Prestazioni e geometrie dei dpi di arresto caduta

Le funzioni dipendono da quelle del sistema di ancoraggio al quale è collegato.
Per sceglierli, il datore di lavoro deve individuare le caratteristiche necessarie affinché siano adeguati ai rischi che devono essere eliminati o ridotti.

Durante una caduta è necessario attenuare le azioni sul corpo umano attraverso la dissipazione dell’energia cinetica. Il datore di lavoro deve confrontare le caratteristiche dei dispositivi disponibili sul mercato con quelle individuate in fase di valutazione, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso fornite dal fabbricante dei dpi.
Per dpi di arresto caduta è inteso un sistema che blocca la caduta libera e limita la forza d’urto sul corpo del lavoratore durante
l’arresto caduta, quindi:
• permette al lavoratore di raggiungere le zone o le posizioni in cui esiste il rischio di caduta libera;
• non impedisce la caduta libera;
• lo arresta quando si verifica la caduta libera;
• limita la caduta totale;
• prevede la sospensione dopo l’arresto caduta.
Un dpi di arresto caduta deve essere marcato Ce nonché:
• essere adeguato ai rischi da prevenire, senza comportare di per sè un rischio maggiore;
• essere adeguato alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;
• tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
• poter essere adattato al lavoratore secondo le sue necessità.
I dpi destinati alla protezione dei lavoratori contro le cadute dall’alto sono disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2008, art. 115, comma 1, «Nei lavori in quota qualora non siano state attuate misure di protezione collettiva come previsto all’articolo 111, comma 1,
lettera a), è necessario che i lavoratori utilizzino idonei sistemi di protezione composti da diversi elementi….»:
a) assorbitori di energia;
b) connettori;
d) cordini;
h) imbracature.
I «sistemi di protezione composti da diversi elementi» sono i sistemi di protezione individuale dalle cadute individuabili nell’allegato II, punto 3.1.2.2, del D.Lgs. n. 475/1992, «Requisiti supplementari speci fici per i rischi da prevenire – Prevenzione contro le cadute dall’alto». Sono costituiti da «un dispositivo di presa del corpo e da un sistema di collegamento raccordabile a un punto di ancoraggio affidabile».
La scelta di un dpi di arresto caduta è effettuata generalmente rispettando quanto previsto dal D.Lgs. n. 81/2008 e dal D.Lgs. n. 475/1992 che hanno un approccio più prescrittivo che prestazionale.
È necessario sottolineare che le prestazioni del dpi di arresto caduta dipendono da quelle del sistema di ancoraggio al quale è collegato.

Caratteristiche
I dpi di arresto caduta devono essere idonei in rapporto a:
• l’uso previsto durante tutte le fasi di lavoro (per esempio, accesso, lavoro);
• le caratteristiche del luogo di lavoro come l’inclinazione e lo stato della superficie;
• le caratteristiche del sistema di ancoraggio;
• il livello di competenza del lavoratori;
• la compatibilità fra i componenti del sistema di protezione e del sistema di ancoraggio;
• la compatibilità ergonomica del sistema di protezione rispetto al lavoratore e, dunque, la scelta della corretta imbracatura e degli elementi del sistema di ancoraggio in grado di ridurre al minimo il disagio e lo stress per il corpo;
• le informazioni fornite dal fabbricante e relative a tutti i componenti del sistema;
• la necessità di permettere le operazioni per un soccorso sicuro ed efficace che, per esempio, possano evitare i traumi da sospensione inerte.
La scelta di un dpi di arresto caduta è effettuata generalmente rispettando quanto previsto dal D.Lgs. n. 81/2008 e dal D.Lgs.
n. 475/1992 che hanno un approccio più prescrittivo che prestazionale.
In questo contesto si tenterà di definire i requisiti che devono possedere in linea con l’approccio seguito dalle più recenti norme tecniche. Un esempio è fornito dalla Uni 11560:2014,
«Sistemi di ancoraggio permanenti in copertura. Guida per l’individuazione, la configurazione, l’installazione, l’uso e la manutenzione».
Prendendo spunto da questa norma i requisiti dei dpi di arresto caduta possono essere distinti, dunque, in prestazionali e geometrici (punto 5.1, Uni 11560). L’approccio corretto richiede, comunque, la valutazione preliminare dei dpi di arresto caduta in funzione dell’utilizzo previsto.
Lo scopo dei dpi di arresto caduta è quello di:
• arrestare il lavoratore entro lo spazio disponibile;
• garantire l’incolumità del lavoratore anche ove esposto al rischio dell’effetto pendolo.
Quindi, questo significa che deve essere disponibile uno spazio di sicurezza che compensi sia la caduta libera che tutti gli allungamenti/deformazioni del sistema di ancoraggio, compresa la freccia, e del sistema di arresto caduta. Il lavoratore durante la caduta non deve urtare contro ostacoli.
In caso di caduta, l’oscillazione che il lavoratore subisce deve essere limitata in maniera tale da non pregiudicarne le condizioni fisiche.

Requisiti prestazionali
Un dpi di arresto caduta è un sistema di protezione individuale dalle cadute che deve:
• permettere al lavoratore di raggiungere le zone o le posizioni in cui esiste il rischio di caduta libera;
• non impedire la caduta libera;
• arrestare la caduta libera;
• limitare la forza d’urto sul corpo del lavoratore durante l’arresto caduta;
• garantire l’incolumità del lavoratore anche qualora esposto al rischio dell’effetto pendolo;
• permettere la sospensione del lavoratore dopo l’arresto caduta e il suo salvataggio nel più breve tempo possibile.
Il grado di efficacia di un dpi di arresto ca duta dipende dai seguenti fattori:
• ergonomia;
• tirante d’aria;
• effetto pendolo;
• caduta frenata;
• inclinazione della superficie di lavoro;
• resistenza complessiva (dpi e sistema di ancoraggio);
• ergonomia.
L’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008, alla lettera d), prevede «il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo».
Nel caso specifico, l’ergonomia di un dpi di arresto caduta è legata alla scelta di idonei componenti, quali cordino, assorbitore e imbracatura per il corpo, che possano essere regolati e che non intralcino i movimenti del lavoratore.
Inoltre, particolare attenzione deve essere posta all’ubicazione del sistema di ancoraggio che deve essere tale da favorire operazioni, per quanto possibile, prive di rischi da parte del lavoratore.
Un sistema di ancoraggio, che impone operazioni poco ergonomiche, induce il lavoratore a effettuare manovre negligenti, soggette a errata interpretazione.

Tirante d’aria
Il tirante d’aria è lo spazio libero, a partire dal punto di caduta del lavoratore, necessario a compensare sia la caduta libera
sia tutti gli allungamenti/deformazioni del sistema di ancoraggio e del sistema di arresto caduta, senza che il lavoratore
urti contro ostacoli durante la caduta, e che comprende un eventuale margine di sicurezza.
Questo spazio dipende dai seguenti fattori:
• posizione di partenza (ubicazione del sistema di ancoraggio, per esempio, sopra la testa del lavoratore);
• distanza tra l’attacco dell’imbracatura e i piedi del lavoratore;
• distanza di arresto;
• margine di sicurezza.
La distanza di arresto è lo spazio percorso dal lavoratore a partire dal punto di inizio caduta fino al punto dell’arresto verticale completo, con esclusione delle oscillazioni, ed è data dalla somma della caduta libera (hcl) e della caduta frenata (hcf).
Quindi, dipende dalla lunghezza del cordino e dall’estensione del sistema di collegamento, in particolare dell’assorbitore di energia, durante la caduta frenata.
Nel caso dei sistemi di ancoraggio lineari il tirante d’aria dipende anche dalla freccia.

Effetto pendolo
Un lavoratore dotato di dispositivo di arresto della caduta, collegato tramite cordino al sistema di ancoraggio, può essere soggetto, a seguito di una caduta disassata, a una oscillazione laterale incontrollata.
Questo effetto è tanto più grande quanto maggiore è la possibilità di oscillazione laterale prima che il lavoratore raggiunga la posizione di equilibrio e si fermi. L’ampiezza dell’oscillazione dipende anche dalla lunghezza del cordino. Una possibile conseguenza di questo fenomeno è quella di urto laterale contro ostacoli o, nei casi peggiori, contro il suolo.
Nell’effetto pendolo su ancoraggio puntuale, il lavoratore subisce un’oscillazione intorno al suo punto di ancoraggio, invece, in quello su ancoraggio lineare, trasla sull’ancoraggio lineare flessibile e successivamente oscilla.
La consistenza dell’effetto pendolo con traslazione, per l’ancoraggio lineare flessibile, dipende, in generale, dalla freccia, dal grado di attrito tra il dispositivo mobile e la fune, dalla distanza fra gli ancoraggi del sistema e dal tipo di fune. Nel caso
in cui ci sia la possibilità che il lavoratore, durante l’effetto pendolo, incontri un ostacolo, è necessario prevedere una diversa
configurazione del sistema di ancoraggio in maniera tale da eliminare e/o ri durre l’effetto stesso.
Per limitare l’effetto pendolo, la posizione di lavoro del lavoratore deve essere il più possibile allineata con l’ancoraggio puntuale o con il centro campata dell’ancoraggio lineare flessibile.
Un sistema di ancoraggio geometricamente corretto, ma con freccia e lunghezza di campata elevate, è poco performante da punto di vista dell’effetto pendolo.

Caduta frenata
La caduta frenata è uno dei parametri attraverso i quali è possibile comprendere quanta energia (a livello qualitativo) viene dissipata durante la caduta. Infatti, rappresenta lo spazio percorso dal lavoratore, a partire dal punto in cui il sistema di arresto caduta prende il carico, fino al punto dell’arresto verticale completo, con esclusione delle oscillazioni.
L’energia dissipata dal dpi durante la caduta frenata deve essere il più grande possibile.
La caduta frenata massima consentita è pari a 1,75 m come indicato dalla Uni En 355: 2003, «Dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto – Assorbitori di energia».
Compatibilmente a questa limitazione e al tirante d’aria a disposizione, nei dpi di arresto caduta essa deve essere elevata, in maniera tale da dissipare il più possibile l’energia che si sviluppa durante la caduta. A notevoli cadute frenate corrispondono sollecitazioni generalmente sopportabili dai normali lavoratori.
L’energia cinetica che si sviluppa in una caduta dall’alto deve essere dissipata dal dpi di arresto caduta.
I componenti del dpi che assolvono a questo scopo sono il cordino anticaduta e l’assorbitore di energia. Questi limitano la forza d’urto che agisce sul corpo del lavoratore in caso di caduta. In presenza di bassissime forze d’urto nella maggior parte dei casi l’utilizzo del solo cordino dinamico riduce a livelli accettabili l’energia da dissipare; con elevate forze d’urto
è indispensabile la presenza dell’assorbitore di energia.
Anche il sistema di ancoraggio può contribuire alla dissipazione di energia per effetto della deformazione di alcuni componenti in grado di deformarsi senza rompersi sottoposti ai carichi dinamici della caduta (per esempio, funi nelle linee di ancoraggio flessibili e/o dissipatori di energia).
La distribuzione delle azioni sul corpo del lavoratore è affidata alla presenza di una idonea imbracatura per il corpo che consente di non localizzarle in zone specifiche. Le cinghie primarie sono quelle che sostengono il corpo ed esercitano pressione sullo stesso, non si spostano e/o si allentano da sole durante la caduta e dopo l’arresto della caduta.
La distribuzione delle azioni è affidata anche alla posizione del punto di attacco della imbracatura con il cordino che, per il sistema dpi di arresto caduta considerato, è quella dorsale.
Questa caratteristica è ancora più importante in caso di sospensione inerte del lavoratore dopo l’arresto caduta. Inclinazione della superficie di lavoro.
L’inclinazione della copertura influisce sulla caduta alla quale potrebbe essere soggetto il lavoratore; lo stesso può scivolare e/o rotolare lungo la superficie di lavoro verso il bordo non protetto.
Le cadute su superfici a debole pendenza generano cadute a bassa energia cinetica per cui l’azione di frenatura del dpi di arresto caduta trasmette al lavoratore forze dinamiche di debole entità. Le cadute su superfici a forte pendenza generano forze
dinamiche di grande entità.

