Nei casi in cui si accerti che lo svolgimento di determinate attività dà luogo a condotte che, ripetute nel tempo, si traducono in comportamenti non corretti, in quali termini si configura la responsabilità, rispettivamente del datore, del dirigente o del preposto? Un’attenta e precisa analisi ci aiuta a capire meglio

 

Risposta
La Cassazione è univocamente orientata, da tempo, ad affermare il principio che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro – cui spetta di assicurare l’obiettivo di un’efficace tutela delle condizioni di lavoro, è molteplice e articolato.
Questa figura, infatti, non può limitarsi all’istruzione dei lavoratori sui rischi professionali, e sulla conseguente necessità di adottare specifiche misure di sicurezza, bensì deve ulteriormente consistere e concretarsi in un controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino le disposizioni impartite; e si adeguino tanto alle misure di tutela previste dalla legislazione antinfortunistica, quanto a quelle supplementari derivanti dalle procedure di sicurezza adottate da ciascuna azienda, allo scopo di garantire condizioni di lavoro sicure.
Invero, spesso, i lavoratori sono tentati, per i motivi più vari, a trascurare tanto le prime, quanto le seconde. Dunque, il datore di lavoro, quale soggetto primariamente responsabile della sicurezza, deve possedere la cultura e la forma mentis di garante di quel bene costituzionalmente rilevante te costituito dall’integrità psicofisica del lavoratore. In questa veste, rilevante anche sul piano dei valori costituzionalmente tutelati, il datore ha il preciso dovere, in primo luogo, di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste per le singole lavorazioni e, in secondo luogo, di attivarsi e di controllare sino alla pedanteria, che le norme e le disposizioni aziendali siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Questi specifici oneri di informazione e di assiduo controllo, ordinariamente necessari nei confronti dei dipendenti dell’impresa, si impongono a maggior ragione nei confronti di coloro che, prestando lavoro alle dipendenze di altri, e venendo per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture a loro non familiari (ad esempio, in regime di appalti extra-aziendali ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008), possono essere per ciò solo inseriti in situazioni di lavoro che per elementi e circostanze non conosciute risultano insidiose per i prestatori di lavoro.

La Cassazione ha, inoltre, sottolineato che il suddetto dovere di vigilanza spetta in ogni caso al datore di lavoro (che non abbia validamente delegato i suoi compiti), e che questo obbligo di attuare e controllare le misure di sicurezza non viene meno neppure in caso di distacco di lavoratori presso un cantiere gestito da altro imprenditore.
Naturalmente, l’obbligo della vigilanza può essere disimpegnato dal datore di lavoro anche avvalendosi della propria organizzazione aziendale, mediante la ripartizione delle competenze a dirigenti prevenzionistici e a preposti, e predisponendo altresì un’efficace rete di flussi informativi che consentano il controllo delle condizioni di lavoro in azienda (in tal senso è illuminante la recente pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 4 aprile 2019, n. 49215). 

Le responsabilità
Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro (e, più in generale, dei vertici aziendali) le pronunce giurisprudenziali sono diffuse. È così che, con riguardo a un infortunio occorso a un lavoratore operante su un ponte sviluppabile, utilizzato a un’altezza di dodici metri da terra, comandato da terra a opera di un terzo lavoratore, e non da bordo del cestello del ponte, così come imponeva l’ordine di servizio impartito dal datore di lavoro (in conformità alla previsione dell’art. 233 del D.P.R. n. 547/1955), la Cassazione ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’esonero della responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che il lavoratore avesse dichiarato di essere a conoscenza delle corrette modalità di lavoro, ma che queste ultime erano il più delle volte disattese nella prassi concreta di lavoro, che avveniva con modalità non conformi (Cass. pen. sez. III, 28 maggio 1999, n. 6695). Dunque, nel caso di specie, la scorretta pratica di lavoro, tollerata dal datore di lavoro e non conforme alle norme prevenzionistiche (giacché solo il personale a bordo del ponte sviluppabile poteva avere una diretta percezione delle manovre, in relazione allo spazio di traslazione e alla eventuale presenza di ostacoli), nonché il mancato accertamento della non aderenza di questa prassi concreta alle disposizioni impartite, sono stati gli elementi fondanti il profilo di colpa specifica addebitato nel processo, conclusosi con la condanna dell’imputato.
Si può dunque affermare che il datore di lavoro deve non solo ordinare, ma altresì esigere che le norme di sicurezza siano rispettate; e questo controllo deve essere effettivo, cosicché il datore non può mettersi al riparo emanando un ordine, laddove la prassi esecutiva dell’azienda risulti sistematicamente in contrasto con le norme di sicurezza. Il controllo sulla conformità della prassi esecutiva di lavoro all’ordine di servizio impartito deve pertanto essere effettivo, non limitato a una pretesa di natura esclusivamente formale.

