L’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare un po’ rigido ma, sostanzialmente, si pone in sintonia con il decreto legislativo 81/2008, con il quale, per altro, è stato consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore. La mancata partecipazione, inoltre, avrebbe anche messo in crisi il rapporto fiduciario fra il dipendente e il datore, con conseguente risoluzione del contratto

Nel corso dell’ultimo quinquennio, il filone giurisprudenziale sulla formazione obbligatoria in materia di salute e di sicurezza sul lavoro sta ingrossandosi sempre più e proietta su un quadro a tinte chiaro-scure un datore di lavoro sempre più “nudo” nel momento in cui la sua condotta è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dei giudici. Bisogna riconoscere, infatti, che sempre più frequentemente proprio la violazione del dovere formativo è considerata la causa di molti infortuni sul lavoro e comporta l’applicazione di pesanti sanzioni penali in capo al datore di lavoro e allo stesso ente secondo quanto stabilisce il D.Lgs. n. 231/2001. Tuttavia, il dovere formativo grava anche sullo stesso lavoratore il quale, com’è noto, secondo quanto stabilisce l’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli e etti delle sue azioni od omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Un dovere, questo, che si estrinseca nella partecipazione, da parte del prestatore di lavoro, ai corsi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro; la sua violazione, però, non ha un rilievo solo sul piano penale ma, come vedremo, anche su quello civilistico in quanto l’assenza ingiustificata ai corsi può legittimare, a determinate condizioni, il licenziamento per motivi disciplinari.
Molto significativa appare in merito la sentenza 7 gennaio 2019, n. 138, con la quale la Corte di Cassazione, sezione “Lavoro” (presidente: Bronzini; relatore: Cinque), ha messo a fuoco diversi profili che inducono anche a compiere alcune riflessioni sul potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro e sugli obblighi di obbedienza e diligenza del lavoratore sul piano della formazione obbligatoria.
Come vedremo, l’orientamento seguito dai giudici di legittimità può sembrare, invero, un po’ rigido ma tutto sommato si pone in perfetta sintonia con il D.Lgs. n. 81/2008, con il quale per altro è stato definitivamente consacrato l’abbandono del cosiddetto modello “iperprotettivo” del lavoratore diventano quest’ultimo, a pieno titolo, un debitore di sicurezza.

Il fatto
La vicenda processuale a rontata dalla suprema Corte risale al 2013: un datore di lavoro aveva contestato al proprio dipendente di non aver partecipato, senza alcuna giustificazione, al corso in materia di salute e di sicurezza sul lavoro organizzato dall’azienda. E aveva deciso, quindi, di recedere dal contratto di lavoro subordinato (art. 2094 del codice civile) intimando il licenziamento per giusta causa motivato, appunto, dal fatto che il lavoratore non aveva «….preso parte alla formazione obbligatoria sull’accordo Stato-Regioni, con contestuale contestazione della recidiva in riferimento a due analoghe condotte sanzionate con provvedimenti di natura conservativa».
Successivamente, il lavoratore era ricorso al giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del licenziamento ritenuto illegittimo.
Tuttavia, la sua tesi difensiva non era stata accolta e il recesso unilaterale del datore di lavoro era stato ritenuto fondato.
Anche la Corte d’Appello aveva confermato in pieno la legittimità del licenziamento disciplinare; il lavoratore aveva così proposto ricorso per Cassazione, censurando l’operato dei giudici di merito sotto molteplici profili. Il dipendente licenziato, infatti, in primo luogo ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 7, comma 8, della legge n. 300/1970 (il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile per avere la Corte di merito dato valore, ai fini della recidiva, a fattispecie non contestate che avrebbero determinato la fondatezza del licenziamento e la gravità degli addebiti in violazione del “principio di immodificabilità” e di “tipicità della contestazione” in quanto ha ampliato il campo d’indagine dei fatti posti a
base del recesso che erano solo quelli di cui alla lettera del 10 maggio 2013.
Il lavoratore ha, inoltre, anche lamentato la violazione ed errata applicazione degli artt. 71 e 72 del contratto collettivo di lavoro
«Chimici, lavorazione vetro, industria», in relazione all’art. 360, n. 3 codice di procedura civile per avere la corte territoriale, sulla base di una errata interpretazione delle suddette disposizioni, ritenuta sussistente l’ipotesi di recidiva pur non essendo state irrogate, nei dodici mesi precedenti dalla contestazione disciplinare, tre sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Al tempo stesso ha fatto anche rilevare la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 codice di procedura civile, per avere nuovamente affermato la Corte d’Appello la legittimità del licenziamento pur non essendovi, a suo avviso, alcun documento, atto oppure elemento che potesse giustificare questa conclusione. Inoltre, nell’articolato ricorso, è stata anche lamentata la violazione ed errata applicazione dell’art. 2119 del codice civile, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 del codice di procedura civile perché non è dato comprendere da quale elemento di prova la corte di merito ha potuto trarre il suo convincimento circa l’idoneità del comportamento del lavoratore a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro. Infine, il ricorrente ha contestato anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 2 e 13753 del codice civile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura civile, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato che, per un’unica condotta (assenza dal lavoro dal 12 luglio all’11 settembre 2013) erano stati adottati nei confronti dello stesso due provvedimenti disciplinari e, quindi, a suo avviso uno dei due provvedimenti sanzionatori irrogati era illegittimo e, conseguentemente, le condotte sanzionabili erano due e non tre come sostenuto dall’azienda che, per altro, a suo dire ha seguito un modus operandi in contrasto con l’art. 1375 del codice di procedura civile che impone la buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Cassazione ha, tuttavia, respinto il ricorso ritenendolo infondato, sulla base di un articolato ragionamento che è possibile così sintetizzare. Secondo i giudici di legittimità, un primo elemento di rilievo è che l’assenza ingiustificata al corso di formazione
in materia di sicurezza sul lavoro, che – occorre sottolineare – rientra nell’attività cui si obbliga il lavoratore con il contratto, si affianca ad altre assenze sul lavoro.
La Corte d’Appello, infatti, ha tenuto conto, al fine di valutare la legittimità del recesso datoriale e la sussistenza della recidiva, i due episodi effettivamente ritenendoli con un accertamento in fatto congruamente motivato, autonomi e distinti.
In relazione, invece, agli altri addebiti, non oggetto della lettera di licenziamento, sono stati considerati quali “circostanze confermative” della significatività degli altri (oggetto della contestazione) ai fini di una valutazione complessiva della gravità della condotta, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità del provvedimento sanzionatorio. Secondo la Cassazione ciò non viola, quindi, “il principio d’immutabilità della contestazione” come più volte affermato in sede di legittimità.
Per altro, fanno osservare ancora i giudici, che l’art. 72 del contratto di lavoro di riferimento prevede che il licenziamento per punizione è consentito, in caso di recidiva nella “medesima mancanza” di cui all’art. 71 (che contempla anche la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo) nonché nelle fattispecie di cui ai punti e), f), g) e h) dello stesso art. 71, che abbiano dato luogo a tre sospensioni nei dodici mesi precedenti.
La contrattazione collettiva ha distinto l’ipotesi della “recidiva specifica”, che consente al datore di lavoro di procedere al licenziamento senza preavviso in caso di sua eventualità, da quella cosiddetta “plurima/ impropria” che richiede, invece, una pregressa triplice sospensione per particolari e tipizzati illeciti disciplinari. Sotto questo profilo, la ricostruzione esegetica, oltre a essere conforme al dato letterale, è secondo i giudici logica e ragionevole avendo le parti contrattuali voluto prevedere un diverso regime (appunto la necessità delle tre pregresse sospensioni) per alcune tipologie disciplinari ben individuate. Nel caso de quo ricorre, pertanto, l’ipotesi di una reiterazione specifica, come precisato nella lettera di licenziamento, per assenza ingiustificata, con riferimento
a due anteriori episodi, avvenuti nei due anni precedenti, in relazione ai quali erano state comminate due sospensioni dal lavoro. Per questi motivi, quindi, nel caso di specie è da considerarsi legittimo il licenziamento in quanto, per e etto di quanto stabilito dal citato art. 72, lett. I, del contratto collettivo nazionale di lavoro in questione, non è prevista l’applicazione di una sanzione conservativa, ma quella espulsiva. I giudici di merito, quindi, si sono adeguati al principio in base al quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario delle sanzioni disciplinari con e etto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore rispetto alle norme di etica o del comune vivere civile.