Resistenza complessiva (dpi e sistema di ancoraggio)
Tutti i componenti del dpi di arresto caduta devono resistere alle azioni dovute alla caduta del lavoratore e trasferirle al sistema di ancoraggio al quale il dpi è vincolato. Particolare attenzione dovrà essere posta alla scelta della tipologia del sistema di ancoraggio, alla tipologia e alle caratteristiche dell’ancorante in funzione
della struttura di supporto.
Requisiti geometrici
I requisiti geometrici di un dpi di arresto caduta dipendono dai seguenti parametri:
• posizione del sistema di ancoraggio;
• caduta libera;
• tirante d’aria ed effetto pendolo.

Posizione del sistema di ancoraggio
Il sistema di ancoraggio deve essere realizzato in maniera tale che la zona sulla quale può esserci la necessità di operare sia raggiungibile dal lavoratore collegato allo stesso.

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Attrezzature non a norma vendita concessa solo se…

La commissione Interpelli risponde a un quesito della Regione Friuli Venezia Giulia.

Previste deroghe alla disciplina vigente. Prima fra tutte l’eventualità in cui il bene venga ceduto con la clausola provata che il compratore s’impegni a modificarlo secondo quanto previsto dalla legislazione oppure a demolirlo. La circolazione a queste condizioni è possibile anche per i dpi e per gli impianti.

Il tema della vendita di attrezzature di lavoro non conformi alle norme di sicurezza è tornato di nuovo alla ribalta; la Regione Friuli Venezia Giulia, infatti, ha presentato istanza d’interpello ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 81/2008, alla commissione Interpelli presso il ministero del Lavoro per chiedere chiarimenti in merito all’ambito applicativo dell’art. 23 del citato decreto.

L’articolo, com’è noto, stabilisce il principio del divieto di vendita, noleggio e concessione in uso di attrezzature di lavoro non rispondenti alle disposizioni normative. L’articolato quesito presentato dalla Regione trae spunto, in effetti, dall’orientamento assunto dalla Cassazione penale, sez. III, 1° ottobre 2013, n. 40590 che, come vedremo, ha individuato alcuni temperamenti a questo principio che, per altro, si applica anche agli impianti e ai dispositivi di protezione individuali (dpi); proprio alla luce di questa sentenza, quindi, l’istante ha chiesto di sapere in primo luogo se possa ritenersi legittima la vendita, il noleggio o la concessione in uso nel caso in cui nel contratto sia prevista, da parte dell’acquirente, la messa a norma delle stesse prima del loro utilizzo.

La Regione, inoltre, ha chiesto anche di sapere «se l’esposizione ai fini della vendita, noleggio o concessione in uso delle attrezzature, dei dispositivi e degli impianti di cui sopra, in spazi commerciali, compresi spazi all’aperto e fiere, nel caso gli stessi (attrezzature/ dispositivi/impianti) non siano rispondenti alle disposizioni normative sulla sicurezza sul lavoro, costituisca violazione al succitato articolo, indipendentemente dal perfezionamento dell’atto di trasferimento, sotto tutte le forme indicate, anche temporanee, del bene, salvo restando la possibilità di esporre limitate parti degli stessi, non potenzialmente funzionanti se non completate dalle parti indispensabili a soddisfare la normativa vigente sulla sicurezza sul lavoro».

Il regime di tutela dell’art. 23
La commissione, con l’interpello 13 dicembre 2017, n. 1, nel rispondere al quesito sottoposto, ha fornito alcune interessanti indicazioni che, occorre ricordare, hanno un’elevata valenza poiché, secondo quanto stabilisce l’art. 12, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2008, costituiscono «…criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza»; la commissione ha, quindi, compiuto un ragionamento che può essere così riassunto nei suoi passaggi più significativi che parte dall’individuazione della ratio del citato art. 23 (vedere tabella 1).

Questa norma stabilisce, infatti, che: «Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione».

Come osserva giustamente la commissione, questa disposizione deve essere necessariamente letta in combinato disposto con l’art. 72 del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale: «Chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui
all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V».

La ratio di questa disciplina, quindi, è quella di evitare la circolazione di attrezzature di lavoro, impianti e dpi non rispondenti alla normativa tecnica al fine di «…anticipare la tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, garantendo l’utilizzo unicamente di quei beni conformi ab origine ovvero di quelli preventivamente adeguati alla normativa»; si osservi che questo
divieto opera, quindi, non solo con riferimento al contratto di compravendita (art. 1470 del codice civile), ma anche a quello di noleggio (art. 1571 del codice civile) e alle altre tipologie contrattuali che, comunque, prevedono una concessione in uso (comodato, leasing).

Il divieto contenuto nell’art. 23 è stato posto in chiave strettamente prevenzionale, con il chiaro intento di reprimere soprattutto lo sviluppo di un mercato dell’usato non sicuro che, bisogna ricordare, specie nella seconda metà degli anni Novanta rischiava di affermarsi pericolosamente dopo l’introduzione del D.P.R. n. 459/1996, con il quale, com’è noto, il legislatore italiano ha dato attuazione alle direttive 89/392/Cee, 91/368/Cee, 93/44/Cee e 93/68/Cee (la cosiddetta “direttiva macchine”). Questo decreto, ora sostituito dal D.Lgs. n. 17/2010, fece emergere un vasto fenomeno di macchine usate – e non solo – immesse in commercio anche molto pericolose, per altro in tanti casi non conformi nemmeno alla previgente disciplina del D.P.R. n. 547/1955.

Gli orientamenti della Cassazione penale
Alla luce di questo principio, la Cassazione penale nella citata sentenza n. 40590/2013, richiamata in alcuni sui passaggi fondamentali dalla commissione ministeriale, ha però meglio chiarito la portata dell’art. 23 del D.Lgs. n.81/2008. Bisogna precisare che la vicenda processuale riguardava un caso di vendita nel luglio del 2009 di una macchina fresatrice per la quale il Gup del tribunale di Verbania dichiarava “A. G.”, nella sua qualità di rappresentante legale della parte venditrice “T sas”, colpevole della violazione di questa norma e l’ha condannato, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di mille euro di ammenda. L’imputato aveva impugnato la decisione proponendo ricorso per Cassazione, lamentando in particolare che il macchinario ceduto era, in realtà, destinato ad altra società (“S. srl” con la specifica – e unica – finalità di essere assoggetto a riparazione da parte della “S. srl” stessa onde, poi, essere messo in commercio in condizioni di sicurezza). Gli Ermellini hanno dato pienamente ragione alla tesi difensiva del ricorrente evidenziando, da un lato, che l’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2008, in effetti non è una norma nuova in quanto già contenuta nella previgente disciplina – art. 7, comma 1, D.P.R. 547/1955; art. 6 D.Lgs. n. 626/19947 – e, dall’altro, che il concetto di vendita come esplicitato nell’art. 23 non può interpretarsi in modo assoluto. Secondo la suprema Corte, infatti, questo divieto trova un temperamento in chiave derogatoria laddove la vendita venga effettuata per un esclusivo fine riparatorio della macchina in vista di una futura utilizzazione, una volta ripristinata e messa a norma; a tal fine, secondo i giudici di legittimità, occorre accertare in concreto quali siano le condizioni di vendita, i soggetti parte dell’atto e gli obblighi gravanti sia sul venditore che sul diretto destinatario, nonché il ruolo da questi esercitato se, cioè, autorizzato a mettere a sua volta in circolazione il macchinario una volta riparato, ovvero a riconsegnarlo al venditore che potrà poi venderlo a terzi per un utilizzo sul mercato. Di conseguenza, fermo restando che è vietato l’impiego di macchinari non a norma con la conseguenza che una vendita di prodotti di tal fatta è, di regola, vietata stante la conseguenzialità e normalità dell’impiego della macchina nel ciclo produttivo, nell’ottica del passaggio del prodotto industriale alla fase economica successiva (l’utilizzo), secondo la suprema Corte laddove si accerti che «…..quest’ultimo passaggio non vi sia (come nel caso dello stazionamento del macchinario presso una ditta specializzata esclusivamente nella riparazione per la messa a norma con compiti ben specificati che inibiscono una utilizzazione successiva mediata tramite il venditore all’origine), non può ritenersi vietata la vendita dì un macchinario in quanto avente uno scopo ben circoscritto, senza alcuna previsione di utilizzazione».

Le deroghe al divieto di circolazione di attrezzature e dpi non a norma
Alla luce, quindi, anche dei richiamati orientamenti giurisprudenziali la commissione ministeriale si è allineata con indirizzo espresso dalla Cassazione, ribadendo che la circolazione di attrezzature di lavoro, di dpi ovvero di impianti non conformi, senza alcuna previsione di utilizzazione, ma con esclusivo e documentato fine demolitorio ovvero riparatorio per la messa a norma non ricadono nell’ambito di applicazione delle citate disposizioni normative, in considerazione della relativa ratio legis.

Di conseguenza, è ritenuto lecito il contratto avente a oggetto la vendita di un’attrezzatura non a norma, a condizione che non sia previsto l’utilizzo come bene strumentale da parte dell’acquirente, ma solo la sua riparazione per l’adeguamento. Sulla base di questa linee interpretativa, la commissione ha inoltre precisato che anche la mera esposizione al pubblico non ricade nel divieto dell’art. 23; di conseguenza è consentita l’esposizione in occasione di fiere, mostre ecc. di attrezzature non conformi alla vigente normativa.

Le responsabilità
Le indicazioni della commissione appaiono alquanto chiare, ma meritano un’ultima riflessione per avere un quadro sufficientemente completo; la violazione del divieto sancito nell’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2008 ha, come si è visto, notevoli riflessi sul piano della responsabilità penale in quanto i fabbricanti e i venditori sono puniti con l’arresto da tre a sei mesi o ammenda da 10.960,00 a 43.840,00 euro (art. 57, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008), per altro potrebbe fungere da circostanza aggravante per il datore di lavoro acquirente in caso d’infortunio l’aver stipulato un contratto di acquisto di un’attrezzatura di cui era consapevole della sua non conformità alla normativa tecnica (artt. 589, 590 del codice civile).
Anche sul piano della responsabilità civile i riflessi sono significativi; bisogna tener presente, infatti, che in questi casi il contratto è nullo per l’illiceità dell’oggetto, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 del codice civile, con l’obbligo per la parte venditrice di rimborsare ogni somma versata dall’acquirente (ad esempio a titolo di acconto) e fatto salvo il diritto di quest’ultimo di agire per il risarcimento dei danni 1-2. Qualora, poi, siano state indicate clausole contrattuali del tipo «accettata nello stato in cui si trova» o «idonea all’uso in cui si trova» le stesse non possono che far riferimento alle condizioni di funzionalità dell’apparecchio e non a quelle di sicurezza in quanto le stesse hanno carattere d’inderogabilità anche verso il costruttore o il venditore anch’essi come si è visto debitori di sicurezza.

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Laser: valutare il rischio per evitare danni

I fasci di solito hanno un’unica o un numero limitato di lunghezze d’onda discrete.

