Cadute dall’alto in cantiere: le reti di protezione

I dispositivi di protezione collettiva si stanno sempre più diffondendo, ma il loro impiego deve essere valutato con attenzione e nel rispetto di quanto indicato nel D.Lgs. n. 81/2008.

 

La scelta di una rete di sicurezza dipende da diversi fattori, tra cui:

  1. l’altezza da cui può cadere il lavoratore rispetto alla posizione della rete di sicurezza;
  2. la presenza di adeguato spazio libero sotto la rete di sicurezza;
  3. le caratteristiche della struttura alla quale viene ancorata la rete;
  4. le modalità con le quali si effettuano gli ancoraggi;
  5. il posizionamento della rete di sicurezza, tale da non creare interferenze con il movimento dei lavoratori e delle macchine.

 

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PREVENZIONE INCENDI NUOVO APPROCCIO, AVANTI TUTTA

Prevenzione incendi: l’azione di rivisitazione dell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 ha riguardato una serie di sezioni di fondamentale importanza della normativa. Obiettivo? Mantenersi al passo con l’evoluzione del progresso e degli standard internazionali. Questi cambiamenti sono il frutto di un attento monitoraggio che ha consentito di individuare i possibili margini di miglioramento su cui intervenire.

 

Con la pubblicazione del decreto 18 ottobre 2018 si rinforza l’azione di semplificazione e razionalizzazione del corpo normativo relativo alla prevenzione degli incendi.

Il decreto 18 ottobre 2019 è il risultato di uno specifico monitoraggio che ha consentito di individuare ambiti di miglioramento delle norme tecniche contenute nell’allegato 1 al D.M. 3 agosto 2015 3 nel quale è contenuto il codice prevenzioni incendi. In particolare, questa azione di rivisitazione delle specifiche tecniche ha riguardato le sezioni G («Generalità»), S (»Strategia antincendio»), V («Regole tecniche verticali»), e la sezione M («Metodi»).

 

 

Credits: Ambiente & Sicurezza

 

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La norma Iso 45001 e l’importanza del contesto

La decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare
a prestazioni d’eccellenza. Ma tutto ciò è possibile se si analizzano gli eventuali “condizionamenti” esterni alla struttura. Il ricorso all’analisi Pest e allo strumento di pianificazione strategica Swot

 

Una delle principali innovazioni introdotte dall’High level structure, sintetizzato in Hsl – lo standard che la Iso si è data per la progettazione dei nuovi sistemi di gestione è quella contenuta al capitolo 4, relativa al contesto dell’organizzazione. Tutti gli standard disegnati secondo l’Hls impongono che le organizzazioni costruiscano i propri sistemi di gestione secondo l’idea che l’organizzazione si fa di se stessa. Non si tratta però di un esercizio solipsista: l’Hls richiede che questa sia analizzata nel suo contesto, specificando che con questo termine si intende il complesso di relazioni che essa intrattiene, magari anche involontariamente, non solo legate al mondo produttivo. Lo standard, infatti, richiede di non limitarsi a considerare il solo ambiente industriale o dove si svolge l’attività dell’organizzazione, ma anche ambiti differenti quali quello sociale, culturale, politico, a seconda di come si vede l’organizzazione stessa. Lo scopo di questo esercizio è definire i fondamenti del sistema di gestione da sviluppare, in maniera che que- sti siano adeguati all’organizzazione, alla sua dimensione e alle aspettative dei suoi leader, che poi sono coloro da cui nasce la volontà di implementarlo. Gli standard emessi secondo l’Hls hanno requisiti molto più dinamici di quanto era previsto in pas- sato, e la comprensione dell’organizzazio- ne e del suo contesto consente l’adozione di sistemi di gestione molto più flessibili. Non dimentichiamo che tanti problemi le- gati alla loro implementazione derivano da quella che viene percepita come una eccessiva burocratizzazione e appesantimento dei processi: potere dimensionare il proprio sistema di gestione sulle rea- li necessità dell’organizzazione può costituire senza dubbio un fattore di successo.

Le finalità
La determinazione dei fattori interni ed esterni pertinenti alle finalità dell’organizzazione, che possano influenzare la capacità di raggiungere i suoi obiettivi, è un’attività che lo standard non ritiene necessario documentare: l’auditor deve desumerne i concetti attraverso incontri e interviste faccia a faccia con il top management. La sua rilevanza per tutto il progetto è però tale da suggerire che sia in qualche modo registrata e resa formale. Nelle migliori applicazioni del metodo sarà la persona incaricata della progettazione del sistema di gestione, interna all’organizzazione o consulente, a intervistare le figure aziendali rilevanti e a svolgere una indagine per questo scopo, allo scopo di realizzare un autoritratto dell’organizzazione, che sia efficace per gli obiettivi del sistema di gestione. È consigliabile che i risultati siano esposti al management aziendale attraverso la condivisione e la illustrazione di una relazione provvisoria, sulla base della quale approfondire e definire i risultati finali. L’«Appendice Informativa – Guida sull’utilizzo del presente documento (lo standard Iso 45001), al capitolo A.4.1 Comprendere l’organizzazione ed il suo contesto», approfondendo l’indicazione della norma di prendere in considerazione sia i fattori interni che quelli esterni, suggerisce che nell’analisi vengano tenute in considerazione, relativamente ai fattori interni:

  • la governance, la struttura organizzativa, i ruoli e le responsabilità;
  • le politiche, gli obiettivi e le strategie attuate per realizzarli;
  • la capacità di perseguire i propri obiettivi, come le risorse, i capitali, il tempo, le risorse umane, le conoscenze e le competenze; i sistemi, le tecnologie e i processi;
  • la gestione dell’informazione e come vengono sviluppati i processi decisionali;
  • l’introduzione di nuovi prodotti, mate- riali, servizi, strumenti, software, locali e attrezzature;
  • le relazioni con i lavoratori, le loro percezioni e i loro valori;
  • la cultura dell’organizzazione;
  • la forma delle prestazioni lavorative, i contratti, gli appalti, le forniture;
  • l’orario di lavoro, inclusi i turni;
  • le condizioni lavorative;
  • i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è una materia definita minuziosamente dal D.Lgs. 81/2008; la decisione di adottare un sistema di gestione per la sicurezza nasce senz’altro dall’intenzione di andare oltre il dettato normativo per puntare a prestazioni d’eccellenza. È una questione perché i risvolti di queste attività possono incidenti e infortuni e avere conseguenze penali. L’approfondimento di un’analisi come quella indicata dalla «Guida alla norma», specie se un’azienda strutturata, è un obiettivo ambizioso già di per sé,e non è detto che i componenti l’organizzazione siano in grado di svolgerla da soli. Un certo grado di incomprensione, di incapacità di decifrare i processi o di legittima ritrosia a evidenziare punti deboli è comprensibile e deve essere messa in conto. Una organizzazione strutturata che intenda affrontare il cam- mino verso l’implementazione di un sistema di gestione secondo la Iso 45001 è consigliabile che coinvolga almeno un consulente esterno, all’interno del gruppo di lavoro, che abbia la funzione di fare emergere queste questioni.
Per quanto riguarda i fattori esterni, la «Guida» suggerisce di valutare:

  • l’ambiente culturale, sociale, politico, legale, finanziario, tecnologico, economico e naturale e del mercato, a livello internazionale, nazionale, regionale e locale;
  • possibili nuovi concorrenti, appaltatori, subappaltatori, fornitori di beni, partner e fornitori di servizi, nuove tecnologie, leggi e l’emergere di nuove professioni;
  • nuove conoscenze sui prodotti e sui loro effetti su salute e sicurezza;
  • fattori chiave e tendenze per il settore di business;
  • relazioni con le parti interessate interne e loro percezioni e valori;
  • e, anche qui, i cambiamenti in relazione a qualsiasi elemento dei precedenti.

Questa lista, naturalmente, deve essere presa come stimolo per l’analisi dell’organizzazione: non è detto che necessariamente tutti questi argomenti debbano essere approfonditi per ciascuna di esse, specialmente in relazione all’estensione territoriale degli interessi dell’azienda o alla sua rilevanza per la politica. In sostanza si tratta di andare a individuare quali possono essere i fattori esterni all’organizzazione, così come quelli interni alla stessa, che possono avere una influenza positiva o negativa, costante o mutevole, sul sistema di gestione della sicurezza che sarà implementato. L’ambiente culturale, ad esempio, può essere considerato un fattore positivo: un milieu avanzato che favorisce il recepimento delle istanze della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Oppure, al contrario, un fattore negativo a causa di un ambiente retrogrado, una situazione in cui ci si imbatte spesso in cui la sopravvalutazione delle capacità personali e la sottovalutazione dei pericoli porti a essere poco ricettivi nei confronti della tutela dei lavoratori. Queste due condizioni si possono verificare alternativamente, quando ad esempio le pratiche di sicurezza sono consolidate a livello di stabilimento o di casa madre e vengono trascurate dal personale in trasferta, magari in altri Paesi in cui questi standard sono più bassi.

Considerazioni di carattere sociale possono riguardare condizioni negative, quando la pressione demografica o il livello di disoccupazione portano a rendere accet- tabili bassi standard di sicurezza. Questo può avvenire sempre, o in particolari situazioni, come ad esempio relativamente ai lavoratori immigrati. Ragionamenti opposti si potranno fare per le condizioni sociali di aree o nazioni in cui viene dato grande valore alla protezione dell’individuo.