Lesione del vincolo fiduciario
La Cassazione ha, inoltre, anche posto in risalto che nel caso di specie il fatto che il lavoratore sia stato ingiustificatamente assente al corso di formazione in materia di sicurezza indetto dall’azienda in base all’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 determina anche una grave violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui ai già richiamati artt. 1175 e 1375 del codice civile, tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e da rendere, quindi, proporzionata la sanzione irrogata.

Sotto questo profilo giova anche ricordare che l’art. 20, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008, stabilisce l’obbligo da parte del lavoratore di «osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale»; queste disposizioni sono espressione tipica del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, funzionali all’assolvimento dell’obbligazione di sicurezza (art. 2087 del codice civile).L’inosservanza, quindi, della disposizione aziendale di partecipare a un corso di formazione in materia di sicurezza costituisce, secondo quanto stabilisce l’art. 2119 del codice civile, una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Bisogna considerare, infatti, che l’art. 18, comma 1, lett. l) e l’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, pongono in capo al datore di lavoro e al dirigente – secondo le attribuzioni e le competenze a esso conferite – l’obbligo di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza. Di conseguenza, questo obbligo non poteva essere rimesso alla discrezionalità del lavoratore e, infatti, il già citato art. 20, comma 2, lett. h), del D.Lgs. n.81/2008, pone in capo allo stesso il dovere di «partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro», con la previsione in caso di violazione della sanzione penale dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 245,70 a 737,10 euro (art. 59, comma 1, lett. a)). Questa disposizione, quindi, risulta strettamente funzionale anche alla concreta attuazione, in ambito aziendale, del “modello prevenzione collaborativo”, su cui si fonda il D.Lgs. n. 81/2008. Appare chiaro, quindi, che la condotta tenuta dal lavoratore abbia assunto una gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e lo stesso, in quanto è stato messo seriamente in pericolo il “bene sicurezza” sul lavoro che, per altro, si autonomizza rispetto al titolare (cfr. art. 32 e 41 Cost.). Occorre ricordare in merito che, secondo un’autorevole dottrina, questa disciplina protettiva ha un’alta funzione di garanzia del diritto alla salute del cittadino lavoratore «garanzia che deriva da necessità sociali e trova oggi il suo fondamento principale nella rilevanza costituzionale del lavoro. Essa opera sia di fronte allo Stato, sia nei rapporti intersoggettivi, funzionando – in relazione a questi ultimi – come limite di ordine pubblico all’autonomia privata. In sostanza, poiché lo Stato da un lato ritiene di interesse generale la salute pubblica e dall’altro garantisce l’integrale tutela del lavoro in ogni sua forma, l’integrità fisica del lavoratore assume rilevanza generale; per cui, tutelandola, lo Stato tutela un bene generale, al quale è interessata – nel suo complesso – l’intera collettività».