Sempre più utilizzati in ambito sanitario, necessitano di una attenta valutazione del rischio. Per fare questo sono necessarie informazioni molto dettagliate sulle loro caratteristiche e sul loro funzionamento.

L’evoluzione tecnologica delle sorgenti laser e delle loro applicazioni in ambito sanitario rende necessaria una crescente attenzione per la sicurezza e la salute degli operatori e dei pazienti. È necessario proporre un metodo per la valutazione dei rischi secondo il titolo VIII (agenti fisici), capo V (radiazioni ottiche artificiali – roa), del D.Lgs. n. 81/2008, per tutte le classi dei laser, con particolare attenzione per quelli di classe 3B e 4 a maggior rischio, prendendo in considerazione anche le caratteristiche degli ambienti dove sono ubicati i laser, i fattori organizzativi e il fattore umano, con particolare riferimento all’informazione, alla formazione e all’addestramento degli operatori laser. Per arrivare a questo obiettivo in modo sintetico, è opportuno fornire alcune indicazioni essenziali sulle caratteristiche e sul loro funzionamento (roa coerenti), sui principali obblighi per i fabbricanti e per gli utilizzatori. Inoltre, occorre fornire le principali nozioni sulle interazioni tra tessuti biologici e radiazioni e sui possibili effetti nocivi per quanto riguarda la salute (occhi e cute).

Principali obblighi
Nei secoli scorsi, le scoperte scientifiche e tecnologiche relative alla luce e alle sue proprietà hanno continuamente innovato l’industria degli apparecchi medicali che si basano sull’utilizzo della luce (procedure chirurgiche, terapie, eccetera). Solo dopo la realizzazione del primo laser, nel 1960, il ruolo della luce in medicina è diventato importante. Infatti, l’anno successivo alla sua realizzazione si è iniziato a utilizzare il laser nei trattamenti di melanomi cutanei e, successivamente, in oculistica per le micro-saldature durante gli interventi chirurgici
alla retina.
Il nome laser è l’acronimo di light amplification by stimulated emission of radiation. I laser sono sorgenti di luce coerente, basati sull’emissione stimolata di radiazioni da parte di un sistema di atomi eccitati all’interno del quale avvengono transizioni da uno stato quantico a un altro stato quantico di energia inferiore. La teoria dell’emissione stimolata di radiazioni era stata formulata da Albert Einstein, nel 1917. L’interazione della radiazione elettromagnetica con la materia avviene mediante tre fenomeni fondamentali: assorbimento, emissione spontanea ed emissione stimolata, tutti relativi all’emissione di un fotone da parte di un atomo. In particolare quando un fotone a frequenza f0 e, quindi, energia h*f0 interagisce con un atomo, quest’ultimo può essere assorbito provocando la transizione di un elettrone dal livello E1 al livello E2 > E1 (E2 = E1 + h*f0). Gli elettroni eccitati, a partire da questo stato, possono tornare allo stato originario attraverso l’emissione spontanea di un fotone con energia h*f0 oppure, se un fotone interagisce con un atom con un elettrone sul livello E2, si può avere
emissione stimolata di un ulteriore fotone con energia h*f0, che accompagna il fotone originario e la transizione dell’atomo
sul livello E1. I fasci laser sono di solito caratterizzati dal fatto di avere un’unica o un numero limitato di lunghezze d’onda discrete; l’emissione ha bassa divergenza, quindi, mantiene pressappoco la stessa potenza o energia entro una determinata area su distanze considerevoli; inoltre, il fascio laser è coerente o le singole onde del fascio sono allineate. In genere, i fasci laser possono essere messi a fuoco su un piccolo punto, con il rischio potenziale di provocare lesioni e danni alle superfici. Queste, però, sono tutte generalizzazioni. Esistono laser che producono fasci laser su un ampio spettro di lunghezze d’onda, oppure dispositivi che producono raggi ampiamente divergenti, o ancora fasci laser che non sono coerenti per la maggior parte della lunghezza del loro percorso.

Le emissioni di fasci laser possono essere:
• continue, nel qual caso si parla di onda continua (cw);
• pulsate, questa ultima tipologia di emissione varia nel tempo con periodi “on” e “off” e può essere suddivisa a impulsi ultracorti con “t” minore di 10^-9 (mode locking) o a impulsi giganti con “t” compresa tra 10^-9 e 10^-7 (Q-switched).

Per quanto riguarda la trasmissione della radiazione laser, può essere per trasmissione diretta (bracci, manipoli eccetera)
oppure mediante fibre ottiche. I laser sono divisi in categorie a seconda del “mezzo attivo” usato per generare il fascio laser. Questo mezzo può essere un solido, un liquido o un gas. I laser con un mezzo solido si dividono in solidi tipo cristalli,
detti laser allo stato solido, e in laser semiconduttori. La classificazione dei laser a opera del fabbricante si basa sul concetto di limite di emissione accessibile, definito per ogni classe di laser. Il limite di emissione accessibile considera non solo l’emissione del pro dotto laser ma anche l’accesso umano a questa emissione.
I laser sono raggruppati in sette classi (1,1M, 2, 2M, 3R, 3B e 4): quanto più alta è la classe,quanto maggiore è la possibilità di provocare danni.
Uno dei parametri caratteristici di un’apparecchiaturalaser è la “Distanza nominale di rischio oculare” (Dnro), definita come la distanza alla quale l’esposizione energetica del fascio laser uguaglia l’”Esposizione massima permessa” (Emp). La Dnro può essere calcolata con formule opportune riportate nella Cei En 60825-1. Il valore di Dnro viene fornito normalmente dal costruttore del laser e riportato nel manuale delle istruzioni del laser.

La norma Cei En 60825-1: 2003 ha fornito una classificazione dei laser, effettuata dal
costruttore sulla base della combinazione della potenza di emissione e della lunghezza d’onda della radiazione laser accessibile:
• classe 1: laser sicuri nelle condizioni di funzionamento ragionevolmente prevedibili, compreso l’impiego di strumenti ottici per la visione diretta del fascio;
• classe 1M: laser che emettono radiazione nell’intervallo di lunghezze d’onda tra 302,5 nm e 4000 nm (nano metro), sicuri nelle condizioni di funzionamento ragionevolmente prevedibili, ma che possono essere pericolosi se l’utilizzatore impiega ottiche all’interno del fascio;
• classe 2: laser che emettono radiazione visibile nell’intervallo di lunghezze d’onda tra nm 400 e nm 700, in cui la protezione dell’occhio è normalmente assicurata dalle reazioni di difesa compreso il riflesso palpebrale. Questa reazione può essere prevista per fornire una protezione adeguata nelle condizioni di funzionamento ragionevolmente prevedibili, compreso l’impiego di strumenti ottici per la visione diretta del fascio;
• classe 2M: laser che emettono radiazione visibile nell’intervallo di lunghezze d’onda tra nm 400 e nm 700, in cui la protezione dell’occhio è normalmente assicurata dalle reazioni di difesa compreso il riflesso palpebrale. Tuttavia, l’osservazione dell’emissione può risultare pericolosa se, all’interno del fascio, l’utilizzatore impiega ottiche;
• classe 3R: laser che emettono nell’intervallo di lunghezze d’onda compreso tra nm 302,5 e nm 106, in cui la visione diretta del fascio è potenzialmente pericolosa, ma il rischio è inferiore a quello dei laser di classe 3B;
• classe 3B: laser normalmente pericolosi in caso di visione diretta del fascio (cioè all’interno della distanza nominale di rischio oculare – Dnro). Le riflessioni diffuse sono normalmente sicure;
• classe 4: laser anche in grado di produrre riflessioni diffuse pericolose. Possono causare lesioni alla pelle e potrebbero anche costituire un pericolo di incendio.

Il loro uso richiede estrema cautela.

Occorre evidenziare che le apparecchiature laser in ambito medico sono dispositivi medici definiti dalla direttiva 93/42/Cee recepita con il D.Lgs. n. 46/1997 e aggiornata dalla direttiva 2007/47/Ce recepita con il D.Lgs. n. 37/2010, pertanto, su ogni apparecchiatura deve essere apposta la marcatura Ce e, inoltre, il fabbricante deve rilasciare una dichiarazione di conformità Ce in cui, tra le altre cose, evidenzia il rispetto dei res (requisiti essenziali di sicurezza e salute dell’apparecchio) e il manuale d’uso e manutenzione dell’apparecchio laser che deve dare indicazioni su come installarlo, come utilizzarlo e come fare gli appositi interventi di manutenzione. Quindi, il fabbricante di queste apparecchiature laser deve seguire le direttive di prodotto provvedendo all’apposita marcatura Ce, fornendo a corredo del laser la dichiarazione di conformità Ce e il manuale d’uso e manutenzione. Inoltre su ogni apparecchio laser deve essere apposta apposita etichetta di colore nero su sfondo giallo, che siano leggibili e visibili durante il funzionamento e fissate in modo permanente. L’utilizzatore (datore di lavoro) in seguito all’acquisto del laser, acquisendo e riscontrando quanto evidenziato, deve seguire nell’utilizzo della sorgente laser (attrezzatura di lavoro) il D.Lgs. n. 81/2008 con particolare riferimento a:
• titolo III, capo I, «Uso delle attrezzature di lavoro»;
• titolo III, capo II, «Uso dei dispositivi di protezione individuale»;
• titolo III, capo III, «Impianti e apparecchiature elettriche»;
• titolo VIII, capo V, del D.Lgs. n. 81/2008, «Protezione dei lavoratori dai rischi di esposizione a radiazioni ottiche artificiali».

In definitiva le posizioni di garanzia che il datore di lavoro ricopre per la salvaguardia della sicurezza e salute di operatori e pazienti nell’uso di attrezzature laser non può essere disgiunta da quella del fabbricante: queste due figure hanno ruoli e responsabilità ben distinte, ma contigue dalle quali derivano due approcci speculari rispetto agli obiettivi di sicurezza e salute prima richiamati. Infine il lavoratore che utilizza l’attrezzatura laser è responsabile dell’uso corretto della stessa (art. 19 del D.Lgs. 81/2008).

Rischi per la salute
L’assorbimento della radiazione laser nei tessuti biologici dà origine a diversi tipi di processi che, se controllati in modo opportuno, permettono interventi clinici di alta precisione ed efficacia.
I vari tipi di interazione laser-tessuto biologico possono essere rappresentati nella mappa di interazione medica. Il riporta, in scala logaritmica sui due assi, in ascissa il tempo di esposizione in secondi e in ordinata l’irradiamento in W/ cm2; mentre le rette oblique rappresentano condizioni di esposizione energetica costante in J/cm2.
A parità di flusso di energia erogato, al variare del tempo di esposizione e di lunghezza d’onda (λ) della radiazione coerente si hanno interazioni di natura diversa con i tessuti biologici: fotochimica, fototermica, fotoablativa, fotomeccanica.
In breve, nell’interazione fotochimica l’energia assorbita nel tessuto è utilizzata per modifiche strutturali delle molecole in seguito a reazioni chimiche attivate dalla radiazione laser. Questo tipo di interazione diventa significativa per esposizioni a basso irradiamento e di durata superiore al secondo ed è quasi esclusivamente limitata a λ < 600 nm.
Nell’interazione fototermica l’energia assorbita nel tessuto è trasformata in energia termica; la generazione di calore nei
tessuti è determinata dall’assorbimento locale di radiazione laser da parte delle molecole presenti nei tessuti. Questo tipo di interazione si verifica per laser a emissione continua con irradiamenti superiori a 10 W/cm2, o per laser pulsati con durata dell’impulso superiore al microsecondo. Per esposizioni molto lunghe e per λ > 600 nm è l’unica interazione che determina il danno ai tessuti.
L’interazione fotomeccanica si verifica quando la radiazione laser è focalizzata ad alta esposizione energetica (~1000 J/cm2)
su un tessuto, usando impulsi brevissimi (dell’ordine dei nanosecondi o dei picosecondi).
L’elevatissimo campo elettrico associato all’impulso laser porta alla generazione di elettroni liberi che, assorbendo l’energia ottica incidente, producono una ionizzazione secondaria a valanga. Si crea, così, un microscopico volume di plasma ionizzato con temperatura (> °C 10.000) e pressione (> bar 10.000) elevatissime. La rapidissima espansione del plasma dà origine a un’onda d’urto che può portare a rottura meccanica localizzata dei tessuti investiti.

