Il Rspp tra posizione di vertice e responsabilità

Il punto del giurista alla luce della legislazione e delle pronunce dei giudici

Domanda: in un’azienda di dimensione medio-grandi, il possesso della qualifica di dirigente prevenzionistico è la migliore soluzione per la nomina a titolare del Spp? E nel caso poi il datore di lavoro intendesse conferire a questa figura una delega di funzioni, si tratterebbe di una scelta condivisibile e anche consigliabile?

 

In base a quanto dispone l’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delle piccole e medie aziende, elencate nell’allegato II al decreto, può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché quelli di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La possibilità che il datore di lavoro accentri su di sé le funzioni direttive, decisionali e di programmazione della sicurezza, è opzione legislativamente consentita principalmente in ragione dell’entità dimensionale dell’azienda (sotto il profilo della forza lavoro occupata) e sempre che non sussistano fattori di rischio professionale elevati (si tratta dei casi elencati all’art. 31, comma 6 del D.Lgs. n. 81/2008: imprese soggette a rischio di rilevante incidente industriale o rientranti nelle seguenti categorie: centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari, aziende industriali con oltre 200 lavoratori, aziende estrattive con oltre 50 lavoratori, aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, strutture di ricovero e cura sia pubbliche sia private con oltre 50 lavoratori). Con riguardo alle realtà aziendali di grandi dimensioni o a rischio elevato, il D.Lgs. n. 81/2008 impone senza eccezioni che le due aree funzionali di datore di lavoro e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione siano ricoperte da soggetti diversi – dunque siano e si mantengano distinte – nonché l’obbligo che il Rspp sia un soggetto interno all’organizzazione aziendale.

La distinzione soggettiva tra il datore di lavoro e Rspp è funzionale al modello di impresa compartecipativa, collaborativa e sinergica che è diretta derivazione dallo standard comunitario della direttiva quadro 89/391/Cee, e che assegna ruoli specifici a soggetti diversi, in base al presupposto che dalla loro interazione e confronto derivi e si esprima un valore aggiunto in termini di sicurezza e di salute: un risultato finale, di sintesi superiore alla somma di quelli derivanti dall’azione isolata di ciascuno.

È in questo sistema integrato della sicurezza, rivolto alla valorizzazione nell’ambiente di lavoro delle competenze professionali di ciascuno, quale che ne sia il livello funzionale, che permane nondimeno l’esigenza di mantenere ferma la distinzione tra il momento decisionale, proprio del datore di lavoro, e il momento collaborativo e partecipativo – ma di supporto – svolto dal servizio di prevenzione e protezione.Nei casi in cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non può identificarsi con il datore di lavoro, si pone quindi la problematica di individuare la o le qualifiche funzionali compatibili con la designazione a Rspp. Ovviamente la questione assume rilievo solo con riguardo al caso della designazione interna del Rspp (ipotesi contemplata dal combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008), giacché, nel caso di designazione di persona esterna all’organizzazione aziendale, con incarico professionale di lavoro autonomo, non assume rilievo il possesso della qualifica funzionale.

Ciò detto, una prima considerazione è che mentre il servizio di prevenzione e protezione può essere una persona giuridica – sempre che organizzato esternamente all’azienda – (la direttiva 89/391/Cee parla di “servizi esterni”), l’incarico di Rspp può essere conferito solo e necessariamente a una persona fisica. Ciò si ricava inequivocabilmente dalla definizione del’art. 2, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008 («responsabile del servizio di prevenzione e protezione: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi»).

La seconda considerazione è che sussiste una incompatibilità assoluta tra la qualifica di Rspp e quella di lavoratore subordinato (o assimilabile) oggetto della tutela prevenzionistica ai sensi della ampia definizione che ne dà l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Questa incompatibilità – non scritta expressis verbis nelle norme – è ricavabile con certezza dal sistema. Il lavoratore infatti, in quanto primo beneficiario dell’azione di prevenzione e di protezione dai rischi professionali, non può assumersene l’onere in prima persona, così cumulando inaccettabilmente, oltre i limiti indicati dall’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, il duplice profilo di soggetto attivo e passivo della tutela. Inoltre, dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione si pone da un lato in rapporto di collaborazione con il datore di lavoro, e dall’altro lato in rapporto dialettico con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non si può disconoscere che egli abbia la titolarità di interessi diversi e spesso divergenti – seppur auspicatamente componibili – da quelli propri della categoria dei lavoratori subordinati. Ammettere che a svolgere la funzione di Rspp possa essere chiamato un lavoratore (dipendente), significa togliere identità a entrambe le figure, tanto più nei momenti di incontro istituzionale – qual è, ad esempio, quello della riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008 (alla quale i lavoratori partecipano non uti singuli, bensì a mezzo del loro Rls). Per altro verso non può non considerarsi che il compito prevalente del Rspp è quello di collaborare con il datore di lavoro all’attività di valutazione dei rischi e di redazione del correlato documento di valutazione (Dvr); cosa che non attiene in alcun modo allo statuto funzionale del prestatore di lavoro subordinato, a meno di stravolgerne la fisionomia. Per di più, se a responsabile del servizio di prevenzione e protezione potesse essere designato un lavoratore, a questi sarebbe paradossalmente consentito lo svolgimento di un’azione collaborativa con il datore di lavoro che invece è inibita al rappresentante (dei lavoratori) per la sicurezza, prevedendo infatti il testo unico che il Rls, in ambito di valutazione dei rischi, svolga un apporto di tipo meramente consultivo. Quanto all’ipotesi che quale Rspp possa essere designato un preposto, è decisiva la considerazione che, in base alle consolidate acquisizioni dottrinarie e giurisprudenziali, non spetta al preposto adottare le misure di prevenzione e di protezione stabilite dalla normativa di prevenzione degli infortuni e di igiene del lavoro, essendo suo compito quello (consequenziale) di esercitare la doverosa vigilanza affinché le misure predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti, ricevano concreta ed esatta attuazione (cosiddetta vigilanza oggettiva), nonché di verificare la specifica osservanza, da parte dei lavoratori, delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione (cosiddetta vigilanza soggettiva). Dal momento che questo sistema, correntemente definito del “doppio binario” di responsabilità, delinea due differenti livelli di responsabilità tendenzialmente alternativi tra loro (datore di lavoro e dirigenti da un lato, preposti dall’altro), ne consegue la sostanziale inconciliabilità del coinvolgimento della figura del preposto in attività – quelle proprie del Rspp – che sono di prevalente collaborazione con il datore di lavoro, per di più finalizzate anche all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, il quale deve tra l’altro obbligatoriamente contenere (art. 28, comma 2, lettere b) e c)) «l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione» e “il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza». Dal momento che gli obblighi di sicurezza e di salute non gravano direttamente sulla figura del preposto, ne consegue che, pur in assenza di un divieto normativamente codificato o ricavabile dai principi, sussistono evidenti ragioni di opportunità che suggeriscono – senza imporlo – di mantenere la figura del preposto nella sfera esclusiva (o quanto meno preminente) della vigilanza sul luogo di lavoro che funzionalmente gli compete.

Dunque, l’ipotesi più conforme ai principi è che a responsabile del servizio di prevenzione e protezione interno sia designato un profilo professionale più consono e funzionale, tanto sul piano decisionale, che su quello di autonomia delle funzioni e di competenza professionale, ai compiti del Rspp come definiti dalla legge. Non è necessario che si tratti di un dirigente giuslavoristico, ma è sconsigliabile che venga designato un preposto prevenzionistico.

Ciò chiarito, resta ora da a rontare il secondo spunto di riflessione, inerente alla possibilità di conferire validamente al Rspp (chiunque esso sia, finanche un soggetto esterno all’organizzazione aziendale) una delega di funzioni di ambito prevenzionistico, precisandone, in caso affermativo, i contenuti e l’estensione. Sotto questo profilo la tematica ha indubbiamente una soluzione positiva, salvo delinearne meglio i contorni. Infatti, la semplice nomina a Rspp non comporta di per se stessa alcuna diretta assunzione di responsabilità di ambito contravvenzionale, giacché questa figura assume funzioni meramente collaborative e tecnico-valutative rispetto alle prerogative del datore di lavoro, il quale rimane così unico titolare del potere decisionale e di spesa (sul tema, ex multis, da ultimo Cass. pen. sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321). Dal momento che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non rientra, per consapevole scelta legislativa, tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, il suo agire non è dunque direttamente rapportabile a condotte contravvenzionali penalmente sanzionate. Dal che deriva che l’utilizzazione della competenza professionale del Rspp da parte del datore di lavoro, assumendo la forma del cosiddetto “avvalimento funzionale”, determina l’assoluta estraneità, dal profilo funzionale del primo, del fattore di condivisione -e a maggior ragione di assunzione – del profilo di responsabilità contravvenzionale del secondo. Il che non vuol dire che il Rspp non possa essere chiamato a rispondere -in caso di condotta colposa – in termini civilistici (contrattuali nei confronti del datore di lavoro, extracontrattuali nei confronti dei terzi danneggiati). Del pari, in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale di un lavoratore, è ipotizzabile una responsabilità penale per colpa del Rspp, ai sensi degli artt. 589 o 590 del codice penale (come la giurisprudenza ha da tempo chiarito: tra le tante Cass. pen. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 27006; Cass. pen. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11492; Cass. pen. sez. IV, 23 novembre 2012, n. 49821; Cass. pen. sez. IV, 20 aprile 2011, n. 28779; Cass. pen. sez. IV, 21 dicembre 2010, n. 2814. Da ultimo, si segnalano le pronunce di Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 2406; Cass. pen. Sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 3313; Cass. pen. Sez. IV, 20 febbraio 2017, n. 8115; Cass. pen. Sez. IV, 19 maggio 2017, n. 24958; Cass. pen. Sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 4941; Cass. pen. Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 34311), quand’anche la sua condotta colposa non sia sanzionata e sanzionabile sul piano contravvenzionale.

Ciò che manca è peraltro, come si è già detto, una responsabilità di tipo contravvenzionale. All’opposto, con il conferimento della delega di funzioni, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione non limita la propria azione allo svolgimento di compiti propositivi e programmatici, bensì diventa titolare di poteri di autonomia decisionale e operativa. Egli è perciò investito iure proprio (sia pure a titolo derivato) di quella quota di responsabilità contravvenzionale corrispondente ai contenuti e all’estensione delle funzioni delegate.

Il conferimento della delega muta, per così dire, l’obbligazione del Rspp da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato, costituendo in capo al medesimo una posizione di garanzia dell’attuazione degli obblighi e degli adempimenti stabiliti dalla normativa prevenzionale e di igiene del lavoro. In tal modo, attraverso lo strumento della delega, l’azione del Rspp – non in quanto tale, bensì nei limiti in cui essa sia espressione delle funzioni delegate – diviene fonte autonoma di responsabilità anche contravvenzionale.

La notazione finale sul tema è che il D.Lgs. n. 81/2008 non contiene l’esplicito divieto a che il Rspp sia dotato di poteri decisionali e di spesa (anche se a tal fine occorre – quanto meno nei casi in cui il Rspp non sia (già) un dirigente aziendale – il conferimento di un atto di delega effifcace).

Deve però essere ulteriormente precisato che il Rspp, quand’anche munito di delega, non può mai sostituirsi al datore di lavoro per quanto riguarda gli adempimenti che dal decreto sono definiti come non delegabili secondo la previsione dell’art. 17 del testo unico. Neppure al Rspp può essere conferita una delega così ampia da farne ritenere il profilo funzionale – ipotesi che può verificarsi solo nelle imprese di grandi dimensioni – assimilabile alla figura del cosiddetto “datore di lavoro delegato” (nozione questa estrapolabile dalla locuzione «o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» contenuta nella definizione di datore di lavoro dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008). Ciò urterebbe infatti contro il divieto di cumulo funzionale ricavabile sul piano interpretativo (uso dell’argomento a contrario) dall’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale, per le imprese di cui all’allegato II al decreto, postula la necessaria distinzione sia funzionale che soggettiva tra datore di lavoro e Rspp.

Neppure, infine, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere delegato a rappresentare il datore di lavoro nella riunione periodica di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 81/2008, potendo bensì il datore di lavoro farsi rappresentare in questa sede, ma da persona comunque diversa da quelli che sono i partecipanti necessari alla riunione. E siccome sia il datore di lavoro sia il Rspp sono figure a partecipazione necessaria, la loro presenza fisica deve essere distintamente incarnata, per poter compiutamente garantire l’esprimersi di quel confronto dialettico cui la riunione periodica è funzionale.

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Documenti della privacy maneggiare con cura

Con il Gdpr è necessario porre al tema particolare attenzione

Soltanto atti burocratici? Niente di più sbagliato. L’applicazione del regolamento generale europeo, al contrario, ha l’obiettivo di spingere le aziende verso una maggiore consapevolezza e una più e efficace
cultura della protezione dei dati. Alcune pratiche indicazioni possono aiutare a muoversi con sicurezza nei nuovi adempimenti richiesti dalla legislazione

 

L’applicazione del regolamento generale europeo 679/2018 (Gdpr) non può essere a rontata come un compito burocratico da assolvere spendendo il meno possibile. Sarebbe un grave errore, non solo per via delle elevate sanzioni amministrative collegate al mancato rispetto delle regole, ma anche perché uno degli obiettivi più
ambiziosi del regolamento è promuovere una nuova cultura della protezione dei dati personali nelle aziende e fra i cittadini europei.
Non è un caso che uno dei pilastri più importanti del Gdpr sia la responsabilizzazione di chi svolge attività di trattamento dei dati personali; le aziende hanno la piena responsabilità delle scelte compiute in merito ai trattamenti dei dati personali e rispondono di quello che fanno (o che non fanno). Le scelte sono libere e completamente autonome, nel rispetto delle indicazioni fornite dalla normativa.
È previsto che ogni scelta e ogni decisione tenga conto dello specifico contesto in cui opera l’azienda e sia “documentata” – il che significa che deve essere messa nero su bianco e archiviata opportunamente – per essere esibita in caso di verifiche o controlli.
È necessario, quindi, che le aziende considerino la protezione dei dati personali un tema che non può rimanere confinato sul tavolo del consulente legale o sulla scrivania dell’ufficio dell’information technology ma che richiede, per essere affrontato, la sinergia e la collaborazione di tutte le componenti aziendali.
Piuttosto complicato, quindi, pensare che soluzioni standard possano soddisfare adeguatamente i requisiti normativi e possano essere la base di un efficace sistema di protezione dei dati personali.

Passiamo adesso all’esame dei documenti, distinguendo tra quelli destinati agli interessati – quindi agli individui di cui si stanno trattando i dati – e quelli che l’azienda deve produrre internamente per poter documentare di aver agito responsabilmente.
Parleremo inoltre brevemente dei documenti non “obbligatori” ma, per così dire, “consigliati” per una corretta gestione del sistema di protezione dei dati personali.

I passi obbligatori
Il rispetto del principio di trasparenza passa per una comunicazione corretta e veritiera.
I dati personali non passano di proprietà perché appartengono alla persona che identificano; è bene che le aziende lo ricordino sempre e siano consapevoli del fatto che gli individui hanno la libertà di decidere in merito al loro utilizzo da parte di terzi.
È un diritto degli interessati ricevere dal titolare informazioni chiare, trasparenti, dettagliate e comprensibili in merito alle operazioni di trattamento relative ai loro dati personali. È un obbligo preciso del titolare e non rispettarlo significa incorrere in sanzioni potenzialmente pesantissime. Inoltre, nei casi in cui il trattamento è basato sul loro consenso, gli interessati hanno sempre il diritto di esprimerlo in maniera libera, consapevole, specifica e informata.
I documenti obbligatori verso gli interessati- escludendo da questi le comunicazioni dovute in caso di violazioni di dati personali che presentino un rischio elevato per i loro diritti e libertà – sono sostanzialmente due:
• l’informativa;
• il modulo per la raccolta del consenso.
È necessario acquisire il consenso per ogni tipo di trattamento che non sia:
• funzionale all’esecuzione di un contratto o di un pre-contratto di cui l’interessato è parte;
• necessario per la salvaguardia di interessi vitali dell’interessato;
• rispondente al e ettuato per adempiere a un compito di pubblico interesse o in connessione all’esercizio di pubblici poteri;
• necessario per perseguire la necessità di adempiere a un preciso obbligo legale in capo al titolare del trattamento;
• il legittimo interesse del titolare.
In nessun caso il consenso può essere implicito o tacito; per questo motivo, il titolare del trattamento deve sempre poter dimostrare che l’interessato abbia e effettivamente prestato il proprio consenso al trattamento che sta e effettuando e deve quindi conservarne l’evidenza.
È essenziale, perciò, che il titolare del trattamento si organizzi (con un archivio elettronico o cartaceo specificamente predisposto o mediante la modifica degli applicativi esistenti) per la registrazione delle scelte e effettuate dagli interessati; e poiché, per sua natura, il consenso può essere sempre revocato, gli strumenti di cui si dota devono permettergli di tenere traccia di eventuali ripensamenti degli interessati e di ogni variazione intercorsa durante il rapporto con loro.

Il registro dei trattamenti
Come recentemente indicato dall’autorità Garante nelle Faq dell’8 ottobre 2018, la compilazione del registro dei trattamenti è obbligatoria anche per liberi professionisti ed esercizi commerciali, pubblici o artigianali con almeno un dipendente (bar, ristoranti, officine, negozi, piccola distribuzione ecc.) e/o che trattino dati sanitari dei clienti (ad esempio parrucchieri, estetisti, odontotecnici, tatuatori, commercialisti, avvocati, notai, farmacisti, medici, osteopati, fisioterapisti): molte piccole aziende dovranno quindi redigere un proprio registro dei trattamenti, anche se potranno farlo in forma semplificata (limitandosi alla descrizione delle sole specifiche attività di trattamento sopra menzionate).
Il registro dei trattamenti è un documento che descrive gli elementi essenziali dei trattamenti e effettuati dal titolare e/o dal responsabile e che deve essere mantenuto nel tempo, recependo eventuali variazioni di trattamenti e processi che dovessero intercorrere.
Esempi di registro del titolare del trattamento e del responsabile del trattamento sono stati mostrati nell’articolo dal titolo «Privacy e safety la parola agli esperti» di Silvana Bresciani e Sabastiano Plutino.
Il registro del titolare è più ricco di dettagli rispetto a quello del responsabile, ma la gran parte delle informazioni da annotare sono desumibili dal contenuto dell’informativa messa a disposizione degli interessati: se l’informativa è ben costruita e pensata – quindi se il titolare del trattamento o il consulente che lo ha supportato hanno condotto una buona fase di analisi – la redazione di questo documento è abbastanza veloce.
I responsabili del trattamento, invece, devono prestare particolare attenzione alle operazioni di trattamento svolte per conto terzi; le aziende che curano il servizio di prevenzione e prevenzione o che svolgono servizi di medicina del lavoro dovranno redigerlo includendo in esso tutti i trattamenti svolti per i propri clienti. Il registro deve essere redatto in forma scritta – cartacea o elettronica – e deve essere tenuto a disposizione per eventuali verifiche. È molto probabile che sarà il primo documento a essere visionato in caso di ispezioni dell’autorità Garante, perché è quello che, più di tutti, offre la possibilità di comprendere velocemente quali siano le caratteristiche essenziali delle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.

Strumenti di gestione
Quali sono gli altri documenti di cui è necessario dotarsi? Dalla lettura attenta della normativa si evince che il titolare del trattamento non può fare a meno di predisporre alcuni documenti essenziali per dimostrare di aver ottemperato al principio di responsabilizzazione e di aver rispettato i principi applicabili a ogni trattamento di
dati personali, così come imposto dal Gdpr.

Individuare e gestire i rischi
Individuare e gestire i rischi connessi al trattamento dei dati personali è uno degli obblighi principali del titolare del trattamento; anzi, nessuna operazione di trattamento può essere e effettuata senza una
preventiva e documentata analisi dei rischi. Documentata, appunto. Se i rischi sono stati valutati – e devono esserlo – sono state anche individuate soluzioni per mitigarli o eliminarli; di tutto questo occorre lasciare traccia. Allo stesso modo, devono essere tracciati gli esiti dei successivi controlli che devono essere programmati per la verifica periodica delle attività di trattamento o per il miglioramento delle misure di sicurezza tecniche e organizzative implementate.
Per soddisfare questo requisito normativo, è sufficiente applicare i comuni strumenti di valutazione e gestione del rischio alle operazioni di trattamento svolte dall’azienda.
In ogni caso, è bene che l’azienda documenti tutte le analisi e effettuate e tutte le azioni implementate per migliorare la sicurezza del trattamento.

Gestire le violazioni
Un altro obbligo stringente che il Gdpr pone sulle spalle del titolare è la comunicazione al Garante, e in alcuni casi particolari anche agli interessati, delle violazioni di dati personali accertate all’interno del proprio perimetro di trattamento; questo include anche le aree affidate a terzi, per esempio in outsourcing.
La stampa specializzata ci informa che le violazioni di dati sono in preoccupante aumento e gli analisti prevedono che gli attacchi ai sistemi informativi delle aziende continueranno a crescere. Escludendo gli eventi di violazione legati ad azioni mirate, una buona parte di esse è causata da negligenze, disattenzioni o dalla mancata o ritardata adozione di misure di protezione, anche delle più elementari.
In ogni caso, il Gdpr impone che la comunicazione di una violazione, corredata da una serie di informazioni obbligatorie, sia inoltrata all’Autorità entro 72 ore dal suo accertamento. Se il titolare non ha predisposto una procedura per la gestione di questi eventi, non è semplice raccogliere le informazioni per strutturare coerentemente la comunicazione nei tempi previsti.
Per questo motivo, è necessario che il titolare del trattamento predisponga una procedura per governare gli eventi di violazione e che la porti a conoscenza di tutte le componenti aziendali.
Nella malaugurata ipotesi che si verifichi, per qualunque motivo, una perdita o una sottrazione di dati, l’intera organizzazione deve sapere come comportarsi e come cooperare con le strutture aziendali incaricate di gestire l’evento.
La procedura per la gestione delle violazioni, la cui complessità o semplicità dipende dal modo di funzionare dell’impresa, deve illustrare in modo chiaro compiti e responsabilità delle risorse aziendali coinvolte nella corretta gestione di questo delicato momento e deve, quindi, diventare patrimonio condiviso.

Rispondere agli interessati
Il titolare del trattamento deve inoltre organizzarsi al meglio per rispondere alle eventuali richieste che gli interessati possono sottoporgli in riferimento all’esercizio dei diritti loro riconosciuti dalla normativa.
I beni (i dati personali), i diritti inalienabili – cioè dei singoli individui – sono “al centro” del Gdpr e tutti coloro che svolgono operazioni di trattamento di dati personali devono tenerlo ben presente.
Quando gli interessati chiedono, il titolare deve rispondere, al massimo entro un mese.
«Stai trattando mie informazioni personali? Quali dati relativi alla mia persona sono in tuo possesso? Perché li hai e per cosa li Se si è lavorato correttamente per prepararsi alla scadenza del 25 maggio 2018, data di applicabilità del Gdpr, sarà stata fatta un’analisi della situazione corrente e sarà stata colta l’opportunità di mettere ordine ed eliminare le informazioni vecchie e non più utilizzabili; sarà stata fatta anche una mappatura di processi e applicazioni per comprendere dove e come sono conservati i dati (incluse eventuali copie di sicurezza. In ogni caso, qualunque richiesta degli interessati comporta oneri per il titolare del trattamento che deve, lo ricordiamo, riscontrare la richiesta in modo tempestivo dopo essersi accertato dell’identità del richiedente; e per essere sicuri di intercettare tutte le richieste e di evaderle nella maniera corretta con il minor impiego possibile di risorse (persone e mezzi) è bene che i titolari del trattamento implementino una procedura che permetta loro di governare efficacemente i rapporti con gli interessati. risorsa alla quale è affidata la responsabilità di rispondere; chi ha ricevuto l’incarico di svolgere questo compito all’interno dell’azienda deve conoscere le possibili implicazioni, anche tecniche e legali, di simili richieste e può essere agevolato dalla disponibilità di modelli di risposta adatti alla maggior parte delle casistiche che potranno presentarglisi.
La procedura per la gestione delle richieste degli interessati è, quindi, un documento utilissimo per consentire all’organizzazione di rispondere alle richieste in modo efficiente e di dimostrare il rispetto del Gdpr.
Non disporne significa non aver compreso quanta attenzione sia dovuta agli interessati e soprattutto quanto l’adozione di misure organizzative efficaci renda più agevole la conformità alla legislazione vigente.
Tutte le componenti aziendali, anche in questo frangente, devono essere informate sul comportamento da tenere e sulle modalità di collaborazione con la funzione/ usi?». Le aziende potrebbero sentirsi porre questa domanda sempre più spesso, e rispondere potrebbe non essere così semplice o immediato. Molte sono le aziende che hanno le idee “confuse” sulla quantità di dati in loro possesso o sul luogo di memorizzazione; se pensiamo alla quantità di carta spesso conservata per anni in armadi che nessuno più apre, ci rendiamo conto della portata di una simile richiesta (sì, anche conservare documenti cartacei che contengono dati personali è un’attività di trattamento.)

