Mog 231: una risorsa non solo per le “grandi”

Edilizia: è falsa convinzione che non sia applicabile nelle piccole realtà.

La stesura del modello di organizzazione, gestione e controllo, fra le altre cose, può favorire l’azienda sotto molteplici aspetti e rappresenta, per alcuni precisi illeciti, una sorta di esonero dalla responsabilità amministrativa. Ma a determinate condizioni. 

È opinione diffusa che i “modelli di organizzazione, gestione e controllo” (mog), che devono essere adottati ai sensi dell’articolo 6, D.Lgs. n. 231/2001, siano faccenda delle sole grandi imprese o, quantomeno, di aziende che per dimensioni e organizzazione sono (teoricamente) in grado di dedicare maggiori risorse (umane ed economiche) alla pianificazione e alla progettazione di un mog. Si tratta di una impostazione sbagliata che può portare a gravi rischi per le imprese più esposte all’impatto delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 231/2001 (responsabilità amministrativa di impresa). Infatti, le sanzioni dirette all’impresa, sia pecuniarie che interdittive per periodi più o meno lunghi (sospensioni: delle autorizzazioni, delle attività, a poter contrarre con la pubblica amministrazione eccetera), sono applicate a tutte le imprese. Dai dati statistici è possibile ricavare che le piccole e medie imprese rappresentano circa il 99% del totale a livello italiano ed europeo e che il 55% della ricchezza dell’Unione europea deriva da queste realtà imprenditoriali; di queste pmi il 92% sono micro-imprese con meno di 10 lavoratori. Dopo aver inquadrato il problema sul piano tecnico-giuridico, sono presentati gli indirizzi operativi per la stesura di modelli semplificati per l’organizzazione e la gestione della sicurezza (mog) nelle piccole e medie imprese (pmi), presentando un caso nel settore delle costruzioni. In quanto ai costi per una impresa che già rispetta il D.Lgs. n. 81/2008, questi ultimi derivano solo dal poco tempo che la stessa deve dedicare alla sua implementazione. Il vero onere si viene a creare quando si verifica un infortunio. Infatti, a seguito di eventi negativi in una azienda si avranno dei costi diretti e indiretti che spesso mettono le aziende in seria difficoltà. Occorre evidenziare che al convegno mondiale sulla sicurezza lavoro, organizzato a Istanbul nel settembre del 2011, sono stati presentati studi in cui è stato evidenziato che per “1 euro” investito in interventi di prevenzione e/o protezione dai rischi lavorativi la stessa azienda “guadagna” oltre “2,2 euro”.

IL RIFERIMENTO LEGISLATIVO

Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche come società, imprese, associazioni ed enti. La norma rappresenta un fattore di assoluta innovazione nel quadro normativo italiano in quanto, contrariamente alla massima societas delinquere non potest, afferma il principio secondo il quale, non solo i singoli individui, ma anche le società, le imprese, le associazioni, gli enti possono rispondere in sede penale di fatti illeciti materialmente commessi nell’interesse o a vantaggio di essi, da una persona fisica che risulti in qualche modo legata all’ente stesso. La strada scelta per contrastare la commissione di alcuni specifici reati in modo più incisivo è stata, quindi, quella di responsabilizzare direttamente le società, le imprese, le associazioni e gli enti, i quali sono tenuti a svolgere una maggiore vigilanza sull’operato dei propri dipendenti e a prevenire, per quanto possibile, questi reati, pena una serie di sanzioni. Prima del D.Lgs. n. 231/2001, soltanto l’autore del fatto illecito (persona fisica) doveva rispondere penalmente per il fatto illecito compiuto. L’ente di appartenenza non era coinvolto e continuava a svolgere regolarmente le proprie attività. Dopo il D.Lgs. n. 231/2001, sia l’autore del fatto illecito (persona fisica) che l’ente (società, impresa eccetera) di appartenenza rispondono penalmente per l’illecito compiuto. Quindi, è stata introdotta una responsabilità che riguarda l’intero ente, generando conseguentemente la necessità di un nuovo modello di organizzazione avente la finalità di un efficace effetto di deterrenza rispetto alla commissione di specifici reati. Alla luce di questo la norma offre una possibilità di esenzione per gli enti che si impegnino volontariamente nella prevenzione di questi reati, predisponendo al proprio interno un modello di organizzazione, gestione e controllo specifico. L’adozione di un “modello di organizzazione, gestione e controllo” non è obbligatorio, ma è suggerito dal D.Lgs. n. 231/2001. L’applicazione di questo decreto comporta il beneficio di una forma di esonero dalla responsabilità amministrativa dell’ente, se quest’ultimo è in grado di dimostrare, in sede giudiziaria per uno dei reati considerati, di aver adottato ed efficacemente attuato un “mog 231” idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Inoltre, la stesura di un “mog 231” può favorire l’azienda secondo molteplici aspetti, per esempio:

  • evitare l’applicazione delle sanzioni pecuniarie e interdittive;
  • ridurre i rischi illeciti;
  • ridurre la possibilità di esclusioni da appalti e sub-appalti pubblici;
  • tutelare l’investimento dei soci e degli azionisti in relazione al danno economico dovuto all’attuazione dei reati;
  • tutelare l’immagine dell’azienda;
  • evitare perdite di produzione;
  • prevenire spese legali;
  • evitare l’insoddisfazione del cliente;
  • evitare il calo di morale e di senso di appartenenza del personale.

Un “abito” fatto su misura Occorre evidenziare fin da subito che non esiste un “modello di organizzazione 231” valido per tutte le pmi in generale. Quindi, di volta in volta, bisogna predisporre un “abito” appropriato su misura per ogni impresa. I reati previsti a oggi (è prevedibile che nel tempo possano essere aggiunti altri reati) dal D.Lgs. n. 231/2001 sono, in sintesi:

  1. reati in danno e nei rapporti con la pubblica amministrazione;
  2. abusi di mercato;
  3. reati societari;
  4. reati in tema di falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo;
  5. reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;
  6. reati contro la personalità individuale;
  7. reati contro la vita e l’incolumità individuale
  8. reati transnazionali;
  9. reati di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo;
  10. delitti di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene;
  11. ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (reati contro il patrimonio mediante frode);
  12. delitti informatici e trattamento illecito;
  13. delitti di criminalità organizzata;
  14. delitti contro l’industria e il commercio;
  15. delitti in materia di violazione del diritto d’autore;
  16. induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria;
  17. reati ambientali (art. 25-undecies, D.Lgs. n. 231/2001)…

Logicamente, per una pmi, in generale, e per le imprese di costruzioni, in particolare, non tutti i reati elencati comportano uno stesso livello di rischio, in alcuni casi si tratta di reati che portano a rischi trascurabili per il tipo di attività dell’impresa. Per un’impresa di costruzioni, del livello di rischio lordo (inteso come combinazione di gravità e probabilità del reato in assenza di un modello di prevenzione reati) connesso a ciascuna fattispecie di reato.

Da questa è possibile ricavare che il rischio inerente alla sicurezza e alla salute dei lavoratori per un’impresa di costruzioni risulta essere “alto”.