Nell’interazione fotoablativa l’energia erogata dal laser provoca ablazione (rimozione esplosiva di materiale dal tessuto in seguito all’irraggiamento) della zona trattata senza provocare effetti termici nei tessuti adiacenti. Questo tipo di interazione predomina nel caso di impulsi di elevata potenza, soprattutto nell’ultravioletto. Nella fotoablazione laser sono comunque presenti processi di tipo fototermico, fotochimico e fotomeccanico.
Gli effetti biologici e gli eventuali effetti dannosi per la salute correlati agli stessi dipendono, oltre che dalle caratteristiche
fisiche della sorgente laser già evidenziate, anche da fattori biologici del soggetto esposto (operatori laser e pazienti) quali l’età, lo stato di salute, l’ipersensibilità eccetera.
Gli organi più a rischio, se esposti a radiazione laser, sono gli occhi e la pelle. L’occhio è l’organo più delicato e, a differenza della pelle, per la quale una involontaria esposizione provoca l’immediata reazione del soggetto esposto anche in caso di radiazione fuori dal campo del visibile, può non percepire repentinamente questa esposizione.
Anche per le radiazioni ottiche (come per le radiazioni ionizzanti) gli effetti possono essere di tipo deterministico (si manifestano al di sopra di una soglia di esposizione) o di tipo stocastico (non esiste una soglia ma la probabilità che l’effetto si verifichi aumenta con l’esposizione).
Gli effetti deterministici sono costituiti da eritemi, bruciature, eczemi per quanto riguarda la cute; mentre, per quanto riguarda l’occhio, è possibile avere danni retinici, cataratta, fotocongiuntiviti eccetera. Il rischio maggiore, per quanto riguarda gli effetti stocastici, riguarda l’esposizione a radiazioni ultraviolette (uv) e consiste nell’insorgenza di tumori cutanei.

In estrema sintesi, il rischio per gli occhi è particolarmente elevato per laser che producono radiazioni di lunghezza d’onda compresa tra nm 400 e nm 1400, in quanto l’occhio focalizza queste radiazioni sulla retina, esponendola a una densità di energia 105 più elevata di quella incidente sulla superficie dell’occhio. La pelle è in grado di tollerare una esposizione al fascio laser molto più elevata; la penetrazione del fascio laser è massima tra nm 600 e nm 1.000. Il titolo VIII, capo V, del D.Lgs. n. 81/2008, all’art. 213, nello stabilire il campo di applicazione, evidenzia che le radiazioni ottiche oggetto dello stesso decreto sono esclusivamente quelli artificiali, in questa impostazione si parla, quindi, di radiazioni ottiche artificiali (roa). Il capo V stabilisce prescrizioni minime di protezione dei lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza che possono derivare dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali durante il lavoro con particolare riguardo ai rischi diretti dovuti agli effetti nocivi sugli occhi e sulla cute; questi sono gli organi più a rischio. Oltre ai rischi diretti (involontaria esposizione alla radiazione laser) si debbono considerare i rischi collaterali: rischio elettrocuzione (prevedere controlli periodici di sicurezza elettrica), rischio incendio (allontanare materiali infiammabili), rischio contaminazione aria nel caso di uso di laser con impieghi chirurgici prevedendo un apposito estrattore di fumi per i contaminanti aerei dispersi nell’aria ecc. In merito alle radiazioni ottiche artificiali (roa) sono distinte in non coerenti (prodotti da forni che emettono radiazioni infrarosse, da saldature, sorgenti per il trattamento cosmetico, da sorgenti utilizzate nell’industria farmaceutica e di ricerca eccetera)
e coerenti (laser).

La radiazione ottica comprende le componenti dello spettro elettromagnetico di lun ghezza d’onda minore dei campi elettromagnetici (trattati dal titolo VIII, capo IV, del D.Lgs. n. 81/2008) e maggiore di quelle delle radiazioni ionizzanti (trattate dal D.Lgs. n. 230/1995, cosi come evidenziato dal titolo VIII, capo I, art. 180, comma 3). Quindi, la radiazione ottica comprende tutte le radiazioni aventi lunghezza d’onda compresa tra 1 mm e 100 nm rientranti tra le radiazioni non ionizzanti. All’interno di questo intervallo è presente una ulteriore suddivisione in:
• radiazione infrarossa (ir), con lunghezza d’onda tra mm 1 e nm 760, suddivisa a sua volta in:
– ira, con lunghezza d’onda nm 1.400 a nm 780;
– irb, con lunghezza d’onda nm 3.000 nm e nm 1.400;
– irc, con lunghezza d’onda nm 3.000 a mm 1 (pari a nm 1.000.000);
• radiazione visibile con lunghezza d’onda compresa tra 780 nm e 380 nm;
• radiazione ultravioletta (UV) con lunghezza d’onda compresa tra nm 380 nm e nm 100, suddivisa a sua volta in:
• uva, con lunghezza d’onda che va da nm 400 a nm 315, detta anche “regione della luce nera” per la proprietà di indurre fluorescenza in diverse sostanze;
• uvb, con lunghezza d’onda tra nm 315 e nm 280, detta “regione eritemale” per la capacità di provocare arrossamento alla cute;
• uvc, con lunghezza d’onda tra nm 280 e nm 100, detta “regione germicida” per l’efficacia nell’attivazione di virus e batteri.

In conformità all’art. 218 del D.Lgs. n. 81/2008, la sorveglianza sanitaria è effettuata periodicamente, di norma una volta
l’anno o con periodicità inferiore decisa dal medico competente con particolare riguardo ai lavoratori particolarmente
sensibili al rischio, tenuto conto dei risultati della valutazione dei rischi trasmessi dal datore di lavoro. La sorveglianza sanitaria è effettuata con l’obiettivo di prevenire e scoprire tempestivamente effetti negativi per la salute, nonché prevenire effetti a lungo termine negativi per la salute e rischi di malattie croniche derivanti dall’esposizione a radiazioni ottiche. Laddove i valori limite sono superati, oppure sono identificati effetti nocivi sulla salute:
• il medico o altra persona debitamente qualificata comunica al lavoratore i risultati che lo riguardano. Il lavoratore riceve in particolare le informazioni e i pareri relativi al controllo sanitario al quale dovrebbe sottoporsi dopo la fine dell’esposizione;
• il datore di lavoro è informato di tutti i dati significativi emersi dalla sorveglianza sanitaria tenendo conto del segreto professionale.

Conclusioni
Scopo del presente lavoro è proporre sinteticamente ai sensi del D.Lgs. 81/2008, un metodo di valutazione dei rischi ad indice basato sulla norma Uni Iso 31000:2010, che permette di valutare (identificare, analizzare e ponderare) il rischio generale delle postazioni laser al fine di tutelare la sicurezza e salute sia degli operatori/lavoratori che dei pazienti, il tutto nell’ambito di una visione integrata della sicurezza e salute che comprende sia i requisiti di sicurezza dell’attrezzatura laser, sia i fattori organizzativi, sia il comportamento umano (utilizzo corretto dell’attrezzatura laser).

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Dpi, che cosa è cambiato con il nuovo regolamento

Le disposizioni europee entrate in vigore il 21 aprile di quest’anno.

Una disciplina importante e attesa che modifica gli obblighi per i fabbricanti i cui aspetti devono però essere conosciuti anche dai responsabili della sicurezza e dagli utilizzatori. I dispositivi suddivisi in “categorie” basate sull’entità dei rischi.

Il 21 aprile 2018 è entrato in vigore l’importante e atteso regolamento Ue 2016/425 del parlamento europeo e del consiglio del 9 marzo 2016 sui dispositivi di protezione individuale, che abroga la “storica” direttiva 89/686/Cee dello stesso consiglio.
Il nuovo regolamento disciplina, essenzialmente, i requisiti per la progettazione e la fabbricazione dei dispositivi di protezione individuale che devono essere messi a disposizione sul mercato, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori, e stabilisce norme sulla libera circolazione dei dip nell’Unione europea.
Analogamente ad altre direttive europee di prodotto, il regolamento Ue 2016/425 prescrive che i dpi debbano soddisfare i requisiti essenziali di salute e sicurezza (previsti nell’allegato II della stessa norma) attraverso la redazione, da parte dei fabbricanti, della dichiarazione di conformità Ue e l’apposizione, sui dispositivi, della marcatura Ce.
La disposizione introduce, tra le altre numerose novità, una nuova e più semplice suddivisione dei dpi in”categorie”, basate sull’entità del rischio da cui i dispositivi devono proteggere le persone. Pur mancando la necessità di un decreto di recepimento specifico nel sistema giuridico del nostro Paese (trattandosi di un regolamento e non di una direttiva), l’entrata in vigore effettiva del regolamento 2016/425 potrebbe non essere automatica, essendo imprescindibile un aggiornamento e un adeguamento della normativa nazionale in essere, a partire (ma non solo) dal D.Lgs. 81/2008 il cosiddetto testo unico della sicurezza.

Le finalità
L’obiettivo cardine del nuovo regolamento è di assicurare che i dpi immessi sul mercato europeo soddisfino i requisiti essenziali di salute e di sicurezza (indicati nell’allegato II della stessa norma), che offrano un livello elevato di protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori garantendo, nel contempo, il corretto funzionamento del mercato interno europeo. Secondo il legislatore europeo questo obiettivo appare irraggiungibile dai singoli Stati membri e quindi, vista la sua importanza, la sua portata e i suoi effetti, ha ritenuto che possa essere conseguito esclusivamente a livello di Ue, attraverso il principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea. Il regolamento, formalmente in vigore dal 21 aprile 2018, era atteso da tempo, considerata la vetustà della direttiva 89/686/ Cee (che ormai si avvicina alla soglia dei 30 anni di età) sostituita, e ai problemi applicativi che essa ha avuto negli anni nei diversi Paesi della Ue proprio per la sua “antiquata” conformazione giuridica. Infatti, pur restando l’intento principale del legislatore europeo quello di stabilire requisiti per la progettazione e la fabbricazione dei dpi che devono essere messi a disposizione sul mercato, al fine di garantire la protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori restando al passo della tecnica, l’altro obiettivo (non nascosto) è quello di annullare quanto accaduto fino a oggi nell’applicazione concreta della direttiva 89/686/Cee, che ha evidenziato carenze e incongruenze nella regolamentazione dei prodotti e nelle procedure di valutazione della conformità, con evidenti problemi di omogeneità, in particolare nell’individuazione dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza dei dpi, rispetto ai quali ogni Paese dell’Unione ha finora agito autonomamente. Quindi, si è ritenuto opportuno procedere all’ammodernamento della norma in materia sostituendo la vecchia direttiva con un nuovo regolamento, che è lo strumento giuridico idoneo per imporre norme chiare e dettagliate che non lascino adito a interpretazioni e a differenze di recepimento da parte degli Stati membri. Per la struttura del regolamento (che consta di 48 articoli e 10 allegati).