Come eseguire le analisi
Lo standard non specifica come debbano essere svolte queste analisi: tra gli strumenti che sono diventati d’uso comune neglianni dalla diffusione di standard per sistemi di gestione basati sull’Hls (lo standard Iso 9001, sicuramente il più diffuso di essi, è stato revisionato nel 2015), sicuramente l’analisi Pest è uno dei metodi più utilizzati. L’analisi Pest, che significa fattori politici, economici, socioculturali e tecnologici, è un metodo formalizzato per ricavare un primo panorama dei fattori esterni relativo allo scenario in cui l’azienda si muove. Non è nulla di speciale, se non un metodo ormai entrato nella consuetudie, per elencare questi fattori. Tra l’altro, nel tempo sono state sviluppate analisi Pestle, che includono i fattori legali, o Destep, con l’integrazione di fattori demografici ed economici, per cui ciascuno è libero di organizzare la sua tabella, perché di ciò si tratta, come meglio crede.

Un altro strumento molto in voga, a supporto di questa attività, è la matrice Swot. La sigla Swot definisce uno strumento di pianificazione strategica il cui obiettivo è analizzare i punti di forza, le debolezze, le opportunità e le minacce, appunto strenghts, weaknesses, opportunities e threats, di un progetto o di una organizzazione.
La matrice Swot, attribuita ad Albert S. Humphrey nell’ambito dei suoi studi allo «Stanford Research Institute», fin qui è uno strumento di immediato impatto visivo, che facilita l’individuazione dei fattori critici. Partendo dall’analisi Pest, che sem- plicemente elenca i fattori da considerare per definire l’indirizzo strategico dell’organizzazione, i risultati vengono incasellati nella matrice Swot, che diventa il punto di partenza per andare ad approfondire il lavoro. Occorre tenere presente, però, che questi fattori vengono solo individuati in maniera più immediata, e che né l’analisi
Pest né quella Swot sono l’analisi dell’organizzazione e del suo contesto vera e pro- pria. Occorre partire da qui per svilupparla: dalla riflessione su questi punti verranno definiti i criteri per progettare il sistema di gestione, specificatamente sulle peculia- rità dell’organizzazione, attraverso i passi definiti dalla norma.
A prima vista il procedimento definito dallo standard sembra particolarmente macchinoso: in realtà l’approccio dall’Hls è molto interessante, perché fornisce uno strumento per approfondire la conoscenza dell’organizzazione che decide di adottare il sistema di gestione, utile per la sua progettazione, ma anche per il business in generale. È l’occasione per abbandonare un approccio totalizzante e velleitario, che ha caratterizzato la fase in cui il possesso di una certificazione era solamente una questione di politica commerciale, e non motivata da una reale volontà di migliorare i processi dell’organizzazione. Non che le cose siano necessariamente cambiate; almeno ora questo non è più un segreto da nascondere (lo ammette la stessa Iso).

La motivazione
In sostanza, il primo passo per la proget- tazione di un sistema di gestione della sicurezza diventa l’analisi della motivazione che è alla base della decisione del top management di intraprendere questo per corso. A questo si unisce un percorso di au- toanalisi che ha lo scopo di definire i punti di partenza e gli obiettivi raggiungibili per il sistema di gestione stesso. Ma la comprensione dell’organizzazione che intende adottare un sistema di gestione e del suo contesto è solo il primo passo per la raccolta delle informazioni necessarie. Parte essenziale di questo processo è il requisito descritto nel capitolo 4.2 «Comprendere le esigenze e le aspettative dei lavoratori e di altre parti interessate», un titolo che modifica leggermente quello dell’originale capitolo dell’Hls, 4.2 «Comprendere le aspettative delle parti interessate». Parte interessata, secondo la definizione dell’Hls, è chiunque può influenzare o essere influenzato o percepire sé stesso come influenzato, da una decisione o da un’attività dell’organizzazione. In questo caso i passi da svolgere sono:

  • identificare quali possono essere le parti interessate;
  • definire quali di esse siano da considerare “rilevanti”, ovvero degne di considerazione. I lavoratori, afferma lo standard, sono per definizione parti interessate dei sistemi di gestione. La decisione di chi altro considerare è una questione che può essere delicata per le grandi organizzazioni, che possono avere a che fare con gruppi di interesse il cui peso politico non corrisponde al reale potere di cui possono disporre direttamente.

Definire quali possano essere le esigenze e le aspettative delle parti interessate individuate, anche qui identificando quali di esse possano essere rilevanti per l’organizzazione.
A un primo livello di analisi sono natural- mente parti interessate, oltre ai lavoratori, le autorità legislative e i rappresentanti dei lavoratori e i sindacati. Comprendere quali sono le esigenze e le aspettative delle prime può essere un esercizio banale, anche se non è sempre detto. L’ingresso di un grande player industriale in zone fino ad allora marginali di un territorio, per esperienza può portare le autorità del posto a maturare aspettative che sono al di là sia delle pratiche localmente accettate che dello stesso standard legislativo, con i conseguenti problemi relazionali e organizzativi. Già relazionarsi con le rappresentanze organizzate dei lavoratori nella fase di progettazione di un sistema di gestione può essere complesso e impegnativo. Comunque l’inclusione di particolari organizzazioni cui riferirsi per il quadro delle esigenze e aspettative, conferma ancora di più l’impostazione della norma. È lecito interrogarsi, almeno nei Paesi nei quali la cultura della sicurezza ha meno impatto, su quali potrebbero essere le aspettative di proprietari, azionisti e magari clienti in relazione alle performance del sistema di gestione della sicurezza, specie se in relazione con altri aspetti più direttamente profittevoli del business Ogni dubbio dovrebbe dissolversi quando leggiamo nell’elenco i servizi sociali, i media, le università e le organizzazioni non governative. In poche parole, la reputazione che una organizzazione vuole avere diventa una base sulle quali progettare il sistema di gestione della sicurezza. Nel definire i criteri con i quali questo sarà sviluppato il, l’organizzazione deve chiedersi che reputazione vuole avere nel proprio ambiente, tra i lavoratori in primis, ma anche tra i soci, i fornitori, i clienti, i vicini di casa, la politica, le banche eccetera.

Per ultimo, il capitolo 4.4 «Sistema di gestione per la SSL», definisce i requisiti generici del sistema, per il quale devono essere definiti le modalità di applicazione e l’integrazione nei processi di business, a garanzia del suo rendimento. Lo standard, come tutti quelli redatti sul modello dell’Hls, si articola in dieci capitoli principali di cui quello oggetto di questa analisi, il quarto, definisce solo alcuni aspetti del Ssl, che sono fondamentali però per la sua corretta articolazione. Il cambiamento di prospettiva, però, è tale da avere ripercussioni strutturali su tutto il Ssl, specie se paragonato a quanto accade con la Bs Ohsas 18001. I temi che sembrano più interessanti sono il combinato disposto di questa visione “radicale” con il requisito del 8.1 «Pianificazione e controllo operativi», che obbligherà le organizzazioni che fanno dell’esternalizzazione dei processi il loro modello di business a ricondurli sotto il controllo del Ssl aziendale. Ma soprattutto, la competen- za sia di chi sarà chiamato a disegnare il sistema sia di chi dovrà verificarlo. Non è più sufficiente, infatti, una generica comprensione dei requisiti legali, ma occorrerà padroneggiare principalmente i processi, e le loro interazioni, in ambiti che vanno oltre il mero aspetto tecnico, presupponendo anche, si potrebbe dire, una profonda esperienza lavorativa e “di vita”, oltre che indubbia fantasia e flessibilità.

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Piccoli trabattelli ora la norma c’è

Attrezzature provvisionali di ridotte dimensioni, dotate di due sole ruote, che possono essere spostate, disassemblate e riconfigurate rapidamente
in ambienti caratterizzati da spazi ristretti o altezze limitate. Quelle grandi, invece, fanno riferimento alla Uni 1004. Vediamo in sintesi quali sono le novità

In molte situazioni di lavoro è assai diffuso l’utilizzo di piccoli trabattelli, attrezzature provvisionali di lavoro che si differenziano dai trabattelli oggetto della Uni En 1004. A differenza di questi ultimi, che presentano generalmente quattro piedini e almeno quattro ruote girevoli, i piccoli trabattelli sono dotati di due sole ruote. Sono generalmente adatti a lavori di breve durata, possono essere spostati, disassemblati e riconfigurati rapidamente in ambienti caratterizzati da spazi ristretti e/o altezze ridotte. Considerate le ridotte dimensioni del piano di lavoro, devono essere usati da parte di una persona alla volta e possono sopportare un carico massimo di 150 kg. Questo carico comprende il peso dell’utilizzatore, degli utensili, delle attrezzature e dei materiali. L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma, recentemente pubblicato come norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova».