In che modo occorre procedere con i documenti obbligatori
Va sottolineato che la vita delle aziende non è “immobile”, anzi è soggetta a continui mutamenti, che possono essere dettati a novità normative, da esigenze di business o cambiamenti del mercato, da modifiche dei processi. Tutti questi mutamenti possono comportare – e spesso comportano – la necessità di apportare modifiche ai documenti di cui s’è parlato. Si tratta, quindi, di documentazione “viva”, che richiede verifiche periodiche e, quando necessario, aggiornamenti.
La “storia” dev’essere conservata, per documentare la correttezza delle azioni del titolare del trattamento in presenza di determinate condizioni e in un determinato momento della vita dell’azienda; le vecchie versioni dei documenti destinati agli interessati, del registro dei trattamenti e/o delle procedure interne devono essere mantenute con indicazione del periodo di validità. Il titolare del trattamento fa dunque in modo che gli interessati abbiano sempre a disposizione la versione più recente dell’informativa; nei riguardi dei dipendenti, li rende consapevoli delle modifiche apportate alle le procedure in vigore e della necessità di fare riferimento ai documenti aggiornati.
Per quanto riguarda il registro dei trattamenti, potrebbe essere direttamente il Garante a chiedere che le siano mostrate le precedenti versioni del documento. È quindi necessario gestire i documenti della privacy e le aziende devono organizzarsi per farlo in modo efficiente. Le decisioni in merito al “come” fare sono lasciate al titolare del trattamento, ma è fondamentale che questo si organizzi per la conservazione delle evidenze che gli consentiranno di dimostrare di aver agito nel rispetto della normativa.

Altri adempimenti
Un’azienda con un buon livello di sensibilità rispetto al tema della protezione dei dati personali può decidere di predisporre altra documentazione per facilitare la corretta applicazione del Gdpr.
È quindi evidente che ci sono ancora molte cose che un’azienda può fare per diffondere la cultura della protezione dei dati personali e aumentare la consapevolezza dei propri addetti al trattamento. Le misure “organizzative”, insieme a quelle tecniche, rientrano nell’insieme più ampio delle misure di sicurezza che i soggetti che svolgono attività di trattamento di dati personali sono tenuti a implementare; tra le misure organizzative è possibile includere sia le istruzioni che il titolare del trattamento impartisce ai propri collaboratori per aiutarli a svolgere correttamente le proprie mansioni sia gli impegni che il titolare del trattamento assume nei confronti dei propri interessati. Predisporre un documento di politica che illustra alle parti interessate gli impegni che l’azienda assume in riferimento alla protezione dei dati personali a lei affidati; redigere un regolamento interno che indica con chiarezza quali sono i doveri e i comportamenti richiesti ai dipendenti quando svolgono trattamenti di dati personali; programmare periodicamente, anche su base annuale, un seminario per dipendenti allo scopo di “rinfrescare” le istruzioni chiave e accertarsi che siano ben comprese: si tratta di ulteriori opzioni che il titolare del trattamento ha a disposizione per contribuire al salto culturale di cui si è parlato all’inizio di questo intervento. C’è ampia libertà, insomma, e ampio spazio per la fantasia.
Ancora una volta è importante ribadire che tutti questi documenti sono soggetti allo stesso tipo di gestione dei documenti che abbiamo definito obbligatori. Tutto quello che l’azienda fa in questo ambito deve essere documentato e mantenuto aggiornato.

La formazione
Un’ultima importante notazione: il titolare e il responsabile del trattamento hanno l’obbligo di formaretutti coloro che trattano dati sotto la loro autorità.
La formazione può avvenire mediante documenti, seminari, corsi in aula o strumenti per la formazione a distanza; la decisione è libera e ciascuno sceglierà il mezzo che meglio soddisfa le proprie esigenze. L’evidenza di aver formato dipendenti e collaboratori deve però essere conservataper dimostrare di aver ottemperato agli obblighi normativi.

 

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Privacy: le novità per salute e sicurezza

Le principali Faq dell’Autorità chiariscono alcuni aspetti fondamentali del tema

Il D.Lgs. n. 101/2018 allinea il codice italiano al regolamento (Ue) n. 2016/679, ma non sospende le attività ispettive del Garante. Tra le direttrici fondamentali che sono state inserite nell’articolato nel provvedimento, troviamo il controllo a distanza e il divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

L’entrata in vigore, il 25 maggio 2018, del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, ha portato a una nuova rivoluzione in materia di protezione dei dati personali; non
ci sono settori economici, infatti, che possano ritenersi esenti da questo nuovo regime della privacy che, per altro, ha pesanti riflessi anche sulla gestione dei processi di salute e di sicurezza sul lavoro, come
del resto emerge anche scorrendo il documento “storico” del Garante del 31 marzo 2008, in cui mise una serie di paletti all’allora nascente D.Lgs. n. 81/2008, soprattutto in ordine alla tenuta della documentazione e alla gestione dei dati sanitari. Il regolamento (Ue) n. 2016/679 (cosiddetto “Rgpd”) ha posto, tuttavia, anche il problema per il legislatore italiano di armonizzare la disciplina interna con questo importante provvedimento che, com’è noto, non richiede ulteriori provvedimenti recettivi da parte dei singoli Stati membri.
La risposta non è stata immediata, come ci si attendeva, ma, sia pure con ritardo, è arrivata con il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016» (in Gazzetta Ufficiale 4 settembre 2108, n. 205), con il quale si è completata la prima fase del delicato processo di adeguamento della disciplina italiana a quella europea contenuta nel regolamento (Ue) 2016/679, che, per altro, prevede anche un pesante apparato sanzionatorio. Al tempo stesso, come si vedrà, l’Autorità garante per la privacy ha anche dettato, in data 8 ottobre 2018, istruzioni operative sul registro dei trattamenti che fanno seguito a quelle del 1° ottobre sulla definizione delle liti pendenti, che forniscono importanti indicazioni per gli operatori. Favorita la linea della continuità Il provvedimento, in vigore dal 19 settembre 2018, armonizza, quindi, le disposizioni contenute nel «Codice in materia di protezione dei dati personali» (D.Lgs. n. 196/2003), con quelle introdotte dal citato regolamento europeo n. 2016/679, abrogando anche numerose disposizioni in esso contenute. Un primo profilo da mettere subito in risalto è che con il D.Lgs. n. 101/2018, il legislatore italiano ha operato una precisa scelta di fondo: al fine di assicurare un’indispensabile continuità tra la nuova e la previgente disciplina ha introdotto un periodo transitorio in cui sono fatti salvi i provvedimenti del Garante e le autorizzazioni che saranno oggetto di un successivo riesame. L’art. 21, comma 1, infatti, stabilisce che sarà il Garante ad adottare un apposito provvedimento generale, da porre in consultazione pubblica entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, che stabilirà le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni generali già adottate, relative alle situazioni di trattamento di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettere c) ed e), 9, paragrafo 2, lettera b) e 4, nonché al capo IX del regolamento (Ue) 2016/679, che risultano compatibili con le disposizioni del medesimo regolamento e del D.Lgs. n. 101/2018 e, ove occorra, provvederà al loro aggiornamento.
Le autorizzazioni generali sottoposte a verifica ritenute incompatibili con le disposizioni del regolamento (Ue) n. 2016/679, cesseranno di produrre i loro effetti dal momento della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del citato provvedimento generale; il comma 3 stabilisce, inoltre, che le autorizzazioni generali adottate dal Garante prima della data di entrata in vigore del decreto – quindi come già accennato il 19 settembre 2018 – relative a trattamenti diversi da quelli indicati al comma 1 cessano di produrre effetti alla predetta data. Peraltro, occorre osservare che lo stesso Garante con provvedimento generale 19 luglio 2018, n. 424, già aveva preannunciato che, nelle more del perfezionamento dell’iter legislativo di adeguamento del quadro normativo nazionale, sarebbero restate in vigore, sia pure temporaneamente, le autorizzazioni generali adottate in data 15 dicembre 2016, tra le quali le più significative riguardanti la salute e la sicurezza sul lavoro sono:
• la n. 1/2016, in materia di rapporto di lavoro;

• la n. 2/2016, in materia di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale;

• la n. 4/2016 per i professionisti.

Molto significativa è, inoltre, anche la funzione promozionale attribuita al Garante che avrà, così, il delicato compito di emanare le regole deontologiche concernenti il trattamento dei dati personali in alcuni settori (giornalismo, lavoro, statistica e ricerca scientifica) coinvolgendo i soggetti interessati.

Controllo a distanza e divieto d’indagine sulle opinioni dei lavoratori

Un’altra direttrice strategica fondamentale, seguita in materia di lavoro, la si rinviene nell’art. 15, D.Lgs. n. 101/2018, che ha novellato l’art. 171, D.Lgs. n. 193/2006, riguardante le violazioni delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori, stabilendo che, in caso di violazione delle norme contenute negli articoli 4, comma 1, e 8, legge n. 300/1970 (cosiddetto “Statuto dei lavoratori”) si applica il regime sanzionatorio già previsto dell’art. 38 della stessa legge.
Non si tratta, in effetti, di un’innovazione assoluta, ma la strada seguita dal legislatore anche in questo caso è quella di un più efficace coordinamento sistematico delle nuove disposizioni con quelle poste a tutela della libertà e della dignità del lavoratore della legge n. 300/1970; è necessario ricordare, in particolare, che l’art. 4, comma 1, stabilisce il divieto generale in base al quale gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (ad esempio personal computer fissi e portatili, tablet, telefoni cellulari eccetera) possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) o dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) o, in mancanza, previa autorizzazione rilasciata dalla competenze sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
L’art. 8, legge n. 300/1970, invece, fa espresso divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore; si tratta, invero, di una disposizione molto importante e per altro bisogna ricordare anche dibattuta in tema d’indagini sul personale finalizzate alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato.
In caso di violazione, pertanto, di queste disposizioni secondo quanto confermato dal novellato art.171, D.Lgs. n. 193/2006, il trasgressore sarà passibile delle sanzioni previste dall’art. 38, legge n. 300/1970, quindi, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, l’ammenda da euro 154,94 a euro 1.549,37 o l’arresto da 15 giorni a un anno.

Controlli: nessuna sospensione all’orizzonte
Un altro profilo di notevole rilievo è la disciplina sui controlli; il D.Lgs. n. 101/2018, ha messo fine ad alcuni rumor, risultati poi infondati, su alcune previsioni della versione definitiva del decreto che andavano nella direzione di uno stop temporaneo delle attività di controllo.
Viceversa, nel provvedimento in questione, non è prevista alcuna sospensione dell’attività ispettiva dell’Autorità garante fino ad aprile 2019; occorre considerare, infatti, che l’art. 22, comma 13, infatti, stabilisce
che «Per i primi otto mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Garante per la protezione dei dati personali tiene conto, ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative e nei limiti in cui risulti compatibile con le disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679, della fase di prima applicazione delle disposizioni sanzionatorie».
Invero, non è molto chiara l’esatta portata di questa previsione ma, almeno da una prima lettura, sembra di capire che, fino al 18 maggio 2019, l’attività sanzionatoria del Garante dovrebbe essere più “mite” e improntata alla valutazione di diversi fattori, come l’aver avviato le procedure di adeguamento e aver pianificato le diverse attività necessarie per garantire il rispetto della nuova normativa.
Da questa previsione, pertanto, non emerge alcuna sospensione del potere ispettivo, ma solo una fase transitoria in cui si tiene in considerazione che, in sede di prima applicazione di una normativa alquanto complessa come quella del regolamento europeo n. 2016/679, sono maggiori le difficoltà di adeguamento dei sistemi e delle procedure; di conseguenza, nell’applicare le sanzioni il Garante dovrà tener conto di diversi elementi come del resto già previsto nelle linee guida del Comitato europeo (ex WP29) del 3 ottobre 2017.

Violazioni pregresse: parte la sanatoria

Sempre sul piano sanzionatorio, occorre anche sottolineare che l’art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche la definizione agevolata delle violazioni pregresse in materia di protezione dei dati personali; in deroga all’art.16, legge n. 689/1981, per i procedimenti sanzionatori riguardanti le violazioni di cui agli artt. 161, 162, 162-bis, 162-ter, 163, 164, 164-bis, comma 2, D.Lgs. n. 196/2003, e le violazioni delle misure di cui agli artt. 33 e 162, comma 2-bis, medesimo decreto che, alla data di applicazione del regolamento europeo, risultino non ancora definiti con l’adozione dell’ordinanza- ingiunzione, è ammesso il pagamento in misura ridotta di una somma pari a due quinti del minimo edittale. Si tratta, quindi, di una sanatoria che riguarda tutti quei procedimenti sanzionatori relativi a condotte illecite poste in essere prima del 25 maggio 2018; fatti salvi i restanti atti del procedimento eventualmente già adottati, il pagamento potrà essere effettuato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 101/2018, ossia il 18 dicembre 2018. L’art. 18 – che, è bene precisare, detta ulteriori disposizioni in materia – ha, quindi, una sua precisa ratio, ovvero produrre un effetto deflattivo del contezioso sorto per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del regolamento europeo n. 2016/679.
Come già accennato in merito è intervenuto recentemente anche l’Autorità garante e con comunicato del 1° ottobre 2018 ha fornito importanti istruzioni operative per chiarire ai soggetti pubblici e privati come usufruire della definizione agevolata dei procedimenti sanzionatori pendenti. Da osservare, in particolare, che nelle domande più frequenti (Faq) pubblicate sul proprio sito web2, l’Autorità ha precisato che, qualora decida di non definire in maniera agevolata i procedimenti sanzionatori pendenti, il contravventore ha la facoltà di pagare l’intero importo contenuto nell’atto di contestazione oppure di presentare nuove memorie difensive entro il 16 febbraio 2019.
In quest’ultimo caso, il Garante, esaminate le nuove memorie presentate nei termini, potrà, in alternativa, disporre l’archiviazione degli atti ove ne ricorrano i presupposti, ovvero adottare specifica ordinanza- ingiunzione con la quale potrà determinare la somma dovuta per la violazione e ingiungerne il pagamento all’autore della violazione e alle persone che vi sono obbligate solidalmente. Nella stessa Faq è inoltre sottolineato che «Il termine per il Garante per disporre l’archiviazione degli atti o per adottare una specifica ordinanza-ingiunzione è di 5 anni ai sensi dell’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689; tale termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute è stato espressamente interrotto dall’art. 18, comma 5, del decreto legislativo n. 101 del 10 agosto 2018 e pertanto decorrerà nuovamente a partire dal 19 settembre 2018 (data di entrata in vigore del d.lgs. 101/2018). Il termine ultimo per l’archiviazione degli atti o per l’adozione di un provvedimento di ordinanza-ingiunzione, in tali casi, sarà quindi quello del 19 settembre 2023».
Da rilevare, inoltre, che sempre nelle Faq è chiarito che, per effetto del già citato art. 18, D.Lgs. n. 101/2018, possono avvalersi della definizione agevolata soltanto i contravventori che abbiano ricevuto, entro il 25 maggio 2018, l’atto con il quale sono notificati gli estremi della violazione o l’atto di contestazione immediata di cui all’art. 14, legge n. 689/1981.

Registro delle attività di trattamento: i chiarimenti del Garante e le ricadute sui professionisti

Per quanto, invece, riguarda la tenuta del registro dei trattamenti, il D.Lgs. n. 101/2018 non ha introdotto innovazioni in materia come ci si attendeva, lasciando più saggiamente, quindi, un ampio spazio d’intervento all’Autorità garante che come accennato l’8 ottobre 2018 ha fornito diversi e importanti chiarimenti sui soggetti obbligati e le regole di tenuta. Bisogna ricordare che questo registro deve essere predisposto dal titolare e dal responsabile del trattamento ed è un documento contenente le principali informazioni (si veda l’art. 30, regolamento n. 2016/679) relative alle operazioni di trattamento svolte da un’impresa, un’associazione, un esercizio commerciale, un libero professionista o altro soggetto obbligato. Come precisato dell’Autorità garante, l’obbligo di redigere questo registro costituisce uno dei principali elementi di accountability del titolare, poiché rappresenta uno strumento «idoneo a fornire un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno della propria organizzazione, indispensabile ai fini della valutazione o analisi del rischio e dunque preliminare rispetto a tale attività»; la stessa Autorità, inoltre, ricorda che sono tenuti a redigere il registro le imprese o le organizzazioni con almeno 250 dipendenti e – al di sotto dei 250 dipendenti – qualunque titolare o responsabile che effettui trattamenti che possano presentare rischi, anche non elevati, per i diritti e le libertà delle persone o che effettui trattamenti non occasionali di dati oppure trattamenti di particoprivacy lari categorie di dati (come i dati biometrici, dati genetici, quelli sulla salute, sulle convinzioni religiose, sull’origine etnica eccetera) o anche di dati relativi a condanne penali e a reati. Il campo applicativo è, quindi, molto vasto e, come emerge delle importanti Faq del Garante riportate di seguito, per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, coinvolge non solo i medici competenti, ma anche altri professionisti che trattano tali dati in questo ambito.

Le altre novità di rilievo in sintesi

Resta, infine, solo da rilevare brevemente che il D.Lgs. n. 101/2018, ha introdotto anche alcune ulteriori innovazioni di rilievo; in particolare, nel codice della privacy (D.Lgs. n. 196/2003), è stato introdotto il nuovo articolo 154-bis, che, al comma 4, prevede che, in considerazione delle esigenze di semplificazione delle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla raccomandazione 2003/361/Ce, il Garante stabilirà le modalità semplificate di adempimento degli obblighi del titolare del trattamento. Al tempo stesso, è stato ridotto da 16 a 14 anni il limite di età entro cui il consenso al trattamento dei dati personali dei minori deve essere esercitato da chi ne abbia la responsabilità genitoriale. Inoltre, per quanto riguarda il curriculum vitae inviato ai fini dell’instaurazione di un rapporto di lavoro, non è più necessario esprimere il consenso al trattamento dei dati in esso contenuti, ma chi lo riceve deve fornire al primo contatto utile successivo le informazioni previste dall’articolo 13, regolamento n. 2016/679.

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Appalti e sicurezza una bussola fra le regole

Conoscere il perimetro normativo per operare secondo la legge

Coordinamento, cooperazione, oneri, responsabilità sociale non sono più solo citazioni, bensì un apparato complesso, di cui le parti contrattualmente coinvolte devono tenere in considerazione. Obiettivo? Eseguire quanto sancito dagli accordi. Con l’attenzione puntata su organizzazione e prevenzione infortuni

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio), occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.

Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).

In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».

La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.
Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;

b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;

d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;

e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;

f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;

g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;

b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse -.
Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).

Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici deilavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.

Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.

Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Sono vari gli ingredienti che, nelle strutture sanitarie pubbliche, hanno determinato, ormai da quasi un ventennio, espliciti orientamenti diretti al mercato economico,in maniera talora simbiotica nella relazione fra committente e appaltatore. Nell’annoverare, fra questi, la vetustà del parco tecnologico, il blocco del turn-over, i limiti di spesa (non solo per il pareggio di bilancio),
occorre ricordare altresì il focus sulla “certezza della spesa” (quasi un refrain ansiolitico presso le direzioni aziendali in carenza di altri strumenti di gestione e controllo capillare dei contratti di appalto) – certezza perseguibile, utopisticamente, tramite canoni omnicomprensivi convenuti in sede di gare pubbliche.
Questo focus ha determinato una pressoché totalizzante adesione degli ospedali agli operatori del mercato economico di settore, inducendo comportamenti del mercato stesso ad assumere e sviluppare attitudini tecniche e commerciali sempre più specialistiche ovvero, tramite raggruppamenti temporanei o consorzi stabili, omnicomprensive (appalti integrati, global service, servizi includenti riqualificazioni, forniture e attività le più varie). All’interno di questo scenario, al di là della formale distanza nei ruoli fra committente e appaltatore e, per quanto concerne le interazioni contrattuali, nel rispetto del codice civile e della specifica normativa (codice degli appalti pubblici), è oltremodo trasversale e degna di più consapevole attenzione la materia concernente la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Non solo, infatti, il committente e le imprese appaltatrici si caratterizzano tramite rischi occupazionali propri (i cosiddetti “rischi ex lege”) ma anche, nelle interazioni di cui sopra, generano interferenze all’interno dei cantieri mobili e temporanei in caso di lavori (i cosiddetti “rischi ex contractu”) nonché interferenze altre di vario tipo fra rischi della struttura sanitaria e quelli delle imprese aggiudicatarie (i cosiddetti “rischi interferenziali”).
Il quadro è reso complesso dalla multisettorialità delle gare di appalto pubblicate dagli enti pubblici che richiedono, ormai cosa comune all’interno delle procedure di gara, forniture, servizi e lavori integrati.
Vediamo, più nel dettaglio, le previsioni in materia di sicurezza negli appalti pubblici sia del D.Lgs. n. 81/2008 sia del D.Lgs. 50/2016 (il codice dei contratti pubblici), evidenziando raccordi e rimandi espliciti e non espliciti. Infine, con successivi specifici inserti, verrà presentata l’ampia normativa di settore emanata Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione pertinente al caso in esame.
Antinfortunistica e gare pubbliche

Il testo unico di tutela della salute e sicurezza occupazionale (D.Lgs. 81/2008) sancisce misure di prevenzione antinfortunistica relativamente alla conduzione di contratti di appalto di forniture, servizi, lavori nonché di appalti cosiddetti misti.

Le misure relative alla sicurezza, all’igiene e alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori e sono corredate da ulteriori previsioni in capo ai differenti soggetti obbligati che qui richiamiamo per completezza e per le successive correlazioni al codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).
In capo ai progettisti vige quanto segue: «I progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai fabbricanti e fornitori è previsto quanto segue: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

Infine, in capo agli installatori è posto il seguente obbligo: «Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Concernente i contratti di appalto o d’opera o di somministrazione – ovvero in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi – vi sono differenti soggetti obbligati (quanto segue concerne tutte le imprese chiamate a realizzare la fornitura e/o il servizio e/o i lavori, ovvero tutte le imprese esecutrici oltre all’impresa appaltatrice che è la titolare del contratto di appalto, nda). Innanzitutto, in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige quanto segue: «a) verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:

1) acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;

2) acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47(N) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 « (…)

b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività»), con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. In capo ai committente, appaltatori e subappaltatori in seno a contratti di appalto o d’opera o di somministrazione è disposto quanto segue: «a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione vige inoltre quanto segue: «Il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (il Duvri, nda) che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali [rif. art. 29, co. 6-ter], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all’incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell’ambiente di lavoro, per sovrintendere a questo tipo di cooperazione e coordinamento. In caso di redazione del documento, quest’ultimo è allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell’evoluzione dei lavori, servizi e forniture. A questi dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Dell’individuazione dell’incaricato o della sua sostituzione deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nell’ambito di applicazione del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (il codice dei contratti pubblici, oggi D.Lgs. 50/2016, nda) questo documento è redatto, ai fini dell’affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto (responsabile unico del procedimento di cui al D.Lgs. 50/2016, art. 31, nda)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 8).

La postilla introdotta nell’art. 26 con comma 3-ter ci interessa da vicino poiché richiama nuovamente il disposto del codice dei contratti pubblici (oggi è il D.Lgs. 50/2016) prevedendo che «nei casi in cui il contratto sia affidato dai soggetti di cui all’articolo 3, comma 34, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o in tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente (rif. centrali di committenza: «un’amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» ovvero «aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori» nda), il soggetto che affida il contratto redige il documento di valutazione dei rischi da interferenze recante una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Il soggetto presso il quale deve essere eseguito il contratto, prima dell’inizio dell’esecuzione, integra il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. L’integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integra gli atti contrattuali, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Ancora in capo al committente di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione si prevede quanto segue: «ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, il committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Nuovamente in tema di appalti pubblici, in capo agli enti aggiudicatori vige quanto segue: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza » (D.Lgs. 81/2008 art. 26, comma 6). Il costo del lavoro va desunto da tabelle ministeriali sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali (in assenza di Ccnl del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione). Il costo della sicurezza deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.

