antincendio, in zona segnalata e di facile accesso. Il rispetto di queste disposizioni è richiesto anche per la protezione dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell’impianto elettrico. Per quanto riguarda i sistemi monta auto è precisato che nelle autorimesse è consentito il loro l’utilizzo a condizione che siano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza dettati dalle direttive europee applicabili. Questi sistemi devono essere sempre dotati di alimentazione elettrica di riserva e devono esporre all’esterno (in luogo idoneo e facilmente visibile) il regolamento di utilizzazione dell’impianto. Infine è specificato che in presenza di sistemi monta-auto, per la protezione delle aree dedicate a ricovero, sosta e manovra dei veicoli, l’attività deve essere dotata di misure di controllo dell’incendio (secondo il capitolo S.6 del codice) di livello minimo di prestazione IV.

Per quanto concerne il rischio connesso alla formazione di atmosfere esplosive nella regola tecnica è precisato che se si rispettano scrupolosamente le condizioni definite nel punto V 6.6, questi rischi possono essere considerati remoti. Solo rispettando queste condizioni, è consentito di omettere la valutazione del rischio di esplosione prevista dal capitolo V.2 del codice. Le indicazioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio è l’ultimo aspetto trattato dalla nuova regola tecnica di prevenzione incendi per le attività di autorimessa. Di fatto, con il punto V 6.7 sono fornite puntuali indicazioni circa gli scenari per la verifica della capacità portante in caso di incendio.

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Reato di “caporalato” riflessi sui modelli 231

Non riguarda solo l’agricoltura, ma tutte le attività con lavoratori non qualificati.

La fattispecie nella nuova versione dell’articolo 603-bis del codice penale, come modificato dalla legge n. 199/2016, rivela una stretta interazione con i contenuti del documento di organizzazione e gestione di cui l’azienda, in ottica preventiva, è chiamata a dotarsi.

 

Il tema La legge 29 ottobre 2016, n. 199, recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo»[1] ha introdotto importanti novità in materia di contrasto al fenomeno del cosiddetto “caporalato”, ossia alle pratiche di reclutamento e sfruttamento di manodopera “in nero” o, comunque, con trattamenti lavorativi non regolari, realizzate attraverso lo sfruttamento dello “stato di bisogno” del lavoratore[2]. Il provvedimento, nel dettaglio, prevede maggiori garanzie per la tutela della dignità dei lavoratori, specialmente (ma non in via esclusiva) del comparto agricolo, intervenendo con alcune innovazioni sotto il profilo penale, da un lato, e rafforzando le misure a favore delle imprese agricole in regola, dall’altro. I principali filoni di intervento della legge, che si compone di dodici articoli, riguardano:

  • la riscrittura del reato di “caporalato”, con la previsione della responsabilità anche del datore di lavoro;
  • l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità;
  • l’arresto obbligatorio in flagranza di reato;
  • il rafforzamento dell’istituto della confisca;
  • l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato;
  • l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato;
  • l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del fondo antitratta;
  • il potenziamento della rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura;
  • il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo. Sotto il profilo penale – per quanto di interesse in questa sede – l’articolo 1 del provvedimento in esame riformula la fattispecie di cui all’articolo 603-bis codice penale, rubricata «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (già introdotta dal decreto-legge 14 agosto 2011, n. 138, convertito con modifiche nella legge 14 settembre 2011, n. 148), che, fin da suoi esordi, aveva determinato non poche problematiche in sede applicativa[3]. Il nuovo testo dell’articolo 603-bis, comma 1, codice penale, sanziona con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro «per ciascun lavoratore reclutato» le condotte di colui che:
  • recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori (il cosiddetto “caporale” o “intermediatore”);
  • utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro “stato di bisogno” (è soppresso lo “stato di necessità”).