ECCO LE INNOVAZIONI DEL D.Lgs n.81/2008

I reati di cui al D.Lgs. n. 231/2001, commessi con violazione delle norme infortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro (art. 25-septies), comporta un livello di rischio alto. L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008 aggiornato e integrato ha fornito, alle realtà imprenditoriali, la possibilità di attuare all’interno della propria organizzazione un sistema di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori (sgsl), che si configura come lo strumento più idoneo per definire le procedure per lo svolgimento delle attività di prevenzione e protezione nei luoghi di lavoro e che rappresenta le modalità di organizzazione e di programmazione delle varie fasi lavorative e le modalità di coordinamento fra i soggetti coinvolti. L’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008, «Modelli di Organizzazione e di gestione», infatti, contempla un «modello di organizzazione e gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni di cui al D.Lgs. 231/01». Si tratta di uno strumento a carattere puramente volontario che un’organizzazione può decidere di adottare per gestire meglio la sicurezza della propria azienda, avendo così un maggiore controllo dei rischi. In sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle linee guida Uni-Inail per un sgsl del 2001 o al british standard Ohsas 18000:2007 si presumono conformi ai requisiti per le parti corrispondenti. Inoltre, con il D.M. 13 febbraio 2014 (gazzetta ufficiale del 24 febbraio 2014, n 45) sono state recepite le procedure semplificate di cui alla Commissione consultiva del 27 novembre 2013, per l’adozione e la efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza nelle pmi ai sensi dell’art. 30, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008. Il fine di tutto questo è che le imprese che su base volontaria adottano ed efficacemente attuano un mog con riferimento alla salute e sicurezza sul lavoro possono prevenire le conseguenze previste dall’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, e dell’art. 300, D.Lgs. n. 81/2008. Infine, occorre evidenziare che, da studi effettuati dall’Inail negli anni precedenti, se sono confrontati gli indici infortunistici di aziende omologhe per settore produttivo e territorio di appartenenza ma che hanno l’unica differenza di avere o non avere adottato dei sistemi di gestione sicurezza lavoro, è possibile evidenziare che le aziende che hanno un sgsl hanno una forte riduzione dell’indice di frequenza (if): nel settore delle costruzioni ( – 33%), nel settore della chimica (– 26%), nel settore metallurgico (– 6%), nelle industrie tessili (- 64%), nei trasporti (– 13%) eccetera, in complesso i dati portano ad un “if” pari a – 27% in termini generali.

STRUTTURA DEL MOG: ELEMENTI ESSENZIALI

Un modello di organizzazione e gestione ex D.Lgs. n. 231/2001 è composto da due parti separate:

  • una parte generale che fornisce:
  1. le informazioni sulla realtà dell’ente e sulla sua attività;
  2. la normativa di riferimento;
  3. la funzione del modello adottato e i suoi principi ispiratori;
  4. la composizione dell’organismo di vigilanza;
  5. le modalità di formazione obbligatoria del personale;
  6. le modalità di diffusione del modello all’interno dell’ente e all’esterno;
  • una parte speciale che contiene:
  1. i reati presupposto ipotizzabili;
  2. le funzioni coinvolte;
  3. le modalità di commissione del reato;
  4. le procedure di controllo al fine di mitigare e gestire i rischi. Inoltre, il modello 231 prevede i seguenti documenti:
  • il codice etico;
  • il sistema disciplinare;
  • il regolamento dell’organismo di vigilanza.

FASI DI IMPLEMENTAZIONE

Prima di poter procedere all’avvio del modello è necessario aver stabilito una corretta politica aziendale, da riportare in un documento denominato “politica del mog della società …”, che sarà alla base di tutto il processo d’implementazione. Premesso questo, le fasi di implementazione di un mog sono:

  • fase 1, avvio–plan utile a: – analizzare il sistema di organizzazione e controllo al fine di far emergere eventuali carenze rispetto ai protocolli di buona prassi (come, per esempio, quelli indicati nella guida Ance 2013); – definire un piano di azioni da svolgere per dotare l’azienda di tutti i protocolli previsti; – identificare gli obiettivi guida per il successivo risk-assessment, attraverso l’identificazione delle aree/processi/responsabili esposti ai reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001; – per ciascun processo sensibile individuato dovranno essere indicate, infine, le modalità di svolgimento delle relative attività e indicate, se rilevanti, le specifiche procedure alle quali attenersi, prevedendo, in particolare:
  1. i protocolli per la formazione e l’attuazione delle decisioni;
  2. le modalità di gestione delle risorse finanziarie;
  3. gli obblighi di informazione all’organismo di vigilanza;
  • fase 2, risk assessment che conduce a un’analisi e a una valutazione del rischio sulle aree/processi potenzialmente esposti ai reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001, attraverso la mappatura dei processi sensibili in termini di: – reato potenziale; – potenziale modalità di attuazione del reato; – funzioni coinvolte; – breve sintesi del processo sensibile; – identificazione per ogni processo delle criticità rispetto ai protocolli di prevenzione di riferimento – definizione delle aree/processi di business, riscontrabili nel modello 231 di riferimento, ma sui quali sono probabili differenze sostanziali in termini di oggetto e di modalità operativa. L’attività di risk assessment si svolge con la collaborazione delle funzioni operative aziendali; – definizione delle aree/processi specifici; il risk assessment si svolge con la collaborazione della struttura aziendale;
  • fase 3, gap analysis-azioni, che conduce alla realizzazione del piano di implementazione da attuare per lo sviluppo del modello di organizzazione e controllo 231 aziendale tenendo conto delle carenze emerse nella fase 2 durante il risk assessment. Il piano definirà, per ciascuno dei processi sensibili identificati, le azioni da implementare al fine di completare lo sviluppo del mog dell’azienda considerata. Il piano così definito sarà condiviso con tutti i responsabili competenti dell’azienda; • fase 4, attivazione del mog: – condivisione e formalizzazione del codice disciplinare, funzionigramma, deleghe, organismo di vigilanza, piano di comunicazione e formazione; – definizione, condivisione e formalizzazione di protocolli e procedure per ciascun processo sensibile; – formalizzazione del modello di organizzazione e controllo 231.

IL DOCUMENTO DI POLITICA

La politica deve essere riportata in un documento ufficiale firmato dal vertice aziendale nel quale dovrà chiaramente emergere la volontà e l’impegno a prevenire la possibilità che tutti i soggetti aziendali possano commettere i reati individuati come “presupposto”. La politica è fondamentale e possono essere individuati due approcci differenti:

  1. politica con approccio “tattico”: presa la decisione di implementare un mog, il vertice aziendale esegue una iniziale e minuziosa fotografia di tutti i processi aziendali, definita “analisi iniziale”, e in base a tutti i rischi di commissione di reato presupposto riscontrati, stabilisce un metodo comune d’intervento per focalizzare gli obiettivi che si impegna formalmente a raggiungere;
  2. politica con approccio “strategico”: in questo caso il vertice aziendale, indipendentemente da un’analisi iniziale, definisce “a priori” la propria visione generale dell’azienda, i valori fondamentali in cui risiede il suo “credo”, la sua strategia. Subito dopo, il vertice aziendale valuta le condizioni della propria organizzazione e, in armonia ai propri valori, sceglie la più opportuna metodologia dell’intervento da porre in essere, ovvero indica quali sono gli obiettivi che vorrebbe raggiungere, come e cosa intende fare per ottenerli e assume un impegno “morale” di miglioramento continuo. I contenuti di una politica aziendale di un mog comportano sempre l’“impegno” dell’alta direzione: – a rispettare e applicare integralmente la legislazione cogente; – a prevenire la commissione dei reati presupposto, attraverso l’individuazione di aree a rischio e azioni di continuo di miglioramento; – a verificare periodicamente e ad aggiornare la politica.