L’art. 26 prevede altresì un ultimo obbligo questa volta in capo alle imprese affidatarie ed esecutrici di contratti di appalto o d’opera o di somministrazione: «nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice deve essere munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia.

Sanità ratore e l’indicazione del datore di lavoro», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Il titolo I° del D.Lgs. 81/2008 si conclude con le seguenti previsioni in capo a noleggiatori e concedenti in uso: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Sempre in capo agli stessi, vige inoltre il disposto per cui «Chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza a fini di sicurezza. Dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5 siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista».
La disamina delle previsioni del testo unico di tutela della salute e sicurezza sul lavoro va completata esaminando la parte concernente gli appalti di lavori (o la quota lavori di appalti misti), per i quali si applica il titolo IV° del D.Lgs. 81/2008. Anche in questo caso procediamo con la panoramica dei soggetti obbligati e dei loro obblighi. In capo al committente e al responsabile dei lavori vige innanzitutto quanto segue: «nelle fasi di progettazione dell’opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’articolo 15, in particolare:

a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente;

b) all’atto della previsione della durata di realizzazione di questi vari lavori o fasi di lavoro» (D.Lgs. 81/2008, art. 90, comma 1).

Inoltre, nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici – anche non contemporanea – il committente o il responsabile dei lavori «designa il coordinatore per la progettazione contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione» nonché «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori prima dell’affidamento dei lavori» in possesso dei requisiti di legge, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. E ancora, sempre in capo al committente e al responsabile dei lavori, è fatto obbligo di «comunicare alle imprese affidatarie, alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi il nominativo del coordinatore per la progettazione e quello del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. Tali nominativi sono indicati nel cartello di cantiere», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione. Infine, per i due soggetti di cui sopra vige sempre obbligo, anche nel caso di affidamento dei lavori a un’unica impresa o a un lavoratore autonomo, di: «verificare l’idoneità tecnico-professionale di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi (rif. allegato XVII, D.Lgs. 81/2008)» con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione (vedere la tabella 16) «chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo (il cosiddetto Doma) distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori (Inps, Inail, Casse edili), nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti» e ancora «trasmettere all’amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività, copia della notifica preliminare, Durc imprese e lavoratori autonomi (…) e una dichiarazione attestante l’avvenuta verifica di quanto ai punti a) e b)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.
È sospesa l’efficacia del titolo abilitativo all’esecuzione dei lavori in assenza dei seguenti documenti (quando previsti): piano di sicurezza e di coordinamento, fascicolo dell’opera, notifica preliminare alla amministrazione concedente, documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi. L’organo di vigilanza comunica l’inadempienza all’amministrazione concedente. In capo ai coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione (Csp) e in fase di esecuzione (Cse) sono disposti gli obblighi di cui agli artt. 91 e 92 del D.Lgs. 81/2008.

Circa la mutua responsabilità fra il committente e il responsabile dei lavori, il primo è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori, con la precisazione che nei lavori pubblici il responsabile dei lavori coincide col responsabile unico del procedimento di gara (Rup) (rif. D.Lgs. 50/2016, art. 31). Gli obblighi in capo a quest’ultima figura sono ben definiti (anche) dal codice dei contratti pubblici e normativa correlata (Anac). I lavoratori autonomi che esercitano la propria attività nei cantieri, fermo restando gli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008, si devono adeguare alle indicazioni fornite dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ai fini della sicurezza, con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In capo alle imprese esecutrici (datori di lavoro), durante l’esecuzione dell’opera vige l’obbligo di «osservare le misure generali di tutela (rif. D.Lgs. 81/2008, art. 15) e curare, ciascuno per la parte di competenza, in particolare:

a) il mantenimento del cantiere in condizioni ordinate e di soddisfacente salubrità;

b) la scelta dell’ubicazione di posti di lavoro tenendo conto delle condizioni di accesso a tali posti, definendo vie o zone di spostamento o di circolazione;

c) le condizioni di movimentazione dei vari materiali;

d) la manutenzione, il controllo prima dell’entrata in servizio e il controllo periodico degli apprestamenti, delle attrezzature di lavoro degli impianti e dei dispositivi al fine di eliminare i difetti che possono pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;

e) la delimitazione e l’allestimento delle zone di stoccaggio e di deposito dei vari materiali, in particolare quando si tratta di materie e di sostanze pericolose;

f) l’adeguamento, in funzione dell’evoluzione del cantiere, della durata effettiva da attribuire ai vari tipi di lavoro o fasi di lavoro;

g) la cooperazione e il coordinamento tra datori di lavoro e lavoratori autonomi;

h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere».

Con riguardo a tutte le imprese presenti nell’area dei lavori (impresa affidataria, imprese esecutrici) i rispettivi datori di lavoro, dirigenti e preposti sono obbligati a quanto segue:

a) adottare le misure conformi alle prescrizioni di cui all’allegato XIII;
b) predisporre l’accesso e la recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili; c) curare la disposizione o l’accatastamento di materiali o attrezzature in modo da evitarne il crollo o il ribaltamento;
d) curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute;
e) curare le condizioni di rimozione dei materiali pericolosi, previo, se del caso, coordinamento con il committente o il responsabile dei lavori;
f) curare che lo stoccaggio e l’evacuazione dei detriti e delle macerie avvengano correttamente;
g) redigere il piano operativo di sicurezza di cui all’articolo 89, comma 1, lettera h)», con correlata disposizione sanzionatoria in caso di violazione.

In aggiunta a quanto sopra e specificatamente in capo al datore di lavoro dell’impresa affidataria (assieme ai dirigenti) vige quanto segue:

a) verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento;
b) coordinare gli interventi di cui agli articoli 95 e 96» (misure generali di tutela e rispetto degli obblighi in capo a datori di lavoro, dirigenti e preposti di tutte le imprese) nonché «verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (Pos) delle imprese esecutrici rispetto al proprio prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione», con correlata disposizione sanzionatoria per i punti a) e b) in caso di violazione.

L’articolazione del piano di sicurezza e coordinamento da redigersi a carico e cura del Csp – e ove il caso dal Cse –

Per completezza, nella tabella 23 si riporta un riepilogo delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, relativamente alla notifica preliminare, alla designazione del Csp e del Cse nonché presenza del Pos. Nel concludere la disamina delle previsioni del D.Lgs. 81/2008, qui di seguito una sintesi riepilogativa e esemplificativa dei differenti tipi costi e oneri per la sicurezza negli appalti di forniture, servizi e lavori. Oneri della sicurezza aziendali afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascuna impresa Questi oneri in giurisprudenza e dottrina sono detti anche: oneri o costi ex lege, oneri o costi propri, oneri o costi da rischi specifici, costi aziendali necessari per la risoluzione rischi di specifici propri dell’appaltatore. Ci sono in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori).
Nel caso di appalti di forniture e/o servizi: ogni impresa (ad esempio, appaltatore, ogni subappaltatore, subcontrattore …) determina i propri costi diretti. Con riferimento alle linee guida Itaca/2015 gli oneri per la sicurezza sono gli «oneri aziendali della sicurezza afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione, aggiuntive rispetto a quanto già previsto nel Psc e comunque riconducibili alle spese generali. Questi oneri aziendali sono contenuti nella quota a parte delle spese generali prevista dalla norma vigente (il riferimento normativo è all’articolo. 32 del D.P.R. 207/2010). Va ricordato che queste spese non sono riconducibili ai costi stimati per le misure previste al punto 4 dell’allegato XV del D.Lgs. 81/2008. Costi stimati per le misure previste dal comma 4 dell’allegato XV (coordinamento della sicurezza sia in presenza che in assenza di obbligo di redigere il Psc). Sono determinati dall’ingerenza del committente nelle scelte esecutive a carico delle imprese affidataria e esecutrici dei lavori (sono pertanto ulteriori e differenti dei costi di cui al punto 1) e sono detti anche: costi della sicurezza ex contractu, costi della sicurezza da coordinamento, costi contrattuali o spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni dei lavori nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte tecniche del Csp/ Cse /stazione appaltante.
Nuovamente con riferimento alle linee guida Itaca/2015 essi sono i «costi della sicurezza che derivano, in caso di lavori ex titolo IV, dalla stima effettuata nel piano di sicurezza e coordinamento (Psc) ai sensi dell’art. 100 del D.Lgs. 81/2008) – o dall’analisi della stazione appaltante anche per tramite del Rup quando il Psc non sia previsto – rif. punto 4.1.2. – secondo le indicazioni dell’allegato XV punto 4. A tali costi l’impresa è vincolata contrattualmente (costi contrattuali) in quanto rappresentano “l’ingerenza” del committente nelle scelte esecutive della stessa; in essi si possono considerare, in relazione al punto 4.1.1. dell’allegato XV, esclusivamente le spese connesse al coordinamento delle attività nel cantiere, alla gestione delle interferenze o sovrapposizioni, nonché quelle degli apprestamenti, dei servizi e delle procedure necessarie per la sicurezza dello specifico cantiere secondo le scelte di discrezionalità tecnica del Csp/stazione appaltante, valutate attraverso un computo metrico estimativo preciso». Questi costi sono presenti nei contratti di appalto di lavori e negli appalti misti con quota lavori (forniture e/o servizi e lavori). Ogni specifico singolo cantiere (quindi non più intrinsecamente la singola impresa) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza per coordinamento non sono oggetto di ribasso d’asta.

Costi per la sicurezza da rischi interferenziali ex art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Duvri)

Sono determinati dai rischi interferenziali che si sostanziano per il fatto che un’impresa appaltatrice, che ha rischi propri, accede ai luoghi di lavoro del committente che, a sua volta, ha rischi propri.
Sono detti anche: costi da rischi interferenziali (ulteriori a quelli di cui ai punti 1 e 2). Questi costi sono presenti in tutti i contratti di appalto, ovvero appalti di forniture, appalti di servizi, appalti di lavori, appalti misti (forniture e/o servizi e/o lavori). Ogni contratto (quindi non più intrinsecamente la singola impresa/ ditta) ha i suoi. Nei contratti pubblici i costi della sicurezza da rischi interferenziali non sono oggetto di ribasso d’asta. Esemplifichiamo i differenti tipi di oneri di cui ai succitati punti 1, 2, 3.
Esempio in un appalto di forniture e/o servizi (senza quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti i costi da rischi interferenziali (vedere il succitato punto 3) in caso di applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 81/2008. A titolo emblematico, circa il merito dei costi interferenziali, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra committente e appaltatore, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle due parti contrattuali e che si ripercuota sull’altra parte – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Duvri.
Appalto di lavori (o appalto misto per la quota lavori). Sono presenti gli oneri diretti delle imprese (vedi il succitato punto 1) e possono essere presenti sia i costi della sicurezza da coordinamento di cantiere (vedere il succitato punto 2) sia i costi da rischi interferenziali (vedi il succitato punto 3). A titolo emblematico, circa il merito degli oneri della sicurezza da coordinamento di cantiere, se vi è interferenza in una delle lavorazioni fra le differenti imprese affidataria/esecutrici, un eventuale rischio (che necessiti di dispositivi di protezione individuale) – conferito da una delle imprese e che si ripercuota sulle altre – genera, nella traduzione economica, costi della sicurezza da inserire nel Psc – ovvero i dispostivi di protezione individuale vanno computati come costi della sicurezza dal Csp/Cse se e ove quest’ultimo li preveda per poter operare in sicurezza in caso di lavorazioni tra di loro interferenti. È il caso di due imprese compresenti: la prima induce aerodispersione di inquinanti (ad esempio, saldatura) e l’altra – che sta lavorando in prossimità spazio-temporale – si deve proteggere (Dpi).
A opportuno corredo su oneri e costi della sicurezza in materia di contratti pubblici si riporta, fra tanti, un estratto della delibera n° 1098 del 26 settembre 2016 dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac): «Si ritiene quindi che l’obbligo per la Stazione Appaltante di indicare nei documenti di gara i costi della sicurezza, non soggetti a ribasso, sia ancora sussistente in forza delle specifiche previsioni in materia dettate dal citato D.Lgs. 81/2008, cui rinvia il D.Lgs. 50/2016. Quanto sopra trova peraltro conferma nell’avviso giurisprudenziale (ancorchè relativo al previgente assetto normativo) a tenore del quale «a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata» (Cons. di Stato Ad. Pl. n. 3/2015, richiamata anche in Cons. St. Ad. Pl. n. 16/2016). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve conclusivamente osservarsi che pur in assenza nel D.Lgs. 50/2016, di una specifica previsione in ordine ai piani di sicurezza, analoga a quella precedentemente prevista dall’art. 131 del codice, sussista comunque l’obbligo per la stazione appaltante di evidenziare, nei documenti di gara, i costi per i piani di sicurezza ed il costo del personale, non soggetti a ribasso, quale obbligo discendente dalle previsioni dettate dal D.Lgs. 81/2008.(…)».

Conclusioni

Nella quotidianità degli operatori della sanità pubblica i contratti di appalto determinano oggi una interazione sempre più ingente e costante con i lavoratori di imprese che erogano forniture, servizi e lavori, spesso in modo integrato. All’interno delle procedure sulle quali si fonda l’organizzazione sanitaria, molteplici sono le regole finalizzate alla gestione dei compiti in materia di salute e sicurezza connessi ai contratti d’appalto, d’opera e di somministrazione negli ospedali. Coordinamento, cooperazione, oneri della sicurezza, responsabilità sociale non sono più solo citazioni bensì complesso sostrato dei dirigenti delle varie parti contrattualmente coinvolte che si incontrano per conoscersi, valutarsi ed eseguire quanto sancito dagli accordi contrattuali. In tal senso gli ospedali pubblici, complici le amministrazioni regionali che li accreditano e finanziano, stanno comprendendo l’opportunità irrinunciabile di creare, per i singoli procedimenti di affidamento delle forniture al mercato economico, sinergie fra i soggetti a vario titolo obbligati. È così che il dirigente che gestisce il contratto dal punto di vista amministrativo e il responsabile del servizio prevenzione e protezione dialogano – e devono dialogare assieme – con gli altri ruoli della sicurezza ospedalieri e delle imprese, contribuendo con le rispettive professionalità a determinare nei luoghi di lavoro ospedalieri livelli di sicurezza altrimenti non raggiungibili.

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Rappresentante sicurezza l’accesso al Documento di Valutazione dei Rischi (DVR)

Analisi dei profili responsabilità tra legislazione e giurisprudenza

L’articolo 18, lettera o) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 stabilisce espressamente che le informazioni debbano essere consultate esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali

In materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro una funzione fondamentale, seppur meramente di carattere consultivo-propositivo, è svolta dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls).

Questa figura di rappresentanza, istituita con il D.Lgs. n. 626/1994 e confermata con il successivo D.Lgs. n. 81/2008, è manifestazione della logica partecipativa introdotta con queste normative, che vede i lavoratori e i loro rappresentanti quali figure attive nell’elaborazione della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Di seguito è analizzato un diritto riconosciuto in capo al Rls per l’esercizio delle sue funzioni, ossia quello di ricevere copia del documento di valutazione dei rischi (Dvr); in particolare, viene affrontato il tema non solo in riferimento al settore privato, ma anche, punto forse ancor più controverso, al settore del pubblico impiego.

Nel corso degli anni vi sono stati sostanzialmente due interventi legislativi di particolare rilevanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, il D.Lgs. n. 626/1994, prima, e il D. Lgs. n. 81/2008, poi, ai quali sono state apportate delle modifiche2 che hanno interessato proprio il diritto in questione, con un susseguirsi di relative interpretazioni.

Questioni applicative
Dal D.Lgs. n. 626/1994 alla legge n. 123/2007

Problemi interpretativi e applicativi sono stati sollevati sin dall’introduzione del D.Lgs. n. 626/1994 laddove all’art. 19, comma 5, si stabiliva, nella formulazione originaria, che il rappresentante dei lavoratori avesse «accesso, per l’espletamento della sua funzione», al documento di valutazione dei rischi. Nulla, tuttavia, era detto specificamente circa le modalità con cui poteva avvenire questo accesso, lasciando così aperta la strada a contrasti circa la corretta osservanza della disposizione.
È in questo contesto normativo che si colloca la sentenza della corte d’Appello di Brescia del 27 ottobre 20073. La vicenda nasceva da un decreto ingiuntivo richiesto dal Rls di un’azienda il quale lamentava di aver fatto richiesta di rilascio di copia del Dvr ottenendo, tuttavia, risposta negativa da parte del datore di lavoro.
Il giudice del lavoro accoglieva il ricorso per decreto ingiuntivo e l’azienda proponeva opposizione sostenendo che in capo al rappresentante dei lavoratori fosse riconosciuto solamente un diritto di accesso al documento, che si esplica nella presa in visione presso la sede dell’azienda stessa, senza alcuna prerogativa di portare fuori dai locali la documentazione in parola. Il tribunale di Brescia, con la sentenza 4 ottobre 2006, n. 729, respingeva questa opposizione rilevando che il Rls riceve il – non avendo solamente accesso al – documento di valutazione dei rischi, in base a quanto disposto dall’art. 19, comma 1, lettera e), D.Lgs. n. 626/1994. Peraltro, questa interpretazione era già stata sostenuta dalle circolari ministeriali del 2000 nonché dalla giurisprudenza di merito La società, quindi, presentava ricorso avverso il rigetto dell’opposizione, lamentando che la divulgazione del documento avrebbe cagionato nocumento all’azienda, ritenendo giustificato, sulla base di ciò, il diniego opposto alla richiesta del Rls di ricevere copia del documento, nonché affermando che, all’interno della sede, erano stati predisposti locali adeguati per la consultazione e l’esame del Dvr.
Nelle more del giudizio interveniva la legge n. 123/2007 che ha modificato il comma 5 dell’art. 19, riconoscendo in capo al datore un vero e proprio dovere di consegna di copia del documento.

L’art 3, lettera e), legge n. 123/2007, infatti, prevede che «[…] all’articolo 19, il comma 5 è sostituito dal seguente: 5. Il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, nonché del registro degli infortuni sul lavoro di cui all’articolo 4, comma 5, lettera o)».

La Corte d’appello di Brescia, alla luce di questo intervento normativo, affermava che: «L’art. 3, lettera e), legge n. 123/2007, che ha modificato l’art. 19, comma V, D. Lgs. n. 626/1994, prevedendo l’obbligo del datore di lavoro di consegnare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza copia del documento di valutazione del rischio e del registro infortuni, rappresenta norma innovativa unicamente per quanto attiene al registro infortuni, in quanto il diritto a ricevere copia del documento di valutazione del rischio era già previsto dalla lettera e) dello stesso art. 19».
La Corte concludeva, pertanto, che il Rls avesse non solo il diritto di ricevere copia del documento, peraltro già consolidato in passato secondo i giudici, ma anche di portarlo fuori dall’azienda, poiché, in caso contrario, si vanificherebbe il diritto stesso a possedere una copia e si trasformerebbe in una mera consultazione.

Dal D.Lgs. n. 81/2008 al D.Lgs. n. 106/2009

Con l’avvento del D.Lgs. n. 81/2008 è stato sancito in modo inequivocabile l’obbligo per il datore di lavoro di consegnare materialmente il documento di valutazione dei rischi al Rls. L’art. 18, comma 1, lettera o), infatti, nella sua formulazione originaria (ossia prima della modifica del D.Lgs. correttivo n. 106/2009) prevedeva che il datore di lavoro dovesse «consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r)», rendendo, in questo modo, illegittima e antisindacale qualunque condotta del datore di lavoro ostativa alla consegna. A ulteriore consolidamento della sussistenza del diritto del Rls di ricevere copia del documento in questione, vi è l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il quale disciplina le attribuzioni di questa figura. Infatti, da un lato la lettera e) del comma 1, dall’altro il comma 4 dell’articolo, affermano che il Rls, su sua richiesta e per l’esercizio delle proprie funzioni, debba ricevere le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le relative misure di prevenzione. La mancanza di formalità circa le modalità di consegna del documento ha dato luogo a incertezze riguardo quando possa dirsi adempiuto il relativo obbligo. Tra i tanti, è interessante analizzare un interpello sollevato da Confcommercio con il quale è stato richiesto un parere alla direzione generale per l’attività ispettiva – presso il ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali – in merito alla possibilità di consegna al Rls del documento di valutazione dei rischi unicamente su supporto informatico. Nel caso prospettato ci si è chiesti se la consegna di un videoterminale connesso con la rete aziendale contenente il Dvr, consultabile all’interno dei locali della società, possa costituire assolvimento dell’obbligo ex art. 18, comma1, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008. Il ministero del Lavoro ha risposto sostenendo che, non essendo prevista alcuna formalità per la consegna del documento, l’obbligo a carico del datore può dirsi adempiuto tramite consegna su supporto informatico, anche se utilizzabile solamente su terminale messo a disposizione all’interno dell’azienda. In questo modo, conclude il Ministero, non vi è alcun pregiudizio all’effettivo svolgimento delle funzioni da parte del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, fermo restando, peraltro, il diritto dello stesso di scegliere la forma ritenuta da esso più agevole.
L’interpretazione fornita dalla direzione generale per l’attività ispettiva ha presto incontrato critiche, soprattutto per due motivi:

  • da un lato, questa soluzione risulterebbe inapplicabile al Rls territoriale8, rispetto al quale non può ritenersi ragionevole l’accesso al Dvr solamente nei locali aziendali – considerato che opera su un territorio e quindi su una pluralità di aziende – a meno che non lo si voglia trattenere in azienda, né sarebbe logico prevedere un trattamento differenziato per le due forme di rappresentanti per la sicurezza (aziendale e territoriale);
  • dall’altro lato, invece, viene censurato il riferimento all’art. 53, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 5 dispone che «Tutta la documentazione rilevante in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e tutela delle condizioni di lavoro può essere tenuta su unico supporto cartaceo o informatico».

Rispetto quest’ultimo aspetto, la critica sostiene sia vero che la documentazione in materia, quindi compreso il Dvr, possa essere tenuta in forma elettronica, tuttavia, come precisa la lettera e) della medesima norma, a condizione che “sia possibile riprodurre su supporti a stampa, sulla base dei singoli documenti, ove previsti dal presente decreto legislativo, le informazioni contenute nei supporti di memoria». Ciò significa che se non è consentita la stampa cartacea del documento, la mera messa a disposizione su supporto informatico non può considerarsi legittima.
Il 3 agosto 2009 è stato emanato il D.Lgs. n. 106/2009, correttivo del precedente D.Lgs.n. 81/2008. In particolare, l’art. 13, comma 1, lettera c) del suddetto decreto è intervenuto modificando la lettera o) dell’art. 18, facendo propria l’interpretazione fornita dal ministero del Lavoro nell’interpello sopra riportato. In particolare, il D.Lgs. n. 106/2009 aggiunge alla norma originaria due precisazioni, ovvero che il documento:

  • possa essere consegnato «anche su supporto informatico come previsto dall’art. 53, comma 5»;
  • sia «consultato esclusivamente in azienda ».