È importante sottolineare che il reato non trova applicazione soltanto nel settore agricolo, essendo formulato in termini generici. Rispetto alla precedente versione, la fattispecie colma quel deficit di tutela derivante dalla mancata menzione, quale soggetto attivo del reato, del datore di lavoro, la cui condotta – al limite – avrebbe potuto rilevare a titolo di concorso con quella del “caporale”; il riferimento alle condotte di «utilizzo, assunzione o impiego» del lavoratore posto in condizione di sfruttamento rendono inequivocabile che la risposta penale colpirà anche il datore, che in effetti rappresenta il vero dominus e, comunque, il soggetto che beneficia del comportamento sanzionato. Il reato non richiede più, quale condizione necessaria, lo svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione (da intendersi come l’insieme delle attività di facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, esercitate previo rilascio di apposita autorizzazione da parte dell’autorità ovvero solamente di fatto), che rilevava nella precedente fattispecie secondo le due modalità del reclutamento e dell’organizzazione del lavoro, aspetto quest’ultimo non più considerato dal legislatore. Le condotte sanzionate dall’ipotesi-base, inoltre, prescindono del tutto da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori, i quali, tuttavia, rilevano ai sensi del novellato comma 2, che introduce una fattispecie aggravata per i casi in cui – appunto – i fatti siano commessi con violenza o minaccia, comminando la sanzione (fino a oggi vigente) della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Come già anticipato, in relazione a questo reato, così come modificato, è stata introdotta (articolo 25-quinquies) un’ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001; pertanto, del fatto di caporalato, commesso nell’interesse o a vantaggio dell’impresa da parte di un soggetto in posizione apicale o subordinata, risponderà anche l’ente, che rischierà l’irrogazione di una sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, nonché una sanzione interdittiva di durata non inferiore a un anno (quale, ad esempio, l’interdizione dall’esercizio dell’attività).

IL CASO

Il reato di caporalato, nella nuova versione dell’articolo 603-bis, c.p., rivela, alla luce della citata responsabilità “231” prevista per l’azienda, una stretta interazione con i contenuti del modello di organizzazione e gestione di cui la stessa, in ottica preventiva, è chiamata a dotarsi. Ciò è ancora più vero oggi, per effetto delle ulteriori modifiche introdotte dalla legge n. 199/2016. Infatti, il comma 3 dell’articolo 603-bis c.p. propone una parziale riscrittura – nel senso di una semplificazione – dell’elenco degli “indici di sfruttamento”, ossia di quei fattori o circostanze che possono far ritenere sussistente la condizione di sfruttamento che rileva ai fini dell’integrazione del reato. È evidente come gli “indici” descritti dalla fattispecie possano, a propria volta, oltre a fungere da “sentinelle” in fase di vigilanza, costituire elementi da prendere in considerazione dal punto di vista organizzativo nell’ambito dei protocolli e delle procedure concernenti, principalmente:

  • il processo di ricerca, assunzione e inserimento del personale (già individuato come “a rischio” per altri reati-presupposto della “responsabilità 231”, da quelli di corruzione, a quelli di omicidio o lesioni con violazione delle norme prevenzionistiche concernenti la formazione e l’addestramento dei lavoratori e la sorveglianza sanitaria, a quelli relativi all’immigrazione clandestina e altri ancora);
  • il processo di gestione dei fornitori (la cui “sensibilità” sui temi legati al D.Lgs. n. 231/2001 è palese, poiché questo processo è potenzialmente coinvolto nei principali rischi-reato contemplati dal decreto e, pertanto, generalmente presidiato in tutte le organizzazioni). L’elenco degli “indici” in questione ricomprende, tra i fattori “sintomatici” di sfruttamento, rilevanti anche singolarmente:
  • il pagamento (reiterato) di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi;
  • il pagamento (reiterato) di retribuzioni il cui ammontare, in ogni caso, risulti non proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato;
  • le violazioni (reiterate) concernenti l’orario di lavoro, i riposi e le aspettative;
  • le violazioni delle norme sulla sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro degradante, anche con riferimento ai metodi di sorveglianza o alla natura delle situazioni alloggiative offerte. Particolare rilievo, nella prospettiva di redazione e aggiornamento del modello, assume proprio l’indice riferito al rispetto della normativa prevenzionistica (in particolare il D.Lgs. n. 81/2008, cosiddetto testo unico sicurezza sul lavoro), la cui nuova formulazione – a un prima lettura – rischia di addossare alle imprese un onere particolarmente gravoso, ulteriore e consequenziale rispetto al mantenimento di elevati standard sotto il profilo della sicurezza dei lavoratori. Si nota, da un lato, rispetto agli altri indici, come non compaia alcun riferimento alla reiterazione delle violazioni in questione (elemento, già di per sé, meno stringente rispetto al previgente requisito della “sistematicità”); di conseguenza, nel settore della sicurezza sul lavoro, anche un singolo episodio di mancato rispetto degli adempimenti del D.Lgs. n. 81/2008 potrebbe produrre pesanti ricadute sul datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 603-bis codice penale, e sulla società, ai sensi dell’articolo 25-quinquies, D.Lgs. n. 231/2001. Sotto diverso profilo, invece, rispetto alla previgente formulazione dell’articolo 603-bis, emerge un notevole “irrigidimento” della previsione normativa; se in precedenza, infatti, occorreva che la violazione della normativa antinfortunistica fosse «tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale», attualmente questo inciso risulta soppresso (rilevando ora l’esposizione del lavoratore a «grave pericolo» quale circostanza aggravante ai sensi del comma 4, n. 3), potendo ingenerare il timore di un indiscriminato ampiamento della penalizzazione, che prescinderebbe dalla valutazione della serietà e della gravità degli effetti che la violazione ha cagionato o avrebbe potuto cagionare al lavoratore. Ci sarebbe così il rischio che anche singole e puntuali violazioni delle discipline lavoristiche, prima fra tutti quella del D.Lgs. n. 81/2008 (ma anche le norme sui salari minimi o sugli orari di lavoro), possano comportare contestazioni di intermediazione illecita per l’imprenditore che si avvalga delle prestazioni lavorative e, “a cascata”, per la società, nel cui interesse la prestazione viene resa.