Conformità e marcatura
Ai sensi dell’articolo 14 del regolamento 2016/425, un dpi conforme alle norme armonizzate o alle parti di esse i cui riferimenti sono stati pubblicati sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea deve essere considerato conforme ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza di cui all’allegato II.
Le informazioni necessarie a identificare tutti gli atti dell’Unione applicabili ai dpi devono essere disponibili in un’unica dichiarazione di conformità Ue che, appunto, attesti il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza. La marcatura Ce (articoli 16 e 17), che, si ricorda, è obbligatoria e indica la conformità di un prodotto ai requisiti di sicurezza previsti dalle direttive o dai regolamenti comunitari applicabili, è il risultato di un processo che deve comprendere la valutazione di conformità, i cui principi generali di apposizione sui dpi vengono appunto individuati e regolati nel regolamento. Questa marcatura deve essere apposta sul dpi in modo visibile, leggibile e indelebile: qualora ciò non fosse oggettivamente possibile, o ritenuto ingiustificato a causa della natura del dpi, la marcatura Ce deve essere apposta sull’imballaggio o sui documenti di accompagnamento del dpi stesso. Analogamente a quanto già previsto dalla direttiva 89/686/Cee (e in altre direttive di prodotto), per i dpi di III categoria (quelli, per intenderci, che proteggono da morte o da danni alle persone molto gravi e/o irreversibili), la marcatura Ce può essere apposta soltanto a seguito di verifica da parte di organismo (terzo e indipendente) notificato, il cui numero di identificazione deve essere riportato sulla stessa marcatura.

Le criticità
Anche in questo caso, appare probabile un contrasto tra una “norma di prodotto”, che detti regole per la libera circolazione nel mercato dell’Ue, e una “norma sociale”, che nello specifico riguarda la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori che i dpi devono utilizzare nei luoghi di lavoro, che dovrà giocoforza essere risolto dai singoli legislatori nazionali. Un altro “passaggio” attraverso i legislatori nazionali sarà necessario (malgrado l’intento dell’Unione europea di evitarlo attraverso l’utilizzo dell’atto legislativo vincolante del regolamento), essendo compito degli Stati membri quello di stabilire le sanzioni da imporre in caso di violazione delle disposizioni contenute (aspetto peraltro indicato nell’articolo 45, paragrafo 1) che, come previsto dal legislatore comunitario, potrebbero includere anche sanzioni penali nel caso di gravi violazioni.

Entrata in vigore
Il nuovo regolamento è formalmente in vigore dal 21 aprile 2018, compatibilmente con le criticità applicative che potrebbero aversi nel nostro Paese, come viene indicato nel prossimo capitolo.
L’anno successivo sarà comunque un periodo di transizione in cui sarà ancora possibile, da parte dei fabbricanti, mettere in circolazione dispositivi di protezione individuale conformi alla “vecchia” direttiva. Lo stesso regolamento prevede, a tal proposito, che gli Stati membri non potranno ostacolare la commercializzazione e l’utilizzo dei dpi conformi alla Direttiva 89/686/Cee e immessi sul mercato anteriormente al 21 aprile 2019. Gli “attestati di certificazione” rilasciati in conformità con la precedente direttiva rimangono validi fino al 21 aprile 2023, salvo che non scadano prima di questa data.

Che cosa cambia
Le novità introdotte dal nuovo regolamento dpi rispetto alla vecchia direttiva sono numerose e importanti. Le principali sono le seguenti.

Osservazioni preliminari
Il regolamento sui dpi contiene osservazioni preliminari sui requisiti essenziali di salute e di sicurezza. A questo proposito ci si è orientati alla direttiva macchine. Anche per i dpi si rimanda ora allo stato della tecnica affinché sia garantito il rispetto dei requisiti essenziali.

Campo di applicazione
Il campo di applicazione del nuovo regolamento si estende anche ai dpi per la protezione dal calore (quali, ad esempio, i guanti per rigovernare e da forno) destinati all’uso privato e a quelli commercializzati on line. La norma conferma la non applicabilità della regolamentazione alle seguenti tipologie di dpi:
a) quelli progettati specificamente per essere usati dalle forze armate o nel mantenimento dell’ordine pubblico;
b) quelli progettati per essere utilizzati per l’autodifesa, a eccezione dei dpi destinati ad attività sportive;
c) quelli progettati per l’uso privato per proteggersi da:
• condizioni atmosferiche non estreme;
• umidità e acqua durante la rigovernatura;
d) quelli da utilizzare esclusivamente su navi marittime o aeromobili oggetto dei pertinenti trattati internazionali applicabili negli Stati membri;
e) quelli da utilizzare per la protezione della testa, del viso o degli occhi degli utilizzatori, oggetto dello specifico regolamento n. 22 della commissione economica per l’Europa delle Nazioni unite concernente prescrizioni uniformi relative all’omologazione dei caschi e delle relative visiere per conducenti e passeggeri di motocicli e ciclomotori.

La nuova suddivisione
La norma (all’allegato I) prevede una nuova e più semplice suddivisione dei dpi in “categorie”, basate sull’entità del/dei rischio/ i da cui i dispositivi devono proteggere le persone (vedere tabella 1). Si evidenzia come la categoria III (quella che riguarda i rischi maggiori) venga estesa a ulteriori rischi (annegamento, ferite da taglio provocate da seghe a catena portatili, gettiì ad alta pressione, ferite da proiettile o da coltello e rumore nocivo) rispetto a quelli riportati nel “vecchio” D.Lgs. 475/1992. La modifica apportata sui dpi di III categoria sostanzialmente pone due ulteriori novità. I documenti di valutazione dei rischi dovranno, quando ricorre, essere aggiornati prevedendo i dpi di III categoria, un esempio può essere quello degli operatori del verde che usano la “motosega” l’uso di questa attrezzatura comporta l’uso ad esempio di “indumenti antitaglio”.
L’altro aspetto e legato alla formazione: questa, infatti, per le attività che prevedono l’uso di dpi di III categoria dovrà essere più puntuale prevedendo anche l’addestramento.

La documentazione a corredo
L’allegato III impone che a corredo di ciascun dpi debba essere presente una documentazione tecnica che specifichi le modalità con cui il fabbricante garantisce la conformità dei dispositivi di protezione individuale ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili (cui fa riferimento l’articolo 5 del regolamento stesso e stabiliti nell’allegato II del medesimo). Questa documentazione tecnica deve comprendere almeno i seguenti elaborati:
a) una descrizione completa del dpi e dell’uso cui è destinato;
b) una valutazione dei rischi da cui il dpi è destinato a proteggere;
c) un elenco dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili al dpi;
d) disegni e schemi di progettazione e fabbricazione del dpi e dei suoi componenti, sottoinsiemi e circuiti;
e) le descrizioni e le spiegazioni necessarie alla comprensione dei disegni e degli schemi di cui al punto precedente e del funzionamento del dpi;
f) i riferimenti delle norme armonizzate di cui all’articolo 14 del regolamento che sono state applicate per la progettazione e la fabbricazione del dpi. In caso di applicazione parziale delle norme armonizzate, la documentazione deve specificare le parti che sono state applicate
g) se le norme armonizzate non sono state applicate o lo sono state solo parzialmente, i requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili;
h) i risultati dei calcoli di progettazione, delle ispezioni e degli esami effettuati per verificare la conformità del DPI ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili;
i) una relazioni sulle prove effettuate per verificare la conformità del dpi ai requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili e, se del caso, per stabilire la relativa classe di protezione;
j) una descrizione dei mezzi usati dal fabbricante durante la produzione del dpi per garantire la conformità del dpi fabbricato alle specifiche di progettazione;
k) una copia delle istruzioni e delle informazioni del fabbricante che figurano nell’allegato II, punto 1.4 del regolamento;
l) per i dpi prodotti come unità singole per adattarsi a un singolo utilizzatore, tutte le istruzioni necessarie per la fabbricazione di questi dpi sulla base del modello di base approvato;
m) per i dpi prodotti in serie in cui ciascun articolo è fabbricato per adattarsi a un singolo utilizzatore, una descrizione delle misure che devono essere prese dal fabbricante durante il montaggio e il processo di produzione per garantire che ciascun esemplare sia conforme al tipo omologato e ai requisiti essen ziali di salute e di sicurezza applicabili.

La dichiarazione di conformità Ue deve essere allegata a ogni dpi messo in circolazione. In alternativa, è possibile riportare i contenuti della dichiarazione nelle informazioni per l’uso, che dovranno, quindi, includere anche un indirizzo web cui accedere per visionare il testo completo della dichiarazione di conformità Ue.

L’obbligo di controllo della produzione
Viene introdotto anche per i dpi di prima categoria il controllo della produzione, aspetto fondamentale su cui la direttiva 89/686 sui dpi era decisamente carente, in quanto si limitava a indicare, quale responsabile della certificazione di questa tipologia di dpi, il fabbricante che la predisponeva “a uso interno” e sotto la propria responsabilità con una semplice dichiarazione di conformità (in precedenza il fabbricante stabiliva autonomamente le caratteristiche da verificare, i requisiti da assicurare eccetera, senza un controllo di produzione, che adesso diventa obbligatorio e da documentare).

I dispositivi “su misura”
Si affronta (finalmente) la delicata questione relativa ai cosiddetti dpi costruiti “su misura”, cioè quelli adattati alla singola persona, quali, ad esempio, gli otoprotettori che vengono costruiti dall’ “impronta” del padiglione auricolare del singolo lavoratore o i guanti costruiti per lavoratori con mani cui mancano delle dita o sono deformate. Finora, questi particolari dpi venivano certificati, ma prodotti con criteri non regolamentati dalla direttiva dpi (nel caso degli otoprotettori) oppure venivano prodotti con criteri non regolamentati dalla direttiva dpi, ma non certificati (nel caso dei guanti). D’ora in poi, con il nuovo regolamento dpi, ci sarà la possibilità di certificare anche queste tipologie di dpi fatti su misura e sulle esigenze del singolo lavoratore, con evidente “sollievo” da parte dei datori di lavoro.

La valutazione dei rischi da parte del fabbricante
Il fabbricante è tenuto, d’ora in poi, a effettuare una valutazione dei rischi, al fine di individuare, nel dettaglio, quelli che riguardano il singolo dpi con conseguente obbligo di progettare e fabbricare il dispositivo tenendo conto di questo tipo di analisi. Analogamente a quanto già introdotto nella “direttiva macchine”, in queste attività lo stesso il fabbricante deve considerare, non solo l’uso previsto del dpi, ma anche gli usi ragionevolmente prevedibili e/o impropri.

L’invecchiamento del prodotto
A riguardo dell’annosa questione relativa ai dpi soggetti a invecchiamento (ovvero, nel caso in cui sia noto che le prestazioni di progetto di un nuovo dpi possono deteriorarsi notevolmente con l’invecchiamento), il regolamento indica precise modalità di apposizione della data di scadenza e di indicazione delle istruzioni/ informazioni necessarie a consentire all’acquirente o all’utilizzatore di determinare la scadenza ragionevole in relazione al livello di qualità del dispositivo e alle condizioni effettive di immagazzinaggio, di impiego, di pulizia, di revisione e di manutenzione, compresa l’indicazione del numero massimo di operazioni di pulitura al di là del quale è opportuno revisionare o sostituire il dpi.

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Sistemi di fabbricazione: chi deve integrarli?

Il primo passo da compiere è la valutazione dei rischi d’impianto.