Quest’ultimo inciso ha posto una limitazione alla consultazione del Dvr e, di conseguenza, ha sollevato problemi e dibattiti sul piano applicativo. L’interrogativo posto a seguito di questo modifica è se il Rls possa o meno portare il documento fuori dai locali dell’azienda, anche al fine di disporre di maggior tempo per la consultazione ed eventualmente farsi assistere da soggetti esperti esterni; d’altra parte, si tratta di un documento aziendale che, ex art. 29, comma 4 del D. Lgs. n. 81/2008, deve essere custodito presso l’unità produttiva a cui si riferisce. Se la finalità della norma è quella di permettere al Rls un’analisi approfondita del documento, si sostiene debbano essergli garantiti tutto il tempo e l’assistenza che esso riterrà necessari.
Tuttavia, preme evidenziare che la Carta costituzionale, all’art. 41, sancisce il principio della libertà imprenditoriale, alla luce del quale si può riconoscere al datore di lavoro anche la facoltà, qualora lo ritenga, di consentire che il Dvr sia consultato anche fuori dalla sede aziendale.
Successivamente all’intervento del D.Lgs. n. 106/2009, riguardo il diritto di accesso del Rls al Dvr si è espressa la giurisprudenza di merito. In particolare, si è pronunciato il tribunale di Milano, a seguito di un’opposizione a decreto ingiuntivo con cui era stato ordinato alla società datrice di lavoro di consegnare il documento di valutazione dei rischi al rappresentante dei lavoratori dell’azienda. In questa occasione, il tribunale ha posto l’attenzione sulle formalità di consegna, rilevando che l’inciso introdotto dal correttivo di consultare il documento solo in azienda non ha, in alcun modo, pregiudicato il relativo diritto del Rls. Confermando il decreto ingiuntivo, i giudici milanesi, in premessa, hanno affermato l’incontrovertibilità dell’obbligo del datore di consegnare copia del Dvr, passaggio che implica la materiale disponibilità e conseguente ricezione da parte del Rls, sia in forma cartacea che su supporto informatico. La scelta circa la forma in cui ottenere la copia non può che spettare al Rls stesso, il quale ha diritto di ricevere il documento nella modalità per esso preferibile ai fini della consultazione. Quindi, il giudice milanese ha affermato che «l’obbligo di consegna si attua mediante la ricezione di una res e non può essere obliterato attraverso la semplice messa a disposizione o consultazione di un documento solo su supporto informatico e su computer aziendale, alla luce delle importanti, ma soprattutto delle fattive prerogative riconosciute dalla legge al RLS, che presuppongono una analitica e approfondita conoscenza del documento in parola».

In conclusione, il tribunale asserisce che il correttivo operato con l’art. 13, D.Lgs. n. 106/2009 non ha, in alcun modo, limitato le prerogative del Rls, essendo intervenuto solamente sulle modalità di consultazione, esclusa al di fuori dei locali aziendali, e non sul relativo diritto. Insomma, l’inciso aggiunto ha reso meno agevole la fruibilità del documento, ma senza toccare il contenuto e la portata del diritto. Il giudice ha evidenziato anche che il datore di lavoro deve permettere al Rls di svolgere la propria funzione di controllo e salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, consentendogli di consultare il Dvr per tutto il tempo ritenuto necessario, tenuto conto dell’eventuale tecnicità e complessità dello stesso. Tutto ciò, peraltro, restando i relativi costi a carico dell’azienda, secondo quanto si evince anche dall’art. 15, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008, ai sensi del quale «le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori».
Nello stesso senso si esprime anche la normativa, la quale riconosce che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza debba poter disporre del tempo necessario allo svolgimento del proprio incarico senza perdita di retribuzione.
Merita, infine, di essere evidenziato che al diritto di ricevere il documento di valutazione dei rischi da parte del Rls, corrisponde un dovere dello stesso a non divulgare informazioni riservate in esso contenute, dichiarando di utilizzarlo esclusivamente ai fini di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori che rappresenta. A questo riguardo, si richiama il D.Lgs. n. 25/2007, di attuazione della direttiva 2002/14/Ce (istitutiva di un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), il cui art. 5 – rubricato «Informazioni riservate» – impone l’obbligo di riservatezza in capo non solo ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma anche agli esperti di cui questi eventualmente si avvalgano. Inoltre, al comma 2, riconosce un’eccezione al dovere di consegna del documento, un’ipotesi di particolare tutela del datore di lavoro, il quale «non è obbligato a procedere a consultazioni o a comunicare informazioni che, per comprovate esigenzetecniche, organizzative e produttive siano di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o da arrecarle danno». Al fine di individuare queste ipotesi eccezionali, il successivo comma 3 rimanda alla contrattazione collettiva il compito di costituire una commissione di conciliazione che definisca le controversie riguardanti la natura riservata o meno delle notizie che il datore di lavoro affermi essere tali, ovvero circa le esigenze tecniche, organizzative e produttive la cui divulgazione possa arrecare difficoltà o danno all’azienda.

Il Rlst: competenze e obblighi
Alcuni cenni merita la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (Rlst). Questo soggetto, ai sensi dell’art. 48, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, «esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui all’articolo 50 e i termini e con le modalità ivi previste con riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza». Pertanto, al Rlst sono riconosciute le stesse attribuzioni del Rls aziendale; in particolare, tra gli altri, ha diritto di accedere ai luoghi di lavoro, di ricevere le informazioni e la documentazione correlata alla valutazione dei rischi e alle relative misure di prevenzione, nonché di presentare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure adottate non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Rispetto a questa figura, la questione circa la possibilità o meno di portare il Dvr fuori dal perimetro aziendale ha suscitato discussioni sulla portata del dato normativo. Vi è stato, infatti, chi ha mosso critiche alla norma stessa nonché all’interpello del 2008, poiché la consultazione esclusiva nei locali della società non è agevole né logica nei confronti di questa figura, visto che essa ricopre la funzione di rappresentante per la sicurezza su un territorio e, quindi, per una pluralità di aziende.
La questione è stata affrontata16, sul piano della prassi operativa, in riferimento all’adempimento dell’obbligo di consultazione ex art. 50, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008; nello specifico, è stato richiesto un parere all’osservatorio Olympus circa l’assolvimento da parte del datore di lavoro del suddetto obbligo con il mero invio del documento di valutazione dei rischi all’organismo paritetico territoriale e la conseguente adesione del Rlst. L’organismo paritetico (Op), definito alla lettera ee) dell’art. 2, D.Lgs. n. 81/2008 e disciplinato all’art. 51 del medesimo decreto, è quel soggetto costituito a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che svolge attività di programmazione della formazione, di assistenza alle imprese per l’attuazione degli adempimenti in materia di salute e sicurezza e ogni altra funzione a esso attribuita dalla legge o dai contratti collettivi.
L’osservatorio Olympus, formulando una soluzione di natura operativa, asserisce che, concentrando la trasmissione della documentazione relativa alla valutazione dei rischi all’organismo paritetico, il Rlst viene messo nella condizione di essere adeguatamente consultato, peraltro secondo le modalità che esso riterrà più opportune; infatti, il rappresentante territoriale potrà decidere di accedere ai luoghi di lavoro e svolgere le funzioni attribuitegli dall’art. 50 alla pari del Rls, ovvero potrà ritenere sufficiente la consultazione in sede di organismo paritetico. Pertanto, conclude il parere, l’obbligo di consultazione si può ritenere assolto nel momento in cui il datore di lavoro invia la documentazione all’Op e il Rlst esprime la propria opinione dopo aver effettuato tutte le valutazioni del caso. In tema di consegna del Dvr al rappresentante territoriale, interessante è anche l’accordo interconfederale Confapi/Cgil-Cisl-Uil 20 settembre 2011 sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità sui rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza in ambito lavorativo e sulla pariteticità, il quale richiama la normativa in materia.
Infatti, l’accordo, nella parte II, art. 9, comma 2, disciplina le attribuzioni del Rlst, con particolare riferimento a quelle riconosciute ex art. 50, lettere e) ed f), D.Lgs. n. 81/2008, affermando espressamente che «al rappresentante verranno fornite le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, le informazioni relative agli infortuni e alle malattie professionali» e che «Il RLST riceve copia del documento di valutazione dei rischi e del DUVRI e ogni loro modificazione».
Alla luce di quanto sopra esposto, è condivisibile che l’obbligo del datore di lavoro di consegnare il documento in questione possa ritenersi assolto tramite la consegna dello stesso all’organismo paritetico. Ciò nonostante, va rilevato che la normativa non prevede alcuna eccezione per il Rlst a quanto stabilito dall’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 e, quindi, non c’è motivo per cui questa disposizione non debba valere anche rispetto questa figura. Anzi, il richiamo che l’art. 48, D.Lgs. n. 81/2008 opera a quanto stabilito per il Rls riguardo le competenze e le modalità di esercizio delle stesse, porta a ritenere che anche per il rappresentante territoriale debba trovare attuazione la medesima disciplina e, pertanto, la consultazione del Dvr può avvenire limitatamente all’interno dei locali aziendali. Più chiaramente, non essendoci deroghe espresse alla lettera o) dell’art. 18, la stessa si deve considerare applicabile anche al Rlst.

L’ambito delle pubbliche amministrazioni
Un tema di particolare interesse è quello relativo all’accesso alla documentazione in materia di salute e sicurezza negli ambienti del pubblico impiego. È, infatti, emerso come in questo ambito la disciplina prevista dal D. Lgs. n. 81/2008 tenda a scontrarsi con quanto stabilito dalla legge n. 241/1990 in materia di accesso agli atti, con incertezze giurisprudenziali su quale tra le due debba prevalere. Premessa fondamentale per affrontare la questione riguarda la natura dei documenti oggetto di disciplina da parte della legge n. 241/1990. L’art. 22, lettera d) della suddetta legge, come modificato dalla successiva legge n. 15/2015, definisce quale documento amministrativo «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
Il documento di valutazione dei rischi è un atto avente natura generale, finalizzato all’elaborazione di norme comportamentali, contenente la programmazione e la pianificazione della sicurezza all’interno dell’azienda, compresi i profili inerenti all’organizzazione amministrativa che esigono riservatezza. Per questo, l’accesso a tale documento è limitato espressamente alla sola figura del Rls. Pertanto, si sostiene che esso non possa, alla luce della definizione fornita dalla legge n. 241/1990, essere considerato documento amministrativo né atto interno endoprocedimentale e, quindi, non possa essere messo a disposizione di qualsiasi lavoratore.
Se, come sopra esposto, la posizione della dottrina circa il rapporto tra la disciplina di accesso agli atti e quella di accesso al documento di valutazione dei rischi risulta pacifica, la giurisprudenza al riguardo è molto più discordante.
La pronuncia del Tar Abruzzo (L’Aquila), sez. I, 12 luglio 2012, n. 467 ha accolto il ricorso di un lavoratore avverso il diniego di accesso «alla documentazione inerente il procedimento di verifica della valutazione del rischio amianto nel luogo di lavoro» opposto dall’istituto pubblico presso il quale prestava la propria attività. Il tribunale ha riconosciuto il diritto di accesso al documento da parte del lavoratore – e non solo al Rls come, invece, sostenuto dall’istituto – affermando che «la normativa sull’accesso ai documenti amministrativi riveste una portata generalizzata che non tollera inibizioni applicative in virtù di disposizioni speciali». Il giudice amministrativo, inoltre, ha tenuto a puntualizzare che la funzione del Rls non si sostanzia in una mera cognizione delle misure predisposte dal datore di lavoro, ma va ben oltre essa, avendo diritto a essere informato e consultato in ordine alla valutazione dei rischi, vedendo riconosciuto un autonomo potere propositivo. In conclusione è stato rilevato che «la legge 241/90 incide sulla diretta cognizione degli atti datoriali già formati, ma non deroga al ruolo istituzionale del RLS quale organo di rappresentanza dei lavoratori, chiamato comunque alla esclusiva e qualificata interlocuzione con il datore di lavoro, anche sulla scelta delle modalità mirate a garantire la sicurezza».
Posizione favorevole all’accesso al documento di valutazione dei rischi da parte del Rls è anche quella del Tar Lazio (Roma), sez. III, 13 dicembre 2012, n. 10390. La decisione ha preso avvio dall’istanza presentata da alcuni dipendenti di Poste italiane con la quale chiedevano l’estrazione di copia di alcuni documenti, tra cui il Dvr, richiesta rimasta priva di riscontro. La società resistente ha giustificato il silenzio- diniego sulla base del fatto che il documento contenga dati sensibili e riservati, non arbitrariamente divulgabili. Il tribunale romano ha accolto il ricorso asserendo che Poste italiane non può «limitare il diritto di accesso, essendo quegli stessi atti direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto dei ricorrenti», richiamando a sostegno di ciò il decreto del ministero delle Comunicazioni 24 agosto 1999, n. 211, relativo all’esclusione del diritto di accesso ai documenti di Poste italiane, tra i quali non risulta essere contemplato il documento di valutazione dei rischi. Infine, ha concluso il giudice, qualora la società ritenga necessario tutelare la riservatezza dei dati, questa esigenza potrebbe essere sufficientemente garantita anche solo tramite particolari accortezze circa le modalità di accesso.
Sul tema è intervenuta anche la sentenza del Tar Puglia (Bari), sez. III, 15 gennaio 2015, n. 56, adito per decidere una controversia sorta a seguito del permesso di accedere al Dvr riconosciuto da un dirigente scolastico a un organismo sindacale degli insegnanti. Questo accesso, però, era stato subordinato dal dirigente a due condizioni: la sussistenza di un’opportuna giustificazione ex art. 22, legge n. 241/1990 e la visione solamente presso l’ufficio di presidenza della scuola negli orari di apertura.
Il Tribunale ha affermato la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo al ricorrente, conseguentemente dichiarando l’illegittimità della subordinazione della consultazione del documento a una opportuna giustificazione del diritto affermato. Il giudice amministrativo, inoltre, ha asserito la assoluta mancanza di pertinenza del richiamo alla legislazione giuslavoristica, negando che possa, in qualche modo, prevalere sulla disciplina relativa all’accesso agli atti. Particolarità della decisione riguarda la modalità con cui deve essere garantita la consultazione; infatti, accogliendo il ricorso, il tribunale amministrativo ha condannato il dirigente scolastico a rilasciare copia informatica del Dvr inviandolo via pec alla ricorrente. Si tratta di una formalità che porta a una trasmissione del documento all’esterno dei locali scolastici, in violazione di quanto prescritto espressamente dall’art. 18, comma 1, lettera o), D. Lgs. n. 81/2008.
Di diverso avviso è la più recente sentenza del Tar Marche n. 506/2016. Nel caso discusso, una dipendente della direzione territoriale del lavoro di Ancona ha impugnato il diniego dell’amministrazione alla richiesta di estrarre copia del Dvr, motivato sulla base degli artt. 18 e 50, D.Lgs. n. 81/2008, dalla cui lettura si evince che l’accesso è consentito al solo rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Inoltre, l’amministrazione ha disconosciuto che il documento in questione possa considerarsi avente natura amministrativa e, pertanto, sarebbe sottratto dall’applicazione della legislazione sul procedimento amministrativo. In netta contrapposizione con le posizioni sovraesposte degli altri tribunali amministrativi, il giudice marchigiano ha asserito la specialità della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro rispetto quella più generale riguardante l’accesso agli atti amministrativi.

In conseguenza di ciò ritiene che il solo Rls, fermi i limiti e divieti di cui al D.Lgs. n. 196/2003 (codice della privacy) e quelli relativi al segreto industriale, abbia diritto di ricevere copia del Dvr e che in questo modo siano adeguatamente tutelati gli interessi dei suoi rappresentati. Peraltro, si rileva come il Dvr abbia un contenuto tecnico che molto spesso è di difficile comprensione da parte dei lavoratori. Il Tar Marche ha confermato, infine, che quanto stabilito dal D.Lgs. n. 81/2008 si debba ritenere applicabile tanto al datore di lavoro pubblico quanto a quello privato e, di conseguenza, anche le pubbliche amministrazioni sono tenute all’osservanza delle prescrizioni in esso contenute.
Preso atto delle contrastanti posizioni giurisprudenziali, si può ritenere che la soluzione più idonea a risolvere il dibattito sia quella prospettata dal Tar Marche. Quanto sostenuto dagli altri giudici amministrativi, infatti, non può essere condiviso poiché si è in presenza di una disposizione [l’art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008] che prevede espressamente e senza eccezioni le modalità di accesso al Dvr. Disposizione che è contenuta in una normativa speciale (il testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro) rispetto a quella in materia di accesso agli atti amministrativi e, perciò, su di essa prevalente. In conclusione, anche in materia di pubblico impiego deve valere quanto prescritto dal D.Lgs. n. 81/2008 e, di conseguenza, il documento di valutazione dei rischi è consultabile solamente da parte del Rls e soltanto all’interno dell’azienda.

Profili di responsabilità
Il D.Lgs. n. 81/2008 non prescrive sanzioni direttamente in capo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (né aziendale né territoriale), in quanto, da una parte, si vuole evitare che i soggetti siano scoraggiati dall’assumere questo incarico, dall’altra perché la funzione da esso svolta è meramente consultiva, ciò implicando che la decisione finale – e la conseguente responsabilità – è sempre e comunque rimessa al datore di lavoro.
La giurisprudenza di Cassazione (sez. III penale, 2 marzo 2001, n. 20904), a sostegno di quanto sopra, ha escluso che il soggetto nominato come rappresentante per la sicurezza dei lavoratori debba rispondere, in quanto tale, delle misure di prevenzione da adottare. Con la sentenza n. 20904/2001 la Cassazione penale, peraltro confermando quanto sostenuto in primo grado dal tribunale di Lucera, chiarisce che il Rls «a norma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 626/1994, ha solo compiti di consulenza e di proposta in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, ma sempre nell’ambito dell’azienda o dell’amministrazione di appartenenza».
Questa figura non ha poteri decisionali né di spesa, dunque non possono ricadere su di essa quelle responsabilità derivanti da
obblighi di prevenzione collegati al riconoscimento ed esercizio dei suddetti poteri.
In tema di responsabilità merita poi di essere richiamato l’art. 50, D.Lgs. n. 81/2008, il cui comma 7 stabilisce espressamente le ipotesi di incompatibilità della funzione di Rls, la quale non può essere svolta da quei soggetti che ricoprono l’incarico di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione. Ciò porta a ritenere che non vi siano altri compiti incompatibili con quello di Rls, che perciò potrebbe essere un lavoratore avente anche mansioni di responsabilità (ad esempio un capo turno, un capo reparto eccetera); in queste situazioni, quindi, può svolgere un ruolo non solo consultivo ma anche operativo e, pertanto, in forza del principio di effettività anch’esso potrà essere considerato responsabile dell’eventuale reato. Qualora il Rls aziendale non ricopra alcun ruolo particolare, esso è pur sempre un lavoratore come gli altri, per cui si applica quanto stabilito dall’art. 20, nei limiti della specifica formazione eventualmente ricevuta. Rispetto quest’ultima precisazione, infatti, il comma 10 dell’art. 37, D.Lgs. n. 81/2008 riconosce in capo al rappresentante il diritto a una formazione idonea ad assicurargli competenze adeguate circa le tecniche di controllo e prevenzione dei rischi specifici esistenti negli ambienti di lavoro ove svolge la propria funzione. Sarà, perciò, possibile esigere da parte sua una maggiore attenzione, valutazione e gestione dei rischi rispetto agli altri lavoratori, in base alla particolare formazione a esso fornita. Dal combinato disposto degli artt. 20 e 37 si evince che, ove i lavoratori – e quindi anche il Rls – abbiano ricevuto la formazione prevista, essi saranno perfettamente in grado di valutare e gestire in modo appropriato i rischi, limitando le conseguenze negative sul datore di lavoro. L’art. 20, infatti, se correttamente applicato, è idoneo a infrangere l’orientamento giurisprudenziale che pone in capo al datore di lavoro ogni responsabilità derivante dal controllo sui lavoratori. Altro elemento di rilievo è quello previsto dalla lettera e) del comma 2 dell’art. 20, il quale prescrive l’obbligo di immediata segnalazione al datore di lavoro di eventuali carenze o condizioni di pericolosità riscontrate. In caso di omessa osservanza di questa disposizione, anche il Rls potrà rispondere della relativa violazione; infatti, anch’esso deve adoperarsi attivamente al fine di eliminare o almeno ridurre al minimo la situazione di pericolo e, qualora ciò non avvenga, si determina l’insorgere di profili di responsabilità.
La violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008 è sanzionata, ai sensi dell’art. 59, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, «con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro per la violazione degli articoli 20, comma 2, lettere b), c), d), e), f), g), h) e i), e 43, comma 3, primo periodo (…)». Alla luce di quanto esposto, questa norma è applicabile anche a quel lavoratore che rivesta la particolare funzione di Rls. Preme però evidenziare che ne risponderà non in quanto soggetto che ricopre la suddetta qualifica, ma in quanto lavoratore dell’azienda.
La disciplina in materia di salute e sicurezza, come detto finora, non sanziona alcun comportamento del Rls in quanto tale.
L’unico divieto espressamente sancito è quello relativo al dovere di segretezza e riservatezza di quanto venga a conoscenza nell’esercizio della propria funzione e, in particolare, attraverso la consultazione del documento di valutazione dei rischi.
L’art. 50, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008, infatti, prevede che il rappresentante sia «tenuto al rispetto delle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi e nel documento di valutazione dei rischi di cui all’ articolo 26, comma 3, nonché al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni». In base a questa norma, quindi, il Rls è obbligato al rispetto della disciplina in materia di privacy, concetto inteso non solo come diritto a un trattamento limitato e attento dei dati personali, ma anche come adozione in via cautelativa di misure tecniche ed organizzative poste a salvaguardia della riservatezza dei soggetti interessati.
L’attenzione posta dal legislatore a questi aspetti si rinviene anche nei limiti posti all’accesso al Dvr, quale quello di consultazione solo all’interno dei locali dell’azienda, poiché esso contiene una pluralità di elementi concernenti aspetti strettamente personali della vita privata dei lavoratori. Per quanto attiene, invece, ai processi lavorativi di cui viene a conoscenza nello svolgimento del proprio ruolo, in caso di violazione dei segreti che ne scaturiscono, il rappresentante può essere chiamato a risponderne in sede penale.
Possono, infatti, configurarsi le fattispecie di cui agli artt. 621, 622 e 623 del codice penale. Tuttavia, ai fini della sussistenza dei reati in questione, la giurisprudenza di Cassazione si è più volte espressa nel senso della necessità che la rivelazione di quanto conosciuto e oggetto del diritto alla segretezza abbia effettivamente procurato un pregiudizio giuridicamente rilevante alla società, costituendo questo elemento condizione di punibilità.
Si richiama, infine, la disciplina del D.Lgs. n. 25/2007, già trattata precedentemente29, che estende l’obbligo di riservatezza ai soggetti esperti di cui il rappresentante può eventualmente avvalersi nell’esercizio delle proprie funzioni e nella comprensione del documento di valutazione dei rischi. L’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 5 del suddetto decreto sanziona espressamente la violazione del divieto prescritto di non divulgare informazioni riservate, rimandando alla contrattazione collettiva l’individuazione dei relativi provvedimenti disciplinari.

Conclusioni
Giurisprudenza e dottrina, nel corso degli anni, si sono dovute confrontare con un dato normativo per niente chiaro e tranchant come quello attuale elaborato dal D.Lgs. n. 81/2008. A oggi, infatti, non vi sono più dubbi circa il fatto che il Rls aziendale debba consultare il documento esclusivamente in azienda e ciò in quanto è la norma che espressamente lo prescrive. Per quanto concerne il rappresentante territoriale, si può qui ribadire che, non essendo stabilito alcunché di specifico, nonostante la particolarità di questa figura che opera per una pluralità di imprese, la soluzione deve essere la stessa prospetta ta per il Rls, valendo per il soggetto territoriale le medesime competenze e modalità di esercizio di quello aziendale.
La più controversa delle situazioni esaminate è probabilmente quella del pubblico impiego, poiché in questo ambito il diritto di consegna e consultazione del Dvr deve contemperarsi con il diritto di accesso agli atti secondo quanto stabilito dalla legge n. 241/1990. Tuttavia, come già rilevato in apposita sede, questo contrasto normativo deve essere risolto con l’applicazione del principio di specialità, in base al quale la legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in quanto speciale, prevale sulla disciplina, più generale, relativa all’accesso agli atti amministrativi. In merito ai profili di responsabilità, si è detto che al Rls, svolgendo una funzione meramente consultiva, non sono attribuiti obblighi sanzionati in quanto ricoprente tale qualifica. Tutt’al più, qualora rivesta mansioni particolari (ad esempio capo reparto, capo turno eccetera), potrà essere considerato responsabile per gli specifici obblighi derivanti da questo differente funzione ovvero, qualora sia un normale lavoratore dell’azienda, sarà soggetto alla disciplina sanzionatoria prescritta in caso di violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008.
È, invece, espressamente richiesto al Rls l’osservanza della disciplina in materia di privacy nonché del segreto industriale, potendo, in caso di violazione di queste normative, incorrere in responsabilità anche penale.
È possibile comunque affermare che le varie tematiche sono state affrontate e risolte dal legislatore, tenendo conto del necessario bilanciamento dei diversi interessi in gioco:

  • da un lato vi è quello dei lavoratori, o meglio del Rls in loro rappresentanza, di accedere agli atti che riguardano i vari aspetti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, al fine di ottenerne una rigorosa osservanza in ambito aziendale;
  • dall’altro lato, invece, vi è l’interesse dei lavoratori non direttamente interessati, i quali hanno diritto a vedere tutelata e garantita la propria privacy, affinché non vengano abusivamente rese ostensibili e divulgate informazioni inerenti la loro vita privata;
  • dall’altro lato ancora, gli interessi del datore di lavoro. Questi ha diritto alla riservatezza e segretezza, in particolar modo per quanto attiene alla sfera professionale e industriale: la violazione di questi segreti può arrecare un ingente danno economico alle aziende coinvolte;
  • un ultimo interesse che rileva è quello di tutela pubblica. Non si deve, infatti, sottovalutare il fatto che la divulgazione di documenti segreti inerenti all’attività industriale possa ripercuotersi su tutta la collettività, per cui risulta fondamentale il rispetto della riservatezza; basti pensare al pericolo che potrebbe derivare, anche al fine di possibili attentati, dalla divulgazione di notizie e segreti dei siti industriali a rischio “Seveso”.