LA MATRICE DELLA RESPONSABILITÀ

Per attuare quanto indicato nelle fasi 1 e 2 è necessario realizzare una matrice delle responsabilità (ovvero, “chi fa cosa”), cioè devono essere individuati i processi sensibili, ovvero a “rischio di reato”, effettivamente presenti nella propria realtà aziendale. Ogni processo riporta le proprie singole attività. Per ogni attività svolta nel singolo processo dovranno anche essere definite le procedure contenenti gli specifici protocolli di controllo e di prevenzione riguardanti:

  • la formazione e l’attuazione delle decisioni;
  • le modalità di gestione delle risorse finanziarie;
  • gli obblighi di informazione all’organismo di vigilanza. È buona norma, come ben riportato nella guida Ance 2013, esplicitare sempre:
  • chi: indicare il nominativo del responsabile dello specifico protocollo di controllo;
  • come: precisare il criterio da seguire per applicare il protocollo;
  • dove: definire in che modo è registrato il controllo (registro, verbali eccetera)
  • quando: definire la fase temporale di esecuzione del controllo

VDR: GAP ANALYSIS

Per l’attuazione della fase 3 e per la finale fase 4 è fondamentale avere una buona valutazione del rischio. Occorre premettere che l’insieme dei processi mirati al consolidamento dell’immagine aziendale nel rispetto delle norme costituisce la cosiddetta “compliance aziendale”. In altre parole, tutto quello che, in generale, interviene al fine di non incorrere in sanzioni che potrebbero danneggiare la reputazione dell’azienda nei confronti dei clienti, dei partner e di tutti gli stakeholder (cosiddetti, portatori d’interesse). Questo significato di compliance è utilmente applicabile nelle aziende del settore delle costruzioni in quanto, in quest’ambito, la reputazione è un elemento imprescindibile nella conduzione dell’azienda. La differenza tra la compliance e l’internal auditing consiste nel fatto che quest’ultimo è solo uno dei processi della stessa finalizzato al controllo trasversale tra le varie funzioni aziendali, per lo sviluppo dell’attività di prevenzione e lo stimolo per l’attuazione delle buone prassi, ovvero tutte attività che salvaguardano l’immagine e la reputazione aziendale nel tempo. Conseguentemente, è chiaro che, dal punto di vista operativo-funzionale, nel mog gli obiettivi aziendali saranno, in sintesi:

  • obiettivo 1: efficacia ed efficienza delle attività operative;
  • obiettivo 2: attendibilità delle informazioni di bilancio;
  • obiettivo 3: conformità a leggi e regolamenti. Fatta questa premessa, è evidente che, ai fini dell’elaborazione di un modello esimente, emerge la necessità di una valutazione del rischio ben strutturata, costruita in base a concetti di risk management e risk assessment. «Per “rischio” si intende qualsiasi variabile o fattore che nell’ambito dell’azienda, da soli o in correlazione con altre variabili, possano incidere negativamente sul raggiungimento degli obiettivi indicati dal decreto 231 (in particolare all’art. 6, comma 1, lett. a); pertanto, a seconda della tipologia di reato, gli ambiti di attività a rischio potranno essere più o meno estesi»[1]. Pertanto, è fondamentale individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati. Questa visione evidenzia due aspetti fondamentali del rischio:
  • aspetto regolamentare, che rappresenta la conseguenza diretta della violazione;
  • aspetto reputazionale, che ne rappresenta la conseguenza indiretta

In sintesi, l’applicazione delle tecniche di risk assessment configura un intervento che inizia dai processi operativi aziendali con l’obiettivo i valutarne il grado di rispondenza alle norme e si conclude con la predisposizione del piano di interventi correttivi/migliorativi per eliminare il gap riscontrato.

RISCHIO INERENTE O LORDO

A ogni rischio di non conformità derivante da un requisito normativo identificato tramite le attività di pre-assessment, si attribuisce un valore potenziale, detto “rischio inerente” o “rischio lordo” che si basa su:

  • frequenza (o probabilità) del rischio: frequenza di accadimento dell’evento rischioso in grado di influire negativamente sul raggiungimento degli obiettivi di conformità;
  • peso (o impatto) del rischio: impatto economico – patrimoniale dell’evento rischioso.

I valori di peso e di frequenza, così come i punteggi relativi attribuiti, devono essere congruenti con i criteri adottati dalle funzioni di revisione interna e risk management. È anche necessario decidere, fin da questa fase, se un indice di rischiosità “basso” o “trascurabile” implica necessariamente che non sia intrapresa alcuna ulteriore azione di assessment. Il processo sistematico di valutazione del “rischio potenziale” di commissione di un reato presupposto, denominato appunto “risk assessment”, può essere riassunto, quindi, come il processo di stima dei fattori di rischio associati alle specifiche attività dell’impresa di costruzione. L’intervento può essere definito di “compliance risk assessment” e sarà articolato nelle seguenti attività:

  • valutazione del rischio inerente (o rischio lordo) – rischio implicito nella natura stessa dell’attività e presente in ogni business, prodotto o processo. La sua stima non tiene in considerazione i controlli eventualmente esistenti;
  • valutazione di adeguatezza dei controlli in essere – valutazione ex ante circa l’esistenza di controlli per la mitigazione del rischio e il loro grado di copertura;
  • determinazione del rischio residuo (o rischio netto) – è il rischio che rimane dopo l’applicazione dei controlli di cui alla fase precedente. In questa fase, nella stima del rischio residuo, si tiene generalmente conto dell’esistenza di controlli, ma non necessariamente della loro efficacia o continuità di applicazione.

NEL SETTORE DELLE COSTRUZIONI

Ai fini dell’attuazione della fase 4, è possibile puntualizzare alcuni aspetti tra “mog 231”, sgsl e D.Lgs. n. 81/2008, perché spesso in fase applicativa, ancora oggi, si fa un po’ di confusione, con gravi conseguenze in casi di contenzioso. Per una piccola e media impresa del settore delle costruzioni è opportuno considerare che:

  • attuare un “mog 231” significa considerare tutti i reati-presupposto dell’elenco di cui al D.Lgs. n. 231/2001. Se l’impresa sceglie l’implementazione di un modello parziale potrà avvantaggiarsi del beneficio esimente della responsabilità amministrativa solo se il modello risulterà idoneo a gestire la prevenzione della tipologia di reati contemplati, ma per i restanti reati, previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 e non inclusi nel modello, non potrà godere di alcuna possibilità esimente;
  • per le attività svolte tipicamente da pmi nel settore delle costruzioni, molti dei reati-presupposto non risultano configurabili e, infatti, molte scuole di pensiero considerano che la valutazione del “rischio 231” possa essere incentrato solo sui reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime (art. 300, D.Lgs. n. 81/2008), commessi con violazione delle norme antinfortunistiche (art. 25-septies), sui reati commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione (art. 25), su alcuni reati societari (art. 25-ter) e sui reati ambientali (art. 25-undecies);
  • il D.Lgs. n. 81/2008 è focalizzato sull’incolumità dei lavoratori sui luoghi di lavoro, avendo quali obiettivi la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, prevedendo, a tal fine, molti reati sanzionati come funzione preventiva rispetto al rischio di infortunio o di malattia professionale, che non costituiscono “illecito rilevante ai sensi del D.Lgs.  n. 231/2001”;
  • vi è una differenza sostanziale tra il mog come inteso nel D.Lgs. n. 231/2001 e l’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008. In particolare, occorre precisare che un sgsl non costituisce di per sé stesso un “mog 231” per la prevenzione dei reati ex D.Lgs. n. 231/2001 (anche se vi sarà la presunzione di conformità per le parti corrispondenti ai requisiti elencati all’art. 30, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008) perché sarà privo di altri elementi essenziali richiesti dal D.Lgs. n. 231/2001 quali, per esempio, l’organismo di vigilanza, il codice etico, l’introduzione di un sistema disciplinare specifico;
  • un “mog 231” correttamente adottato può avere, invece, efficacia esimente anche in assenza di un sgsl.