Come deve comportarsi un’azienda che vuole installare una linea di produzione? Di chi è l’onere di certificare che l’insieme di macchine e quasi-macchine è assemblato in maniera corretta? Sotto la lente di ingrandimento il ruolo e gli obblighi dell’assemblatore.

In molte aziende, grandi e piccole, è facile trovare uno o più sistemi di fabbricazione integrati: insiemi di più macchine o quasi-macchine che svolgono, una dopo l’altra, una serie di passaggi. Un sistema di fabbricazione integrato non è solo una linea di produzione automobilistica: può anche essere il processo automatizzato di un piccolo produttore di vernici, di un impianto di produzione alimentare, di un sistema automatico per la gestione del magazzino: tante diverse apparecchiature che svolgono ciascuna operazioni elementari, ma che tutte insieme portano a compimento un processo intero.

Ma a chi spetta l’onere di certificare tutto l’impianto? E quali regole deve seguire il sistema intero?

Normativa di riferimento

Sono diverse le norme che possono aiutare ad adempiere correttamente ai requisiti di legge; prima fra tutti la “direttiva macchine” (direttiva europea 2006/42/ Ce del 17 maggio 2006, recepita dal D.Lgs. n. 17/2010) che definisce i requisiti essenziali di salute e sicurezza di ogni macchina, durante tutto il ciclo di vita della macchina stessa (progettazione, costruzione, installazione, utilizzo), e il D.Lgs. n. 81/2008 per quanto riguarda la salute e la sicurezza dell’operatore che andrà a interagire con il sistema stesso. Altra norma di riferimento è la Uni En Iso 11161:2010, che specifica i requisiti di sicurezza per i sistemi che comprendono più macchine interconnesse tra loro.

Le quasi-macchine
In base alla direttiva 2006/42/Ce, una quasi- macchina è un sistema che, da solo, non è in grado di portare a compimento una determinata applicazione. Per questo motivo, la quasi-macchina dev’essere assemblata ad altre macchine per poter svolgere la sua funzione. Questa discriminante può non essere banale.
Per esempio, una pressa imbutitrice che dev’essere caricata da un operatore (quindi, non alimentata da altre macchine) è una
macchina in grado di funzionare in modo autonomo.
Al contrario, una pressa che ha bisogno di un sistema di carico e scarico automatico delle lamiere da imbutire è, se considerata a sé, una quasi-macchina. Naturalmente, gli adempimenti a carico del fabbricante per le quasi-macchine sono diversi da quelli (più noti) per le macchine. Le principali differenze possono essere così riassunte:
• le quasi-macchine non devono recare il marchio Ce;
• le quasi-macchine non devono essere accompagnate da dichiarazione di conformità, ma da dichiarazione d’incorporazione ai sensi dell’allegato II, lettera b), della direttiva 2006/42/Ce;
• le quasi-macchine devono essere accompagnate da istruzioni per l’assemblaggio, sulla base delle indicazioni dell’allegato VI alla direttiva 2006/42/Ce.
Il limite di batteria tra macchina e quasi-macchina ha anche risvolti pratici, in termini di oneri e responsabilità del fabbricante.
Per esempio, non è consentito far figurare come quasi-macchine macchine complete ma prive di misure di sicurezza, come i ripari per parti in movimento.

Il ruolo dell’assemblatore
Per realizzare un sistema di fabbricazione integrato, diverse macchine o quasi-macchine devono essere assemblate: queste devono essere montate e comandate in modo da funzionare insieme. Il fatto che tutte le macchine o unità costitutive dell’insieme siano governate da un sistema di comando comune fa sì che la normativa attribuisca
responsabilità importanti all’assemblatore del sistema. Questa figura riveste, per gli insiemi di macchine, un ruolo analogo a quello del fabbricante nel caso di una singola macchina.
L’assemblatore sarà responsabile, quindi, della costituzione del fascicolo tecnico di linea, della conformità all’allegato I, della fornitura del manuale d’uso e manutenzione d’impianto, della marcatura Ce e dell’elaborazione della dichiarazione di conformità per l’insieme di macchine.
Il primo, forse il più importante, dei passi da compiere per portare a termine questi compiti è la valutazione dei rischi d’impianto.
Infatti, come stabilito nella Uni En Iso 11161:2010 (par. 4.4), l’assemblatore deve valutare attentamente i rischi generati dall’integrazione delle varie unità, inclusi quelli che derivano da modifiche che devono essere apportate alle
singole macchine affinché queste possano interfacciarsi. Si consideri il caso di un robot antropomorfo usato per caricare e scaricare pezzi dal mandrino di macchina a controllo numerico: in fase di assemblaggio, al fine di evitare un clash con altre strutture/ macchine/operatori, potrebbe rendersi necessario modificare la posizione di installazione di un riparo fisso sulla macchina utensile. In questo caso, spetterà all’assemblatore
valutare i rischi e adottare le misure opportune. Oppure si potrebbe perimetrare l’isola con un riparo fisso posto a una
distanza sufficiente. Per l’ingresso di operatori in manutenzione sono di solito previsti dei cancelli interbloccati: non appena
l’operatore accede all’isola, la lavorazione si arresta.
Chiaramente questa analisi andrà fatta solo sui tipi di rischio per i quali risulta applicabile.

Il collaudo
Fondamentale è anche la fase di collaudo: l’assemblatore dovrà verificare, infatti, che nel suo complesso l’impianto sia in linea con la direttiva 2006/42/Ce, in particolar modo con i requisiti essenziali di sicurezza stabiliti nell’allegato I.
Per esempio, i circuiti di comando che svolgono funzioni di sicurezza dovranno essere progettati e costruiti come previsto
dalle norme En Iso 13849-1:2016 ed En Iso 13849-2:2013. Per questo motivo il rapporto di collaudo delle misure di protezione, con eventuali evidenze o fotografie, dovrà essere incluso nel fascicolo tecnico di linea.

Formazione e informazione
Come per ogni macchinario o sistema dilavoro, ogni lavoratore dovrebbe essere informato riguardo a:
• il funzionamento del sistema nel suo insieme, in particolar modo alla propria mansione e alle caratteristiche di funzionamento della propria stazione di lavoro;
• come intervenire per la manutenzione ordinaria (se richiesto al lavoratore);
• come intervenire e cosa fare/non fare in caso di emergenza.
Una cosa di primaria importanza sono i sistemi di arresto di emergenza – essendo il sistema composto da più macchine e quasi-macchine, è importante che il lavoratore conosca con esattezza cosa fermano i diversi pulsanti a “fungo rosso” di emergenza: ogni macchina ha il proprio pulsante di arresto di emergenza, che però ferma solo la macchina stessa, e non l’intero sistema. Diventa importante, quindi, poter riconoscere cosa ferma una parte o tutto il sistema, in modo che il lavoratore non si trovi a partecipare a una disperata “caccia al tesoro” in situazioni di emergenza: il momento peggiore per far formazione è proprio durante le emergenze.
Infine, istruzioni scritte sul corretto funzionamento del sistema di fabbricazione integrata dovrebbero essere a disposizione di chiunque ne faccia richiesta.

Documentazione
Compito dell’assemblatore è anche quello di produrre una serie di documenti, inerenti al sistema integrato.
In particolare, i principali documenti da produrre sono:
• il manuale di uso e manutenzione del sistema di fabbricazione integrato;
• i manuali di uso e manutenzione delle singole macchine e quasi-macchine del sistema;
• i manuali di uso e manutenzione dei sistemi di sicurezza del sistema
• il fascicolo tecnico di linea;
• la dichiarazione di conformità all’allegatoI alla direttiva macchine;
• la dichiarazione di incorporazione e di assemblaggio delle quasi-macchine;
• il layout generale del sistema;
• gli schemi elettrici, pneumatici e idraulici delle connessioni tra le diverse macchine e sottosistemi;
• il rapporto di prova del rumore emesso;
• il rapporto di prova relativo alla continuità di messa a terra;
• il rapporto di collaudo del sistema e dei relativi sistemi di sicurezza.

Conclusioni
L’assemblaggio e l’eventuale modifica di una linea produttiva deve essere fatto in conformità con i requisiti della normativa vigente. L’assemblatore non ha solo il mero ruolo di “mettere assieme un puzzle di macchine e di quasi-macchine”, ma ha il dovere di certificare che tutto il sistema sia funzionale e in piena sicurezza. Diventa il vero responsabile del corretto
funzionamento dell’impianto e, a fronte di ogni modifica, è sempre l’assemblatore a dover certificare nuovamente il sistema di fabbricazione integrato.
Queste valutazioni sono peraltro destinate a rivestire importanza sempre maggiore, crescendo di pari passo con la diffusione
dei sistemi di produzione integrati.

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Rls: il diritto di accesso alla documentazione

Finalmente raggiunto uno degli obiettivi del testo unico: la diffusione della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Ma la stessa norma ha favorito la diffusione di situazioni conflittuali tra questa figura e quelle apicali della prevenzione.
Vediamo nel dettaglio cosa succede.

A circa dieci anni dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, uno degli obiettivi prefissati dal legislatore nel riformare la disciplina antinfortunistica è stato, almeno in parte, raggiunto: realizzare la più ampia diffusione nel tessuto economico della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (rls); in effetti, già con l’art. 9 della legge n. 300/1970 (cosiddetto “statuto dei lavoratori”), sono state buttate giù le prime basi su cui sono stati costruiti i diritti dei lavoratori di partecipazione e di controllo in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Questa norma, però, si limita a consentire ai lavoratori la costituzione di una rappresentanza in questo ambito sulla base di un modello collaborativo, non necessariamente di matrice sindacale, il quale, tuttavia, è rimasto per lungo tempo solo sulla carta; solo con la direttiva quadro 89/391/ Cee è arrivato un nuovo forte impulso per la diffusione reale di questi diritti, con l’imposizione agli stati membri dell’adozione di strategie marcatamente partecipative nella gestione aziendale della sicurezza. Questo indirizzo comunitario è stato trasfuso, prima, nel D.Lgs. n. 626/1994 e, successivamente, confermato nel D.Lgs. n. 81/2008; il modello di riferimento si basa, quindi, su relazioni non conflittuali che attribuiscono al rls una serie di prerogative elencate nell’art. 50 di quest’ultimo decreto, tra le quali spiccano in particolare quelle concernenti il potere di accedere alla documentazione aziendale e alle informazioni sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro.

Proprio l’attribuzione al rls di questo potere determina, però, in molte realtà aziendali, alcune tensioni, anche molto forti, tra questa figura e quelle apicali della prevenzione – datore di lavoro, dirigente, rspp – in ordine sia alle modalità di esercizio che al suo oggetto; paradossalmente, mentre il modello relazionale è improntato, almeno formalmente, alla cooperazione, a ben vedere è lo stesso legislatore a favorire la diffusione di situazioni conflittuali.
Nel D.Lgs. n. 81/2008, infatti, se da un lato è riconosciuto espressamente al rls il diritto di accesso alla documentazione aziendale, dall’altro il legislatore non ha specificato compiutamente almeno i suoi contenuti fondamentali attribuendo alla contrattazione collettiva il delicato compito di provvedere a questo (art. 50, comma 1).
Tuttavia, l’autonomia collettiva ha scarsamente regolamentato questa materia – concentrando prevalentemente l’attenzione sui permessi, l’elezione, la durata dell’incarico eccetera – anche se non mancano casi “virtuosi” come quello del Ccnl metalmeccanici, recentemente rinnovato, che detta norme specifiche in merito.