I trabattelli sono attrezzature provvisionali non coperte da direttiva specifica e che, quindi, non possono essere marcate Ce. Sono soggetti, comunque, al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (il codice del consumo) parte IV, titolo I «Sicurezza dei prodotti». La norma di riferimento per i trabattelli è la Uni En 1004: 2005 «Torri mobili di accesso e di lavoro costituite da elementi prefabbricati – Materiali, dimensioni, carichi di progetto, requisiti di sicurezza e prestaziona- li» che fu elaborata dal Cen Tc 53 tenendo conto di due presupposti costruttivi:

• i fabbricanti di ponteggi disponevano i ponteggi prefabbricati e non ancorati su quattro piedini dotati di ruote girevoli;
• i fabbricanti di scale a pioli iniziarono la costruzione di torri mobili di accesso e di lavoro con scale in materiali leggeri utilizzando telai di alluminio e ruote girevoli.

La Uni En 1004:2005 nacque dalla esigenza di unificare la produzione di torri mobi- li di accesso e di lavoro che possedessero i necessari requisiti di sicurezza.

La Uni En 1004 si applica alla progettazione di torri mobili di accesso e di lavoro dotate di quattro ruote e costituite da elementi prefabbricati con altezza, riferita alla quota dell’impalcato, da 2,5 m a 12 m (se utilizzate all’interno o non esposte al vento) e da 2,5 m a 8 m (se utilizzate all’esterno o esposte al vento). La norma fornisce linee guida per la scelta delle dimensioni principali e dei metodi di stabilizzazione, i requisiti di sicurezza e prestazionali e alcune informazioni sulle torri complete. L’importanza della Uni En 1004 è esplicitamente riconosciuta dal D.Lgs. 81/2008 all’allegato XXIII, comma a («ll ponte su ruote a torre sia costruito conformemente alla norma tecnica Uni En 1004»).
La Uni En 1004 deve essere utilizzata congiuntamente alla Uni En 1298: 1998 «Torri mobili da lavoro. Regole e linee guida per la preparazione di un manuale d’istruzioni». In alcuni contesti lavorativi, ove per esempio gli spazi sono ristretti e le altezze sono ridotte, l’utilizzo di trabattelli “normali” Uni En 1004 è assai difficoltoso, per cui vengono frequentemente impiegati i piccoli trabattelli.
Sul mercato italiano sono presenti molti piccoli trabattelli che non rientrano nell’am- bito della Uni 1004: 2005.
L’assenza di uno standard specifico sui piccoli trabattelli ha indotto l’Uni ad avviare uno progetto di norma dedicato.

Le versioni “mini”
Esistono numerose attività in cui vengono utilizzate attrezzature provvisionali di lavoro costituite da elementi assemblabili con grande facilità e in un tempo ridotto: hanno ingombri in pianta limitati e possono raggiungere altezze non elevate.

I piccoli trabattelli sono una via di mezzo tra le scale movibili con piattaforma costruite secondo la Uni En 131-7 e i trabattelli Uni En 1004. Hanno un impalcato di dimensioni ridotte con accesso dall’interno o dall’esterno attraverso scale inclinate o verticali a pioli o a gradini. In alcuni piccoli trabattelli le fiancate sono realizzate utilizzando scale portatili come componenti. I piccoli trabattelli non devono essere utilizzati come attrezzatura per accesso ad altra struttura e come punti di ancoraggio ai quali agganciare i dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto. L’utilizzo di questo tipo di attrezzature espone il lavoratore al rischio di caduta dall’alto durante il montaggio, l’uso e lo smontaggio.

Dal punto di vista legislativo, i piccoli trabattelli possono essere definiti “ponti su ruote a torre”, devono quindi rispettare le prescrizioni indicate all’art. 140 del D.Lgs. 81/2008. Nello specifico i “ponti su ruote a torre” devono:

  • avere base ampia in modo da resistere, con largo margine di sicurezza, ai cari- chi e alle oscillazioni cui possono essere sottoposti durante gli spostamenti o per colpi di vento e in modo che non possano essere ribaltati;
  • avere il piano di scorrimento delle ruote livellato;
  • il carico del piccolo trabattello sul terreno deve essere opportunamente ripartito con tavoloni o altro mezzo equivalente;
  • avere ruote saldamente bloccate nella fase di lavoro con cunei dalle due parti o con sistemi equivalenti. In ogni caso, dispositivi appropriati devono impedir- ne lo spostamento involontario durante l’esecuzione dei lavori in quota;
  • avere verticalità controllata con livello o con pendolino;
  • non essere spostati quando su di essi si trovano lavoratori o carichi (esclusi quelli usati nei lavori per le linee elettriche di contatto).

In particolare, i trabattelli devono essere ancorati alla costruzione almeno ogni due piani (cioè almeno ogni quattro metri in al- tezza). È ammessa deroga a quest’obbligo per i ponti su ruote a torre (trabattelli Uni En 1004 che hanno “stabilità propria” attestata dal suparamento di prove sperimentali e corredati di manuale di istruzioni sul corretto montaggio, uso e smontaggio, che sia conforme alla Uni En 1298).
La nuova norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» stabilisce requisiti dimensionali, di sicurezza e i metodi di prova per i piccoli trabattelli su due ruote con l’altezza del piano di lavoro minore di quattro metri e portata massima di 150 kg, per l’utilizzo da parte di una sola persona alla volta. La norma classifica i piccoli trabattelli in base all’altezza e all’accesso. Riguardo l’altezza, i piccoli trabatelli si suddividono nelle classi h2 e h4. In un piccolo trabattello di classe h2, l’altezza h tra il suolo e la superficie superiore della piattaforma più alta è inferiore a 2 m; in uno di classe h4 l’altezza h è maggiore o uguale a 2 m e inferiore a 4 m.
Riguardo all’accesso, la norma distingue fra tipologia e modalità di accesso: i tipi di accesso sono quelli previsti nella Uni En 1004:2005 (A, B, C o D) mentre la modalità di accesso può essere di tipo E (dall’esterno); di tipo I (dall’interno) o di tipo EI (dall’esterno e dall’interno).

Designazione
La designazione è molto simile a quella prevista nella Uni En 1004:2005; a quest’ultima è stato aggiunto il dato relativo al tipo di accesso (E, I o EI) che la norma europea non prevede.

Requisiti
La norma distingue i requisiti in dimensionali e di sicurezza. I requisiti dimensionali sono quelli legati alle dimensioni minime e massime che il piccolo trabattello e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote) debbono possedere. I requisiti dimensionali sono relativi anche alle tipologie di accesso (tipo A, tipo B, tipo C, tipo D secondo i punti 7.6.3.2, 7.6.3.3, 7.6.3.4 e 7.6.3.5 della Uni En 1004:2005) e alle modalità di accesso (dall’esterno o dall’interno). I requisiti di sicurezza sono quelli che permettono il montaggio, l’uso e lo smontaggio sicuro del piccolo trabattello e fanno riferimento alle caratteristiche specifiche che lo stesso e i suoi componenti (piattaforma, botola, protezione laterale, ruote, stabilizzatori e connessioni) debbono possedere. I requisiti di sicurezza sono relativi anche alle tipologie di accesso e alle modalità di accesso.

Verifiche e prove
La norma Uni 11764: 2019 «Piccoli trabattelli su due ruote – Requisiti e metodi di prova» prevede un capitolo specifico destinato alle verifiche e alle prove. La sezione destinata alle verifiche è particolarmente importante in quanto per la prima volta in una norma relativa alle attrezzature provvisionali viene inserito un prospetto che contiene i metodi di verifica dei requisiti stabiliti nella norma stessa:

  • esame visivo, per verificare l’integrità del piccolo trabattello o dei componenti;
  • misurazione, per verificare che i parametri misurabili (per esempio: dimensioni geometriche, distanze di sicurezza, resistenza) siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma;
  • prova di funzionamento, per verificare che, senza carico, il piccolo trabattello nel suo complesso operi come previsto e che tutte le funzioni siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma e alla documentazione tecnica;
  • prova specifica prevista dalla norma;
  • verifica dei documenti e dei disegni forniti, per verificare che siano conformi ai requisiti stabiliti dalla norma.

 

 

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Spazi confinati: gestire le acque reflue tutelando la salute degli addetti

Negli ultimi dieci anni, ci sono state oltre quaranta vittime negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati. Questi tragici fatti hanno ancora una volta portato all’attenzione della pubblica opinione la gravità degli infortuni sul lavoro che avvengono durante l’esecuzione di attività lavorative all’interno degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Evidenziando, ancora una volta, che il modo di gestire la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro durante lo svolgimento di queste particolari attività, nelle aziende pubbliche e private in Italia, è perlomeno suscettibile di notevoli miglioramenti. Un efficace modello di gestione dell’attività può, tutta- via, fornire indicazioni e modalità operative per l’esecuzione in sicurezza delle attività da realizzarsi all’interno degli spazi confinati 1 presenti in una rete per la gestione delle acque reflue, secondo quanto previsto dagli artt. 66 e 121 e dall’allegato IV, punto 3, D.Lgs. n. 81/2008, e dal D.P.R. n. 177/2011.

Le definizioni
Innanzitutto, è opportuno chiarire il significato dei termini.