CONCLUSIONI

Sono state fornite le indicazioni essenziali per una corretta predisposizione di un mog ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, specifico e pertinente per le pmi, utilizzando a titolo esemplificativo un caso inerente al settore delle costruzioni. Per le attività svolte tipicamente dalle piccole e medie imprese nel settore delle costruzioni, molti dei reati-presupposto non risultano configurabili. Da questo, a seconda della tipologia di impresa, la stessa può optare per un “mog completo” redatto in conformità del D.Lgs. n. 231/2001 oppure può optare per un “mog parziale”. In conclusione, non esiste un modello di organizzazione comune applicabile a tutte le pmi, in generale, e, in particolare, per le imprese di costruzioni che spesso sono delle micro-imprese.

È necessario predisporre, di volta in volta, un “abito” organizzativo appropriato che tenga conto dell’attività e dei rischi conseguenti per ogni singola impresa secondo l’impostazione e la sensibilità dei vertici aziendali.

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Autorimesse: in vigore le nuove norme

La regola tecnica di prevenzione incendi potrà essere applicata alle attività con superficie complessiva superiore a 300 metri quadrati. Il decreto, in vigore dal 2 aprile di quest’anno, è stato pubblicato sulla G.U del 3 marzo e introduce l’approccio già previsto dal codice.

 

Con il decreto 21 febbraio 2017 è stata approvata la regola tecnica verticale di prevenzione incendi per le attività di autorimessa, individuate con il numero 75 nell’allegato 1 del D.P.C.M 1° agosto 2011, n. 151. L’obiettivo di questo provvedimento non è di abrogare le preesistenti disposizioni, bensì di offrire l’opportunità di adottare anche per le attività di autorimessa il nuovo approccio alla progettazione antincendio introdotto con il decreto 3 agosto 2015 (codice di prevenzione incendi). Come per quelle di recente emanazione, anche l’utilizzo di questa nuova regola tecnica prevede l’applicazione congiunta del codice di prevenzione incendi, in quanto la sua funzione è di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice stesso.

IL PROVVEDIMENTO

Il D.M. 21 febbraio 2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 52 del 3 marzo 2017, è composto di quattro articoli e un allegato (vedere tabella 5). In particolare, con il primo articolo sono approvate le norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di autorimessa contenute nell’allegato 1 al decreto. Per quanto concerne il campo di applicazione, attraverso l’articolo 2 è stabilito che queste norme possono essere applicate alle attività di autorimessa, sia esistenti sia di nuova realizzazione, di superficie complessiva coperta superiore a m² 300. Si tratta delle attività individuate con il numero 75 nell’allegato 1 del D.P.R. 151/2011[1]. Si evidenzia che con l’articolo 2 è inoltre precisato che le disposizioni di prevenzione incendi contenute nella nuova regola tecnica si possono applicare in alternativa a quelle dettate dai decreti del ministro all’Interno del 1° febbraio 1986[2] e del 22 novembre 2002[3]. Attraverso l’articolo 3 sono invece definite le modifiche al decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015[4] (vedere il box 1). In effetti, è con questo articolo che la regola tecnica contenuta nell’allegato al decreto 21 febbraio 2017 diventa parte integrante del nuovo codice di prevenzione incendi. In particolare, è stabilito che nella sezione V (“Regole tecniche verticali”) del codice è aggiunto il capitolo “V.6”, nel quale sono contenute le norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di autorimessa. Il decreto termina con l’articolo 4 attraverso il quale è stabilito che il decreto è in vigore il trentesimo giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (cioè, il 2 aprile 2017).

LA STRUTTURA

La struttura della nuova regola verticale è la stessa utilizzata per quelle di recente pubblicazione: “Campo di applicazione”, “Definizioni”, “Classificazioni”, “Profili di rischio”, “Strategia antincendio” e altre specifiche tecniche (vedere la tabella 5). Di fatto con il “Campo di applicazione” e le “Classificazioni” sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree ecc.). Nel punto concernente i “Profili di rischio” (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice (“Determinazione dei profili di rischio delle attività”). Con la sezione “Strategia antincendio” sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (“Reazione al fuoco”, “Resistenza al fuoco”, “Compartimentazione”, “Esodo” ecc.). Infine, con la sezione “Metodi” sono fornite le indicazioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Nel dettaglio, la nuova regola tecnica, che si inserisce nella sezione V del codice di prevenzione incendi, è divisa in otto parti: “Scopo e campo di applicazione” (V 6.1), “Definizioni” (V 6.2), “Classificazioni” (V 6.3), “Profili di rischio” (V 6.4), “Strategia antincendio” (V 6.5), “Valutazione del rischio di esplosione” (V 6.6), “Metodi” (V 6.7), “Riferimenti” (V 6.8). Per quanto concerne lo “Scopo e campo di applicazione” (punto V 6.1), è specificato che la regola tecnica verticale reca disposizioni di prevenzione incendi riguardanti le attività di autorimessa con superficie superiore a m2 300. Si segnala che sono state previste due esclusioni. In particolare, è stabilito che ai fini della regola tecnica non sono considerate autorimesse le aree coperte destinate al parcamento di veicoli dove ogni posto auto sia accessibile direttamente da spazio scoperto (o con un percorso massimo inferiore a due volte l’altezza del piano di parcamento) e gli spazi destinati all’esposizione, alla vendita o al deposito di veicoli provvisti di quantitativi limitati di carburante per la semplice movimentazione nell’area. Le definizioni utilizzate nella nuova regola tecnica sono specificate con il secondo punto (V 6.2). Di fatto, con questo punto sono contenute le definizioni necessarie per uniformare l’applicazione della norma. Con il terzo punto (V 6.3), è data la “Classificazione” delle autorimesse e delle aree dell’attività. In particolare è specificato che ai fini antincendio le autorimesse sono classificate in relazione alla tipologia di servizio, alla superficie dell’autorimessa o del compartimento, alle quote massime e minime dei piani “h” dell’autorimessa. Per quanto riguarda le aree dell’attività, con questo punto sono classificate sia quelle interne sia quelle comunicanti (vedere la tabella 7). Profili di rischio e strategia La regola tecnica verticale per le attività di autorimessa prosegue con il punto V. 6.4 “Profili di rischio”. Come per le altre regole tecniche verticali, per questo aspetto è precisato che i profili di rischio devono essere determinati secondo la metodologia indicate al capitolo G.3 del codice di prevenzione incendi. È opportuno ricordare che la prima sezione del codice di prevenzione incendi definisce le specifiche concernenti la determinazione dei profili di rischio delle attività. In particolare attraverso il punto G.3 sono indicate sia le tipologie di profilo di rischio sia i metodi di determinazione. Al riguardo si evidenzia che ai fini della valutazione del rischio di incendio sono individuate tre tipologie di profilo di rischio utilizzate per attribuire i livelli di prestazione:

  • Rvita: profilo di rischio relativo alla salvaguardia della vita umana (attribuito per ciascun compartimento dell’attività);
  • Rbeni: profilo di rischio relativo alla salvaguardia dei beni economici (attribuito per l’intera attività);
  • Rambiente: profilo di rischio relativo alla tutela dell’ambiente (attribuito per l’intera attività). In particolare, il profilo di rischio Rvita è attribuito per compartimento in relazione ai seguenti fattori:
  • δocc: caratteristiche prevalenti[5] degli occupanti che si trovano nel compartimento antincendio;
  • δα: velocità caratteristica prevalente di crescita dell’incendio riferita al tempo tα impiegato dalla potenza termica per raggiungere 1000 kW. Mentre il profilo di rischio Rbeni è valutato per l’intera attività in funzione del carattere strategico dell’opera e del suo valore storico, culturale, architettonico o artistico e dei beni contenuti. Infine, il profilo di rischio Rambiente, valutato per l’intera attività, consiste nel rischio di danno ambientale che può ritenersi mitigato dall’applicazione delle misure antincendio connesse ai profili di rischio Rvita e Rbeni, che permettono di considerare non significativo questo tipo rischio. Di fatto, questi profili di rischio sono indicatori semplificati che consentono di valutare il rischio di incendio dell’attività, permettono di attribuire livelli di prestazione e di individuare le misure antincendio necessarie a garantire alti livelli di sicurezza. Le misure antincendio da applicare alle attività di autorimessa sono indicate con il punto V 6.5 (“Strategia antincendio”). In particolare, è richiesta l’applicazione di tutte le misure antincendio definite nel codice di prevenzione incendi (attribuendo i livelli di prestazione secondo i criteri in esso definiti). Al riguardo si evidenzia che nella Sezione S del codice di prevenzione incendi sono indicate le misure antincendio, definiti i criteri per l’attribuzione dei livelli di prestazione e la scelta delle soluzioni progettuali. Si segnala che con questo punto è inoltre richiesta la rispondenza alle prescrizioni dettate dal codice per le aree a rischio specifico e quelle per le aree a rischio atmosfere esplosive (sezioni V.1 e V.2 del codice).

 

INDICAZIONI COMPLEMENTARI O SOSTITUTIVE

Con i successivi punti della regola sono definite le indicazioni complementari per reazione al fuoco, resistenza al fuoco, compartimentazione, esodo, gestione della sicurezza antincendio, controllo dell’incendio, controllo di fumo e calore e sicurezza degli impianti tecnologici. In particolare, per la reazione al fuoco (punto V 6.5.1) è stabilito che nelle aree dedicate a ricovero, sosta e manovra dei veicoli (aree classificate TA) non è ammesso il livello di prestazione I (capitolo S.1 del codice) e che le strutture portanti e separanti degli autosilo devono essere realizzate con materiali del gruppo GM0 di reazione al fuoco (capitolo S.1 del codice). In merito alla resistenza al fuoco (punto V 6.5.2) è specificato che la classe dei compartimenti delle autorimesse (con esclusione di quelle isolate) non può mai essere inferiore a quanto previsto in tabella V.6-1 della regola (vedere la tabella 1). Particolare attenzione è data agli autosilo per i quali è previsto che l’edificio debba avere indipendenza strutturale rispetto alle altre opere da costruzione e che deve essere separata con elementi di resistenza al fuoco almeno di classe 120.

COMPARTIMENTO ED ESODO

Le indicazioni complementari per la compartimentazione sono trattate con il punto V 6.5.3 attraverso il quale è inizialmente specificato che l’autorimessa deve sempre costituire un compartimento autonomo. Per quanto concerne le autorimesse classificate SA, AA e HA (vedere tabella 7) è ammessa nello stesso compartimento la presenza di aree o locali destinati a depositi di materiali combustibili (escluse sostanze o miscele pericolose) di superficie lorda complessiva non superiore a m2 25 e con carico di incendio specifico qf ≤ 300 MJ/m2 , a condizione che non siano classificati come aree a rischio specifico. Inoltre, è stabilito che devono costituire compartimento autonomo anche le aree destinate a depositi di materiali combustibili con carico di incendio specifico non superiore a 1200MJ/m2 (non classificate come aree a rischio specifico) e i locali tecnici rilevanti ai fini della sicurezza antincendio. Per quanto riguarda la comunicazione dell’autorimessa con altre attività, inizialmente è stabilito che deve avvenire tramite filtro e, per le autorimesse di tipo SA, AA e HC (vedere tabella 7), è precisato che possono comunicare con attività non aperte al pubblico tramite varchi muniti di chiusure almeno E30- Sa. Per la comunicazione le aree TM2 e TT, è prevista l’adozione di varchi muniti di chiusure con caratteristiche di resistenza al fuoco determinate secondo il capitolo S.2 del codice e comunque non inferiore a 30. Quando l’autorimessa comunica tramite un sistema d’esodo comune con altre attività aperte al pubblico, è richiesto che i compartimenti di queste attività siano sempre a prova di fumo proveniente dall’autorimessa. In merito all’esodo con il punto V 6.5.4 è evidenziato che le aree interne agli autosilo non devono essere accessibili al pubblico e che per la determinazione dell’affollamento si deve tenere conto anche del personale addetto.

GESTIONE DELLA SICUREZZA

Particolare attenzione è rivolta alla gestione della sicurezza antincendio che, ricordiamo, rappresenta la misura antincendio organizzativa e gestionale necessaria a garantire nel tempo un adeguato livello di sicurezza dell’attività in caso di incendio. In particolare, attraverso il punto V 6.5.5 è fissato l’obbligo di installare la cartellonistica riferita ai divieti e alle limitazione di esercizio e sono ribaditi i comportamenti da far rispettare. In particolare, è precisato che nelle autorimesse deve essere vietato fumare o usare fiamme libere, depositare o travasare fluidi infiammabili, eseguire operazioni di riempimento e svuotamento dei serbatoi di carburante. Inoltre, è previsto che devono essere adottate misure gestionali atte a impedire operazioni di manutenzione e riparazioni dei veicoli (o prove di motori) al di fuori delle aree appositamente predisposte e l’accesso di veicoli con evidenti perdite di carburante. Particolare attenzione è rivolta all’eventuale presenza di veicoli alimentati a gpl. Al riguardo è precisato che per le autovetture con impianto dotato di sistema di sicurezza (conforme al regolamento Ece/Onu 67-01) il parcamento è consentito nei piani fuori terra e nei piani interrati (non oltre la quota -6 metri), invece per quelle prive di questo tipo di dispositivo il parcamento è consentito solo nei piani fuori terra non comunicanti con piani interrati. Il punto V 6.5.5 termina con la precisazione che per le attività di autorimessa la gestione della sicurezza deve sempre prevedere la determinazione delle aree di sosta, del numero e della tipologia dei veicoli.

FUMO E CALORE

La regola tecnica prosegue con i punti dedicati sistemi di lotta contro gli incendi. Di fatto, con i punti V 6.5.6 e V 6.5.7 sono definite le caratteristiche e il dimensionamento dei presidi antincendio e dei sistemi per lo smaltimento e l’evacuazione di fumo e calore. Al riguardo si segnala che oltre alle specifiche indispensabili per individuare la giusta soluzione progettuale è richiesto che l’attività sia sempre dotata di misure di controllo dell’incendio (di cui alla sezione S.6 del codice) secondo i livelli di prestazione previsti in tabella V.6-2 (vedere la tabella 2). Ai fini dell’eventuale applicazione della norma Uni 10779[6], è richiesta l’adozione dei parametri di progettazione minimi riportati in tabella V.6-3 (vedere la tabella 3) con l’obbligo di prevedere almeno la protezione interna. Inoltre, per quanto concerne la progettazione di un eventuale impianto automatico di controllo o estinzione dell’incendio di tipo sprinkler secondo la norma Uni En 12845[7], è stabilito che l’alimentazione idrica deve essere almeno di tipo singola superiore. In merito al controllo di fumi e calore attraverso il punto V 6.5.7 sono dettate le specifiche tecniche per il dimensionamento dei sistemi per il loro smaltimento e la loro evacuazione. Al riguardo si evidenzia che è stabilito che l’attività deve essere dotata di misure di controllo di fumi e calore previste dalla sezione S.8 del codice e, per il livello di prestazione, è richiesto il rispetto dei parametri indicati nella tabella V.6-4 (vedere la tabella 4). Inoltre, è specificato che, in caso di installazione di un sistema di controllo di fumo e calore, deve essere previsto un quadro di comando e controllo in posizione protetta e segnalata presso il piano d’accesso per soccorritori, in grado di realizzare e segnalare il ciclo di apertura/chiusura del sistema naturale di controllo del fumo e calore o marcia/arresto del sistema forzato di controllo del fumo e calore. Infine, è richiesto di progettare il sistema in modo da garantire che le squadre di soccorso abbiano sempre la possibilità di comandarne il funzionamento durante l’incendio. Si evidenzia che per la funzione di controllo del fumo e calore e di aerazione ordinaria è precisato che può essere svolta dallo stesso impianto a doppio impiego (dual-purpose).