Per concludere, la soluzione al problema affrontato va risolta con il semplice richiamo alla lettera della norma, il quale risulta chiaro e pacifico; infatti, il citato art. 18, lettera o), D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce espressamente che il documento sia consultato esclusivamente all’interno degli ambienti aziendali.

 

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Estintori sicuri, dai Vigili del fuoco chiarimenti per i corsi

Le raccomandazioni contenute nella circolare n. 11197/2018 del 14 agosto 2018

I fornitori sono responsabili delle attrezzature, ma anche i componenti la commissione d’esame o gli incaricati delle lezioni devono accertare la loro conformità. Indicazioni utili pure ai soggetti privati che erogano servizi di formazione

Con la pubblicazione della circolare 11197 del 14 agosto 2018, il dipartimento dei Vigili del fuoco ha offerto utili chiarimenti circa l’impiego degli estintori portatili utilizzati per le prove pratiche di estinzione durante i corsi erogati dai comandi dei Vigili del fuoco.

Considerato il fatto che nel nostro Paese la formazione dei lavoratori incaricati di attuare le misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro può essere erogata anche da soggetti privati, è auspicabile che queste precauzioni possano diventare di uso comune. I chiarimenti, infatti, contengono una serie di istruzioni operative atte a verificare l’efficienza e la sicurezza degli estintori d’incendio utilizzati nel corso dell’esercitazioni pratiche di estinzione. Inizialmente è specificato che la responsabilità di assicurare presidi idonei, pienamente funzionanti e dotati di tutte le certificazioni e documentazioni previste per legge è a carico dei soggetti fornitori di estintori portatili. Di fatto con questa affermazione si richiama la responsabilità di chi, a vario titolo, fornisce ai comandi le attrezzature antincendio necessarie alla formazione. Proseguendo l’analisi del testo della circolare emerge un interessante consiglio circa la tipologia di estintori da impiegare per le prove di estinzione. Per questo aspetto è precisato che, alla luce del fatto che questi dispostivi sono soggetti a ripetuti utilizzi con frequenze di scariche e ricariche molto elevate e un’usura sicuramente riferibile più a una attrezzatura di lavoro che a un presidio antincendio, è preferibile l’uso di estintori caratterizzati da minori pressioni di esercizio (come per esempio gli estintori a base d’acqua) al fine di minimizzare le conseguenze di un’eventuale malfunzionamento per una eccessiva usura del dispositivo.
Le indicazioni contenute nella circolare proseguono con l’elencazione delle verifiche da attuare per assicurare il corretto funzionamento degli apparecchi.

Al riguardo è specificato che al momento del ricevimento degli estintori la commissione d’esame o gli incaricati della lezione hanno il dovere di verificare che le iscrizioni sull’etichetta dell’estintore siano presenti e ben leggibili, che l’estintore non abbia superato la vita utile ammissibile (18 anni dalla data di produzione rinvenibile sui dati punzonati sul serbatoio) e che gli estintori siano integri e non presentino segni di deterioramento in alcuna parte del dispositivo (assenza di segni di ruggine o tracce di corrosione, integrità della manichetta e dell’eventuale cono di espansione, assenza di sconnessioni o incrinature delle tubazioni flessibili ecc.). Ulteriori controlli da eseguire riguardano la verifica del corretto accoppiamento della manichetta con il cono erogatore (se presente) e quello della manichetta con la valvola di comando, che l’indicatore di pressione (se presente) indichi un valore compreso all’interno del campo verde e che sia presente il sigillo sul dispositivo di sicurezza della valvola di azionamento.

Un particolare riferimento è fatto per l’utilizzo di estintori immessi sul mercato a partire dal 29 maggio 2002. Per questi infatti è richiesto di accertare la presenza e la leggibilità della marcatura Ce relativa agli aspetti di sicurezza delle apparecchiature a pressione (requisiti direttiva Ped). Per quanto concerne gli obblighi a carico dei fornitori di estintori, con la circolare 11197 è specificato che questi ultimi hanno sempre il dovere di presentare al comando una dichiarazione in cui è espresso che i presidi messi a disposizione sono conformi al prototipo omologato e che sono stati sottoposti a corretta manutenzione.
Di fatto, con questa ultima parte della circolare è richiesta una verifica puntuale del rispetto delle disposizioni del decreto del ministero dell’Interno 7 gennaio 2005 e delle specifiche contenute nella norma tecnica Uni 9994-1.

Riscontro di non conformità
La circolare 11197 del 14 agosto 2018 termina con le azioni da attuare in caso di riscontro di non conformità. Di fatto è specificato che qualora dai controlli indicati emergano delle criticità sugli estintori, gli addetti alla lezione pratica e la commissione di esame non dovranno utilizzare l’apparecchiatura e il comando dovrà provvedere a inoltrare una segnalazione alla direzione del corpo nazionale dei Vigili del fuoco.

È richiamata inoltre la necessità di porre la massima attenzione nel consentire l’attività di formazione e accertamento esclusivamente a personale docente e discente opportunamente protetto in base alla valutazione del rischio cui è esposto.

La normativa di riferimento
Non è superfluo ricordare che il decreto 7 gennaio 2005 citato nella circolare detta le regole per la classificazione e l’omologazione degli estintori portatili di incendio con il quale, ricordiamo, il legislatore ha riconosciutoufficialmente la norma En 3-7 3 che specifica i requisiti, i metodi di prova e i criteri di prestazione per estintori di incendio portatili. Questo significa che oggi i produttori italiani hanno il dovere di fabbricare, omologare e immettere sul mercato nazionale estintori portatili d’incendio costruiti in conformità alla norma europea En 3-7. Inoltre, con il decreto 7 gennaio 2005 è stabilito che tra gli obblighi e le responsabilità dei produttori vi è quello di:

  • garantire la conformità della produzione al prototipo omologato mediante un sistema di controllo di produzione;
  • impiegare nella produzione materiali, componenti e accoppiamenti conformi alla direttiva Ped;
  • emettere per ogni estintore portatile la dichiarazione di conformità;
  • fornire a corredo di ogni esemplare il libretto d’uso e manutenzione;
  • punzonare sull’estintore portatile d’incendio l’anno di costruzione, il numero di matricola progressivo e il codice costruttore.

Anche l’utilizzazione è uno degli aspetti regolamentati dal D.M. 7 gennaio 2005.
In particolare, è importante ribadire che con l’articolo 4 «Utilizzazione» sono dettate le disposizioni volte ad assicurare che l’estintore mantenga nel tempo le caratteristiche tecniche che hanno portato al rilascio dell’omologazione ministeriale. Viene infatti specificato che gli estintori immessi sul mercato devono sempre essere conformi ai rispettivi prototipi omologati. Inoltre, con il secondo comma dell’articolo 4 è richiamato l’obbligo di far eseguire la manutenzione degli apparecchi in esercizio da personale esperto (come previsto dal D.M.10 marzo 1998 4) e secondo le proceduredefinite dalla famosa norma Uni 9994.
Per questo aspetto si segnala che, attualmente, è disponibile la norma Uni 9994-1 (pubblicata il 20 giugno 2013) nella quale sono contenuti i criteri per svolgere il controllo iniziale e la manutenzione degli estintori di incendio.

La manutenzione
Alla luce del fatto che solo una puntuale conoscenza della norma Uni 9994-1 può consentire una adeguata verifica degli estintori circa la loro corretta manutenzione, si ritiene opportuno ricordarne brevemente le specifiche in essa contenute. In particolare, la norma – che si applica per la corretta manutenzione degli estintori di incendio portatili e carrellati (inclusi gli estintori di incendio per fuochi di classe D) – specifica che per mantenere l’estintore in efficienza devono essere eseguite, con una determinata periodicità, alcune verifiche oggettive, che nella maggior parte dei casi possono essere svolte solo da personale esperto. In particolare, nella nuova norma vengono individuate sei fasi di manutenzione: il controllo iniziale, la sorveglianza, il controllo periodico, la revisione programmata, il collaudo e la manutenzione straordinaria.
Per quanto concerne il controllo iniziale, che deve essere eseguito da un tecnico manutentore, è previsto l’esame della conformità dell’apparecchio e della documentazione che lo accompagna (verifica della integrità delle marcature e la disponibilità del libretto d’uso e manutenzione rilasciato dal produttore). Questo intervento, che in prima battuta potrebbe risultare poco utile, può essere definito come la fase di presa in carico dell’estintore da parte dell’impresa di manutenzione, in quanto consente di verificare la conformità dei mezzi di estinzione manuali e di provvedere eventualmente alla loro messa fuori servizio a causa della presenza di specifiche anomalie (per esempio, se presentano segni di corrosione, ammaccature, se sono privi delle marcature o che abbiano superato 18 anni di vita ecc.).
La sorveglianza, che è la misura di prevenzione atta a controllare l’estintore nella posizione in cui è collocato, può essere svolta invece direttamente dall’utilizzatore che, nel caso di evidenti anomalie, deve provvedere a interpellare il manutentore che può eseguire gli interventi previsti in tutte le altri fasi della manutenzione. In questa fase deve essere verificata l’integrità dell’estintore e dei suoi componenti, come per esempio l’indicatore di pressione, la corretta posizione, l’adeguatezza della segnaletica che consente di individuarlo e la presenza del cartellino di manutenzione.
Per controllo periodico si intende la misura di prevenzione atta a verificare, con frequenza almeno semestrale, l’efficienza dell’estintore. In particolare, durante questo intervento, che è svolto esclusivamente da personale competente (tecnico manutentore), è previsto il controllo della pressione interna con uno strumento indipendente per gli estintori a pressione permanente, il controllo dello stato di carica mediante pesatura per gli estintori a biossido di carbonio, il controllo della presenza del tipo e della carica delle bombole di gas ausiliario per gli estintori pressurizzati con questo sistema.
La revisione programmata, invece, è la misura di prevenzione volta a verificare e rendere perfettamente efficiente l’estintore. Effettuata da persona competente e con la periodicità non maggiore rispetto a quella indicata nel prospetto 2 della norma Uni 9994-1, la revisione programmata prevede:

  • esame interno dell’apparecchio;
  • controllo funzionale di tutte le parti;
  • controllo dei componenti (pescante, tubi flessibili, ugelli ecc.);
  • sostituzione dei dispositivi di sicurezza se presenti;
  • sostituzione dell’agente estinguente;
  • sostituzione delle guarnizioni;
  • sostituzione della valvola erogatrice per gli estintori a biossido di carbonio;
  • rimontaggio dell’estintore in perfetto stato di efficienza.

Gli estintori d’incendio sono apparecchi a pressione e, pertanto, il loro serbatoio periodicamente deve essere e sottoposto a collaudo da parte di personale competente. Per questa fase, nella norma Uni 9994-1 è stata specificata la frequenza in funzione della conformità alla direttiva 97/23/CE 5 (D.Lgs. n. 93/2000 6).
In particolare, gli estintori che non siano già soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e costruiti in conformità al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati secondo la periodicità prevista nel prospetto 2 della norma mediante una prova idraulica della durata di 30 secondi alla pressione di prova (Pt) indicata sul serbatoio, mentre quelli che non sianogià soggetti a verifiche periodiche secondo la legislazione vigente e non conformi al D.Lgs. n. 93/2000 devono essere collaudati mediante una prova idraulica della durata di un minuto a una pressione di 3,5 MPa, o come da valore punzonato sul serbatoio (se maggiore). Al termine delle prove, non devono verificarsi perdite, trasudazioni, deformazioni o dilatazioni di alcun tipo. La manutenzione straordinaria, invece, è l’intervento che deve essere attuato, durante la vita dell’estintore, ogni volta che le operazioni di manutenzione ordinaria non sono sufficienti al ripristino delle condizioni di efficienza dell’estintore stesso.

Durante l’attività di un effettivo mantenimento dello stato di fatto in cui l’estintore è stato consegnato, possono emergere problemi di entità diversa che sono risolvibili solo con la sostituzione di alcune parti componenti dell’apparecchio. Tutti gli interventi devono essere garantiti dal manutentore e tutte le riparazioni (e le sostituzioni che impediscano il decadimento dei livelli di sicurezza dei prodotti) devono essere attuate immediatamente. La mancanza di ricambi originali o adeguati, il protrarsi dell’intervento oltre il normale tempo del controllo stesso obbliga di fatto il manutentore a dichiarare il prodotto non funzionante e a comunicarne le cause alla persona responsabile. Una cosa importante: la norma Uni 9994-1 prevede chiaramente che la messa fuori uso dell’estintore deve essere effettuata tramite l’emissione di un documento attestante la messa fuori uso. Infine, per quanto concerne questo importante aspetto, è indispensabile non dimenticare che in fase di manutenzione se l’estintore deve essere rimosso, è necessario prevedere la sua momentanea sostituzione con altro di capacità estinguente non inferiore.

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Scuola-lavoro e tirocini: chiarito il regime di tutela

La risposta della Commissione Interpelli a un quesito della Provincia di Trento.

Il soggetto ospitante, anche se è un autonomo, deve assumere, a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore per la sicurezza con tutto quanto consegue come, ad esempio, l’obbligo – fra gli altri – di effettuare la valutazione dei rischi, di redigere il Dvr e nominare il Rspp. Tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani interessati a percorsi di questo tipo.

Nel corso degli ultimi, anni in svariate occasioni è finito al centro dell’attenzione il tema dell’inserimento lavorativo dei giovani e la tutela dalla loro salute e sicurezza sul lavoro. Bisogna riconoscere che il modello contrattuale “principe” dell’apprendistato – pur se oggetto di continui rimaneggiamenti, da ultimo con il D.Lgs. n. 81/2015 – in Italia, purtroppo, stenta ancora a decollare a differenza di quello che accade in Germania e in altri Paesi europei.

A tutto ciò si aggiunge, poi, la legge n. 977/1967 sul lavoro minorile che al fine di assicurare una tutela più intensa delle condizioni di lavoro dei giovani prevede numerosi vincoli, spesso però vissuti dai datori di lavoro come un autentico zoccolo duro che esercita una forte azione disincentivante. Questo quadro consente di spiegare, almeno in parte, perché nel corso dell’ultimo biennio appare sempre più crescente la disponibilità che stanno dimostrando soprattutto le aziende nell’ospitare studenti inseriti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, rivitalizzati dalla legge n. 107/2015 (la cosiddetta legge sulla “buona scuola”).

Questo strumento si affianca, per altro, a un altro istituto affine come il tirocinio che nei primi anni del nuovo millennio ha subito un vero e proprio boom, soprattutto poco prima dell’emanazione della legge n. 92/2012, che ha riformato la materia con l’obiettivo di frenare il loro utilizzo spesso in modo distorto «come uno strumento di fuga dal lavoro subordinato». La massiccia diffusione di queste due forme di primo ingresso dei giovani in ambito aziendale ha sollevato, però, anche numerose criticità sul piano gestionale, soprattutto in ordine al tipo di regime della salute e della sicurezza sul lavoro applicabile.

Per questo motivo il ministero del Lavoro è stato costretto a intervenire nuovamente con l’interpello n. 4 del 25 giugno 2018, in cui ha fornito alcune indicazioni in risposta allo specifico quesito presentato dalla Provincia autonoma di Trento, che aveva chiesto di sapere «se, nei casi di tirocini formativi da svolgersi presso lavoratori autonomi non configurabili come datori di lavoro, sia applicabile l’articolo 21 del D.Lgs. 81/2008, individuando particolari modalità per garantire la tutela e sicurezza del tirocinante o se invece il decreto vada applicato interamente, con conseguente e non indifferente aggravio di oneri a carico dell’imprenditore e possibili effetti sulla realizzabilità del tirocinio stesso». La Commissione ministeriale ha espresso, così, alcune indicazioni interpretative che, come vedremo, si pongono in piena sintonia con gli orientamenti dottrinali in materia rispondendo, sia pure indirettamente, al quesito sullo specifico caso deilavoratori autonomi prospettato dalla Provincia autonoma di Trento.

Si tratta, invero, di un indirizzo molto interessante che dovrebbe sopire definitivamente (si spera) ogni incertezza circa il tipo di regime generale applicabile, anche per gli stessi organi di controllo (Asl, Inl ecc.) nei confronti dei quali bisogna ricordare che le indicazioni fornite dalla Commissione nelle risposte ai quesiti costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza.

Regime ordinario del D.Lgs. 81/2008

Nell’interpello n. 4/2018, la Commissione del ministero del Lavoro, dopo aver ricostruito puntualmente l’evoluzione normativa che ha caratterizzato questi due strumenti, si è soffermata sui tirocinanti richiamando l’orientamento già assunto dallo stesso ministero in una risposta a un quesito pubblicato sul proprio sito istituzionale il 1° ottobre 2012, in cui ha tenuto a precisare che se un’azienda o uno studio professionale fa ricorso a soggetti che svolgano stage o tirocini formativi dovrà osservare gli stessi obblighi previsti per i lavoratori subordinati (informazione, formazione, addestramento, sorveglianza sanitaria ecc.) in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, che prevede un’equiparazione per effetto della quale il titolare dello studio o l’amministratore di un’impresa assume nei confronti anche di questi soggetti la posizione di datore di lavoro per la sicurezza.

Lo stesso principio, ha precisato la Commissione, trova applicazione anche nel caso degli studenti impegnati nei percorsi di alternanza scuola-lavoro previsti dalla legge n. 107/2015, in quanto il già citato art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, equipara esplicitamente ai lavoratori subordinati anche gli studenti impegnati secondo questo regime.

Ripartizione degli obblighi formativi

In ordine all’alternanza scuola-lavoro la stessa Commissione, poi, ha anche puntualizzato che la disciplina del D.Lgs. n. 81/2008 dovrà essere applicata tenendo presente anche di quanto prevede il decreto interministeriale 3 novembre 2017,

  1. 195, che oltre a prevedere la «Carta dei diritti e dei doveri degli studenti» ribadisce in modo fermo l’essenza dello strumento – introducendo anche un tetto massimo al numero degli studenti impiegabili a livello di singola struttura ospitante – e detta all’art. 5 norme specifiche finalizzate alla tutela antinfortunistica degli studenti in alternanza, soprattutto per quanto riguarda la formazione e la sorveglianza sanitaria.

In particolare, per quanto riguarda la formazione, l’art. 5, comma 1, 2 e 3 del decreto n. 195/2017 prevede un meccanismo di ripartizione dell’obbligazione formativa, di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, tra istituzione scolastica e soggetto promotore.
L’obbligo della formazione generale in materia di sicurezza, infatti, di almeno quattro ore secondo quanto stabilisce l’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 n. 221/Csr, ricade sull’istituzione scolastica. Sulla struttura ospitante, invece, ricade l’obbligo della formazione specifica da erogare all’ingresso dello studente nella stessa struttura: quindi le aziende non possono avvalersi della contestatissima disposizione contenuta nell’accordo del 21 dicembre 2011, che in caso di difficoltà stabilisce che il «percorso formativo deve essere completato entro e non oltre60 giorni dalla assunzione».

Nella convezione è possibile, comunque, stabilire «(…) il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri conseguenti». Questa disposizione appare, invero, poco chiara in quanto non si comprende se il ministero faccia riferimento agli oneri economici della formazione specifica o la possibilità che la formazione specifica possa essere erogata direttamente dalla scuola. In effetti al comma 2 è stabilito che è di competenza dei dirigenti scolastici l’organizzazione dei corsi di formazione.

Tuttavia, ad avviso di chi scrive, ciò non può che essere riferito alla formazione generale in quanto per quella specifica entra in gioco il Dvr delle singole strutture ospitanti le quali, per altro, durante la permanenza dello studente assumono la posizione di datore di lavoro per la sicurezza ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008.

Sorveglianza sanitaria

Per quanto, invece, riguarda la sorveglianza sanitaria occorre sottolineare che l’art. 5, comma 5, del decreto n. 195/2017, stabilisce che agli studenti in regime di alternanza è garantita la sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008, nei casi previsti dalla normativa vigente3, attraverso le aziende sanitarie locali, con la possibilità di stabilire in un’apposita convenzione tra queste ultime e l’istituzione scolastica il soggetto a carico del quale gravano gli eventuali oneri a essa conseguenti.

Questa previsione sta creando non poche incertezze sul piano operativo e pone un problema di fondo: si tratta di una soluzione che mette fuori gioco il medico competente aziendale, ossia proprio il soggetto che ha una conoscenza approfondita del documento di valutazione dei rischi (Dvr) dell’azienda ospitante. Appare interessante far osservare, poi, che

su questo tema così delicato si è espresso recentemente anche l’ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna, che nella nota 8 maggio 2018, prot. 860, ha tenuto a precisare che riveste «(….) natura eccezionale – previa valutazione caso per caso – la necessità di attivare la sorveglianza sanitaria, considerate le peculiarità di questo tipo di metodologia didattica, lo sviluppo temporale delle attività previste, nonché lo svolgimento da parte dello studente di esperienze lavorative in affiancamento a personale della struttura ospitante e sotto la supervisione del tutor aziendale e scolastico, sulla base di un progetto personalizzato condiviso” e «In base alla esperienza e ai limiti imposti dalla norma, considerati i compiti che vengono richiesti agli studenti in alternanza scuola lavoro (affiancamento e non svolgimento diretto) e la limitata permanenza degli studenti nelle strutture, la predetta valutazione dovrebbe portare a escludere livelli di rischio tali da giustificare la sorveglianza sanitaria».

Minorenni e stage formativi

Si osservi, inoltre, che nello stesso interpello n. 4/2018 è anche richiamata molto opportunamente anche la risposta all’interpello del 2 maggio 2013, n. 1, in cui la Commissione ha fornito indicazioni in merito al quesito relativo alla visita medica preventiva nei confronti di studenti minorenni Partecipanti a stage formativi, precisando in particolare che «l’obbligatorietà della visita di cui all’art. 8 della legge 977/1967 vige solo nei casi in cui vi sia un rapporto di lavoro, anche speciale, circostanza che non sussiste per “l’adolescente stagista” e “lo studente minorenne” che dovranno pertanto essere sottoposti a sorveglianza sanitaria solo nei casi previsti dalla normativa vigente».

Abusi e limiti

L’interpello n. 4/2018 deve essere letto congiuntamente, comunque, anche con le importanti indicazioni espresse dal ministero dell’Istruzione (Miur) nella poco nota lettera circolare 28 marzo 2017, prot. n. 3355, nella quale vengono forniti alcuni chiarimenti interpretativi in merito al già citato decreto n. 195/2017, oltre che a numerosi altri aspetti legati alla gestione degli studenti in alternanza (buoni pasto, compensi a esperti aziendali per opera legata alle attività di alternanza scuola-lavoro ecc.).

In particolare, il Miur ha tenuto a precisare, tra l’altro, che gli studenti in alternanza scuola-lavoro devono essere costantemente guidati nelle varie esperienze da una o più figure preposte alla realizzazione del percorso formativo (tutor interno, tutor formativo esterno) e non possono essere impegnati nelle fasce notturne. Sotto questo profilo è opportuno ricordare che gli studenti vanno impiegati esclusivamente per le attività coerenti con le finalità didattiche-educative e ciò costituisce un limite invalicabile. Da rilevare ancora che nella stessa lettera circolare viene molto opportunamente sottolineato che l’accoglimento degli studenti minorenni per i periodi di apprendimento in situazione lavorativa non fa acquisire agli stessi la qualifica di “lavoratore minore” di cui alla già citata legge n. 977/1967.