L’orientamento della Cassazione
Da decenni l’orientamento prevalente della suprema Corte (per tutte Cass. pen. sez. IV, 4 giugno 1974, Pelloni), è che il datore di lavoro deve «controllare ed esigere che le modalità di lavoro siano conformi ai criteri di sicurezza». Analogamente la legislazione prevenzionistica e di igiene del lavoro da sempre ha sancito l’obbligo della cosidetta “pretesa d’uso” (art. 4, lett. c) del D.P.R. n. 547/1955: il datore di lavoro deve: «disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione »), addirittura assoggettandolo ad autonoma sanzione (artt. 4, lett. d) e 58, lett. c) del D.P.R. n. 303/1956), cosa che le normative emanate agli inizi degli anni ’90 (il D.Lgs. n. 277/1991 e il D.Lgs. n. 77/1992) hanno confermato, sconfessando in questo modo le pronunce giurisprudenziali di segno contrario (ad esempio, Cass. pen. sez. IV, 15 gennaio 1975, Menardo).
La tesi della autonoma sanzionabilità della violazione dell’obbligo della “pretesa d’uso” ebbe poi a ricevere una conferma esplicita nel D.Lgs. n. 626/1994, il quale, ponendo fine alle oscillazioni giurisprudenziali, stabilì chiaramente che l’obbligo per il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti (ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze) di esigere, da parte dei singoli lavoratori, l’osservanza delle norme di legge e aziendali in tema di sicurezza, è un obbligo autonomamente sanzionato (art. 4, comma 5, lettera f) e art. 89, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 626/1994). Questa impostazione del dovere di sicurezza, rivolto a fronteggiare e a contrastare efficacemente l’instaurarsi di prassi scorrette di lavoro, è stato integralmente confermato nel testo unico della sicurezza sul lavoro (art. 18, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008: «Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono(…) f) richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione»).

Il controllo? Anche personale
In altra vicenda infortunistica (folgorazione di un operaio, raggiunto da una violenta scarica elettrica mentre lavorava in prossimità di una pressa ad alta frequenza, senza operare il cosiddetto sezionamento della linea elettrica così come previsto dall’art. 345 del D.P.R. n. 547/1955), analogamente la Cassazione ha ritenuto che l’abitudine omissiva del lavoratore deceduto di non interrompere la tensione del generatore (forse per eccesso di confidenza con le mansioni di lavoro e la conoscenza del macchinario) non avrebbe dovuto essere tollerata in alcun modo dal datore di lavoro, il quale avrebbe dovuto esercitare finanche personalmente un controllo adeguato per impedire la violazione delle norme e le prevedibili conseguenze dannose derivanti dalla loro inosservanza, intervenendo per pretendere il rispetto di quelle disposizioni che risultassero sistematicamente violate nella concreta prassi di lavoro (Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3970).
In un altro caso di omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sull’effettivo utilizzo dei dispositivi di protezione individuale messi a disposizione dei lavoratori, ma dagli stessi non utilizzati durante il lavoro, la Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro «non può – e non deve – limitarsi a mettere a disposizione dei singoli lavoratori il materiale necessario all’allestimento dei mezzi di protezione, limitandosi ad ordinare che se ne faccia uso ma deve, in concreto, assicurarsi che ciò sia avvenuto».