Spazio confinato/Ambiente sospetto d’inquinamento
Uno spazio circoscritto, caratterizzato da limitate aperture d’accesso e da una ventilazione naturale sfavorevole, in cui può verificarsi un evento incidentale importante, che può portare a un infortunio grave o mortale, a causa della presenza gas tossici o infiammabili o della carenza d’ossigeno; in generale si tratta di un’area nella quale si opera in condizioni di rischio latente o imminente o dalla quale uscire durante un’emergenza potrebbe rivelarsi estremamente difficoltoso, vedi ad esempio, cunicoli, pozzetti di servizio, sollevamenti fognari, pozzetti fognari, serbatoi, camerette d’ispezione ecc…

Responsabile di funzione
Persona che ha la responsabilità dell’intera funzione del settore acque reflue dell’azienda.

Tecnico responsabile di reparto
Persona che ha la responsabilità di un reparto del settore acque reflue dell’azienda

Caposquadra preposto
Persona che, grazie alla formazione, all’addestramento e all’esperienza acquisita e dimostrata, ha la responsabilità di autorizzare l’accesso allo spazio confinato/ambiente sospetto d’inquinamento, vigilare durante le operazioni e interromperle a propria discrezione, qualora si verifichino o si sospettino condizioni pericolose.

Personale accedente
Personale incaricato di effettuare le operazioni che prevedono l’esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati/ambienti sospetti d’inquinamento.

Personale di supporto
Personale incaricato di supportare le attività della squadra d’intervento e che può, a seconda delle condizioni, svolgere an- che l’attività del personale accedente o di componente del personale d’emergenza.

Permesso di lavoro
Documento in cui sono indicati sia rischi specifici dell’ambiente in cui il personale è chiamato a lavorare che le operazioni preliminari per l’esecuzione in sicurezza dell’attività, le misure da attuare durante l’esecuzione dei lavori, le attrezzature di lavoro e i Dpc e Dpi da utilizzare.

Dvr
Documento di valutazione dei rischi aziendale.

Dpc
Dispositivo di protezione collettiva.

Dpi
Dispositivo di protezione individuale.

I compiti e le responsabilità
Il passo successivo è quello di definire le responsabilità e i compiti delle figure prima citate.

Utilizzo degli autorespiratori
Questi dispositivi risultano necessari quando, a seguito di un incidente, l’aria all’inter- no degli spazi confinati diviene non adatta alla respirazione a causa della presenza di gas, fumi o vapori o per la mancanza di ossigeno. L’utilizzo di autorespiratori è necessario per interventi in emergenza. Gli autorespiratori devono essere:

protetti dagli urti e dall’inquinamento ambientale;

  • correttamente puliti e disinfettati;
  • chiaramente identificabili;
  • dotati di una bombola di riserva piena per ogni autorespiratore;
  • con maschere ed erogatore di soccorso;
  • custoditi e mantenuti secondo le indicazioni fornite dal fabbricante.

Per ciascun caso devono essere previste le specifiche misure di gestione delle emergenze.

Metodo di comunicazione
L’aspetto più importante è il metodo di segnalazione dell’emergenza. Ove possibile, è necessario che venga mantenuto il contatto visivo e vocale con l’operatore che scende nello spazio confinato o prevedere la comunicazione via radio. Se l’infortunato è in grado di comunicare, allora – in caso di emergenza – può richiedere vocalmente aiuto. Se l’infortunato non è cosciente, l’addetto alle emergenze, in caso di contatto visivo, lo individua immediatamente e attiva il soccorso. Se non avesse un contatto visivo diretto, alla seconda chiamata vocale o via radio nulla attiva il soccorso. È anche consigliabile l’uso dello strumento “motion alert”. Si tratta di uno strumento in grado di segnalare l’allarme, quando l’uomo che lo ha con sé rimane immobile per 30 secondi, con un preallarme sonoro a intervalli regolari. Se non venisse rilevato alcun movimento nei dieci secondi successivi lo strumento attiva un allarme sonoro a sirena. Ovviamente, va ricordato che la funzione “motion alert” deve essere attivata ogni volta prima che l’operatore acceda all’interno dello spazio confinato.

Misure di primo soccorso
Allontanare l’infortunato e tenerlo all’aria aperta. Se l’infortunato non respira e il cuore non batte, praticare la rianimazione cardiopolmonare (massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca). Se l’infortunato non è cosciente ma respira, disporlo in posizione laterale di sicurezza e controllare le funzioni vitali (sentire polso e respiro). In ogni caso chiedere l’intervento del 112 (numero unico per le emergenze), descrivendo l’accaduto, le condizioni dell’infor-tunato e l’ubicazione del posto di lavoro.

Utilizzo del treppiede
Il personale di sorveglianza deve utilizzare l’argano manuale collegato alla imbracatura di sicurezza per estrarre dallo spazio il lavoratore in difficoltà. Se possibile devono essere fatti tentativi di ventilazione dello spazio. In caso di soccorso al lavoratore all’interno dello spazio confinato è necessario:

  • aver indossato preventivamente, da parte del personale di emergenza che deve entrare nello spazio confinato, tutti i Dpi a disposizione per la specifica operazione;
  • portare l’infortunato all’esterno, rispar- miandogli qualsiasi sforzo muscolare e chiamare il soccorso di emergenza del pronto soccorso o i vigili del fuoco (112) nei casi di difficoltà di estrazione dell’infortunato;
  • nel caso risulti impossibile estrarre il lavoratore dallo spazio confinato, avvicinare alla sua zona di respirazione il tubo di immissione dell’aria collegato al ventilatore, in modo da fargli respirare nel più breve tempo possibile aria pulita prelevata dall’esterno del locale.

Prescrizioni e divieti specifici
Non devono essere utilizzati negli spazi confinati motori a benzina e diesel. È vietato in ogni caso l’accesso in ambienti di “tipo A” non testati e senza autorizzazione specifica. La rilevazione dell’aria non deve essere mai fatta fidandosi delle proprie percezioni; molti gas o vapori tossici non sono percepibili. La rilevazione dei gas de- ve essere fatta in assenza di ventilazione. La rilevazione dei gas o dell’ossigeno deve essere fatta solo dopo aver accertato che lo strumento sia tarato e calibrato correttamente secondo le istruzioni dettagliate dal fornitore. Nel caso in cui la rilevazione evidenzi presenza di gas, l’intervento non può essere effettuato prima della bonifica – pulizia – ventilazione ulteriore con esito positivo. Gli interventi negli spazi confina- ti non possono essere eseguiti in condizio- ni climatiche avverse, ad esempio, in caso di pioggia anche nei giorni precedenti.

Le modalità operative
Un’azienda che opera nella gestione delle acque reflue, dovrebbe aver individuato come spazi confinati, quantomeno le seguenti tipologie:

  • cunicoli fognari;
  • tombinature stradali;
  • pozzetti di servizio fognari;
  • manufatti d’ispezione;
  • sollevamenti fognari;
  • vasche;
  • locali tecnici interrati.

Il passo successivo è quello di procedere alla classificazione. Opportuno procedere come segue:

  • gli spazi confinati presenti all’interno di impianti o che comunque si presentano come singolarità sono stati valutati singolarmente, inserendoli in un apposito elenco. È compito del responsabile del settore acque reflue verificare questo elenco e mantenerlo aggiornato in caso di eventuali variazioni;
  • i volumi tecnici che sono presenti in numeri elevati (quali i pozzetti di servizio su strada o fuori e manufatti d’ispezione) devono essere valutati per tipologie simili e non devono essere elencati nel censimento tranne i casi indicati al punto precedente; la valutazione deve essere effettuata su elementi rappresentativi di una certa categoria e poi associata a tutta quelli che hanno simili caratteristiche; questa valutazione per tipologie simili permette di poter avere una informazione di massima relativamente ai rischi che si possono avere intervenendo su di essi.

In particolare, tutti i pozzetti e manufatti d’ispezione è opportuno si facciano rientrare cautelativamente nella categoria di spazio confinato di tipo A, tranne gli spazi in cui l’operatore non entra interamente che restano di tipo C.
Gli spazi confinati prevalutati, valutati per tipologie simili o valutati sul posto devono essere suddivisi in tre categorie (A, B e C) in relazione alle loro caratteristiche di pericolosità.
Per le attività all’interno degli spazi confinati di categoria A, l’intervento può avvenire solo attraverso il “permesso di lavoro spazi confinati”.

L’esecuzione delle attività
Le istruzioni operative per l’esecuzione dei lavori all’interno degli spazi confinati si differenziano in relazione alla categoria con cui viene classificato il luogo di lavoro confinato. Per la classificazione del tipo di spazio confinato occorre procedere secondo quanto riportato nella successiva fase 0.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria A
I lavori in spazi confinati di categoria A si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento e rilascio della relativa autorizzazione (fase comprensiva dei controlli previsti);
  • esecuzione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria B
I lavori in spazi confinati di categoria B si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativacomunicazione dell’esito.