Il caso dei lavoratori autonomi

Tornando all’interpello n. 4/2018, alcune doverose osservazioni conclusive devono essere svolte sul caso specifico dell’impiego di tirocinanti e studenti in alternanza da parte dei lavoratori autonomi a cui fa particolare riferimento la Provincia autonoma di Trento nel quesito presentato. Si tratta di artigiani, professionisti e, più in generale, di prestatori d’opera che, secondo quanto prevede l’art. 2222 del Codice civile, svolgono un’attività intellettuale o manuale con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, che ai fini antinfortunistici diventano datori di lavoro per la sicurezza quando occupano almeno un dipendente o un equiparato a esso dall’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008. Com’è noto, ai lavoratori autonomi si applica sostanzialmente solo l’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale gli stessi sono tenuti a utilizzare le attrezzature di lavoro e i Dpi conformi alla vigente normativa e il tesserino identificativo, con la facoltà relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali, nonché di frequentare corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37 dello stesso decreto.

Alla luce di quanto evidenziato più in generale dalla Commissione si può desumere, quindi, che questo regime di tutela più limitata dell’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2008, non è applicabile né ai tirocinanti né agli studenti in alternanza con il risultato che il questi casi il soggetto ospitante anche se è un lavoratore autonomo assume a tutti gli effetti del D.Lgs. n. 81/2008, la qualifica di datore di lavoro per la sicurezza con tutto ciò che ne consegue come, ad esempio, l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di redigere il Dvr, nominare il Rspp ecc, e tutto ciò, evidentemente, potrebbe scoraggiare molti piccoli artigiani a ospitare i giovani.

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Nel cantiere edile il rischio è dietro l’angolo

Alcune delle situazioni più tipiche che meritano particolare attenzione.

Spesso sono proprio le attività estemporanee o di breve durata a essere quelle maggiormente pericolose per gli operatori. Cattive abitudini o errate indicazioni possono rivelarsi fatali. Ma basta poco, a volte, per garantire la sicurezza, organizzativa e puntuale, dei lavoratori.

Nei cantieri edili, le lavorazioni estemporanee o di durata relativamente breve sono molto più numerose che in altri ambienti. Gli spazi di lavoro sono caratterizzati da situazioni sempre nuove e in esse si ricorre molto spesso a una valutazione del rischio comparata fra due diverse misure di sicurezza. In questo confronto può accadere che l’uso di una misura di sicurezza, per così dire, consolidata, perché di tipo oggettivo o di tipo collettivo, cioè una misura di sicurezza che per lavorazioni stabili o di lunga durata sarebbe senz’altro prioritaria, potrebbe non essere conveniente perché lavori per la sua installazione potrebbero introdurre nell’intero ciclo rischi non giustificati rispetto al beneficio, modesto per la brevità della lavorazione. In altre parole, i rischi valutati per il montaggio della misura di sicurezza, scelta perché ritenuta prioritaria, sommandosi a quelli della lavorazione di produzione sposterebbero il totale generale, superando quelli che si avrebbero utilizzando misure di sicurezza di tipo individuale o di altro tipo come potrebbe essere la costante presenza di un preposto.

I lavori di manutenzione ordinaria di un tetto a falde, come la sostituzione di alcune tegole o la pulizia della superficie dei pannelli solari o infine la rimozione del materiale che ostruisce le grondaie, rappresentano situazioni reali più significative e concettualmente più semplici a sostegno di questa affermazione. La priorità delle misure collettive1 spingerebbe a realizzare un ponteggio metallico, mentre una corretta valutazione del rischio suggerisce che il rischio di caduta nel montaggio dell’opera provvisionale di tipo collettivo sposta la somma dei rischi a un valore tale da renderli maggiori a quelli che si valuterebbero se il lavoro fosse eseguito con dispositivi di protezione individuale agganciati a una linea vita o anche a un unico punto di ancoraggio. In queste ultime procedure la probabilità di caduta in assoluto è maggiore, ma poiché il tempo di esposizione è molto modesto il rischio finisce per essere minore a quello valutato per il montaggio del ponteggio metallico.

Qualità

Quando il braccio è impennato e il tubo di getto si estende verso il basso in tutta la sua lunghezza nel tragitto verticale del tubo la forza di gravità si sostituisce in parte alla pressione di avanzamento del flusso. Questo produce una separazione fra materiale inerte (più veloce) e impasto di cemento (più lento) e quindi una diversa concentrazione della miscela nel manufatto finale, non favorevole alla buona qualità del prodotto. La strozzatura inserita dall’applicazione del collo d’oca ricompone in parte la miscela evitando una eccessiva disomogeneità del getto.

Proiezione di materiale

Quando si ha la necessità di spostare in continuazione la posizione del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trova nelle vicinanze degli operatori come nelle casseforme di travi di coronamento o di pareti verticali continue o di scale, l’estremità del tubo e l’uscita del calcestruzzo si trovano nelle immediate vicinanze degli operatori (almeno due: manovratore e vibratore). Se, in questo caso, non si provvede a rallentare in qualche modo la velocità di uscita del calcestruzzo parte del materiale si proietta in tutte le direzioni e ricopre gli operatori di cemento.

Rilascio dopo l’arresto del pompaggio

Quando si opera il getto all’interno di una serie di casseforme di pilastri, il tubo di getto rilascia una significativa quantità di calcestruzzo anche dopo che il manovratore per spostarsi da una cassaforma all’altra, ha interrotto il pompaggio. La presenza di una chiusura a cerniera sul terminale del tubo trattiene la caduta libera del calcestruzzo lungo il percorso da una cassaforma all’altra. Indicazione: tenere il tubo fermo sopra la cassaforma in attesa del termine del rilascio, oltre a introdurre tempi di esecuzione molto lunghi, non dà mai risultati certi.

Meno comprensibile è invece la natura delle motivazioni del divieto di queste attrezzature, che talora si concentrano in un unico elemento costituito da un collo d’oca munito di dispositivo di chiusura all’imbocco. Le motivazioni sono tutte riferite all’intasamento del condotto e successiva improvvisa ripartenza del flusso di calcestruzzo.

Il fenomeno può causare un movimento incontrollabile del tubo di getto, il cosiddetto colpo di frusta, dotato di notevole energia cinetica con potenziali effetti devastanti per la rigidità e per la massa del tubo e per l’anello metallico che è presente comunque alla fine del tubo flessibile. Le procedure di coordinamento impongono azioni di sicurezza più importanti per la gestione delle operazioni necessarie allo sblocco del flusso di calcestruzzo: interruzione della manovra di pompaggio e immediato allontanamento del personale a distanza di sicurezza dall’attrezzatura, fino a che il getto non ritorni regolare.
Non è mai detto chiaramente sulle documentazioni di sicurezza prodotte, ma si è autorizzati a pensare, salvo prova contraria, che i suddetti divieti siano originati dal ritenere che il colpo di frusta del tubo di getto sia pericoloso se attrezzato con collo d’oca e tanto più se quest’ultimo sia dotato di chiusura all’imbocco. In realtà, per quanto già detto, il colpo di frusta, conseguenza di una ripartenza improvvisa del flusso a seguito di un intasamento, è pericoloso a prescindere dalla presenza del collo d’oca.
È ovvio che la pericolosità possa aumentare per l’applicazione sul tubo di una parte metallica di riguardevole massa, ma questo aumento si potrebbe ripercuotere su un lavoratore solo se si contravviene manifestamente alla procedura data. Quindi, da una parte l’uso del collo d’oca non deve essere generalizzato, ma consentito solo nei casi descritti, quando cioè viene richiesto per motivi tecnici, ergonomici e di sicurezza, dall’altra non è corretto impartire restrizioni non ergonomiche alle lavorazioni perché si teme che procedure fondamentali non vengano rispettate.

In altre parole, se – nonostante nelle procedure di coordinamento siano state previsti determinati comportamenti per eliminare i rischi d’infortunio in caso del colpo di frusta – si vuole vietare il collo d’oca per timore che il pompista non rispetti questi comportamenti, non solo si perde di vista il rischio fondamentale costituito dal tubo anche senza collo d’oca, ma si rendono inutili le misure di sicurezza fondamentali. Ovvero, in altre parole, sarebbe come vietare la presenza di corpi contundenti sul fondo di un scavo perché, in assenza di u parapetto, una eventuale caduta da quelli sarebbe aggravata.

Noleggio a caldo di piattaforme aeree

È noto l’obbligo, per alcune piattaforme aeree, in base al quale le manovre siano effettuate da un operatore a bordo della piattaforma. La posizione del manovratore a terra, o in qualsiasi altra parte, potrebbe essere tanto lontana dal cestello in movimento, a bordo del quale stazionano altri lavoratori, da causare errori di valutazione di distanze o di presenza di ostacoli. Non sono stati infrequenti gravi infortuni per errori di manovra da parte di manovratori a terra o all’interno della cabina dell’automezzo che trasporta la piattaforma. L’obbligo è comprensibile e di normale attuazione quando l’attrezzatura è usata nell’ambito dell’azienda proprietaria del mezzo; diventa problematico nel caso di noleggio con operatore.
Questi, sentendosi estraneo a qualsiasi operazione venga eseguita in quota, manovra sempre da terra. Se interpellato sulla regolarità di questo tipo di postazione, l’operatore si identifica nel soggetto della manovra di emergenza e sostiene che solo da terra si può procedere a questa operazione. La situazione è sottovalutata e la motivazione è superficiale. Il rispetto delle istruzioni di manovra è tassativo. Ma è anche vero che, con tutto il rispetto dell’importanza della formazione, le istruzioni per questa manovra sono piuttosto semplici e questa si effettua sempre a motore spento.

Con una chiave si accede al quadretto di emergenza. La manovra avviene con un comando, a pulsante o a leva, che libera il fluido verso il serbatoio attraverso una valvola limitatrice di flusso, provocando la discesa per gravità della piattaforma a velocità controllata. Se le istruzioni prescrivono la manovra a bordo della piattaforma, il manovratore, prima delle operazioni, istruisce un soggetto dell’impresa che ha preso a noleggio l’attrezzatura, gli consegna la chiave del quadretto, stabilisce un contatto vocale con lo stesso e sale a bordo della piattaforma. All’inizio di ogni giornata lavorativa successiva ripete queste istruzioni prima di incominciare le operazioni.

Ponteggio all’interno dei vani ascensori

Il sistema migliore per eliminare il rischi di caduta nel vano ascensore durante il lungo intervallo di tempo che separa la costruzione della struttura di cemento armato (quasi all’inizio dell’opera) dall’istallazione dell’impianto (quasi alla fine dell’opera) consiste nel costruire fin da subito all’interno il ponteggio di tubi e giunti, a servizio del futuro montaggio, con ripiani in corrispondenza dei solai.

Negli edifici di civile abitazione, la distanza fra un piano e l’altro varia da 270 a 300 cm. Poiché il regolamento prescrive che gli impalcati distanti più di 2,50 m devono essere dotati di sottoponte, fra due ripiani consecutivi dovrebbe essere realizzato un impalcato che abbia questa funzione. Poiché nel nostro caso l’obbligo è generato dal superamento dell’altezza limite fissata dal regolamento di appena 20-50 cm e poiché la costruzione del sottoponte, come ogni altra lavorazione in quota, introduce nella lavorazione un rischio di caduta dall’alto, è lecito chiedersi se esiste un’altra misura di sicurezza che risponda alle finalità del sottoponte4 che non presenti gli stessi rischi durante la costruzione. La sostituzione del sottoponte con il raddoppio dello strato di tavole del ripiano soddisfa alle condizioni poste. Infatti, da una parte, come nel caso del sottoponte, c’è il raddoppio dell’opera provvisionale e, dall’altra, il posizionamento di un secondo strato di tavole sui ripiani del ponteggio non comporta alcun rischio di caduta.

Abbigliamento

A parte alcune lavorazioni tradizionali (saldatura) od occasionali di particolare natura nelle quali l’abbigliamento di sicurezza deve coprire l’intero corpo, la riduzione dell’abbigliamento nella parte superiore del corpo durante la stagione estiva deve arrestarsi alla maglietta con mezze maniche. Al contrario, poiché la continuità del tessuto nei pantaloni normali può costituire impaccio nell’articolazione in caso di abbondante sudorazione, nella parte inferiore si possono consentire pantaloni a mezza gamba e scoprire le ginocchia. Pertanto, occorre raccomandare ai datori di lavoro di non permettere ai lavoratori di operare in canottiera, né tanto meno a torso nudo e di controllare che i lavoratori che optano per il pantalone a mezza gamba indossino tassativamente i calzini per proteggere la parte inferiore della gamba.

Dopo avere ribadito la riserva per le lavorazioni nelle quali la protezione obbligatoria fornita dall’abbigliamento non potrà essere ridotta per alcun motivo, conviene supportare entrambe le posizioni assunte, mai trattate nei manuali di prevenzione infortuni e igiene del lavoro, con esempi tratti dall’esperienza quotidiana di cantiere. I lavoratori che frequentemente tendono a lavorare a torso nudo sono spesso i ferraioli. Invitati a mantenere un abbigliamento più confacente a un ambiente di lavoro, protestano lamentandosi del caldo estivo.

Questo atteggiamento nasce, naturalmente, da un pregiudizio: senza entrare nel merito dei tumori della pelle, artigiani di esercizi alimentari o lavoratori delle fonderie lavorano tutto l’anno in ambienti termicamente molto più severi senza spogliarsi. Riguardo, invece, alla possibilità concessa ai lavoratori di indossare nella stagione calda pantaloni lunghi fino a sopra il ginocchio, appare scontato che se l’abbigliamento fosse completato con calzini lunghi, à la coloniale, il rischio dovuto alla piccola parte scoperta che rimarrebbe sarebbe trascurabile rispetto ai vantaggi ergonomici di avere la completa libertà nell’articolazione degli arti inferiori.

Ma, altro è parlare di una divisa militare nella quale si può pretendere per disciplina una correttezza assoluta e altro è disporre che queste regole vengano rispettate nell’ambiente dei cantieri. Si rimane in ogni caso dell’avviso che nei giorni più caldi il pantalone sopra al ginocchio, accompagnato da un paio di calzini qualsiasi, sia più conveniente di quello lungo.

Passaggio di carichi sospesi

Il pericolo costituito da un carico sospeso, trattato nella vecchia normativa con un divieto riferito alla manovra dei carichi, nel D.Lgs. 81/2008 si è trasformato in un divieto di sostare riferito ai lavoratori. A parte che, in ogni caso, gli obblighi fanno capo al datore di lavoro, sfugge la ragione di questa variazione. Qualsiasi divieto riguardante i carichi sospesi è in ogni caso molto difficile da gestire. Da un lato, lo spostamento continuo delle lavorazioni nel cantiere e dei lavoratori nelle lavorazioni non consente di stabilire traiettorie del carico sgombre da persone; dall’altra ci sono situazioni nelle quali le operazioni di sollevamento carichi sono così frequenti e numerose che gli avvisi acustici lanciati dal gruista perdono la loro funzione di allarme.

Si assiste, in questo caso, a una sorta di atteggiamento indifferente da parte dei lavoratori: rimangono dove sono senza neanche dirigere lo sguardo verso l’alto per allertarsi. Poiché, peraltro, emerge nei colloqui con gli interessati, la causa per la quale non ci si allerta alzando il capo verso il cielo è talvolta il timore che l’elmetto scivoli dal capo, è una buona occasione per spezzare una lancia in favore dell’elmetto con sottogola che, oltre a permettere ai lavoratori una maggiore libertà di movimento, dovrebbe essere prescritto nei cantieri, dove lo scivolamento dell’elmetto verso le ampie aperture verso l’esterno o nel transito dei ponteggi o nei vani scala potrebbe avere dannose conseguenze.

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Ponteggi e autorizzazioni: le novità dal Ministero del Lavoro

L’adempimento va svolto, in base al D.Lgs. n. 81/2008, ogni dieci anni.

Con la circolare 28 maggio 2018, n. 10, chiarite le modalità con cui presentare le richieste di rinnovo per la costruzione e l’impiego. Dei contenuti si sta occupando un apposito gruppo incaricato di fare il punto sul progresso tecnico che ha interessato questo tipo di attrezzature per il cantiere.

La costruzione e l’impiego dei ponteggi realizzati con elementi portanti prefabbricati, metallici o no, sono disciplinati dalle norme contenute nella sezione V «Ponteggi fissi» del D.Lgs n. 81/2008 (articoli 131-137).

L’art. 131 stabilisce che per ciascun tipo di ponteggio il fabbricante debba chiedere al ministero del Lavoro l’autorizzazione alla costruzione e all’impiego, corredando la domanda da una relazione nella quale devono essere specificati i seguenti elementi:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

Il comma 5 dell’art. 131 specifica che «l’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». Il rilascio da parte del ministero dell’autorizzazione alla costruzione e all’impiego dei ponteggi era previsto già nel D.P.R. 164/1956 all’art. 30. Dal 1973 il ministero ha emesso un migliaio circa di provvedimenti (autorizzazioni, estensioni, volture) che, fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008 (14 maggio 2008), avevano durata illimitata.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto testo unico della sicurezza, il legislatore ha posto attenzione alla questione del periodo di validità dell’autorizzazione ministeriale e, per questo motivo, nel decreto fu inserito un comma specifico «L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico». L’uscita della circolare 10/2018 ha permesso al ministero di dare prima applicazione alla previsione contenuta nel citato comma.

Ciò comporta di analizzare lo stato di evoluzione del progresso tecnico in merito alla costruzione dei ponteggi fissi, in relazione anche ai criteri e alle modalità con cui nel passato sono state rilasciate le autorizzazioni, e tenendo conto degli elementi contenuti nell’articolo 132 e cioè:

  • descrizione degli elementi che costituiscono il ponteggio, loro dimensioni con le tolleranze ammissibili e schema dell’insieme;
  • caratteristiche di resistenza dei materiali impiegati e coefficienti di sicurezza adottati per i singoli materiali;
  • indicazione delle prove di carico, a cui sono stati sottoposti i vari elementi;
  • calcolo del ponteggio secondo varie condizioni di impiego;
  • istruzioni per le prove di carico del ponteggio;
  • istruzioni per il montaggio, impiego e smontaggio del ponteggio;
  • schemi-tipo di ponteggio con l’indicazione dei massimi ammessi di sovraccarico, di altezza dei ponteggi e di larghezza degli impalcati per i quali non sussiste l’obbligo del calcolo per ogni singola applicazione.

È dunque necessario stabilire il significato di «evoluzione del progresso tecnico» che può essere inteso come un «processo di creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie» e «può derivare dall’aumento di conoscenze e capacità o dal miglioramento della qualità o delle caratteristiche di uno o più fattori produttivi».

Riguardo ai ponteggi metallici questo concetto va applicato alle istruzioni per la costruzione e l’impiego che, alla luce di quanto sopra specificato, possono essere influenzate dalla «creazione e acquisizione di nuove conoscenze attraverso i processi tipici dell’innovazione e della diffusione di nuove e migliori tecnologie».

Identificare, stabilire e definire come si evolvano tecnicamente i ponteggi non è immediato. L’entrata in vigore di una nuova norma tecnica o di uno standard Cen o Uni – ad esempio – potrebbe essere considerata in questo senso.
L’evoluzione del progresso tecnico relativo ai ponteggi potrebbe scaturire da:

  • studi e ricerche per lo sviluppo e la validazione di metodologie e procedure dedicate alla fornitura, progettazione, montaggio, smontaggio, trasformazione e uso;
  • elaborazione di modalità applicative, svolgimento di attività sperimentale e sviluppo di modelli utilizzabili per la valutazione del rischio in relazione all’impiego;
  • effettuazione di verifiche di carattere progettuale e di prove sperimentali per la messa a punto di codici dedicati alla valutazione dei livelli di sicurezza.

Per poter adempiere a quanto contenuto nel comma 5, il ministero del Lavoro, (Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali) ha costituito un apposito gruppo di lavoro tecnico composto di rappresentanti del ministero stesso, del servizio tecnico centrale del Consiglio superiore dei lavori pubblici, dell’Inail e dell’Istituto per le tecnologie della costruzione del Cnr.
Il gruppo di lavoro ha lo scopo di elaborare un documento tecnico riguardante le norme tecniche specifiche sui ponteggi fissi e

provvedere successivamente all’aggiornamento delle istruzioni per la costruzione e l’impiego. Il documento tecnico elaborato dal gruppo consentirà al ministero di definire le indicazioni tecniche aggiornate necessarie a verificare l’adeguatezza delle autorizzazioni vigenti all’evoluzione del progresso tecnico.
La circolare 10/2018 tiene conto dei contenuti nella circolare 29 del 27 agosto 2010 dello stesso ministero del Lavoro e in particolare del quesito 1 «In riferimento all’articolo 131, comma 5 del D.lgs. n. 81/08 cosa si intende per L’autorizzazione è soggetta a rinnovo ogni dieci anni per verificare l’adeguatezza del ponteggio all’evoluzione del progresso tecnico?»
La risposta al quesito fu che «La validità decennale delle autorizzazioni ministeriali, rilasciate prima del 15 maggio 2008, data di entrata in vigore del D.Lgs. 81/2008, decorre dalla medesima data, quindi detta validità si intende estesa fino al 14 maggio 2018. Per quelle autorizzazioni ministeriali rilasciate successivamente al 14 maggio 2008 la validità decorrerà dalla data di rilascio.

Si ricorda altresì che l’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale di cui all’articolo 131 del D.Lgs. 81/2008 riguarda il titolare dell’autorizzazione ministeriale e non l’impresa utilizzatrice. Pertanto l’impresa utilizzatrice potrà impiegare i ponteggi anche dopo la cessazione della validità decennale dell’autorizzazione medesima. Si evidenzia, infine, che l’autorizzazione ministeriale si intenderà automaticamente sospesa, nei soli confronti del titolare dell’autorizzazione medesima, in assenza dell’avvenuto rinnovo decennale».

L’obbligo di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione ministeriale è in capo al titolare della stessa e non all’impresa utilizzatrice che non è coinvolta in questo iter. Essa potrà continuare a impiegare i ponteggi anche dopo la eventuale cessazione della validità decennale. La problematica del rinnovo non riguarda quindi i soggetti che utilizzano il ponteggio: imprese, lavoratori autonomi, artigiani ecc.

Il mantenimento in vigore del sistema autorizzativo sui ponteggi presuppone la conoscenza da parte del ministero delle autorizzazioni per le quali i fabbricanti sono interessati al proseguimento della produzione.

Ciò al fine di poter avviare, una volta disponibili le nuove indicazioni tecniche, la necessaria istruttoria per verificarne l’adeguatezza secondo quanto previsto dal comma 5.

A tal fine, il ministero ha richiesto ai titolari di trasmettere apposita istanza di rinnovo corredata da:

  • copia delle singole autorizzazioni a suo tempo rilasciate dal ministero stesso;
  • dichiarazione resa dal legale rappresentante riguardo il mantenimento dei requisiti di sicurezza del ponteggio;
  • dichiarazione dalla quale risulti che la produzione del ponteggio è tuttora in corso.

La circolare 10/2018 prevede la revoca delle autorizzazioni ministeriali per cui non è stata trasmessa l’istanza di rinnovo entro il 15 giugno 2018. Le autorizzazioni per le quali sia stata presentata istanza di rinnovo saranno decise sulla base delle indicazioni tecniche attualmente vigenti nelle more della definizione delle norme tecniche specifiche da parte del gruppo di lavoro tecnico citato.

Una volta disponibili le nuove norme tecniche, il ministero renderà noti ai titolari dei provvedimenti termini e modalità per la revisione delle autorizzazioni rinnovate medio tempore.

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Sicurezza sul lavoro: inasprite le sanzioni

L’aumento, in vigore dal 1° luglio 2018 e pari all’1,9%, è stato determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registrata nel quinquennio 2013-2018, sommandosi al contestato incremento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a una crescita dell’11,50%.

Nel corso dell’ultimo decennio, uno dei dati che, forse, spesso sfugge è che il sistema sanzionatorio italiano per gli illeciti derivanti dalla violazione di norme antinfortunistiche ha subito diverse modifiche e, soprattutto, i diversi governi che si sono succeduti hanno quasi puntualmente operato un giro di vite sugli importi delle ammende e delle sanzioni amministrative pecuniarie. Solo per ricordare alcuni dei passaggi più significativi di questa evoluzione occorre richiamare il D.Lgs. n. 106/2009 (il cosiddetto “correttivo al testo unico”) che ha introdotto un meccanismo d’indicizzazione delle sanzioni previste dal D. Lgs. n. 81/2008, per poi passare al D.L. n. 76/2013 che ha apportato importanti modifiche a questo meccanismo, fino ad arrivare all’art. 20, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 151/2015, che ha inserito nell’art. 55 del D.Lgs. n. 81/2008 il comma 6-bis in base al quale, in caso di violazione delle disposizioni previste dall’art. 18, comma 1, lettera g), in materia di visite mediche, e dall’art. 37, commi 1, 7, 9 e 10, in materia di formazione obbligatoria delle figure della prevenzione, se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori gli importi della sanzione sono raddoppiati, mentre se si riferisce a più di dieci lavoratori gli importi della sanzione sono addirittura triplicati.