Il ragionamento dei giudici di legittimità è stato che, essendo le norme di protezione e di sicurezza poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, queste ultime devono essere attuate anche contro la sua volontà, sicché «il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza circa la loro rigorosa osservanza, risponde della loro violazione in termini di culpa in vigilando, non rilevando l’affidamento sulla diligente condotta esecutiva dei prestatori di lavoro» (in termini Cass. pen. 17 febbraio 1984, n. 5795, e Cass. pen. 10 gennaio 1989, Santoro). Nel senso che l’affidamento di lavori, pur di prassi elementare, a un lavoratore particolarmente esperto, non esime il datore di lavoro dal fornire al lavoratore medesimo le indicazioni delle particolari cautele e delle attrezzature necessarie per lo svolgimento in sicurezza dei compiti affidati, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3984. Per Cass. pen. sez. IV, 25 settembre 1995, Moranti, non è rilevante a escludere la responsabilità del datore che il lavoro si sia svolto secondo la prassi instauratasi nell’azienda, se contraria alle misure antinfortunistiche. Le valutazioni espresse da queste consolidati orientamenti giurisprudenziali – ex plurimis, Cass. pen. sez. IV, 9 aprile 1999, Di Spirito; Cass. pen. sez. IV, 23 febbraio 1999, Beltramelli; Cass. pen. sez. III, 27 gennaio 1999, Celino – impongono in ogni caso al datore di lavoro di esercitare senza riserve un efficace controllo e una diligente vigilanza al fine di far rispettare le disposizioni di legge e quelle impartite in relazione alla propria concreta organizzazione di lavoro.

Quanto al criterio di imputazione della responsabilità colposa, l’orientamento prevalente della Cassazione è nel senso di ancorarlo alla tolleranza e all’acquiescenza del datore di lavoro di fronte alla prassi operativa scorretta, consistente o nell’inosservanza di una specifica disposizione di legge, ovvero di un ordine di lavoro specificamente impartito. Il fondamento della colpa viene dunque ravvisato nel consenso del datore di lavoro al perdurare di una situazione in contrasto con le disposizioni imperative della legislazione antinfortunistica, che egli aveva invece l’obbligo giuridico di conoscere, cosicché lo stato di ignoranza della medesima non è affatto valutato come circostanza scriminante, bensì proprio come indice di una condotta di inerzia colpevole (sul tema della doverosa conoscenza-conoscibilità ex ante della situazione antigiuridica da parte del soggetto gestore del rischio, Cass. pen. sez. IV, 5 dicembre 2017, n. 54825 e da ultimo Cass. pen. sez. IV, 15 maggio 2019, n. 20833).

Dunque il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere il lavoratore subordinato, assicurando un assetto organizzativo del lavoro che sia rispettoso delle norme antinfortunistiche; ed è responsabile per l’infortunio subito da un dipendente nell’esercizio dell’attività lavorativa, anche di fronte a una condotta imprudente di quest’ultimo, quanto meno agevolata, da una situazione conosciuta o colpevolmente ignorata, e rispetto alla quale nulla abbia fatto per impedirla. In questo contesto, un’istruzione di lavoro, per quanto perentoria e specifica, non è di per sé sufficiente per escludere la penale responsabilità del datore di lavoro, dovendosi quest’ultimo anche attivare concretamente per la sua osservanza; e l’affidamento all’ordinaria diligenza del prestatore di lavoro nell’esecuzione della prestazione si risolve in una pretesa non legittima, nei limiti in cui a detto affidamento si voglia attribuire un’efficacia scriminante della responsabilità.
Va da sé, peraltro, che qualora la prassi scorretta inerisca all’esercizio del dovere di vigilanza, di essa risponderà ordinariamente il preposto (con riguardo ad una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, v. Cass. pen., sez. IV 22 aprile 2004, Policarpo: «(…) il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche»); qualora, invece, questa prassi sia correlabile alla omessa predisposizione di misure prevenzionistiche, di essa deve risponderà (anche o solo) il datore di lavoro e/o il dirigente prevenzionistico di riferimento (Cass. pen. sez. IV, 16 marzo 2005, Ranzi: «Il direttore del Dipartimento di facoltà dell’Università risponde – in quanto datore di lavoro – dell’incolumità degli studenti allorché essi siano adibiti, per prassi, ad attività manuali all’interno del Dipartimento medesimo»; Cass. pen. sez. IV 23 marzo 1998, Ruggiero: «il preposto al cantiere (…) ha mansioni normalmente limitate alla mera sorveglianza sull’andamento dell’attività lavorativa, sicché la sua esistenza – salvo che non vi sia la prova rigorosa (e nella specie non lo è) di una delega espressamente e formalmente conferitegli (con pienezza di poteri e di autonomia decisionale) e di una sua particolare competenza – non comporta affatto il trasferimento in capo a lui degli obblighi e delle responsabilità incombenti sul datore di lavoro, essendo a suo carico (peraltro neppure in maniera esclusiva quando l’impresa sia di dimensioni molto modeste) soltanto il dovere di vigilare a che i lavoratori osservino le misure e usino i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione, comportandosi in modo da non creare pericoli per sé e per gli altri. Ne consegue che una responsabilità del preposto non è configurabile allorché l’infortunio sia dipeso non da omessa o insufficiente vigilanza nel senso suddetto, bensì dalla mancanza di strumenti, misure ed accorgimenti antinfortunistici la cui predisposizione ed attuazione spetta soltanto al datore di lavoro o al soggetto specificamente competente appositamente delegato»).