Esecuzione di attività all’interno degli spazi confinati di categoria C
I lavori in spazi confinati di categoria C si articolano in tre fasi cronologicamente successive tra di loro:

  • progettazione dell’intervento;
  • effettuazione dell’intervento;
  • chiusura dell’intervento e relativa comunicazione dell’esito.
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Quando le prassi sono un autogol

Nei casi in cui si accerti che lo svolgimento di determinate attività dà luogo a condotte che, ripetute nel tempo, si traducono in comportamenti non corretti, in quali termini si configura la responsabilità, rispettivamente del datore, del dirigente o del preposto? Un’attenta e precisa analisi ci aiuta a capire meglio

 

Risposta
La Cassazione è univocamente orientata, da tempo, ad affermare il principio che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro – cui spetta di assicurare l’obiettivo di un’efficace tutela delle condizioni di lavoro, è molteplice e articolato.
Questa figura, infatti, non può limitarsi all’istruzione dei lavoratori sui rischi professionali, e sulla conseguente necessità di adottare specifiche misure di sicurezza, bensì deve ulteriormente consistere e concretarsi in un controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino le disposizioni impartite; e si adeguino tanto alle misure di tutela previste dalla legislazione antinfortunistica, quanto a quelle supplementari derivanti dalle procedure di sicurezza adottate da ciascuna azienda, allo scopo di garantire condizioni di lavoro sicure.
Invero, spesso, i lavoratori sono tentati, per i motivi più vari, a trascurare tanto le prime, quanto le seconde. Dunque, il datore di lavoro, quale soggetto primariamente responsabile della sicurezza, deve possedere la cultura e la forma mentis di garante di quel bene costituzionalmente rilevante te costituito dall’integrità psicofisica del lavoratore. In questa veste, rilevante anche sul piano dei valori costituzionalmente tutelati, il datore ha il preciso dovere, in primo luogo, di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste per le singole lavorazioni e, in secondo luogo, di attivarsi e di controllare sino alla pedanteria, che le norme e le disposizioni aziendali siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Questi specifici oneri di informazione e di assiduo controllo, ordinariamente necessari nei confronti dei dipendenti dell’impresa, si impongono a maggior ragione nei confronti di coloro che, prestando lavoro alle dipendenze di altri, e venendo per la prima volta a contatto con un ambiente e delle strutture a loro non familiari (ad esempio, in regime di appalti extra-aziendali ai sensi dell’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008), possono essere per ciò solo inseriti in situazioni di lavoro che per elementi e circostanze non conosciute risultano insidiose per i prestatori di lavoro.

La Cassazione ha, inoltre, sottolineato che il suddetto dovere di vigilanza spetta in ogni caso al datore di lavoro (che non abbia validamente delegato i suoi compiti), e che questo obbligo di attuare e controllare le misure di sicurezza non viene meno neppure in caso di distacco di lavoratori presso un cantiere gestito da altro imprenditore.
Naturalmente, l’obbligo della vigilanza può essere disimpegnato dal datore di lavoro anche avvalendosi della propria organizzazione aziendale, mediante la ripartizione delle competenze a dirigenti prevenzionistici e a preposti, e predisponendo altresì un’efficace rete di flussi informativi che consentano il controllo delle condizioni di lavoro in azienda (in tal senso è illuminante la recente pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 4 aprile 2019, n. 49215). 

Le responsabilità
Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro (e, più in generale, dei vertici aziendali) le pronunce giurisprudenziali sono diffuse. È così che, con riguardo a un infortunio occorso a un lavoratore operante su un ponte sviluppabile, utilizzato a un’altezza di dodici metri da terra, comandato da terra a opera di un terzo lavoratore, e non da bordo del cestello del ponte, così come imponeva l’ordine di servizio impartito dal datore di lavoro (in conformità alla previsione dell’art. 233 del D.P.R. n. 547/1955), la Cassazione ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’esonero della responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che il lavoratore avesse dichiarato di essere a conoscenza delle corrette modalità di lavoro, ma che queste ultime erano il più delle volte disattese nella prassi concreta di lavoro, che avveniva con modalità non conformi (Cass. pen. sez. III, 28 maggio 1999, n. 6695). Dunque, nel caso di specie, la scorretta pratica di lavoro, tollerata dal datore di lavoro e non conforme alle norme prevenzionistiche (giacché solo il personale a bordo del ponte sviluppabile poteva avere una diretta percezione delle manovre, in relazione allo spazio di traslazione e alla eventuale presenza di ostacoli), nonché il mancato accertamento della non aderenza di questa prassi concreta alle disposizioni impartite, sono stati gli elementi fondanti il profilo di colpa specifica addebitato nel processo, conclusosi con la condanna dell’imputato.
Si può dunque affermare che il datore di lavoro deve non solo ordinare, ma altresì esigere che le norme di sicurezza siano rispettate; e questo controllo deve essere effettivo, cosicché il datore non può mettersi al riparo emanando un ordine, laddove la prassi esecutiva dell’azienda risulti sistematicamente in contrasto con le norme di sicurezza. Il controllo sulla conformità della prassi esecutiva di lavoro all’ordine di servizio impartito deve pertanto essere effettivo, non limitato a una pretesa di natura esclusivamente formale.

L’orientamento della Cassazione
Da decenni l’orientamento prevalente della suprema Corte (per tutte Cass. pen. sez. IV, 4 giugno 1974, Pelloni), è che il datore di lavoro deve «controllare ed esigere che le modalità di lavoro siano conformi ai criteri di sicurezza». Analogamente la legislazione prevenzionistica e di igiene del lavoro da sempre ha sancito l’obbligo della cosidetta “pretesa d’uso” (art. 4, lett. c) del D.P.R. n. 547/1955: il datore di lavoro deve: «disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione »), addirittura assoggettandolo ad autonoma sanzione (artt. 4, lett. d) e 58, lett. c) del D.P.R. n. 303/1956), cosa che le normative emanate agli inizi degli anni ’90 (il D.Lgs. n. 277/1991 e il D.Lgs. n. 77/1992) hanno confermato, sconfessando in questo modo le pronunce giurisprudenziali di segno contrario (ad esempio, Cass. pen. sez. IV, 15 gennaio 1975, Menardo).
La tesi della autonoma sanzionabilità della violazione dell’obbligo della “pretesa d’uso” ebbe poi a ricevere una conferma esplicita nel D.Lgs. n. 626/1994, il quale, ponendo fine alle oscillazioni giurisprudenziali, stabilì chiaramente che l’obbligo per il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti (ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze) di esigere, da parte dei singoli lavoratori, l’osservanza delle norme di legge e aziendali in tema di sicurezza, è un obbligo autonomamente sanzionato (art. 4, comma 5, lettera f) e art. 89, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 626/1994). Questa impostazione del dovere di sicurezza, rivolto a fronteggiare e a contrastare efficacemente l’instaurarsi di prassi scorrette di lavoro, è stato integralmente confermato nel testo unico della sicurezza sul lavoro (art. 18, comma 1, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008: «Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono(…) f) richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione»).

Il controllo? Anche personale
In altra vicenda infortunistica (folgorazione di un operaio, raggiunto da una violenta scarica elettrica mentre lavorava in prossimità di una pressa ad alta frequenza, senza operare il cosiddetto sezionamento della linea elettrica così come previsto dall’art. 345 del D.P.R. n. 547/1955), analogamente la Cassazione ha ritenuto che l’abitudine omissiva del lavoratore deceduto di non interrompere la tensione del generatore (forse per eccesso di confidenza con le mansioni di lavoro e la conoscenza del macchinario) non avrebbe dovuto essere tollerata in alcun modo dal datore di lavoro, il quale avrebbe dovuto esercitare finanche personalmente un controllo adeguato per impedire la violazione delle norme e le prevedibili conseguenze dannose derivanti dalla loro inosservanza, intervenendo per pretendere il rispetto di quelle disposizioni che risultassero sistematicamente violate nella concreta prassi di lavoro (Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3970).
In un altro caso di omessa vigilanza da parte del datore di lavoro sull’effettivo utilizzo dei dispositivi di protezione individuale messi a disposizione dei lavoratori, ma dagli stessi non utilizzati durante il lavoro, la Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro «non può – e non deve – limitarsi a mettere a disposizione dei singoli lavoratori il materiale necessario all’allestimento dei mezzi di protezione, limitandosi ad ordinare che se ne faccia uso ma deve, in concreto, assicurarsi che ciò sia avvenuto».

Il ragionamento dei giudici di legittimità è stato che, essendo le norme di protezione e di sicurezza poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, queste ultime devono essere attuate anche contro la sua volontà, sicché «il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza circa la loro rigorosa osservanza, risponde della loro violazione in termini di culpa in vigilando, non rilevando l’affidamento sulla diligente condotta esecutiva dei prestatori di lavoro» (in termini Cass. pen. 17 febbraio 1984, n. 5795, e Cass. pen. 10 gennaio 1989, Santoro). Nel senso che l’affidamento di lavori, pur di prassi elementare, a un lavoratore particolarmente esperto, non esime il datore di lavoro dal fornire al lavoratore medesimo le indicazioni delle particolari cautele e delle attrezzature necessarie per lo svolgimento in sicurezza dei compiti affidati, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 28 gennaio 2003, n. 3984. Per Cass. pen. sez. IV, 25 settembre 1995, Moranti, non è rilevante a escludere la responsabilità del datore che il lavoro si sia svolto secondo la prassi instauratasi nell’azienda, se contraria alle misure antinfortunistiche. Le valutazioni espresse da queste consolidati orientamenti giurisprudenziali – ex plurimis, Cass. pen. sez. IV, 9 aprile 1999, Di Spirito; Cass. pen. sez. IV, 23 febbraio 1999, Beltramelli; Cass. pen. sez. III, 27 gennaio 1999, Celino – impongono in ogni caso al datore di lavoro di esercitare senza riserve un efficace controllo e una diligente vigilanza al fine di far rispettare le disposizioni di legge e quelle impartite in relazione alla propria concreta organizzazione di lavoro.