Consultare le informazioni
Questa criticità deriva, peraltro, anche dalla formulazione alquanto generica presente nell’art. 50, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale il datore di lavoro è tenuto a fornire al rls «le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali». Non c’è dubbio che si tratta, quindi, di un autentico diritto riconosciuto dal legislatore al rls che si pone in funzione strumentale e preordinata all’esercizio dei compiti di partecipazione e di controllo e come tale è circoscritto solo alle informazioni e ai documenti relativi alla salute e sicurezza sul lavoro; tuttavia, questa norma presenta molteplici ambiguità tali da generare strained relations, ereditate dall’art. 19, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 626/1994, in quanto non è precisato in che cosa consiste esattamente il cosiddetto “accesso” e le modalità per il suo esercizio salvo che per il documento di valutazione dei rischi (dvr) e il documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (duvri) per effetto delle specifiche disposizioni contenute ai commi 4 e 5 dell’art. 50, e nell’art. 18, comma 1, lettere o) e p), del D.Lgs. n. 81/2008.

Il legislatore ha attribuito in materia un fondamentale ruolo regolamentare alla contrattazione collettiva ma, a dire il vero, le disposizioni dell’accordo interconfederale 22 giugno 1995 siglato tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, che ha ispirato anche altri protocolli in diversi ambiti, si limitano solo a richiamare i principi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 626/1994, ora riprodotti in modo pressoché pedissequo nell’art. 50. Inoltre, lo stesso legislatore ha utilizzato terminologie differenti in quanto, mentre nell’art. 50, comma 1, lettera e), si parla genericamente di “documentazione”, nei commi 4 e 5 dell’art. 18 è utilizzato il termine “documento” con riferimento, appunto, al dvr e al duvri.
Occorre osservare che secondo un’autorevole dottrina – ancora attuale anche se relativa alla disciplina previgente del D.Lgs. n. 626/1994 – appare plausibile ritenere che queste due disposizioni, in effetti, fanno riferimento a «due fattispecie diverse: da un lato il RLS ha in ogni momento, di sua iniziativa, il diritto di accesso alle informazioni e alla documentazione in oggetto, dall’altro conserva in ogni caso il diritto di ricevere dal datore di lavoro tale documentazione»; viceversa, invece, altra cosa «è il diritto di accesso al “documento” – e non alla “documentazione” – sulla valutazione dei rischi di cui all’art. 4, 2° e 3° C., D.lgs. n. 626/1994. Il documento di cui al 5° C., è infatti l’atto finale, il risultato della valutazione dei rischi, mentre la “documentazione” di cui alla lett. e), 1° C., è tutto ciò che viene prodotto nello svolgimento della valutazione dei rischi».

Un altro aspetto di notevole rilevanza, che per completezza occorre evidenziare, è che nell’art. 50 è riconosciuto il diritto di accesso, non solo alla documentazione, ma anche alle informazioni attinenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; infatti, il rls ha il potere di chiedere e ottenere determinate informazioni come, per esempio, quelle relative ai costi per la sicurezza che devono essere riportati nei singoli contratti di appalto, subappalto e somministrazione (art. 26, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008) o agli infortuni sul lavoro [art. 50, comma 2, e art. 18, comma 1, lettera r), del D.Lgs. n. 81/2008].

Appare chiaro, comunque, che l’accesso si concretizza nella consegna materiale di documenti e nella comunicazione d’informazioni relativi alla valutazione dei rischi e all’adozione delle misure di prevenzione e protezione; da questo ambito ne restano esclusi, pertanto, documenti come, per esempio, l’atto costitutivo, le scritture contabili, i contratti per l’affidamento di opere e servizi, i preventivi eccetera, e ogni altro documento e informazione che non sia direttamente rilevante ai fini della salute e sicurezza sul lavoro.

Elenco dei principali documenti aziendali sui quali il rls ha il diritto di accesso

Documento di valutazione dei rischi (artt. 17 e 28);

documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (art. 26);

piano operativo di sicurezza (art. 96);

verbale di riunione periodica di prevenzione (art. 35);

schede di sicurezza delle sostanze e delle miscele pericolose [art. 50, comma 1, lettera e)];

libretti d’uso e di manutenzione delle attrezzature di lavoro [art. 50, comma 1, lettera e)];

comunicazione e denuncia d’infortunio [artt. 18 e 50, comma 1, lettera e)];

denuncia di malattia professionale (art. 50, comma 1);

registro degli infortuni (art. 53)*;

stampa delle schermate dell’applicativo “Cruscotto infortuni”**;

registro degli esposti ad agenti cancerogeni e mutageni (art. 243);

notifica dei lavori comportanti l’esposizione all’amianto (art. 250);

piano di lavoro delle attività di demolizione o di rimozione dell’amianto o di materiali contenenti amianto da edifici, strutture, apparecchi e impianti, nonché dai mezzi di trasporto (art. 256);

registri degli esposti ad agenti biologici e degli eventi accidentali (art. 280).

La scelta sul formato, cartaceo o su supporto informatico, della vdr è rimessa allo stesso rappresentante dei lavoratori”.

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Dal Ministero il nuovo decreto sulle sanzioni per salute e sicurezza sul lavoro

Disponibile sul sito istituzionale dell’Ispettorato nazionale del lavoro il decreto direttoriale n. 12 del 6 giugno 2018 – inerente la rivalutazione delle sanzioni concernenti le violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Era stato annunciato sulla gazzetta ufficiale di ieri con un avviso del Ministero del Lavoro.

Il decreto prevede la rivalutazione dell’1,9% -a decorrere dal 1 luglio 2018- delle ammende previste con riferimento alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 nonché da atti aventi forza di legge.

Ricordiamo che la suddetta rivalutazione avviene ogni cinque anni con decreto del direttore generale della Direzione generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in misura pari all’indice ISTAT dei prezzi al consumo previa arrotondamento delle cifre al decimale superiore, come riportato anche all’art. 306 comma 4 bis, del Testo unico di Sicurezza

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Gasolio agricolo, la nuova normativa sui distributori aziendali

Sono entrate in vigore le nuove regole sui contenitori non interrati di carburante per uso aziendale fino a nove metri cubi di capienza: le novità e le caratteristiche tecniche e la normativa di riferimento

È entrato in vigore con il 2018 il decreto del ministero dell’Interno che stabilisce le nuove caratteristiche tecniche e le norme di installazione dei contenitori distributori di gasolio per uso aziendale.
L’obiettivo, come dichiarato nel testo del decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 novembre 2017, è quello di ridurre al minimo i rischi di fuoriuscita accidentale, di permettere un agevole accesso ai mezzi dei vigili del fuoco e di limitare eventuali danni alle cose, alle persone e all’ambiente.
Il decreto riguarda i contenitori che fungono anche da distributori messi fuori suolo e di capacità massima non superiore a nove metri cubi.

Le principali novità riguardano la necessità di avere un tubo di sfiato di 2,40 metri di altezza dal piano di calpestio e di avere una vasca di sicurezza per la raccolta di eventuali sversamenti che abbia una capacità del 110% rispetto al volume del serbatoio e non più del 50% o del 100% come previsto dalle precedenti normative.
Andando nel dettaglio delle caratteristiche richieste dal nuovo decreto, la capacità massima di nove metri cubi può essere raggiunta anche con più serbatoi più piccoli posizionati vicini, ma comunque a una distanza minima di almeno 80 centimetri. In ogni caso i contenitori non devono essere riempiti per più del 90% della loro capacità massima.

Caratteristiche del contenitore
I contenitori devono avere una doppia parete o in alternativa avere una vasca di raccolta che come detto deve avere una capienza del 110% rispetto alla capacità del serbatoio. Nel caso sia presente la vasca di raccolta, tutta la struttura deve essere coperta da una tettoia di materiale non infiammabile che protegga la vasca dalla pioggia e da altre precipitazioni che possano riempirla.

I contenitori devo essere forniti di un apposito sfiato alto 2,40 metri dal piano di calpestio e che resti distante almeno 1,5 metri da abitazioni o da depositi di materiale infiammabile. Inoltre, se la struttura è provvista di parti elettriche deve essere messa a terra secondo le normative in vigore.
Su ogni contenitore deve essere presente un targa con scritti: il nome e i recapiti del costruttore, il numero di matricola, il materiale di cui sono fatti e il suo spessore, la capacità massima, la pressione di collaudo e gli estremi dell’atto di autorizzazione.

Luogo di installazione
Riguardo al posizionamento, i contenitori devono essere posti in piano, e comunque mai sopra locali chiusi o terrazze e ad una distanza minima di cinque metri da depositi e magazzini e di dieci metri da abitazioni o locali frequentati abitualmente da persone.
I contenitori devono essere messi in una zona facilmente accessibile ai mezzi e agli operatori dei vigili del fuoco, e in una zona aperta in modo che non si formino atmosfere esplosive.
L’area per almeno tre metri introno al contenitore inoltre deve essere sgombra di qualsiasi materiale e priva di vegetazione che potrebbe costituire materiale infiammabile in grado di propagare un eventuale incendio.
È possibile mettere i contenitori in appositi box prefabbricati, che abbiano uno spazio tra le pareti e il serbatoio in grado di garantire l’accesso per la manutenzione e l’ispezione. I box devono essere dotati di una o più aperture permanenti di aerazione la cui superficie non deve essere inferiore ad 1/30 di quella in pianta, che possono essere protette da reti e alette antipioggia a condizione che non venga ridotta la superficie netta di aerazione prevista.

Estintori
Vicino ad ogni contenitore devono esserci almeno due estintori dimensionati in base alla capacità del gasolio contenuto e per i serbatoi più grandi di sei metri cubi è necessario anche uno specifico estintore a carrello.

Segnaletica
Nelle vicinanze devono esserci gli appositi cartelli che segnalino il pericolo di incendio e il divieto di uso di fiamme libere e di avvicinamento da parte di estranei.
Inoltre deve essere presente un cartello che indichi le norme di comportamento in caso di emergenza, i recapiti telefonici dei vigili del fuoco e, se presente, della ditta responsabile della gestione e della manutenzione.

Esenzioni
Sono esentati i serbatoi già esistenti che siano in possesso di atti abilitativi riguardanti anche i requisiti di sicurezza antincendio, rilasciati dalle autorità competenti secondo la normativa prevista.
Sono esentati anche gli impianti che abbiano il certificato di prevenzione incendi in corso di validità o siano stati dichiarati con l’apposita Scia o siano stati pianificati con un progetto approvato dal comando provinciale dei vigili del fuoco, come previsto da Dpr 151 del 2011.
Per verificare la conformità dei contenitori già presenti in azienda si consiglia di rivolgersi a professionisti specializzati, anche presso studi o associazioni di categoria, o ai vigli del fuoco.

Fonte: © AgroNotizie

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Emissioni: tutte le novità a riforma della legislazione

Al via il recepimento della direttiva sugli impianti medi di combustione.

Il D.Lgs. n. 183/2017 precisa anche gli aspetti di coordinamento con la normativa sulle autorizzazioni ambientali, ovvero l’Aia e l’Aua, e introduce, per la prima volta, una disciplina specifica e dettagliata per le fuoriuscite odorigene in atmosfera causate dagli stabilimenti

Sulla Gazzetta Ufficiale del 16 dicembre 2017, n. 293 è stato pubblicato il decreto legislativo 15 novembre 2017, n. 183 relativo agli impianti di combustione medi, nonché al complessivo riordino del quadro normativo riguardante gli stabilimenti che producono emissioni nell’atmosfera. Il provvedimento è stato emanato dal Governo a seguito della delega parlamentare contenuta nell’art. 17, legge 12 agosto 2016, n. 170.