SICUREZZA DEGLI IMPIANTI E RISCHIO DI ESPLOSIONE

Per ridurre situazioni pericolose in caso di incendio con il punto V 6.5.8 della regola sono definite soluzioni tecniche per il dispositivo di sezionamento di emergenza, per la protezione dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell’impianto elettrico e per il sistema monta auto. In particolare, è richiesta l’installazione di un dispositivo di sezionamento di emergenza che consenta con una sola manovra di togliere tensione a tutto l’impianto elettrico dell’autorimessa (compreso quello di box alimentati da un impianto elettrico separato) e che sia installato all’esterno del compartimento antincendio, in zona segnalata e di facile accesso. Il rispetto di queste disposizioni è richiesto anche per la protezione dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell’impianto elettrico. Per quanto riguarda i sistemi monta auto è precisato che nelle autorimesse è consentito il loro l’utilizzo a condizione che siano conformi ai requisiti essenziali di sicurezza dettati dalle direttive europee applicabili. Questi sistemi devono essere sempre dotati di alimentazione elettrica di riserva e devono esporre all’esterno (in luogo idoneo e facilmente visibile) il regolamento di utilizzazione dell’impianto. Infine è specificato che in presenza di sistemi monta-auto, per la protezione delle aree dedicate a ricovero, sosta e manovra dei veicoli, l’attività deve essere dotata di misure di controllo dell’incendio (secondo il capitolo S.6 del codice) di livello minimo di prestazione IV.

Per quanto concerne il rischio connesso alla formazione di atmosfere esplosive nella regola tecnica è precisato che se si rispettano scrupolosamente le condizioni definite nel punto V 6.6, questi rischi possono essere considerati remoti. Solo rispettando queste condizioni, è consentito di omettere la valutazione del rischio di esplosione prevista dal capitolo V.2 del codice. Le indicazioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio è l’ultimo aspetto trattato dalla nuova regola tecnica di prevenzione incendi per le attività di autorimessa. Di fatto, con il punto V 6.7 sono fornite puntuali indicazioni circa gli scenari per la verifica della capacità portante in caso di incendio.

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Reato di “caporalato” riflessi sui modelli 231

Non riguarda solo l’agricoltura, ma tutte le attività con lavoratori non qualificati.

La fattispecie nella nuova versione dell’articolo 603-bis del codice penale, come modificato dalla legge n. 199/2016, rivela una stretta interazione con i contenuti del documento di organizzazione e gestione di cui l’azienda, in ottica preventiva, è chiamata a dotarsi.

 

Il tema La legge 29 ottobre 2016, n. 199, recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo»[1] ha introdotto importanti novità in materia di contrasto al fenomeno del cosiddetto “caporalato”, ossia alle pratiche di reclutamento e sfruttamento di manodopera “in nero” o, comunque, con trattamenti lavorativi non regolari, realizzate attraverso lo sfruttamento dello “stato di bisogno” del lavoratore[2]. Il provvedimento, nel dettaglio, prevede maggiori garanzie per la tutela della dignità dei lavoratori, specialmente (ma non in via esclusiva) del comparto agricolo, intervenendo con alcune innovazioni sotto il profilo penale, da un lato, e rafforzando le misure a favore delle imprese agricole in regola, dall’altro. I principali filoni di intervento della legge, che si compone di dodici articoli, riguardano:

  • la riscrittura del reato di “caporalato”, con la previsione della responsabilità anche del datore di lavoro;
  • l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità;
  • l’arresto obbligatorio in flagranza di reato;
  • il rafforzamento dell’istituto della confisca;
  • l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato;
  • l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato;
  • l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del fondo antitratta;
  • il potenziamento della rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura;
  • il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo. Sotto il profilo penale – per quanto di interesse in questa sede – l’articolo 1 del provvedimento in esame riformula la fattispecie di cui all’articolo 603-bis codice penale, rubricata «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (già introdotta dal decreto-legge 14 agosto 2011, n. 138, convertito con modifiche nella legge 14 settembre 2011, n. 148), che, fin da suoi esordi, aveva determinato non poche problematiche in sede applicativa[3]. Il nuovo testo dell’articolo 603-bis, comma 1, codice penale, sanziona con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro «per ciascun lavoratore reclutato» le condotte di colui che:
  • recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori (il cosiddetto “caporale” o “intermediatore”);
  • utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro “stato di bisogno” (è soppresso lo “stato di necessità”).

È importante sottolineare che il reato non trova applicazione soltanto nel settore agricolo, essendo formulato in termini generici. Rispetto alla precedente versione, la fattispecie colma quel deficit di tutela derivante dalla mancata menzione, quale soggetto attivo del reato, del datore di lavoro, la cui condotta – al limite – avrebbe potuto rilevare a titolo di concorso con quella del “caporale”; il riferimento alle condotte di «utilizzo, assunzione o impiego» del lavoratore posto in condizione di sfruttamento rendono inequivocabile che la risposta penale colpirà anche il datore, che in effetti rappresenta il vero dominus e, comunque, il soggetto che beneficia del comportamento sanzionato. Il reato non richiede più, quale condizione necessaria, lo svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione (da intendersi come l’insieme delle attività di facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, esercitate previo rilascio di apposita autorizzazione da parte dell’autorità ovvero solamente di fatto), che rilevava nella precedente fattispecie secondo le due modalità del reclutamento e dell’organizzazione del lavoro, aspetto quest’ultimo non più considerato dal legislatore. Le condotte sanzionate dall’ipotesi-base, inoltre, prescindono del tutto da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori, i quali, tuttavia, rilevano ai sensi del novellato comma 2, che introduce una fattispecie aggravata per i casi in cui – appunto – i fatti siano commessi con violenza o minaccia, comminando la sanzione (fino a oggi vigente) della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Come già anticipato, in relazione a questo reato, così come modificato, è stata introdotta (articolo 25-quinquies) un’ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001; pertanto, del fatto di caporalato, commesso nell’interesse o a vantaggio dell’impresa da parte di un soggetto in posizione apicale o subordinata, risponderà anche l’ente, che rischierà l’irrogazione di una sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, nonché una sanzione interdittiva di durata non inferiore a un anno (quale, ad esempio, l’interdizione dall’esercizio dell’attività).