Quanto al criterio di imputazione della responsabilità colposa, l’orientamento prevalente della Cassazione è nel senso di ancorarlo alla tolleranza e all’acquiescenza del datore di lavoro di fronte alla prassi operativa scorretta, consistente o nell’inosservanza di una specifica disposizione di legge, ovvero di un ordine di lavoro specificamente impartito. Il fondamento della colpa viene dunque ravvisato nel consenso del datore di lavoro al perdurare di una situazione in contrasto con le disposizioni imperative della legislazione antinfortunistica, che egli aveva invece l’obbligo giuridico di conoscere, cosicché lo stato di ignoranza della medesima non è affatto valutato come circostanza scriminante, bensì proprio come indice di una condotta di inerzia colpevole (sul tema della doverosa conoscenza-conoscibilità ex ante della situazione antigiuridica da parte del soggetto gestore del rischio, Cass. pen. sez. IV, 5 dicembre 2017, n. 54825 e da ultimo Cass. pen. sez. IV, 15 maggio 2019, n. 20833).

Dunque il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere il lavoratore subordinato, assicurando un assetto organizzativo del lavoro che sia rispettoso delle norme antinfortunistiche; ed è responsabile per l’infortunio subito da un dipendente nell’esercizio dell’attività lavorativa, anche di fronte a una condotta imprudente di quest’ultimo, quanto meno agevolata, da una situazione conosciuta o colpevolmente ignorata, e rispetto alla quale nulla abbia fatto per impedirla. In questo contesto, un’istruzione di lavoro, per quanto perentoria e specifica, non è di per sé sufficiente per escludere la penale responsabilità del datore di lavoro, dovendosi quest’ultimo anche attivare concretamente per la sua osservanza; e l’affidamento all’ordinaria diligenza del prestatore di lavoro nell’esecuzione della prestazione si risolve in una pretesa non legittima, nei limiti in cui a detto affidamento si voglia attribuire un’efficacia scriminante della responsabilità.
Va da sé, peraltro, che qualora la prassi scorretta inerisca all’esercizio del dovere di vigilanza, di essa risponderà ordinariamente il preposto (con riguardo ad una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, v. Cass. pen., sez. IV 22 aprile 2004, Policarpo: «(…) il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche»); qualora, invece, questa prassi sia correlabile alla omessa predisposizione di misure prevenzionistiche, di essa deve risponderà (anche o solo) il datore di lavoro e/o il dirigente prevenzionistico di riferimento (Cass. pen. sez. IV, 16 marzo 2005, Ranzi: «Il direttore del Dipartimento di facoltà dell’Università risponde – in quanto datore di lavoro – dell’incolumità degli studenti allorché essi siano adibiti, per prassi, ad attività manuali all’interno del Dipartimento medesimo»; Cass. pen. sez. IV 23 marzo 1998, Ruggiero: «il preposto al cantiere (…) ha mansioni normalmente limitate alla mera sorveglianza sull’andamento dell’attività lavorativa, sicché la sua esistenza – salvo che non vi sia la prova rigorosa (e nella specie non lo è) di una delega espressamente e formalmente conferitegli (con pienezza di poteri e di autonomia decisionale) e di una sua particolare competenza – non comporta affatto il trasferimento in capo a lui degli obblighi e delle responsabilità incombenti sul datore di lavoro, essendo a suo carico (peraltro neppure in maniera esclusiva quando l’impresa sia di dimensioni molto modeste) soltanto il dovere di vigilare a che i lavoratori osservino le misure e usino i dispositivi di sicurezza e gli altri mezzi di protezione, comportandosi in modo da non creare pericoli per sé e per gli altri. Ne consegue che una responsabilità del preposto non è configurabile allorché l’infortunio sia dipeso non da omessa o insufficiente vigilanza nel senso suddetto, bensì dalla mancanza di strumenti, misure ed accorgimenti antinfortunistici la cui predisposizione ed attuazione spetta soltanto al datore di lavoro o al soggetto specificamente competente appositamente delegato»).

L’importanza della qualifica
Particolarmente interessante la pronuncia di Cass. pen. sez. IV 26 settembre 1988, Dell’Arte, secondo la quale «il titolare dell’impresa (o il preposto) il quale abbia consentito, quale prassi aziendale, l’interscambio di ruoli tra i dipendenti, risponde dell’infortunio occorso a un lavoratore nell’esecuzione di operazioni non corrispondenti alla qualifica o al ruolo formale a lui attribuito; e ciò anche nel caso esso titolare/preposto non sia presente al momento del verificarsi dell’evento».

Anche recenti pronunce della suprema Corte hanno ribadito i principi di responsabilità dei vertici aziendali e più in generale delle figure deputate alla tutela delle condizioni di lavoro: per Cass. pen. sez. IV, 13 dicembre 2012, n. 48231, correttamente i giudici di merito avevano condannato il datore di lavoro in relazione all’infortunio di un dipendente il quale, salito sulla scala che conduceva alla macchina in movimento, mettendo un piede sul parapetto, aveva poi dichiarato, in sede d’indagini, che questo modo di procedere era stato da lui sempre praticato – così come dagli altri colleghi – in conformità a una vera e propria consuetudine; di qui la censura al datore di lavoro di non aver adeguatamente e risolutamente interdetto questa prassi consuetudinaria e scorretta di lavoro né avere predisposto un efficace sistema di controllo e di vigilanza sui lavoratori. Nel caso di una prassi di lavoro non corretta tollerata da un coordinatore per l’esecuzione in un cantiere edile (utilizzo di una scala per le lavorazioni in altezza, in luogo dell’allestimento di apprestamenti più sicuri quali ponteggi e trabattelli) i giudici di legittimità (Cass. pen. sez. IV, 17 gennaio 2014, n. 1870) hanno confermato la responsabilità del Cse. Interessante anche la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 3 giugno 2014, n. 22977, secondo la quale in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, il dovere di vigilanza deve essere valutato «in relazione alla concreta organizzazione aziendale.
Qualora l’infortunio sia riconducibile ad una violazione isolata, frutto di contingente trascuratezza da parte del lavoratore, e non consista in una prassi scorretta di lavoro, concretantesi in sistematiche e usuali violazioni, occorre valutare se, sul luogo di lavoro, esistano altre figure preposte al controllo della condotta dei lavoratori, ovvero se il datore di lavoro sia tenuto a svolgere egli stesso una vigilanza assidua e un controllo continuo sull’esecuzione della prestazione di lavoro, assimilabili ai compiti propri del preposto».
Nel caso concreto si trattava dell’infortunio subito da un lavoratore, colpito all’occhio mentre eseguiva il taglio di un tondino: al datore di lavoro era stato contestato di avere omesso di dotare il lavoratore di idonei occhiali di protezione, ma era emerso che i Dpi erano stati bensì forniti al dipendente (come dallo stesso confermato in udienza), ma questi, per negligenza non li aveva utilizzati.
Da ultimo, con riguardo alla figura del dirigente, condannato a prescindere dall’accertamento della conoscenza effettiva della prassi scorretta di lavoro, è la pronuncia di Cass. pen. sez. IV, 2 dicembre 2016, n. 51537.

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Iso 45001: quale rapporto con la legislazione?

L’adozione dei principi espressi nell’high level structure per la scrittura dello standard ha fatto segnare un marcato distacco rispetto a come la Bs Ohsas 18001 aveva affrontato i fondamenti su come costruire un sistema di gestione per una specifica organizzazione.
Un confronto con l’art. 30, D.Lgs. n. 81/2008, le linee guida Uni-Inail e la norma Bs del 2007 Uni Iso 45001:2018 serve a mettere in luce gli aspetti “innovativi” dei nuovi requisiti per i sistemi di gestione per la salute e la sicurezza.