Simili preoccupazioni, peraltro, secondo alcuni sarebbero eccessive. In particolare, è stato segnalato da chi ha seguito l’iter del provvedimento[4] come il rischio paventato sia in realtà infondato, considerato che gli indici in esame non contribuisco a descrivere il reato, ma svolgono una semplice funzione di “orientamento” probatorio, esigendo, altresì, una ripetizione delle violazioni con esclusione di condotte episodiche. Pertanto, non si potrebbe ritenere sussistente lo sfruttamento per il solo fatto che sia stata violata una disposizione in materia di sicurezza o igiene sul lavoro, poiché, da una parte, il reato si configura come abituale e, dall’altro, in ogni caso, la condotta di caporalato è fattispecie più complessa delle singole violazioni[5], richiedendo anche l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore[6] ed esprimendo, così, un disvalore penale notevolmente superiore. È nondimeno indiscutibile l’ampia discrezionalità di giudizio attribuita al giudice penale e, dunque, la necessità di attendere, per poter collocare la fattispecie nella “giusta dimensione”, la prima giurisprudenza. In ogni caso, è consigliabile che le società aggiornino i propri modelli di organizzazione, gestione e controllo al nuovo reato, prendendo in considerazione, specialmente, oltre al proprio “ambiente di lavoro”, gli appalti aventi a oggetto i lavori e i servizi in cui sono il più delle volte impiegati lavoratori non altamente qualificati e specializzati e/o a basso “valore aggiunto”, in cui, dunque, è verosimile che possano trovare collocamento persone in stato di bisogno, disposte a tollerare, in considerazione delle proprie condizioni personali, trattamenti lavorativi discriminanti (ad esempio servizi logistici, di spedizione, di facchinaggio, di pulizia, di ristorazione, call center e similari, come pure i piccoli lavori edili). Ciò al fine di individuare gli opportuni accorgimenti e strumenti di verifica in fase di selezione, contrattualizzazione ed esecuzione, atti a impedire il coinvolgimento della società in eventuali problematiche concernenti il trattamento lavorativo dei dipendenti dell’appaltatore. Questa esigenza non è, peraltro, nuova, visto che le società committenti di questa tipologia di lavori e servizi hanno generalmente implementato misure e controlli per prevenire i rischi che, al riguardo, sono già stati apportati da norme fiscali e previdenziali (ad esempio l’articolo 29, D.Lgs. n. 276/2003) e prevenzionistiche (si pensi all’articolo 26, D.Lgs. n. 81/2008).