Visione d’insieme del provvedimento

Tre diversi gruppi di disposizioni sono contenuti nel decreto legislativo 15 novembre 2017, n. 183:

  • con il primo gruppo è stata recepita la direttiva 2015/2193 del Parlamento europeo e del Consiglio sugli impianti medi di combustione;
  • con un secondo gruppo è stata rivisitata nel suo complesso la disciplina degli impianti che possono emettere emissioni in atmosfera;
  • un ultimo gruppo riguarda gli impianti termici civili di potenza termica nominale inferiore a MW 3.

La definizione

«gg-bis) medio impianto di combustione: impianto di combustione di potenza termica nominale pari o superiore a 1 MW e inferiore a 50MW, inclusi i motori e le turbine a gas alimentato con i combustibili previsti all’allegato X alla Parte Quinta o con le biomasse rifiuto previste all’allegato II alla Parte Quinta.

Un medio impianto di combustione è classificato come:

1) esistente: il medio impianto di combustione messo in esercizio prima del 20 dicembre 2018 nel rispetto della normativa all’epoca vigente o previsto in una autorizzazione alle emissioni o in una autorizzazione unica ambientale o in una autorizzazione integrata ambientale che il gestore ha ottenuto o alla quale ha aderito prima del 19 dicembre 2017 a condizione che sia messo in esercizio entro il 20 dicembre 2018;

2) nuovo: il medio impianto di combustione che non rientra nella definizione di cui al punto 1)».

La nuova specifica disciplina per le emissioni odorigene

Per la prima volta, il provvedimento in esame introduce una nuova e dettagliata disciplina delle emissioni odorigene. Il (completamente nuovo) art. 272-bis, D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce, infatti, che «La normativa regionale o le autorizzazioni possono prevedere misure per la prevenzione e la limitazione delle emissioni odorigene degli stabilimenti di cui al presente titolo». Si riconosce, dunque, il rilievo del problema, pur affidandone la concreta regolamentazione alla disciplina regionale (sono curiosamente dimenticate le province autonome) o alla disciplina contenuta, caso per caso, nell’autorizzazione. L’art. 272-bis, tuttavia, fornisce alcuni esempi in merito ai possibili contenuti della disciplina regionale o delle prescrizioni autorizzatorie in tema di odori. Esse possono perciò contenere, ove opportuno anche alla luce delle caratteristiche degli impianti, delle attività presenti nello stabilimento e delle caratteristiche della zona interessata:

a) valori limite di emissione espressi in concentrazione (mg/NmÑ) per le sostanze odorigene;
b) prescrizioni impiantistiche e gestionali e criteri localizzativi per impianti e per attività aventi un potenziale impatto odorigeno, incluso l’obbligo di attuazione di piani di contenimento;
c) procedure volte a definire, nell’ambito del procedimento autorizzativo, criteri localizzativi in funzione della presenza di ricettori sensibili nell’intorno dello stabilimento;
d) criteri e procedure volti a definire, nell’ambito del procedimento autorizzativo, portate massime o concentrazioni massime di emissione odorigena espresse in unità odorimetriche per le fonti di emissioni odorigene dello stabilimento;
e) specifiche portate massime o concentrazioni massime di emissione odorigena espresse in unita’ odorimetriche per le fonti di emissioni odorigene dello stabilimento».

Se si pensa che, sino ad oggi, le emissioni odorigene si consideravano disciplinate prevalentemente da una arcaica disposizione del codice penale (art. 674 c.p. «Getto pericoloso di cose»), si può comprendere la portata di questa innovazione.

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Bando INAIL ISI 2017

Scadenza: Dal 19 Aprile 2018 ed entro e non oltre le ore 18.00 del 31 Maggio 2018

Destinatari dei finanziamenti:

  1. Progetti di investimento;
  2. Progetti per l’adozione di sistemi per la riduzione del rischio da movimentazione manuale dei carichi;
  3. Progetti di bonifica da materiali contenenti amianto;
  4. Progetti per micro e piccole imprese operanti in settori specifici, quali lavorazioni del legno e materiali ceramici;
  5. Progetti per le micro e piccole imprese agricole, e giovani agricoltori

Tutte le imprese, anche in forma di ditte individuali, ubicate su tutto il territorio nazionale ed iscritte alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura”. Le aziende del punto 4 possono partecipare soltanto con progetti inerenti il proprio settore, come il comparto agricolo può aderire al solo al settore specificato nel punto 5.

Finanziamento: I finanziamenti previsti dal bando INAIL 2017 vengono concessi in conto capitale e sono pari al 65% dell’investimento ammesso, al netto dell’ IVA, nel limite minimo di 5000€ e massimo di 130.000 euro (finanziato per una spesa totale di 200000€) per impresa, mentre per i progetti del punto 4 il limite minimo è di 2000€ ed un massimo erogabile di 50.000 euro. Per il punto 5 il limite minimo è di 2000€ mentre il massimo erogabile è pari a 60.000 euro.

Requisiti richiesti: Al fine di accedere ai finanziamenti INAIL 2017 per gli investimenti in spese sulla salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, è previsto che i soggetti richiedenti soddisfino i seguenti requisiti:

  • essere in possesso delle credenziali INAIL per l’accesso ai servizi on line
  • possesso dell’unità produttiva per la quale si richiede il finanziamento nel territorio della Regione/Provincia presso cui viene fatta domanda (per le imprese di armamento la sede produttiva coincide con la nave e la sede INAIL sarà la sede regionale);
  • iscrizione presso il Registro delle Imprese o all’albo degli artigiani;
  • essere nel libero e pieno esercizio dei propri diritti;
  • essere in regola con gli obblighi contributivi ed assicurativi previsti dal DURC;
  • non aver richiesto, per lo stesso progetto, altri contributi finanziari di natura pubblica salvo che si tratti di interventi pubblici di garanzia sul credito (vedi, ad esempio, quelli relativi alla legge 6625/1996);
  • non aver superato il tetto di aiuti «de minimis» nell’ arco dei tre esercizi precedenti.

Soluzioni tecniche:

  • Ristrutturazione o modifica degli ambienti di lavoro, compresi gli eventuali interventi impiantistici collegati,
  • Acquisto di macchine (con sostituzione laddove richiesto dalla specifica tipologia intervento)
  • Acquisto di dispositivi per lavoro in ambienti confinati
  • Acquisto e installazione di sistemi di ancoraggio anche permanenti
  • Installazione, modifica o adeguamento di impianti elettrici, aspirazione o trattamento acque reflue

 

 

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Comunicazione infortuni: prime istruzioni operative

Deve essere effettuata on line entro 48 ore dalla ricezione del certificato medico.

Modalità tecnico-operative di trasmissione, istruzioni per alcuni settori particolari, disciplina sanzionatoria: questi alcuni dei temi oggetto di chiarimento della circolare Inail n. 42/2017.

Uno dei profili più innovativi e apprezzabili del D.Lgs. n. 81/2008 è certamente la previsione di un sistema istituzionale finalizzato a una più efficace prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali attraverso un meccanismo in cui l’integrazione tra i diversi enti pubblici di vigilanza e di assistenza e l’informatizzazione ne sono le componenti fondamentali; in questa ottica si colloca il nascente sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (sinp) previsto dall’art. 8, ossia la nuova “anagrafe della sicurezza sul lavoro” che ha preso corpo con il decreto dei ministeri del Lavoro e della Salute 25 maggio 2016, n. 183.

Con l’emanazione di questo provvedimento occorre ricordare che, però, ha trovato attuazione anche l’obbligo di comunicazione all’Inail degli infortuni con assenza di almeno un giorno secondo quanto stabilito dall’art. 18, comma 1, lettera r), del D.Lgs. n. 81/2008, che confluisce proprio nel sinp; di questo adempimento in passato se n’è già discusso molto per quanto riguarda l’entrata in vigore e gli aspetti operativi, tant’è vero che il ministero del Lavoro è stato costretto a intervenire per ben due volte, prima con la nota 21 maggio 2008, prot. n. 6587, e, successivamente, con la circolare 12 maggio 2009, n. 19. Occorre subito precisare che, in effetti, questo adempimento doveva già essere vigente dallo scorso 12 aprile 2017, poi, per effetto della legge n. 19/2017, il legislatore ha deciso di concedere una proroga di sei mesi soprattutto per dare più tempo per la messa a punto del sinp e, sia pure sul filo di lana, l’Inail, con la circolare 12 ottobre 2017, n. 42, ha fornito, non senza sbavature, una serie d’interessanti chiarimenti sul campo applicativo, sulle esclusioni, sulle modalità tecnico–operative di trasmissione, sulle istruzioni per alcuni settori particolari, sul certificato medico, sul cruscotto infortuni, sulla disciplina sanzionatoria nonché sugli organi competenti ad accertare gli illeciti.

I soggetti obbligati e i casi di esclusione

Scendendo nel dettaglio dei profili più significativi di questo regime occorre soffermarsi, in primo luogo, sui soggetti che hanno l’obbligo della presentazione della comunicazione che, è bene premettere, è prevista ai meri fini statistici e informativi per garantire, alle istituzioni impegnate nel campo della prevenzione, una visione più completa delle dinamiche del fenomeno infortunistico, includendo anche quegli eventi che hanno comportato conseguenze per il lavoratore di lieve entità che, fino a oggi, sono rimasti nel sommerso dando, così, anche maggior vigore al “registro infortuni” telematico. L’art. 18, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, individua nel datore di lavoro, sia privato che pubblico, il soggetto obbligato in via principale alla presentazione della comunicazione all’Istituto assicuratore; l’adempimento ricade, quindi, sul soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.

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Raee: la classifica italiana dei primi 500 sottoscrittori

La raccolta nazionale ha fatto segnare un +7,49% nel primo semestre 2017.

I dati del rapporto annuale a cura del “Centro di Coordinamento RAEE”, hanno evidenziato, nel 2016, una crescita a doppia cifra pari al 14%.

Nel mese di marzo è stata pubblicata la nona edizione del rapporto annuale sul ritiro e trattamento dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, nel quale il Centro di Coordinamento RAEE (CdC RAEE) ha evidenziato una crescita a doppia cifra (+14%) della raccolta 2016. I dati del primo semestre 2017 confermano l’andamento positivo della raccolta, registrando un aumento del 7,49% rispetto allo stesso periodo del 2016.

A seguire è presentata la classifica dei primi 500 sottoscrittori iscritti al Cdc raee che, nel primo semestre del 2017, si sono distinti per i quantitativi raee raccolti per ognuno dei 5 raggruppamenti (vedi figura sotto), dando evidenza della variazione percentuale rispetto all’anno precedente.

Nel complesso i 500 soggetti iscritti al CdC RAEE hanno raccolto kg 125.836.026 di apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte a fine vi ta, a fronte dei 140.634.192 totali raccolti sul territorio italiano sempre nello stesso periodo gennaio – giugno 2017.
I sottoscrittori sono coloro che hanno perfezionato l’iscrizione al CdC RAEE e assicurano la disponibilità dei propri centri di raccolta al conferimento dei rifiuti elettrici ed elettronici giunti a fine vita da parte dei cittadini, distributori, installatori e centri di assistenza tecnica.

In particolare, i sottoscrittori si impegnano a ricevere tutti i raee provenienti da utenze domestiche indipendentemente dalla loro provenienza territoriale, a condizione che rispettino le normative vigenti. Pur trattandosi di dati parziali, limitati ai primi sei mesi dell’anno, le performance di raccolta dei sottoscrittori risultano soddisfacenti e coerenti con l’andamento della raccolta 2017, di cui si auspica un ulteriore incremento nella seconda parte dell’anno.

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