Insomma, malgrado un miglioramento del trend infortunistico, almeno fino al 2017 secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inail nell’ultimo rapporto annuale, il dato che emerge è che si stia giocando sempre più al rialzo attraverso continui giri di vite. L’ultimo è stato attuato con il decreto direttoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro 6 giugno 2018, n. 12 (comunicato di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 19 giugno 2018, n. 140), che ha determinato nella misura dell’1,9% la rivalutazione delle sanzioni pecuniarie. Il provvedimento arriva dopo il via libera del ministero del Lavoro che con nota del 18 aprile 2018 ha stabilito la competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro a regolare la materia, ed è stato emanato in attuazione dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, che ha novellato il comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, riscrivendo completamente e in modo peggiorativo il sistema d’indicizzazione su base quinquennale delle sanzioni penali e amministrative pecuniarie introdotto originariamente dal già citato D.Lgs. n. 106/2009. Si tratta, quindi, di un ulteriore inasprimento del sistema sanzionatorio in quanto il nuovo aumento dell’1,9%, in vigore dal 1° luglio 2018 e determinato sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo registratasi nel quinquennio 2013-2018, si somma al contestato aumento del 9,60% già operato nel 2013, portando così a un incremento complessivo delle sanzioni dell’11,50%. Troppo, in soli cinque anni, per altro con un quadro economico nazionale che evidenzia che il Paese non è ancora uscito effettivamente dalla crisi. Per altro, il decreto n. 12/2018 pone anche una serie di questioni applicative legate soprattutto alle tipologie di illeciti interessati dall’aumento, la determinazione dei nuovi importi e i riflessi sulla sospensione dell’attività d’impresa e per questi motivi molto opportunamente l’Ispettorato nazionale del lavoro è corso subito ai ripari emanando la lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314.

Quali illeciti

Per quanto riguarda le tipologie di illeciti attratti dall’incremento, occorre subito evidenziare che la portata dell’aumento è generalizzata e non circoscritta, quindi, alle sole sanzioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008.

Si consideri, infatti, che la misura dell’1,9% si applica alle sanzioni penali pecuniarie di natura contravvenzionale (ammende) e amministrative pecuniarie previste non solo dal D.Lgs. n. 81/2008, ma anche da altri atti aventi forza di legge come decreti legge, decreti legislativi e leggi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. Di conseguenza, questo nuovo rincaro interessa una vastissima gamma d’illeciti come, ad esempio, quelli in materia di valutazione dei rischi e di redazione del relativo documento (artt. 17, 28, 29 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), d’informazione e formazione (art. 36, 37 e seguenti, D.Lgs. n. 81/2008), di visite mediche (art. 41, D.Lgs. n.81/2008), di tesserino identificativo negli appalti, di cantieri temporanei e mobili, di documento unico di valutazione dei rischi da interferenze negli appalti (Duvri) e di Durc (art. 90, comma 9, lett. c), D.Lgs n. 81/2008) e la mancata comunicazione all’Inail del nominativo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 18, comma 1, lett. aa, D.Lgs n. 81/2008). L’aumento, inoltre, tocca anche le sanzioni penali e amministrative previste da altriprovvedimenti tra i quali occorre ricordare:

  • il D.Lgs. n. 271/1999, relativo alla salute e sicurezza nel lavoro marittimo;
  • il D.Lgs. n. 272/1999, relativo alla sicurezza in ambito portuale e nelle operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi;
  • il D.Lgs. n. 624/1996, relativo alla sicurezza e la salute nelle attività estrattive di sostanze minerali;
  • il D.Lgs. n.298/1999, relativo a salute e sicurezza a bordo delle navi da pesca.

I destinatari dell’aumento in questione non sono, quindi, solo i datori di lavoro, ma anche i dirigenti, i preposti, i lavoratori e altri soggetti come i coordinatori nei cantieri, il medico competente, i progettisti, i fabbricanti, gli installatori, i venditori, nonché i committenti (anche privati) degli appalti di lavori edili.

Il principio del “favor rei”

Collegato a questo ulteriore aumento è anche il problema della rilevanza delle condotte illecite commesse prima del 1° luglio 2018; in effetti la soluzione la si rintraccia già nel testo dell’art. 9, comma 2, del D.L. n. 76/2013, dopo le modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 99/2013.

Questa disposizione, infatti, nella sua versione finale ha inserito nel corpo del comma 4-bis dell’art. 306 del D.Lgs. n. 81/2008, la specificazione che l’applicazione della rivalutazione del 9,60% avviene a decorrere dal 1° luglio 2013, e con riferimento «esclusivamente alle sanzioni irrogate per le violazioni commesse successivamente alla suddetta data».

Nel decreto n. 12/2018, però, è stato riportato il testo del citato comma 4-bis del D.Lgs. n. 81/2008, ma vigente prima delle modifiche della legge n. 99/2013; nella già citata lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, tuttavia, si chiarisce che «L’incremento dell’1,9% va calcolato sugli importi delle sanzioni attualmente vigenti e, analogamente a quanto previsto nella precedente rivalutazione, si applica esclusivamente alle ammende e alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per le violazioni commesse successivamente al 1° luglio 2018». In altri termini, quindi, in virtù del principio del favor rei (la tutela dell’imputato) per stabilire se trova applicazione o meno anche la nuova maggiorazione dell’1,9% occorrerà fare riferimento non al momento in cui l’illecito è stato contestato dagli organi di vigilanza, ma quando lo stesso è stato consumato dall’autore.

Sospensione

Alcune riflessioni devono essere compiute anche per quanto riguarda la sospensione dell’attività d’impresa regolata dall’art. 14 del D.Lgs. n.81/2008. Com’è noto, gli organi di vigilanza possono adottare provvedimenti di sospensione in relazione alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (cfr. allegato I, D.Lgs. n. 81/2008).

Si è posto il problema di stabilire, quindi, se sono attratte dall’incremento dell’1,9% anche le somme aggiuntive previste per la revoca del provvedimento di sospensione previsto dal comma 4 del già citato art. 14, ossia di 2 mila euro nell’ipotesi di sospensione per lavoro irregolare e di 3.200 euro nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

L’Ispettorato nazionale del lavoro, però, molto prontamente nella lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n.314, riprendendo l’orientamento già espresso in merito dal ministero del Lavoro nella circolare 29 agosto 2013, n. 35, ha tenuto a precisare che questo ulteriore aumento dell’1,9% non si applica alle richiamate somme aggiuntive in quanto le stesse non costituiscono propriamente una sanzione. Occorre sottolineare ancora che, per effetto di questo adeguamento, il datore di lavoro che non ottempera al provvedimento di sospensione nelle ipotesi d’impiego di lavoro irregolare dal 1° luglio 2018 è punito con arresto da tre a sei mesi o l’ammenda da 2.792,00 euro a 7.147,68 euro.

No agli arrotondamenti

Resta da osservare che per quanto riguarda la determinazione dei nuovi importi lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro, nella circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, ha anche precisato che «L’attuale disciplina non prevede arrotondamenti sull’ammontare finale dell’ammenda e della sanzione amministrativa incrementata dell’1,9% e pertanto non va applicato alcun arrotondamento delle cifre risultanti dal calcolo».

Si osservi che nell’operare questo calcolo potrebbe verificarsi un po’ di confusione. Infatti, nei testi ufficiali, gli importi delle sanzioni del D.Lgs. n. 81/2008 degli altri provvedimenti richiamati non sono stati aggiornati – alcuni riportano ancora gli importi in lire – e di conseguenza sull’ammontare originario dell’ammenda e della sanzione pecuniaria amministrativa andrà applicato il 9,60% (incremento dal 1° luglio 2013) maggiorato dell’1,9%.

Da rilevare, infine, che allegato alla lettera circolare 22 giugno 2018, prot. n. 314, è riportato un utile quadro riepilogativo delle ammende e delle sanzioni pecuniarie più ricorrenti con indicazione degli importi rivalutati per effetto del decreto n. 12/2018.

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Antincendio nelle scuole: nuove norme al via

Pubblicato il decreto del ministero dell’Interno 21 marzo 2018. Con il provvedimento, sono state introdotte ulteriori indicazioni per l’adeguamento degli edifici destinati alla didattica, compresi gli asili nido. Uno strumento finalizzato a supportare la messa in sicurezza delle strutture dopo le molte – troppe – proroghe.

Con la pubblicazione del decreto ministeriale 21 marzo 2018, avvenuta sulla Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2018, sono state divulgate ulteriori indicazioni per l’adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole, compresi quelli adibiti ad asili nido. Di fatto, siamo in presenza di un nuovo strumento realizzato per supportare la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici la cui esecuzione, dopo numerosissime proroghe, avrebbe dovuto concludersi entro il 31 dicembre del 2017. Al riguardo non è superfluo ricordare che il primo atto avente forza di legge fu emanato nel lontano 1992. In particolare, i tecnici del ministero dell’interno, attraverso il D.M. 26 agosto 19921, avevano puntualmente individuato le misure da attuare per garantire alti livelli di sicurezza antincendio nell’edilizia scolastica e avevano stabilito che l’adeguamento di tutti gli edifici dovesse concludersi entro cinque anni. Purtroppo questa scadenza è stata oggetto di numerose proroghe e altrettante linee guida.

In questo quadro, particolare importanza ha rivestito il decreto del ministero dell’Interno 12 maggio 2016, attraverso il quale era stato fissato il piano definitivo per l’adeguamento delle scuole alle norme di prevenzione incendi. In particolare, il ministero dell’Interno con questo decreto aveva fissato puntuali scadenze entro le quali tutti gli istituti scolastici avrebbero dovuto attuare le misure di prevenzione e protezione specificate dal decreto del 1992. Il piano, contenuto nell’articolo 1 del decreto 12 maggio 2016, fissava due scadenze: il primo termine era previsto per la fine di agosto 2016 (prima della ripresa delle attività scolastiche); il secondo era fissato per la fine di novembre dello stesso anno. Nel dettaglio, con l’articolo 1 del D.M. 12 maggio 2016 era stato prescritto che entro il 26 agosto 2016, se non ancora compiuti, in tutti gli edifici scolastici si sarebbe dovuto intervenire per garantire impianti elettrici sicuri, per la rapida segnalazione degli allarmi, per segnalare la presenza di presidi antincendio e instalattare la segnaletica di sicurezza; infine, si sarebbero dovute adottare procedure di esercizio. La seconda scadenza prevista era quella del 26 novembre 2016. Al riguardo erano previsti adeguamenti differenti secondo il periodo di realizzazione degli edifici. In particolare, erano individuati tre casi: scuole preesistenti alla data di entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975, scuole realizzate successivamente all’entrata in vigore del D.M. 18 dicembre 1975 ed entro la data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992 e scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992.

Per le prime era stabilito che doveva essere data attuazione alle misure di cui ai punti 2.4, 3.1, 5 (5.5 larghezza totale riferita al solo piano di massimo affollamento), 6.1, 6.2, 6.3.0, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. In effetti, per questi edifici era previsto l’adeguamento alle disposizioni concernenti le separazioni (e compartimentazioni), la reazione al fuoco dei materiali presenti, le misure per l’evacuazione in caso di emergenza, quelle previste per gli impianti elettrici e i mezzi e gli impianti di protezione ed estinzione degli incendi. Per le scuole che ricadevano nella seconda tipologia era invece prevista l’attuazione delle misure di cui ai punti 2.4, 3, 4, 5, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, 6.6, 7.1, 9.1 e 9.3 del D.M. 26 agosto 1992. Di fatto, per questi edifici era richiesto anche il rispetto delle specifiche dettate per la resistenza al fuoco delle strutture, la compartimentazione, le scale, gli ascensori, per l’evacuazione in caso di emergenza e servizi tecnologici.

Infine, per le scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. 26 agosto 1992, era richiesto il rispetto di tutte le misure specificate nello stesso decreto, senza alcuna esclusione.
È opportuno evidenziare che tutti gli adeguamenti avrebbero dovuto comunque essere attuati entro il 31 dicembre 2016 (lettera c), 1 comma, art. 1). Purtroppo anche queste scadenze sono state oggetto di proroghe. In particolare con l’art. 4, comma 2 del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244 coordinato con la legge di conversione 27 febbraio 2017, n. 19 recante “Proroga e definizione di termini” (il cosiddetto “Milleproroghe”) tutti gli adeguamenti previsti dal D.M. 12 maggio 2016 sono stati posticipati al 31 dicembre 2017.

Oggi, alla luce del fatto che alla data del 31 dicembre 2017 è scaduto il termine di adeguamento alla normativa antincendio degli edifici e dei locali adibiti a scuole di qualsiasi tipo, ordine e grado (compresi gli asili nido), il ministero dell’Interno, ferma restando l’integrale osservanza del decreto del 26 agosto 1992, ha individuato tre livelli di priorità programmatica:

  • livello di priorità A: disposizioni di cui al D.M. 26 agosto 1992 ai punti 7.1 (limitatamente al secondo comma) lettere a) e b); 8; 9.2; 10; 12;
  • livello di priorità B: disposizioni di cui al Dm 26 agosto 1992 ai punti 6.1; 6.2; 6.4; 6.6 (limitatamente al punto 6.6.1); 9.3;
  • livello di priorità C: restanti disposizioni del DM 26 agosto 1992.

Livello di priorità A

Il primo livello di priorità prevede inizialmente l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 7.1, (limitatamente al secondo comma, lettere a) e b)) concernete l’impianto elettrico di sicurezza che, si ricorda, oltre al sistema di allarme, deve alimentare anche quello di illuminazione di sicurezza, garantendo un livello di illuminazione non inferiore a cinque lux. Si evidenzia che l’alimentazione dell’impianto di sicurezza deve potersi inserire anche con comando a mano posto in posizione conosciuta dal personale, che sono ammesse singole lampade, o gruppi di lampade, con alimentazione autonoma e che l’autonomia della sorgente di sicurezza non deve essere inferiore a trenta minuti. Nel caso in cui siano impiegati dispositivi di carica degli accumulatori, è inoltre previsto l’impiego di prodotti di tipo automatico che consentano la ricarica entro dodici ore.

Per il sistema di allarme (disposizioni di cui al punto 8 del D.M. 26 agosto 1992), incluse nel «livello di priorità A», è previsto che le scuole debbano essere munite di un sistema in grado di avvertire gli alunni e il personale presenti in caso di pericolo. Questo sistema deve essere realizzato in modo da garantire la segnalazione del pericolo a tutti gli occupanti il complesso scolastico e il suo comando deve essere posto in locale costantemente presidiato durante il funzionamento della scuola.

Si segnala che per le scuole di tipo 0-1-2 il sistema di allarme può essere costituito, dallo stesso impianto a campanelli usato normalmente per la scuola. Per le altre scuole è invece previsto un impianto di altoparlanti.

Per quanto concerne gli estintori d’incendio, per l’adeguamento alle disposizioni di cui al punto 9.2 D.M. 26 agosto 1992 deve essere prevista l’installazione di estintori portatili di capacità estinguente non inferiore 13 A – 89 BC, in ragione di almeno un estintore per ogni 200 m2 di pavimento o frazione, con un minimo di due estintori per piano. Si segnala che nel primo livello di priorità programmatica ricade anche l’adeguamento alle disposizioni cogenti in materia di segnaletica di sicurezza (punto 10 D.M. 26 agosto 1992). Al riguardo è opportuno evidenziare che, attualmente, il D.Lgs. 81/2008 affronta questo argomento negli articoli 161 e 162.

Infine, per le norme di esercizio, comprese nelle priorità di tipo A, si ricorda che per l’adeguamento alle regole di prevenzione incendi deve essere predisposto un registro dei controlli periodici ove sono annotati tutti gli interventi e i controlli relativi all’efficienza degli impianti, dei presidi antincendio, dei dispositivi di sicurezza e di controllo, delle aree a rischio specifico e dell’osservanza della limitazione dei carichi d’incendio nei vari ambienti dell’attività.
Inoltre, deve essere predisposto un piano di emergenza e devono essere eseguite prove di evacuazione, almeno due volte nel corso dell’anno scolastico. Inoltre, devono essere rispettate altre disposizioni finalizzate a garantire che siano sempre rispettate le norme di sicurezza e che gli impianti, le attrezzature e le aree siano sottoposte a regolare manutenzione, il sistema di vie di esodo sia sempre funzionante e, infine, che il materiale infiammabile sia depositato in quantità strettamente necessarie per esigenze igienico-sanitarie e per l’attività didattica e di ricerca.

Livello di priorità B

Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel secondo livello di priorità (priorità B) l’adeguamento 6.4, 6.6 e 9.3 del decreto 26 agosto 1992. Di fatto, in questo caso l’intento dei tecnici del ministero dell’Interno è di suggerire la programmazione di interventi volti all’innalzamento dei livelli di sicurezza anche negli spazi a rischio specifico come i locali per le esercitazioni, i depositi, i servizi tecnologici, gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche, le autorimesse e le aree per servizi logistici (mense, dormitori).

Al riguardo, si evidenzia che per gli spazi per le esercitazioni (e i locali per depositi annessi) la regola tecnica di prevenzione incendi prevede che siano ubicati ai piani fuori terra o al 1° interrato, fatta eccezione per i locali ove vengono utilizzati gas combustibili con densità superiore a 0,8 che, si ricorda, devono essere ubicati ai piani fuori terra senza comunicazioni con i piani interrati. Per questi spazi è inoltre previsto che, indipendentemente dal tipo di materiale impiegato nella realizzazione, le strutture di separazione devono sempre avere caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Le comunicazioni tra il locale per le esercitazioni e il locale deposito annesso, devono essere munite di porte dotate di chiusura automatica aventi resistenza al fuoco almeno Rei 60.

Particolare attenzione deve essere data alle aree dove sono utilizzate e depositate sostanze radioattive o macchine radiogene. Al riguardo, si ricorda che questi locali – da realizzare in modo da consentire che eventuali operazioni di decontaminazione avvengano in modo agevole – devono essere predisposti per la raccolta e il successivo allontanamento delle acque di lavaggio o di estinzione di principi di incendio. Gli spazi per le esercitazioni dove sono maneggiate sostanze esplosive, o infiammabili, devono essere provvisti di aperture di aerazione permanente, ricavate su pareti attestate all’esterno di superficie pari a un ventesimo della superficie in pianta del locale. È opportuno evidenziare che nel caso di manipolazione di gas con densità superiore a 0,8 delle predette aperture di aerazione, la regola tecnica prevede che almeno un terzo della superficie complessiva sia costituita da aperture, protette con grigliatura metallica, situate nella parte inferiore della parete attestata all’esterno e poste a filo pavimento.

Per quanto concerne l’adeguamento degli spazi per depositi, che possono essere ubicati ai piani fuori terra o ai piani uno e due interrati, è necessario verificare che abbiano caratteristiche di resistenza al fuoco di almeno Rei 60. Anche per questi locali l’accesso deve avvenire tramite porte almeno Rei 60 dotate di dispositivo di autochiusura. Per quanto riguarda la superficie massima lorda di ogni singolo locale, si ricorda che non può essere superiore a mille metri quadrati per i piani fuori terra e 500 metri quadrati per i piani uno e due interrato. Per questi locali devono essere previste aperture di aerazione con superficie non inferiore a un quarantesimo della superficie in pianta (protette da robuste griglie a maglia fitta). Per quanto concerne il carico di incendio, si ricorda che quello di ogni spazio adibito a deposito non deve superare i 30 kg/m2 e che, nel caso in cui questo limite dovesse essere superato, deve essere prevista l’installazione di un impianto di estinzione incendi di tipo automatico. Tra le misure da attuare per l’adeguamento degli spazi dedicati a depositi, si ricorda anche quello relativo alla presenza di estintori portatili d’incendio. Per questo aspetto, la regola stabilita dal decreto 26 agosto 1992 prevede che a uso di ogni locale deve essere previsto almeno un estintore, di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, ogni 200m2 di superficie.
Particolare attenzione deve essere prestata ai depositi di materiali infiammabili liquidi e gassosi per i quali è stabilito che devono essere ubicati al di fuori del volume del fabbricato e che lo stoccaggio, la distribuzione e l’utilizzazione di que sti materiali devono sempre essere eseguiti in conformità delle norme e dei criteri tecnici di prevenzione incendi. Ogni deposito dovrà essere dotato di almeno un estintore di tipo approvato, di capacità estinguente non inferiore a 21 A, 89 B, C ogni 150 m2 di superficie. Per esigenze didattiche e igienico-sanitarie è consentito detenere complessivamente all’interno del volume dell’edificio, in armadi dotati di bacino di contenimento, 20 litri di liquidi infiammabili. Il decreto 21 marzo 2018 inserisce nel livello di priorità B anche l’adeguamento alle misure di prevenzione incendi per gli spazi per l’informazione e le attività parascolastiche(auditori, aule magne, sale per rappresentazioni).
Per questi spazi, che devono essere ubicati in locali fuori terra o al 1° interrato fino alla quota massima di – 7,50 metri, è necessario inizialmente valutare se la capienza supera le cento persone e se sono adibiti anche a manifestazioni non scolastiche, in quanto, se così fosse, dovranno essere applicate le norme di sicurezza per i locali di pubblico spettacolo.

Al riguardo si evidenzia che qualora, per esigenze di carattere funzionale, non fosse possibile rispettare le disposizioni sull’isolamento previste dalle suddette norme, le manifestazioni in argomento potranno essere svolte a condizione che non si verifichi contemporaneità con l’attività scolastica.
Per quanto riguarda le mense, l’adeguamento al punto 6.6.1 del decreto 26 agosto 1992 prevede che nel caso in cui a questi locali sia annessa la cucina o il lavaggio delle stoviglie con apparecchiature alimentate a combustibile liquido o gassoso, agli stessi si dovranno applicare le specifiche normative di sicurezza vigenti.
Gli adeguamenti inseriti nel livello di priorità B includono anche le disposizioni per gli impianti di rilevazione e di estinzione degli incendi. Al riguardo si ricorda che limitatamente agli ambienti o locali il cui carico d’incendio superi i 30 kg/m2, deve essere installato un impianto di rivelazione automatica d’incendio, se fuori terra, o un impianto di estinzione ad attivazione automatica, se interrato.

Livello di priorità C

Per la definizione del terzo livello di priorità, denominato “C”, non sono elencate puntualmente le misure da attuare ma è richiamato il compito di pianificare l’adeguamento a tutte le restanti disposizioni del decreto ministeriale 26 agosto 1992.

Il decreto 21 marzo 2018 termina con l’indicazione che tutte le attività di adeguamento indicate possono essere realizzate, in alternativa, con l’osservanza delle norme tecniche di cui al decreto del ministro all’Interno 3 agosto 20153, così come integrato dal decreto del ministro all’Interno 7 agosto 20174. Al riguardo non è superfluo ricordare che con la pubblicazione del decreto del ministero dell’Interno 7 agosto 2017 è stata approvata regola tecnica verticale per le attività scolastiche e che le nuove misure tecniche di prevenzione incendi contenute in questo atto possono essere applicate alle attività scolastiche di cui all’allegato I del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1515, sia esistenti che di nuova realizzazione, a esclusione degli asili nido. Si segnala che, a oggi, anche se con D.M. 21 marzo 2018 sono state fornite indicazioni programmatiche prioritarie ai fini dell’adeguamento alla normativa antincendio, i termini per l’adeguamento, scaduti il 31 dicembre 2017, non sono stati prorogati.

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Privacy e safety la parola agli esperti

Gdpr versus servizio prevenzione e protezione: un dialogo tra due consulenti dei rispettivi settori serve a chiarire i punti di contatto tra le due discipline alla luce del regolamento Ue n. 679/2016 recentemente entrato in vigore anche in Italia.

Protezione dati personali e Sgsl c’entrano qualcosa?