“COME SI FA”

Alla luce delle problematiche appena illustrate, emerge chiaramente l’importanza che i contenuti del modello di organizzazione e gestione assumeranno per l’impresa, nella prospettiva di prevenire la commissione del reato di intermediazione illecita ed, eventualmente, di ottenere il riconoscimento in sede processuale dell’esimente dell’articolo 6, D.Lgs. n. 231/2001. In particolare, risulterà essenziale per una società l’adozione di un modello (ovvero il suo aggiornamento) che prenda in considerazione, nelle parti dedicate alla prevenzione dei delitti contro la personalità individuale, la fattispecie dell’articolo 603-bis c.p., a seguito di una specifica attività di identificazione dei rischi che tenga conto non solo del trattamento del personale interno, ma anche dei lavori e servizi appaltati a terzi, specialmente laddove il fattore “prezzo” (che poi si traduce nell’interesse e nel vantaggio dell’impresa committente rispetto al reato, in termini ad esempio di “risparmio di spesa”) possa concretamente influire sulle condizioni lavorative del personale impiegato nell’attività. In questo contesto, il processo principalmente interessato da questa esigenza di adeguamento sarà, come detto, quello di gestione delle risorse umane e, in particolare, di selezione e assunzione del personale, con riferimento specifico alla definizione del rapporto di lavoro, alla gestione degli aspetti retributivi e all’organizzazione dei turni di lavoro, dei riposi settimanali e delle ferie.

Una maggiore attenzione dovrà essere poi prestata in tutte quelle realtà produttive caratterizzate dal ricorso allo strumento della somministrazione di lavoro, attraverso il quale il reclutamento di personale avviene per tramite di un soggetto terzo intermediario. Quanto al processo di approvvigionamento, occorrerà focalizzarsi sulla qualifica dei fornitori, in modo da assicurare il rispetto da parte di questi delle normative vigenti in materia di salute e sicurezza e in materia di diritto sindacale, nonché gli adempimenti a favore dei lavoratori prescritti dalle principali fonti di contrattazione collettiva. A questo proposito, oltre all’acquisizione del Durc a ogni scadenza per la verifica della regolarità contributiva, potrà essere utile monitorare, attraverso un’analisi della registrazione delle presenze (possibile soprattutto negli “appalti interni”, ossia quelli che si svolgono all’interno dello stabilimento del committente), il ricorso al lavoro straordinario e il rispetto delle ferie annuali nonché implementare “indicatori” e verifiche indirette attraverso, ad esempio, la richiesta in sede di contrattualizzazione del modello DM10 presentato dall’impresa appaltatrice all’Inps[7]. Simili strumenti di “controllo incrociato” hanno, tra l’altro, il pregio di evitare una eccessiva ingerenza del committente nell’attività dell’appaltatore, a tutela dell’autonomia di quest’ultimo, consentendo comunque una “visione d’insieme” del contesto lavorativo in cui l’attività appaltata viene svolta. Un’ulteriore area a “rischio-caporalato” – come già visto – sarà rappresentata dal processo relativo alla sicurezza sui luoghi di lavoro, che renderà necessaria un’implementazione delle misure concernenti la sicurezza dei lavoratori e la gestione e attuazione dei relativi adempimenti, i quali – si noti bene – assumono rilievo, nella prospettiva “231” anche indipendentemente dal verificarsi di eventi lesivi; pertanto, la politica d’impresa in materia di sicurezza richiederà una complessiva rivalutazione, anche in relazione a eventuali protocolli e procedure già adottate. Non sfugge, inoltre, la circostanza che, specialmente per quanto concerne gli aspetti legati alla sicurezza dei lavoratori, gli “appalti interni” (come i servizi di pulizia, di facchinaggio e magazzinaggio, di mensa, di riparazione bancali), pongano un problema significativo anche in termini di vigilanza. Sul tema, inoltre, deve essere segnalata una recentissima novità normativa; si tratta del decreto 11 gennaio 2017, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 28 gennaio, n. 23, con cui il Ministero dell’Ambiente ha aggiornato i «criteri ambientali minimi» (Cam) per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici, in precedenza disciplinati dal D.M. 24 dicembre 2015, nell’ambito del più ampio «Piano d´azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione», stilato secondo le indicazioni della Commissione europea[8]. Il provvedimento in esame individua le specifiche tecniche e le clausole contrattuali di cui all’articolo 34, D.Lgs. 50/2016 (“nuovo” codice degli appalti) che le stazioni appaltanti dovranno inserire nei documenti di gara concernenti l´affidamento di servizi di progettazione e lavori per la costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri, oltre che nella stesura dei documenti di gara, per l’applicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’allegato II al decreto disciplina anche le verifiche che le stazioni appaltanti devono eseguire tanto sotto il profilo dei sistemi di gestione ambientale (paragrafo 2.1.1), quanto del rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro (paragrafo 2.1.2.). In particolare, se in relazione ai sistemi di gestione ambientale è richiesta la registrazione Emas in corso di validità ovvero la certificazione Iso 14001, la verifica circa il rispetto dei diritti umani dei lavoratori implica una valutazione più complessa. Infatti, l’appaltatore, che deve «rispettare i principi di responsabilità sociale assumendo impegni relativi alla conformità a standard sociali minimi e al monitoraggio degli stessi», deve farsi carico dei seguenti oneri:

  • favorire il rispetto di standard sociali riconosciuti a livello internazionale e definiti da alcune convenzioni internazionali;
  • favorire attivamente l’applicazione della legislazione nazionale riguardante la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, il salario minimo vitale, l’adeguato orario di lavoro e la sicurezza sociale (previdenza e assistenza), vigente nei paesi ove si svolgono le fasi della lavorazione, anche nei vari livelli della propria catena di fornitura (fornitori, subfornitori).
  • avere efficacemente attuato modelli organizzativi e gestionali adeguati a prevenire condotte irresponsabili contro la personalità individuale e condotte di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro.
  • a questi fini, lo stesso appaltatore potrà innanzitutto allegare la conformità alla certificazione Sa 8000:2014 (o equivalente, quale la certificazione Bsci o Fsc) ovvero l’applicazione della linea guida adottata con D.M. 6 giugno 2012 «Guida per l’integrazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici». Quanto all’ultimo punto considerato, la normativa prevede che: «l’efficace attuazione di modelli organizzativi e gestionali adeguati a prevenire condotte irresponsabili contro la personalità individuale e condotte di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro si può dimostrare anche attraverso la delibera, da parte dell’organo di controllo, di adozione dei modelli organizzativi e gestionali ai sensi del d.lgs. 231/01», unitamente ad altri elementi quali:
  • «presenza della valutazione dei rischi in merito alle condotte di cui all´art. 25-quinquies del d.lgs. 231/01 e art. 603 bis del codice penale e legge 199/2016»;
  • «nomina di un organismo di vigilanza, di cui all’art. 6 del d.lgs. 231/01»;
  • «conservazione della sua relazione annuale, contenente paragrafi relativi ad audit e controlli in materia di prevenzione dei delitti contro la personalità individuale e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (o caporalato)». Ciò significa che l’impresa potrà ben assolvere l’onere probatorio richiesto in sede di verifica dalle stazioni appaltanti mediante la dimostrazione delle seguenti circostanze:
  • avvenuta adozione di un modello organizzativo aggiornato alla più recente fattispecie incriminatrice di caporalato;
  • effettivo svolgimento di un’attività di risk assessment in relazione ai reati-presupposto di cui all’articolo 25-quinquies, D.Lgs. n. 231/2001;
  • nomina dell´organismo di vigilanza (OdV);
  • relazione annuale dell’OdV;
  • comprovata attività di audit nel settore così individuato.

Si noti, fra l’altro, come il rispetto delle condizioni lavorative assuma peculiare rilievo anche nell’ambito della disciplina delle clausole contrattuali e, nel dettaglio, della cosiddetta clausola sociale (paragrafo 2.7.2.) secondo cui «i lavoratori dovranno essere inquadrati con contratti che rispettino almeno le condizioni di lavoro e il salario minimo dell’ultimo contratto collettivo nazionale CCNL sottoscritto».

La conformità a questo requisito potrà essere positivamente provata dall’impresa appaltatrice, in sede di verifica, presentando, in aggiunta, la relazione dell’OdV, «laddove tale relazione contenga alternativamente i risultati degli audit sulle procedure aziendali in materia di ambiente-smaltimento dei rifiuti; salute e sicurezza sul lavoro; whistleblowing; codice etico; applicazione dello standard ISO 26000 in connessione alla PDR UNI 18:2016 o delle linee guida OCSE sulle condotte di impresa responsabile».

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