IL CASO

Il reato di caporalato, nella nuova versione dell’articolo 603-bis, c.p., rivela, alla luce della citata responsabilità “231” prevista per l’azienda, una stretta interazione con i contenuti del modello di organizzazione e gestione di cui la stessa, in ottica preventiva, è chiamata a dotarsi. Ciò è ancora più vero oggi, per effetto delle ulteriori modifiche introdotte dalla legge n. 199/2016. Infatti, il comma 3 dell’articolo 603-bis c.p. propone una parziale riscrittura – nel senso di una semplificazione – dell’elenco degli “indici di sfruttamento”, ossia di quei fattori o circostanze che possono far ritenere sussistente la condizione di sfruttamento che rileva ai fini dell’integrazione del reato. È evidente come gli “indici” descritti dalla fattispecie possano, a propria volta, oltre a fungere da “sentinelle” in fase di vigilanza, costituire elementi da prendere in considerazione dal punto di vista organizzativo nell’ambito dei protocolli e delle procedure concernenti, principalmente:

  • il processo di ricerca, assunzione e inserimento del personale (già individuato come “a rischio” per altri reati-presupposto della “responsabilità 231”, da quelli di corruzione, a quelli di omicidio o lesioni con violazione delle norme prevenzionistiche concernenti la formazione e l’addestramento dei lavoratori e la sorveglianza sanitaria, a quelli relativi all’immigrazione clandestina e altri ancora);
  • il processo di gestione dei fornitori (la cui “sensibilità” sui temi legati al D.Lgs. n. 231/2001 è palese, poiché questo processo è potenzialmente coinvolto nei principali rischi-reato contemplati dal decreto e, pertanto, generalmente presidiato in tutte le organizzazioni). L’elenco degli “indici” in questione ricomprende, tra i fattori “sintomatici” di sfruttamento, rilevanti anche singolarmente:
  • il pagamento (reiterato) di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi;
  • il pagamento (reiterato) di retribuzioni il cui ammontare, in ogni caso, risulti non proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato;
  • le violazioni (reiterate) concernenti l’orario di lavoro, i riposi e le aspettative;
  • le violazioni delle norme sulla sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro degradante, anche con riferimento ai metodi di sorveglianza o alla natura delle situazioni alloggiative offerte. Particolare rilievo, nella prospettiva di redazione e aggiornamento del modello, assume proprio l’indice riferito al rispetto della normativa prevenzionistica (in particolare il D.Lgs. n. 81/2008, cosiddetto testo unico sicurezza sul lavoro), la cui nuova formulazione – a un prima lettura – rischia di addossare alle imprese un onere particolarmente gravoso, ulteriore e consequenziale rispetto al mantenimento di elevati standard sotto il profilo della sicurezza dei lavoratori. Si nota, da un lato, rispetto agli altri indici, come non compaia alcun riferimento alla reiterazione delle violazioni in questione (elemento, già di per sé, meno stringente rispetto al previgente requisito della “sistematicità”); di conseguenza, nel settore della sicurezza sul lavoro, anche un singolo episodio di mancato rispetto degli adempimenti del D.Lgs. n. 81/2008 potrebbe produrre pesanti ricadute sul datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 603-bis codice penale, e sulla società, ai sensi dell’articolo 25-quinquies, D.Lgs. n. 231/2001. Sotto diverso profilo, invece, rispetto alla previgente formulazione dell’articolo 603-bis, emerge un notevole “irrigidimento” della previsione normativa; se in precedenza, infatti, occorreva che la violazione della normativa antinfortunistica fosse «tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale», attualmente questo inciso risulta soppresso (rilevando ora l’esposizione del lavoratore a «grave pericolo» quale circostanza aggravante ai sensi del comma 4, n. 3), potendo ingenerare il timore di un indiscriminato ampiamento della penalizzazione, che prescinderebbe dalla valutazione della serietà e della gravità degli effetti che la violazione ha cagionato o avrebbe potuto cagionare al lavoratore. Ci sarebbe così il rischio che anche singole e puntuali violazioni delle discipline lavoristiche, prima fra tutti quella del D.Lgs. n. 81/2008 (ma anche le norme sui salari minimi o sugli orari di lavoro), possano comportare contestazioni di intermediazione illecita per l’imprenditore che si avvalga delle prestazioni lavorative e, “a cascata”, per la società, nel cui interesse la prestazione viene resa.

Simili preoccupazioni, peraltro, secondo alcuni sarebbero eccessive. In particolare, è stato segnalato da chi ha seguito l’iter del provvedimento[4] come il rischio paventato sia in realtà infondato, considerato che gli indici in esame non contribuisco a descrivere il reato, ma svolgono una semplice funzione di “orientamento” probatorio, esigendo, altresì, una ripetizione delle violazioni con esclusione di condotte episodiche. Pertanto, non si potrebbe ritenere sussistente lo sfruttamento per il solo fatto che sia stata violata una disposizione in materia di sicurezza o igiene sul lavoro, poiché, da una parte, il reato si configura come abituale e, dall’altro, in ogni caso, la condotta di caporalato è fattispecie più complessa delle singole violazioni[5], richiedendo anche l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore[6] ed esprimendo, così, un disvalore penale notevolmente superiore. È nondimeno indiscutibile l’ampia discrezionalità di giudizio attribuita al giudice penale e, dunque, la necessità di attendere, per poter collocare la fattispecie nella “giusta dimensione”, la prima giurisprudenza. In ogni caso, è consigliabile che le società aggiornino i propri modelli di organizzazione, gestione e controllo al nuovo reato, prendendo in considerazione, specialmente, oltre al proprio “ambiente di lavoro”, gli appalti aventi a oggetto i lavori e i servizi in cui sono il più delle volte impiegati lavoratori non altamente qualificati e specializzati e/o a basso “valore aggiunto”, in cui, dunque, è verosimile che possano trovare collocamento persone in stato di bisogno, disposte a tollerare, in considerazione delle proprie condizioni personali, trattamenti lavorativi discriminanti (ad esempio servizi logistici, di spedizione, di facchinaggio, di pulizia, di ristorazione, call center e similari, come pure i piccoli lavori edili). Ciò al fine di individuare gli opportuni accorgimenti e strumenti di verifica in fase di selezione, contrattualizzazione ed esecuzione, atti a impedire il coinvolgimento della società in eventuali problematiche concernenti il trattamento lavorativo dei dipendenti dell’appaltatore. Questa esigenza non è, peraltro, nuova, visto che le società committenti di questa tipologia di lavori e servizi hanno generalmente implementato misure e controlli per prevenire i rischi che, al riguardo, sono già stati apportati da norme fiscali e previdenziali (ad esempio l’articolo 29, D.Lgs. n. 276/2003) e prevenzionistiche (si pensi all’articolo 26, D.Lgs. n. 81/2008).

“COME SI FA”

Alla luce delle problematiche appena illustrate, emerge chiaramente l’importanza che i contenuti del modello di organizzazione e gestione assumeranno per l’impresa, nella prospettiva di prevenire la commissione del reato di intermediazione illecita ed, eventualmente, di ottenere il riconoscimento in sede processuale dell’esimente dell’articolo 6, D.Lgs. n. 231/2001. In particolare, risulterà essenziale per una società l’adozione di un modello (ovvero il suo aggiornamento) che prenda in considerazione, nelle parti dedicate alla prevenzione dei delitti contro la personalità individuale, la fattispecie dell’articolo 603-bis c.p., a seguito di una specifica attività di identificazione dei rischi che tenga conto non solo del trattamento del personale interno, ma anche dei lavori e servizi appaltati a terzi, specialmente laddove il fattore “prezzo” (che poi si traduce nell’interesse e nel vantaggio dell’impresa committente rispetto al reato, in termini ad esempio di “risparmio di spesa”) possa concretamente influire sulle condizioni lavorative del personale impiegato nell’attività. In questo contesto, il processo principalmente interessato da questa esigenza di adeguamento sarà, come detto, quello di gestione delle risorse umane e, in particolare, di selezione e assunzione del personale, con riferimento specifico alla definizione del rapporto di lavoro, alla gestione degli aspetti retributivi e all’organizzazione dei turni di lavoro, dei riposi settimanali e delle ferie.