Sono Stella e ho una società che si occupa di salute e sicurezza sul lavoro e altri sistemi di gestione per le società e i negozi in zona.
Nella società ci sono tre collaboratori diretti molto bravi, due ragazzi in segreteria che gestiscono un po’ tutto, una piccola squadra di professionisti specializzati in gamba fra cui un medico competente e due bravi ingegneri per i rilievi tecnici e per le attività sui cantieri (Csp e Cse). Gli esercizi dei paesi vicini si rivolgono tutti a me; potrei quasi dire che ho quasi monopolizzato la zona. Fra i miei clienti ho un paio di grandi supermercati, alcune officine meccaniche – di cui una molto grande – negozi da parrucchiere e un paio di grandi negozi di prodotti per la costruzione. Inoltre, di recente in un paese vicino hanno deciso di costruire una nuova stazione dei carabinieri e hanno affidato alla mia società la gestione della salute e sicurezza sul lavoro con un Rspp e un Cse. Questo è il mio piano di lavoro per oggi, opportunamente condiviso con i miei collaboratori:

A – aggiornare il Dvr del supermercato Jedf: sono stati assunti 5 nuovi lavoratori, di cui ho i nominativi, che mi hanno detto di essere musulmani e che, per questo motivo, non vogliono essere assegnati ai turni in macelleria (nella zona si lavora e consuma parecchia carne di maiale) e di strutturare il lavoro in modo da permettere le pause per la preghiera. Il titolare è d’accordo, anzi la riduzione dei contributi gli sembra più premiante delle pause per la preghiera;

B – anche per il negozio di acconciature di via Roma sarà necessario aggiornare il Dvr: sono andati via un paio di lavoratori e ne ha subito assunti altri tre; in particolare, uno dei dipendenti mi ha detto che non si sente a suo agio con i ragazzi e vorrebbe poter utilizzare il bagno delle ragazze; penso sia opportuno chiedere al proprietario di abilitare il terzo bagno in modo da non avere problemi;

C – occorre inoltrare al titolare del negozio di abbigliamento di via Garibaldi la nota del medico per Francesco, il lavorante anziano: dalla visita periodica è emerso che potrebbe avere un problema oncologico e sono consigliate indagini approfondite. Il medico non aveva tempo di chiamarlo per cui ci occuperemo noi di contattarlo;

D – Giovanni, visto che sei Cse del cantiere di costruzione della caserma, mi è arrivata la comunicazione dell’Arma che il cantiere deve essere considerato come riservato ed è necessario identificare e tenere traccia di tutte le persone che lavorano negli ambienti al primo piano. Hanno richiesto, addirittura, l’accesso con riconoscimentodell’impronta digitale. Vanno verificati sia gli operai della società principale sia i due subappaltatori impiantisti e dobbiamo avere sempre l’elenco delle persone, con le impronte digitali da consegnare al controllo di ingresso, che operano nell’intero cantiere e nelle zone riservate. Scarica gli accessi dai rilevatori al portatile che ti porti dietro e, alla sera, ricordati di scaricare tutto sul server, così evitiamo di dover rifare tutto in caso di virus informatico come successo tre giorni quando abbiamo perso il lavoro di un po’ di mesi;

E – Cristina, tu completa la pratica Inail di infortunio di Marco, l’operaio dell’officina meccanica. Mi raccomando descrivi bene il fatto e dettaglia quello che ha detto il pronto soccorso circa la lesione alle dita e al tendine del braccio sinistro che forse avrà lunghi strascichi e comporterà un’invalidità. Sentiremo anche il medico competente;

F – ho letto di questa nuova normativa sulla privacy, penso che a noi non ci riguardi proprio, ma chiamerò Rita , che, se non sbaglio, ha fatto un corso sull’argomento. Cosa potrà aver detto Rita dopo aver ascoltato

Stella? Dal racconto emergono molti aspetti collegati con le normali attività che una società che eroga servizi di salute e sicurezza può ritrovarsi a gestire. In particolare, nei casi evidenziati all’interno del suo piano di lavoro (ma se ne potrebbero presentare altri e diversi) Stella deve affrontare:

  • aspetti legati alla religiose e alla differenza di genere;
  • infortuni sul lavoro;
  • patologie mediche che un medico competente “frettoloso” riversa sul responsabile del servizio salute e sicurezza sul lavoro;
  • la gestione delle squadre di un cantiere con zone riservate ad accesso obbligato da riconoscimento biometrico.

Queste sono tutte informazioni che interessano persone che hanno comunicato i propri dati personali al loro datore di lavoro, il quale, a sua volta, per obblighi di legge, li ha dovuti trasferire alla società di Stella.
Poiché i dati personali sono di esclusiva proprietà della persona (“sono la persona stessa” dice l’Autorità garante per la protezione dati personali) la società di Stella assume il ruolo di custode di una proprietà di altri e, come tale, deve preservarla al meglio.

Il regolamento Ue n. 679/2016 (conosciuto come “gdpr”), entrato di recente in vigore in Italia, enuncia, amplificandolo rispetto al passato, questo semplice principio: i dati personali sono la persona e come tali vanno tutelati e rispettati. Questo regolamento è nato per proteggere i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, con particolare riferimento alle innovazioni attuali e future della società ed enuncia i principi che qualunque organizzazione debba ponderare per rispettare la proprietà di altri (“interessati”) affidatale.

Di conseguenza, il titolare del trattamento (colui che determina finalità e mezzi di una qualunque “operazione” sui dati) deve garantire i principi:

  • di liceità correttezza ed esattezza del trattamento;
  • di finalità determinate, esplicite e legittime;
  • di adeguatezza, pertinenza e limitati a quanto serve per le finalità esplicitate;
  • di esattezza e aggiornamento;
  • di corretta conservazione;
  • di protezione con adeguate misure di sicurezza.

In queste operazioni di garanzia, il titolare può chiamare in causa, previa comunicazione agli interessati, un responsabile che opera su precisa delega su parti del trattamento.
Sempre il titolare deve assolutamente valutare il proprio profilo di rischio e adeguare il proprio comportamento e, in casi particolari, deve designare un Dpo (data protection officer) che lo supporti nei rapporti con l’autorità e con gli interessati, in modo da mantenere sempre elevata l’attenzione verso i diritti fondamentali dell’individuo, ricordando che è da considerarsi vietato il trattamento di dati personali che rivelino:

  • l’origine razziale o etnica;
  • le opinioni politiche;
  • le convinzioni religiose o filosofiche;
  • l’appartenenza sindacale.

Inoltre, deve trattare dati:

  • genetici;
  • biometrici, intesi a identificare in modo univoco una persona fisica;
  • relativi alla salute o alla vita e/od orientamento sessuale della persona.

Questo divieto è superabile in particolari casi e il rapporto di lavoro è proprio uno dei casi che permette il trattamento, a condizione di mantenere alta la tutela e l’attenzione ai principi enunciati.

La parola alla consulente sulla privacy

Tornando al racconto, questa è la risposta di Rita. Stella, sulla base di quello che mi chiedi ti illustro un quadro operativo di massima. Il datore di lavoro, tuo cliente, ti ha affidato i dati dei propri lavoratori; fra questi dati ci sono anche i cosiddetti “sensibili” (la norma parla di “particolari”, ma “sensibili” rende immediata la comprensione) che sono stati affidati a lui per le esigenze lavorative. Il datore di lavoro ti sta, quindi, trasferendo il suo “portafoglio” di dati, delegandoti le responsabilità della tutela. È ovvio che tu abbia necessità di operare su questo patrimonio; ma è altrettanto ovvio che, nel contempo, tu debba tutelare, oltre ciò che ti viene affidato, anche le tue attività.

Per questo “affidamento” il datore di lavoro dovrà farti avere una specifica nomina che contenga alcuni elementi chiave:

  • la tua società è stata scelta perché è in grado di presentare garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo da soddisfare la normativa e tutelare i dati affidati;
  • il titolare assume su di sé l’onere della corretta informazione ai propri dipendenti e collaboratori, dichiarandoti di avere erogato l’informativa che riporta la presenza della tua società fra i responsabili del trattamento;
  • il titolare ha definito le istruzioni necessarie al trattamento dei dati personali comunicandoti:

– se ha un responsabile della protezione dati (il famoso Dpo di cui hai sentito parlare);

– come deve essere informato e come ti deve informare in caso di violazioni o presunte tali;

– se e come dovranno essere cancellati i dati alla fine del contratto;

– se ha intenzione di effettuare audit sul tuo comportamento;

– se ha particolari regole di trasmissione dei dati personali;

  • la tua società deve, quindi, dotarsi di regole interne, tecniche (come rete protetta, firewall, antivirus, pc aggiornati, utilizzo di un cloud europeo, copie di sicurezza, armadi chiusi a chiave, sistema di allarme nella sede eccetera) e organizzative (istruzione dei tuoi collaboratori, procedure di gestione dei dati, flow-chart di intervento in caso di violazioni, controlli sistematici agli apparati e altre) in grado di proteggere il patrimonio dati affidato;
  • descrivi tutto in documenti interni sempre disponibili e aggiornati; fra i documenti inserisci una piccola analisi dei rischi sulla privacy (come quella del Dvr per intenderci) sulla base dei tre rischi fondamentali

– accesso illegittimo, modifiche indesiderate ai dati e furto di dati – e su questi descrivi le attività di mitigazione;

  • per tenere corretta traccia di come ti sei organizzata è utile fare un “registro del trattamento” nel quale, per ciascuna macroattività che svolgi, descrivi i punti fondamentali del processo;
  • la tua società, per ciascun cliente, deve aver predisposto un “registro del trattamento del responsabile”. Poiché operi per tanti clienti nello stesso modo, ti conviene standardizzare e produrre lo stesso registro accompagnandolo da un elenco dei clienti per cui svolgi le stesse attività;
  • devi, inoltre, definire una procedura di gestione delle violazioni – un po’ come le procedure di gestione delle emergenze che sviluppiamo per i clienti

– nella quale illustri ai tuoi collaboratori a riconoscere e intervenire correttamente.

Questo, Stella, è il minimo indispensabile. Poi dovrai pensare alla tua struttura e ai tuoi collaboratori. Valuta se la quantità e la diffusione dei clienti renda necessario l’adozione di una figura di relazione con l’autorità garante e gli interessati (il responsabile della protezione dati o Dpo o Rpd); a mio parere, visto che hai “monopolizzato” la zona, credo ti convenga: vedilo come un investimento sulla trasparenza verso i tuoi clienti e i loro interessati.

Poi ci saranno altre cose da fare, ma per ora parti dalle operazioni che ti ho indicato e che sono fondamentali. Sulla Gazzetta Ufficiale del 10 maggio 2018, n. 107, è stata pubblicata l’ordinanza 24 aprile 2018 n. 54, redatta dalla presidenza del Consiglio dei ministri-commissario del governo per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma del 24 agosto 2016, registrata in pari data e pubblicata sul sito https:// sisma2016.gov.it/. L’ordinanza, emessa in attuazione dell’articolo 23, comma 2, D.L. n. 189 del 2016, riguarda la ripartizione delle somme destinate al finanziamento dei progetti e formazione in materia di salute e sicurezza del lavoro, stabilendo i criteri generali di utilizzo delle risorse.

In particolare, l’ordinanza disciplina termini, modalità e procedure per la concessione ed erogazione dei contributi nei comuni interessati dagli eventi sismici del 2016.

Beneficiari

Possono essere ammesse alle agevolazioni le imprese in possesso dei seguenti requisiti:

  • essere già presenti e operanti nei territori dei comuni di cui all’articolo 1, D.L. n. 189/2016, alla data degli eventi sismici del 24 agosto 2016, del 26 ottobre 2016, del 30 ottobre 2016 o del 18 febbraio 2017;
  • nel caso di impresa iscritta nel registro delle imprese, possedere una o più unità produttive in uno dei comuni;
  • nel caso di impresa non iscritta nel registro delle imprese, essere effettivamente operanti ed esercitare l’attività in uno dei comuni, da documentare attraverso il certificato di attribuzione della partita iva;
  • non essere in liquidazione volontaria e non essere sottoposte a procedure concorsuali alla data degli eventi sismici;
  • non essere incorse nell’applicazione della sanzione interdittiva di cui all’articolo 9, comma 2, lettera d), D.L. 8 giugno 2001, n. 231;
  • non essere incorse nell’applicazione di una misura di prevenzione ai sensi del libro I, titolo I, capo II, decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136»;
  • non trovarsi in nessuna delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, decreto legislativo

6 settembre 2011, n. 159;

  • in caso di delocalizzazione dell’attività, aver effettuato la delocalizzazione in uno dei comuni di cui all’articolo 1, D. L. n. 189/2016;
  • poter riprendere l’attività, ove interrotta in ragione degli eventi sismici per danneggiamento degli immobili, e acquisire

il certificato di agibilità sismica, rilasciato dal tecnico incaricato, in caso di immobili danneggiati. Fermi restando i predetti requisiti, possono essere ammesse alle agevolazioni previste dall’ordinanza in esame le imprese:

  • titolari di diritto di proprietà o usufrutto dell’immobile oggetto dell’intervento;
  • affittuarie dell’immobile oggetto dell’intervento in forza di contratto registrato in data antecedente agli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016 e onerate, in forza di questo contratto, delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile;
  • titolari di un contratto di locazione finanziaria stipulato in data antecedente agli eventi sismici verificatisi a partire dal 24 agosto 2016 e onerate, in forza di questo contratto, alle spese di manutenzione ordinaria e straordinarie.

Attività finanziabilie spese ammissibili

Sono ammessi alle agevolazioni gli interventi di cui alle norme tecniche per le costruzioni (ntc) vigenti, finalizzati a garantire la sicurezza dei lavoratori, relativi a immobili destinati ad attività di impresa e/o produttiva.
Non sono, invece, ammessi quelli relativi a immobili danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016 già oggetto di richiesta di contributo o ammessi a contributo ai sensi dell’ordinanza 9 gennaio 2017, n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018, n. 46, alla data di entrata in vigore dell’ordinanza in esame.

L’ordinanza specifica che la presentazione della domanda per l’ottenimento del contributo preclude la possibilità di accedere al contributo ai sensi dell’ordinanza 9 gennaio 2017 n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018 n. 46. Nello specifico, sono ammessi a finanziamento gli interventi di:

  • rafforzamento locale effettuati sulla base di un progetto redatto ai sensi dell’entc vigenti;
  • miglioramento sismico effettuati sulla base di un progetto redatto ai sensi delle ntc vigenti;
  • messa in sicurezza dei componenti non strutturali e degli impianti come tamponature, partizioni interne, scaffalature e ogni altro elemento non collegato alla struttura portante o con vincolo inefficace e la cui instabilità possa compromettere la sicurezza dei lavoratori.

Al fine di ottenere il contributo, le imprese devono allegare alla domanda il certificato di agibilità sismica o altra certificazione che attesti l’utilizzabilità dell’immobile.

Nel caso di interventi di miglioramento sismico, il livello di sicurezza sismica da conseguire deve essere pari almeno a quanto stabilito, per la corrispondente classe d’uso dell’immobile, dal D.M. 27 dicembre 2016, n. 477.

Nel caso in cui il livello di sicurezza sismica raggiunto con l’intervento risulti maggiore del limite superiore dell’intervallo definito per la classe d’uso pertinente dal suddetto decreto, la spesa ammissibile è, comunque, limitata alla classe d’uso pertinente corrispondente.

Per gli interventi relativi a immobili a destinazione produttiva non danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016, la spesa ammissibile a contributo viene determinata con riferimento al prezzario unico interregionale delle Regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria (prezzario unico cratere centro Italia 2016) approvato con l’ordinanza del commissario straordinario del 14 dicembre 2016, n. 7. Il costo unitario massimo dell’intervento non può, in ogni caso, essere superiore a 100 €/mq. Per gli interventi relativi a immobili a destinazione produttiva danneggiati in seguito agli eventi sismici verificatisi a far data del 24 agosto 2016, la spesa ammissibile a contributo è determinata secondo quanto disposto nell’articolo 3, ordinanza 9 gennaio 2017, n. 13, così come modificata dall’ordinanza 10 gennaio 2018, n. 46, con riferimento ai costi parametrici di cui alla tabella 6 riferiti ai livelli operativi della tabella 5 dell’allegato 2 all’ordinanza n. 13/2017. A questi costi parametrici si applicano gli incrementi di cui alla tabella 7 dello stesso allegato 2. Sono ammesse a contributo le spese tecniche di progettazione, direzione lavori, indagini e, ove previsto, di collaudo.

Voci non ammesse

  • interventi effettuati in locali diversi da quelli in cui è esercitata l’attività lavorativa;
  • acquisto di beni usati;
  • manutenzione ordinaria degli ambienti di lavoro, di attrezzature, macchine e mezzi d’opera;
  • costi del personale interno;
  • spese generali;
  • spese amministrative e di gestione.

Al fine di asseverare il contenuto dell’istanza e, in particolare, la congruità e coerenza delle spese sostenute e indicate nella domanda con gli obiettivi del progetto e delle finalità dell’ordinanza in esame, le imprese devono allegare una perizia asseverata redatta secondo lo schema dell’allegato 2 dell’ordinanza. La suddetta perizia deve recare data antecedente alla presentazione della domanda e deve risultare redatta da un professionista abilitato a norma delle disposizioni vigenti.

Agevolazione

Il commissario straordinario, verificati i presupposti richiesti, dispone con proprio decreto la concessione del contributo.

L’agevolazione consiste in un contributo in conto capitale corrispondente al 70% della spesa ritenuta ammissibile che non può, in ogni caso, superare l’importo di complessivi € 200.000,00 per ciascun beneficiario, nel caso di interventi su più immobili e anche attraverso più domande riguardanti opere di miglioramento sismico. In presenza di copertura assicurativa, il contributo è pari alla differenza tra i costi complessivi, sostenuti e ritenuti ammissibili, e gli indennizzi assicurativi corrisposti.

Al fine di determinare il contributo nell’ipotesi sopra indicata, il richiedente deve allegare alla domanda:

  • copia della polizza assicurativa; • attestazione della compagnia assicurativa indicante:
  • tipologia e descrizione dei beni assicurati;
  • ammontare dell’indennizzo assicurativo per tipologia di bene e indicazione della percentuale di copertura, totale o parziale, dell’intervento effettuato. Nell’ipotesi di copertura assicurativa, l’erogazione del contributo è subordinata alla verifica che l’impresa beneficiaria abbia esperito tutte le azioni e gli adempimenti a suo carico per ottenere il risarcimento da parte dell’assicurazione.

L’erogazione del contributo può avvenire secondo le seguenti modalità:

  • pagamento in un’unica soluzione, qualora le spese relative agli interventi siano interamente quietanzate e rendicontate entro il termine di presentazione della domanda;
  • pagamento in due soluzioni, per interventi di importo superiore a 50.000,00 euro.

In questo caso, il commissario provvede a una prima erogazione del contributo, sulla base di spese interamente quietanzate e corrispondente ad almeno il 35% del valore complessivo dell’intervento.
Con successivo provvedimento si provvede all’erogazione a saldo, sulla base della documentazione di spesa richiesta, da presentarsi entro giorni 45 dalla fine dell’intervento ammesso a contributo.

I contributi non sono cumulabili con altri contributi pubblici concessi per le stesse spese e sono concessi nel rispetto delle disposizioni del regolamento (Ue) n. 1407/2013 e del regolamento (UE) n. 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2018.

Presentazione delle domande

La domanda di contributo, comprensiva dell’imposta di bollo, è presentata nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà e devono essere indicati, fra l’altro, pena l’esclusione:

    • il codice risultante dalla classificazione ateco 2007, della sede/unità produttiva in cui si realizza l’intervento;
    • l’indirizzo della sede/unità locale oggetto di intervento e la tipologia di intervento/ i oggetto di richiesta di contributo;
    • il titolo di possesso dell’immobile o degli immobili oggetto dell’intervento riferito all’impresa che presenta domanda di contributo;
  • i dati identificativi dell’impresa richiedente nonché la presenza dei requisiti soggettivi richiesti per accedere ai contributi;
  • il numero di iscrizione al registro delle imprese presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio;
  • il rendiconto analitico delle spese per ogni intervento oggetto di richiesta di contributo con le relative tabelle di sintesi, redatto in funzione della modalità di erogazione del contributo. In caso di erogazione in un’unica soluzione, il rendiconto

deve riportare la quietanza relativamente al 100% delle spese e le generalità di tutti i fornitori. Per gli interventi di importo superiore a € 50.000,00 e in caso di richiesta di erogazione in due soluzioni, il rendiconto deve riferirsi al totale delle spese previste e riportare la quietanza di almeno il 35% delle spese sostenute nonché le generalità dei relativi fornitori;

  • il termine iniziale e finale degli interventi;
  • gli estremi della notifica preliminare (protocollo sico – sistema informativo costruzioni), ottenuti tramite la compilazione sul sistema informativo presente all’indirizzo web www.progettosico.it)per le aziende affidatarie e per quelle esecutrici dei lavori, ove prevista ai sensi dell’art. 99, D. Lgs. n. 81/2008. In assenza del protocollo sico, si deve allegare un attestato comprovante l’avvenuto invio della suddetta notifica preliminare, qualora dovuto. In caso l’impresa dichiari la non necessità della notifica preliminare devono essere specificati in domanda i motivi;
  • le coordinate bancarie-iban ai fini dell’accredito del contributo concesso.

A pena di esclusione, l’impresa deve attestare nella domanda che:

  • le spese indicate nel rendiconto analitico riguardano effettivamente e unicamente i lavori previsti dall’intervento ammesso a contributo;
  • i titoli di spesa riportati nel rendiconto analitico, presentati secondo le modalità di erogazione del contributo, sono fiscalmente regolari e integralmente pagati e non sono stati né saranno utilizzati per l’ottenimento di altri contributi pubblici;
  • i beni acquistati sono di nuova fabbricazione.

Documenti a corredo

  • fotocopia della carta d’identità o del passaporto in corso di validità del legale rappresentante dell’impresa richiedente;
  • perizia finalizzata ad asseverare il contenuto dell’istanza, la rispondenza delle opere realizzate, la finalità dell’intervento e, in particolare, che il valore delle spese sostenute o da sostenere e indicate in domanda sia congruo con gli obiettivi dell’intervento e che tutte le opere siano state ultimate in data antecedente a quella di presentazione della domanda nel caso degli interventi già effettuati. La perizia deve essere redatta esclusivamente da un tecnico abilitato, regolarmente iscritto al proprio Albo professionale e deve, altresì, attestare la superficie dell’immobile o della porzione di immobile oggetto dell’intervento;
  • copia del “Certificato di collaudo statico”, laddove previsto, per ogni intervento finanziato;
  • relazione tecnica-illustrativa degli interventi, firmata digitalmente dal legale rappresentante o dal suo tecnico delegato, che illustri gli obiettivi, i risultati conseguiti e la loro coerenza e correlazione con le finalità dell’ordinanza. La relazione deve essere predisposta con riferimento ai contenuti di cui all’Allegato 3 dell’ordinanza che costituisce parte integrante e sostanziale;
  • copia delle fatture o di documenti fiscalmente equivalenti e relative quietanze per un importo pari al 100% della spesa sostenuta qualora si richieda l’erogazione dei contributi in un’unica soluzione, o per un importo non inferiore al 35% qualora si richieda l’erogazione in due soluzioni dei contributi previsti. Le fatture devono riportate, a pena di inammissibilità della domanda, una descrizione precisa delle spese sostenute che consenta l’immediata riconducibilità delle stesse all’intervento agevolato. Le domande di contributo devono, comunque, essere inoltrate, entro il 31 luglio 2018.

Valutazione delle richieste

Il Commissario straordinario procede all’istruttoria delle domande presentate e alla successiva fase di erogazione dei contributi. In particolare, provvede a verificare la ricorrenza dei presupposti previsti dall’ordinanza in esame e alla valutazione delle caratteristiche tecniche e finanziarie e di sicurezza raggiunti, della congruità dei valori, nonché della coerenza degli interventi proposti rispetto alle finalità del contributo.

Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine provvede ad adottare i decreti di concessione dei contributi nel rispetto delle risorse stanziate. Nel caso di insufficienza delle risorse, l’entità del contributo è proporzionalmente ridotta fino al raggiungimento della somma pari alle risorse stanziate. Nel decreto di concessione del contributo il commissario indica il termine entro il quale l’intervento deve essere eseguito, tenuto conto della complessità dell’intervento e dei tempi tecnici di realizzazione.

Risorse finanziarie

Ammontano complessivamente a 30.000.000,00 di euro.

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