 

Standard o legge?
Il rapporto tra norma cogente e norma volontaria, tra le disposizioni di legge a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e gli standard dei sistemi di gestione della salute e della sicurezza era già molto dibattuto ai tempi della Bs Ohsas 18001:2007 “Occupational health and safety assessment series”; queste discussioni hanno avuto grande parte dibattito che ha portato all’emissione della Iso 45001:2018 “Sistemi di gestione per la salute e la sicurezza”.
In Italia, così come in gran parte dei Paesi del mondo, esiste una legislazione in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro molto sviluppata, con ampi collegamenti a prassi condivise nel resto del mondo, frutto dell’appartenenza dell’Italia ad associazioni e organismi politici internazionali che hanno stipulato accordi tra i loro membri, primi tra tutti le Nazioni unite (Onu) e la sua agenzia per il lavoro – l’International labour organization (Ilo) – e l’Unione europea. È al di fuori di ogni dubbio che la legge ponga, a carico delle aziende, obblighi e responsabilità in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori che prestano la propria opera presso le aziende stesse. In più, le persone fisiche che ricoprono rilevanti ruoli aziendali hanno precisi profili di responsabilità personali in merito alla tutela dei lavoratori, che derivano direttamente dai ruoli ricoperti e dai poteri esercitati.
In Italia, il provvedimento principale in materia di salute e sicurezza sul lavoro è il D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “testo unico”), che stabilisce obblighi e responsabilità, principi e processi, finalizzati a determinare i requisiti minimi per perseguire il risultato del più alto grado di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’adozione di un sistema di gestione standardizzato per la Ssl non deve essere intesa come un modo per rimpiazzare gli obblighi e le responsabilità previsti dalla legge; al contrario, il suo obiettivo è quello di creare una struttura logica per il raggiungimento degli scopi e dei risultati che questo sistema si pone, che non sono altro quelli di prevenire infortuni e malattie dei lavoratori correlate al lavoro e la predisposizione di luoghi di lavoro sicuri e salubri.
Il sistema disegnato dalla Iso 45001 si basa sul noto ciclo “Plan-Do-Check-Act”.
L’adozione di un sistema di gestione basato sul ciclo Pdca consente alle organizzazioni di essere più efficaci ed efficienti per la gestione dei propri rischi strategici e di migliorare le proprie prestazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Le organizzazioni di questo genere hanno la possibilità di agire sistematicamente con tempestività per affrontare rischi e opportunità e sono agevolate nel raggiungimento dei requisiti legali.
Il processo di sviluppo della Iso 45001 risale al 2013, quando il British standard institution (Bsi) propose alla Iso di studiare uno standard internazionale sui sistemi di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro, prendendo come base lo standard Bs Ohsas 18001, in passato sviluppato proprio da Bsi. In qualità di proponente, Bsi ha assunto il ruolo di segretario del nuovo comitato Iso Pc 283, incaricato dello studio, di cui hanno fatto parte 62 nazioni, insieme ad altre 11 che hanno partecipato in qualità di osservatori, oltre a 17 organizzazioni, tra cui Iosh.
I lavori sono stati a particolarmente complessi, passando attraverso l’emissione di due Cd (committee draft) e di due Fdis (final draft international standard), per culminare nella pubblicazione, avvenuta nel marzo 2018.

Si tratta di uno standard maturo, che tiene anche conto dell’esperienza delle organizzazioni che, negli anni, hanno certificato i propri sistemi di gestione secondo la Bs Ohsas 18001, stimate attorno a 90.000 in circa 127 Paesi nel mondo.
Tuttavia, l’adozione di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza non è, da sola, la garanzia di un miglioramento delle prestazioni dell’organizzazione. L’esperienza ha dimostrato che, se il sistema di gestione non è supportato da una serie di attività, strategiche o quotidiane, questo resta solo sulla carta. La Iso, all’interno del proprio standard, elenca questi fattori necessari per il successo di un sistema di gestione per la salute e la sicurezza. I più importanti sono:
• la leadership e l’accountability, ovvero la capacità di rendere conto delle proprie azioni, espressa dall’alta direzione dell’organizzazione. Senza un impegno esplicito e pubblico dell’alta direzione, infatti, tutti gli sforzi per l’implementazione di un sistema di gestione sono vani. I redattori dell’Iso 45001 ne erano bene al corrente al momento della stesura, tanto che la versione definitiva dello standard presenta significativi cambiamenti rispetto alla Bs Ohsas 18001;
• comunicazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Si tratta di attività che sono generalmente trascurate da chi si pone come obiettivo il mero rispetto dei requisiti minimi di legge, ma che hanno dimostrato di essere molto efficaci e per questo non possono mancare nella composizione di un’organizzazione che voglia impegnarsi ad andare oltre il mero dettato normativo, con l’implementazione di un sistema di gestione della sicurezza;
assegnazione delle risorse necessarie, definizione di politiche compatibili con gli obiettivi strategici globali e con gli indirizzi dell’organizzazione.Un sistema di gestione non è un punto di arrivo: lo si può, piuttosto, paragonare a un percorso. Affrontarlo senza avere deciso dove si voglia arrivare e senza avere definito i mezzi da utilizzare è deleterio, perché l’indecisione, la mancanza di informazione o la definizione di obiettivi velleitari incidono sulla motivazione e sulla determinazione di tutti coloro che dovranno percorrere la strada e, in definitiva, sulla credibilità del sistema di gestione e dell’organizzazione stessa.

Il testo unico per la salute e la sicurezza
L’adozione di un sistema di gestione, quindi, non è una scelta in competizione o in contraddizione con le leggi sulla salute e sicurezza negli ambienti di lavoro; si tratta, piuttosto, di uno strumento di cui un’organizzazione diligente può decidere di dotarsi per raggiungere con più efficacia gli obiettivi della norma, che – è opportuno ricordarlo – sono la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, attraverso la predisposizione di ambienti di lavoro salubri e sicuri. In altri termini, un modo per colmare la distanza tra i “requisiti minimi” promossi dalla norma e il massimo della tutela della salute e della sicurezza del lavoratore. Questo perché, per riuscire veramente a rispettare la legge (e quindi a garantire i livelli di tutela che della legge costituiscono l’obiettivo), non ci si deve limitare a osservare unicamente i requisiti minimi; punto, questo, fatto proprio dal D.Lgs. n. 81/2008, che, all’articolo 30, si riferisce al «modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche». Gli obblighi definiti dal testo unico sono sanzionati penalmente, colpendo la persona fisica che ha commesso effettivamente la violazione. Per ovviare a questo meccanismo, il legislatore ha introdotto, con un emendamento del 2007 al D.Lgs. n. 231/2001, il principio della responsabilità amministrativa da reato, ovvero della responsabilità delle organizzazioni, in conseguenza dei reati commessi nel proprio interesse o nel suo vantaggio dalle persone:
• che la rappresentano, che la amministrano, che la dirigono, che ne esercitano – anche di fatto – la gestione e il controllo;
• che sono sottoposte al controllo di costoro, in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle attività lavorative.

L’implementazione efficace di un sistema di gestione, all’epoca conforme alla Bs Ohsas 18001 o alle linee guida Uni-Inail, è considerato uno strumento conforme a evitare questi tipi di reato. Per questo motivo, l’11 luglio 2011, la direzione generale della tutela delle condizioni del lavoro ha pubblicato una lettera circolare1 che contiene una tabella in cui i requisiti delle linee guida Uni-Inail e della Bs Ohsas 18001:2007 sono messi a confronto con il contenuto dell’articolo 30, D.Lgs. 81/2008, allo scopo di verificarne la sovrapponibilità.

 

 

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Allerta massima per chi opera in quota

l punto del giurista alla luce della normativa e della giurisprudenza in materia

Si tratta di una delle attività maggiormente pericolose. Come si caratterizza la disciplina specifica in tema di valutazione dei rischi e di svolgimento di questo tipo di mansioni? Che cosa dicono sull’argomento il testo unico della sicurezza e i giudici?

 

Risposta
Il testo unico della sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) disciplina, al titolo IV, lo specifico settore dei «Cantieri temporanei o mobili» e, in questo ambito, al capo II (artt. 105-156), detta le «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota». Il successivo capo III (artt. 157-160) reca la disciplina sanzionatoria.
Mentre il titolo IV,capo I del testo unico è recepimento dell’ottava direttiva particolare (direttiva 92/57/Cee – la cosiddetta “direttiva cantieri”- riguardante le «prescrizioni minime di sicurezza e salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili») e si pone in rapporto di continuità con le precedenti disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 494/1996 – abrogate dall’art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008 a far data dal 15 maggio 2008-, il successivo capo II del titolo IV è la trasposizione delle disposizioni già contenute nel D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 (recante «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni»), parimenti abrogate dal citato art. 304, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008.
Il capo I del titolo IV del Tusic è espressione di un modello “gestionale” della sicurezza sul lavoro che presuppone necessariamente l’esistenza di un «cantiere temporaneo o mobile»; laddove il successivo capo II fa dell’esistenza del “cantiere” una condizione sufficiente, ma non necessaria: come a dire che il capo II del titolo IV del Tusic (diversamente dal capo I si applica anche a realtà diverse da quella di cantiere, e cioè anche ai «lavori in quota» che siano svolti in un settore diverso da quello delle costruzioni. Ciò si ricava direttamente dal tenore dell’art. 105, ultimo periodo del D.Lgs. n. 81/2008 (ove si legge che «Le norme del presente capo si applicano ai lavori in quota di cui al presente capo e ad in ogni altra attività lavorativa»), nonché dal recente dictum di Cass. pen. sez. IV, 12 marzo 2019, n. 10857.
Già sotto l’impero dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, la giurisprudenza aveva affermato il principio che la suddetta norma «ha carattere assoluto ed è intesa a proteggere il lavoratore in ogni momento della sua attività che si svolga ad altezza superiore ai due metri dal suolo con pericolo di caduta», dunque il suo campo di applicazione non doveva essere limitato al settore delle costruzioni, bensì essere esteso a tutte le attività in quota che potevano determinare cadute dall’alto dei lavoratori.