Una maggiore attenzione dovrà essere poi prestata in tutte quelle realtà produttive caratterizzate dal ricorso allo strumento della somministrazione di lavoro, attraverso il quale il reclutamento di personale avviene per tramite di un soggetto terzo intermediario. Quanto al processo di approvvigionamento, occorrerà focalizzarsi sulla qualifica dei fornitori, in modo da assicurare il rispetto da parte di questi delle normative vigenti in materia di salute e sicurezza e in materia di diritto sindacale, nonché gli adempimenti a favore dei lavoratori prescritti dalle principali fonti di contrattazione collettiva. A questo proposito, oltre all’acquisizione del Durc a ogni scadenza per la verifica della regolarità contributiva, potrà essere utile monitorare, attraverso un’analisi della registrazione delle presenze (possibile soprattutto negli “appalti interni”, ossia quelli che si svolgono all’interno dello stabilimento del committente), il ricorso al lavoro straordinario e il rispetto delle ferie annuali nonché implementare “indicatori” e verifiche indirette attraverso, ad esempio, la richiesta in sede di contrattualizzazione del modello DM10 presentato dall’impresa appaltatrice all’Inps[7]. Simili strumenti di “controllo incrociato” hanno, tra l’altro, il pregio di evitare una eccessiva ingerenza del committente nell’attività dell’appaltatore, a tutela dell’autonomia di quest’ultimo, consentendo comunque una “visione d’insieme” del contesto lavorativo in cui l’attività appaltata viene svolta. Un’ulteriore area a “rischio-caporalato” – come già visto – sarà rappresentata dal processo relativo alla sicurezza sui luoghi di lavoro, che renderà necessaria un’implementazione delle misure concernenti la sicurezza dei lavoratori e la gestione e attuazione dei relativi adempimenti, i quali – si noti bene – assumono rilievo, nella prospettiva “231” anche indipendentemente dal verificarsi di eventi lesivi; pertanto, la politica d’impresa in materia di sicurezza richiederà una complessiva rivalutazione, anche in relazione a eventuali protocolli e procedure già adottate. Non sfugge, inoltre, la circostanza che, specialmente per quanto concerne gli aspetti legati alla sicurezza dei lavoratori, gli “appalti interni” (come i servizi di pulizia, di facchinaggio e magazzinaggio, di mensa, di riparazione bancali), pongano un problema significativo anche in termini di vigilanza. Sul tema, inoltre, deve essere segnalata una recentissima novità normativa; si tratta del decreto 11 gennaio 2017, pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 28 gennaio, n. 23, con cui il Ministero dell’Ambiente ha aggiornato i «criteri ambientali minimi» (Cam) per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici, in precedenza disciplinati dal D.M. 24 dicembre 2015, nell’ambito del più ampio «Piano d´azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione», stilato secondo le indicazioni della Commissione europea[8]. Il provvedimento in esame individua le specifiche tecniche e le clausole contrattuali di cui all’articolo 34, D.Lgs. 50/2016 (“nuovo” codice degli appalti) che le stazioni appaltanti dovranno inserire nei documenti di gara concernenti l´affidamento di servizi di progettazione e lavori per la costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri, oltre che nella stesura dei documenti di gara, per l’applicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’allegato II al decreto disciplina anche le verifiche che le stazioni appaltanti devono eseguire tanto sotto il profilo dei sistemi di gestione ambientale (paragrafo 2.1.1), quanto del rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro (paragrafo 2.1.2.). In particolare, se in relazione ai sistemi di gestione ambientale è richiesta la registrazione Emas in corso di validità ovvero la certificazione Iso 14001, la verifica circa il rispetto dei diritti umani dei lavoratori implica una valutazione più complessa. Infatti, l’appaltatore, che deve «rispettare i principi di responsabilità sociale assumendo impegni relativi alla conformità a standard sociali minimi e al monitoraggio degli stessi», deve farsi carico dei seguenti oneri:

  • favorire il rispetto di standard sociali riconosciuti a livello internazionale e definiti da alcune convenzioni internazionali;
  • favorire attivamente l’applicazione della legislazione nazionale riguardante la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, il salario minimo vitale, l’adeguato orario di lavoro e la sicurezza sociale (previdenza e assistenza), vigente nei paesi ove si svolgono le fasi della lavorazione, anche nei vari livelli della propria catena di fornitura (fornitori, subfornitori).
  • avere efficacemente attuato modelli organizzativi e gestionali adeguati a prevenire condotte irresponsabili contro la personalità individuale e condotte di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro.
  • a questi fini, lo stesso appaltatore potrà innanzitutto allegare la conformità alla certificazione Sa 8000:2014 (o equivalente, quale la certificazione Bsci o Fsc) ovvero l’applicazione della linea guida adottata con D.M. 6 giugno 2012 «Guida per l’integrazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici». Quanto all’ultimo punto considerato, la normativa prevede che: «l’efficace attuazione di modelli organizzativi e gestionali adeguati a prevenire condotte irresponsabili contro la personalità individuale e condotte di intermediazione illecita o sfruttamento del lavoro si può dimostrare anche attraverso la delibera, da parte dell’organo di controllo, di adozione dei modelli organizzativi e gestionali ai sensi del d.lgs. 231/01», unitamente ad altri elementi quali:
  • «presenza della valutazione dei rischi in merito alle condotte di cui all´art. 25-quinquies del d.lgs. 231/01 e art. 603 bis del codice penale e legge 199/2016»;
  • «nomina di un organismo di vigilanza, di cui all’art. 6 del d.lgs. 231/01»;
  • «conservazione della sua relazione annuale, contenente paragrafi relativi ad audit e controlli in materia di prevenzione dei delitti contro la personalità individuale e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (o caporalato)». Ciò significa che l’impresa potrà ben assolvere l’onere probatorio richiesto in sede di verifica dalle stazioni appaltanti mediante la dimostrazione delle seguenti circostanze:
  • avvenuta adozione di un modello organizzativo aggiornato alla più recente fattispecie incriminatrice di caporalato;
  • effettivo svolgimento di un’attività di risk assessment in relazione ai reati-presupposto di cui all’articolo 25-quinquies, D.Lgs. n. 231/2001;
  • nomina dell´organismo di vigilanza (OdV);
  • relazione annuale dell’OdV;
  • comprovata attività di audit nel settore così individuato.

Si noti, fra l’altro, come il rispetto delle condizioni lavorative assuma peculiare rilievo anche nell’ambito della disciplina delle clausole contrattuali e, nel dettaglio, della cosiddetta clausola sociale (paragrafo 2.7.2.) secondo cui «i lavoratori dovranno essere inquadrati con contratti che rispettino almeno le condizioni di lavoro e il salario minimo dell’ultimo contratto collettivo nazionale CCNL sottoscritto».

La conformità a questo requisito potrà essere positivamente provata dall’impresa appaltatrice, in sede di verifica, presentando, in aggiunta, la relazione dell’OdV, «laddove tale relazione contenga alternativamente i risultati degli audit sulle procedure aziendali in materia di ambiente-smaltimento dei rifiuti; salute e sicurezza sul lavoro; whistleblowing; codice etico; applicazione dello standard ISO 26000 in connessione alla PDR UNI 18:2016 o delle linee guida OCSE sulle condotte di impresa responsabile».

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