L’importanza della qualifica
Particolarmente interessante la pronuncia di Cass. pen. sez. IV 26 settembre 1988, Dell’Arte, secondo la quale «il titolare dell’impresa (o il preposto) il quale abbia consentito, quale prassi aziendale, l’interscambio di ruoli tra i dipendenti, risponde dell’infortunio occorso a un lavoratore nell’esecuzione di operazioni non corrispondenti alla qualifica o al ruolo formale a lui attribuito; e ciò anche nel caso esso titolare/preposto non sia presente al momento del verificarsi dell’evento».

Anche recenti pronunce della suprema Corte hanno ribadito i principi di responsabilità dei vertici aziendali e più in generale delle figure deputate alla tutela delle condizioni di lavoro: per Cass. pen. sez. IV, 13 dicembre 2012, n. 48231, correttamente i giudici di merito avevano condannato il datore di lavoro in relazione all’infortunio di un dipendente il quale, salito sulla scala che conduceva alla macchina in movimento, mettendo un piede sul parapetto, aveva poi dichiarato, in sede d’indagini, che questo modo di procedere era stato da lui sempre praticato – così come dagli altri colleghi – in conformità a una vera e propria consuetudine; di qui la censura al datore di lavoro di non aver adeguatamente e risolutamente interdetto questa prassi consuetudinaria e scorretta di lavoro né avere predisposto un efficace sistema di controllo e di vigilanza sui lavoratori. Nel caso di una prassi di lavoro non corretta tollerata da un coordinatore per l’esecuzione in un cantiere edile (utilizzo di una scala per le lavorazioni in altezza, in luogo dell’allestimento di apprestamenti più sicuri quali ponteggi e trabattelli) i giudici di legittimità (Cass. pen. sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 1870) hanno confermato la responsabilità del Cse. Interessante anche la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 3 giugno 2014, n. 22977, secondo la quale in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, il dovere di vigilanza deve essere valutato «in relazione alla concreta organizzazione aziendale.
Qualora l’infortunio sia riconducibile ad una violazione isolata, frutto di contingente trascuratezza da parte del lavoratore, e non consista in una prassi scorretta di lavoro, concretantesi in sistematiche e usuali violazioni, occorre valutare se, sul luogo di lavoro, esistano altre figure preposte al controllo della condotta dei lavoratori, ovvero se il datore di lavoro sia tenuto a svolgere egli stesso una vigilanza assidua e un controllo continuo sull’esecuzione della prestazione di lavoro, assimilabili ai compiti propri del preposto».
Nel caso concreto si trattava dell’infortunio subito da un lavoratore, colpito all’occhio mentre eseguiva il taglio di un tondino: al datore di lavoro era stato contestato di avere omesso di dotare il lavoratore di idonei occhiali di protezione, ma era emerso che i Dpi erano stati bensì forniti al dipendente (come dallo stesso confermato in udienza), ma questi, per negligenza non li aveva utilizzati.
Da ultimo, con riguardo alla figura del dirigente, condannato a prescindere dall’accertamento della conoscenza effettiva della prassi scorretta di lavoro, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 2 dicembre 2016, n. 51537.