Secondo la pronuncia di Cass. civ. sez. lavoro, 1° dicembre 1986, n. 7098, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 è applicabile «alle operazioni di imbracatura eseguite nei porti, ai fini dell’accertamento della necessità della dotazione di apposite scale». Per Cass. pen. sez. III, 5 novembre 1993, n. 437, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 risulta applicabile al lavoro «eseguito sulle pareti di una vasca – nella specie di raccolta d’acqua – ad altezza superiore a due metri dal suolo». Ancora, per Cass. pen. sez. IV, 17 maggio 2013, n. 21268, la suddetta norma poteva essere applicata alle operazioni di scaricamento e di sbracaggio di un motore industriale di notevoli dimensioni da un rimorchio, atteso che essa non è limitata al settore delle costruzioni edilizie, ma riguarda tutte le attività in quota che possano determinare cadute dall’alto dei lavoratori (nel caso specifico il lavoratore si era inerpicato sul motore, a un’altezza superiore ai due metri, in assenza di idonee precauzioni anticaduta, era poi scivolato, mentre cercava di sganciare i cavi d’acciaio che lo imbracavano, ed era rovinosamente caduto a terra, riportando gravi lesioni). Peraltro, in un raro caso in cui la Cassazione si è dovuta occupare dell’applicabilità della disciplina sui parapetti ai “mezzi di trasporto”, ha ritenuto che «In tema di normativa antinfortunistica, l’art. 27, D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, il quale prevede che i posti di lavoro siano provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali o di difese equivalenti, non è applicabile al posto di lavoro costituito dal cassone di automezzo, da cui si stiano scaricando materiali, a causa della peculiare natura di tal posto di lavoro, che non consente l’approntamento di un valido sistema protettivo equivalente contro il pericolo di cadute dall’alto» (Cass. pen., sez.IV, 20 maggio 1988, Fabbri).

Nell’ipotesi di «lavori in quota» che non diano luogo a un «cantiere temporaneo o mobile», il modello gestionale di riferimento, per l’applicazione delle norme del titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008, sarà il sistema degli “appalti interni” codificato all’art. 26 del testo unico.

Il titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008 (artt.105-156) detta dunque l’attuale disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e, nell’ambito di questa, dei «lavori in quota». Trattasi di disposizioni che erano già contenute nel D.Lgs. n. 235/2003, recante norme in tema di requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori (attuativo della direttiva 2001/45/Ce del 27 giugno 2001), e che, all’epoca, erano confluite nel titolo IV del D.Lgs. n. 626/1994 (artt. 34 e 36-bis e ss.).
Prima del recepimento della direttiva 2001/45/Ce, non esisteva nella legislazione italiana una esplicita definizione di «lavoro in quota». Le uniche disposizioni prevenzionistiche riferibili ai posti di lavoro “sopraelevati” erano l’art. 27 del D.P.R. n. 547/1955 (riferito alle imprese in generale) e, con specifico riferimento al settore delle costruzioni, l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956.

La filosofia generale di tutela muove dall’affermazione di principio, contenuta nel 10° considerando della direttiva 2001/45/Ce, per la quale «In genere le misure di protezione collettiva contro le cadute offrono una protezione migliore delle misure di protezione individuale».
È così che l’art. 111, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce in via principale l’obbligo, per il datore di lavoro, di scegliere le attrezzature di lavoro «più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure», irrobustito dal criterio della “priorità” delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale (comma 1, lett. a), con richiamo concettuale all’art. 15, comma 1, lett. i) del testo unico, a sua volta derivante dall’art. 6, par. 2, lett. d) della direttiva- quadro 89/391/Cee). D’altro canto, l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008 (vero e proprio “polmone respiratorio” del sistema di gestione della sicurezza) è richiamato anche dall’allegato XV al testo unico «(Contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili»), ove al punto 2.1.1. è indicato a chiare lettere che i contenuti generali del piano di sicurezza e di coordinamento «sono il risultato di scelte progettuali ed organizzative conformi alle prescrizioni dell’articolo 15 del presente decreto».

Gli ulteriori criteri generali di scelta, improntata a un principio di sicurezza gradata, tra le attrezzature di lavoro utilizzabili per i lavori temporanei in quota (compresi i sistemi di accesso ai posti di lavoro, anche a fini di evacuazione in caso di pericolo “imminente”), sono: 

• per le scale a pioli (art. 111, comma 3), la sussistenza di condizioni di «limitato livello di rischio» e di «breve durata di impiego», oppure le caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare;

• per i sistemi a funi (art. 111, comma 4), il conseguimento di un livello di sicurezza accettabile (implicante facoltà di non impiego di un’attrezzatura di lavoro considerata più sicura), risultante dall’attività di valutazione dei rischi, sempre che si versi in situazioni di «breve durata di impiego», e di caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare.

Un ulteriore criterio di scelta è quello della minimizzazione dei rischi specifici insiti nell’uso delle attrezzature di lavoro (art. 111, comma 5), con l’ulteriore prescrizione relativa ai cosiddetti dispositivi anticaduta i quali, per quanto possibile, devono prevenire lesioni ai lavoratori, in ogni caso di caduta da luoghi di lavoro in quota (sia a terra sia in sospensione). Anche questa previsione è un’applicazione specifica della misura generale dell’obbligo di riduzione al minimo dei rischi, inserita dall’art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008 tra le misure generali di tutela.
L’art. 111, comma 6, introduce il principio della sicurezza equivalente per l’esecuzione di lavori di natura particolare, che richiedono l’eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute (con obbligo di immediato ripristino anche nel caso di temporanee sospensioni del lavoro: ad esempio la pausa mensa o la fine dell’orario di lavoro giornaliero).
L’art. 111, comma 7, da riferirsi ai lavori in esterno, è di non facile interpretazione, in assenza di ogni riferimento all’entità del pericolo per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e alla sua natura astratta o concreta (cioè imminente). Tra l’altro il punto 1 dell’allegato XI del D.Lgs. n. 81/2008 consente l’esecuzione di lavori in quota, pur particolarmente aggravati dalle condizioni ambientali (tra le quali vanno sicuramente ricomprese le condizioni meteo), laddove l’art. 111 citato, in situazioni di minor rischio (che possono verificarsi anche in cantiere), pone al contrario un esplicito divieto. Gli artt. 113, 116 e 136 del D.Lgs. n. 81/2008 dettano poi le condizioni di impiego delle scale a pioli, dei ponteggi, e dei sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi, strutturando variamente gli obblighi posti a carico del datore di lavoro (più restrittivamente rispetto alla direttiva, che in alcune ipotesi utilizza l’espressione «personale competente»), anche in termini di risultato (reso inequivoco dal ricorso all’uso del verbo «assicurare»), nonché di logica programmatoria dei lavori, e di formazione professionale dei lavoratori addetti ai lavori in quota (supplementare rispetto a quella ordinaria, e a contenuto sia teorico che pratico – salvo che per l’uso delle scale a pioli, per le quali valgono le regole generali dell’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008). 

La formazione teorico-pratica si compone di formazione in senso stretto (comprensione/ apprendimento, che è qualcosa di più della mera informazione, la quale ha normalmente un contenuto passivo), e di addestramento per i soli sistemi a funi; quanto alla previsione dell’art. 116, comma 3, lett. f) del D.Lgs. n. 81/2008, va rilevato che la norma non ha trasposto fedelmente il testo della direttiva, la quale prevede che la formazione investa in particolare le procedure di salvataggio. Si è in tal modo bypassato il livello minimo delle prescrizioni fissato dalla normativa comunitaria: né a questo inconveniente si è rimediato in sede di accordo Stato-Regioni del 26 gennaio 2006 (attuale allegato XXI al D.Lgs. n. 81/2008). Quanto al rapporto intercorrente tra l’art. 107 e l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008. Va detto che mentre l’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 concepiva (senza definirlo) il «lavoro in quota» come il lavoro eseguito «ad un’altezza superiore ai m 2», l’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 dispone invece che per «lavoro in quota» si intende un’attività lavorativa «che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile».
Ne deriva che, a partire dal 19 luglio 2005 (data di entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 235/2003), il criterio cui si deve avere riguardo nello stabilire la sussistenza dell’obbligo, per il datore di lavoro, di adozione e di messa in opera di adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali, non è più la quota di «esecuzione del lavoro», bensì la quota di «esposizione al rischio di caduta» per il lavoratore.

La parola alla giurisprudenza
Per vero, la giurisprudenza formatasi sull’antesignana norma di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 156/1964, aveva concordemente affermato che l’altezza superiore a due metri dal suolo doveva essere calcolata non con riguardo al piano di calpestio (e più in generale al punto in cui il lavoratore poggia i piedi: nella specie i pioli di una scala), bensì con riguardo al punto in cui venivano «eseguiti i lavori» (Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 1983, Bioc; Cass. pen., sez. IV, 4 agosto 1982, Placucci; Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 1982, Salimbeni. Più recentemente Cass. pen., sez. III, 18 giugno 2003, n. 26208; Cass. pen. sez. IV, 1° aprile 2014, n. 15028 e Cass. pen. sez. IV, 14 aprile 2014, n. 16223).

Più specificamente la pronuncia di Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 1989, ebbe ad affermare che «la norma di cui all’art. 29, ultimo comma, D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008, nda), che detta disposizioni circa le passerelle e le andatoie, si applica anche nel caso in cui i lavori si eseguano a una altezza inferiore a due metri dal piano di calpestio; mentre, i ponteggi e le opere provvisionali, di cui all’art. 16 detto D.P.R. (attuale art. 130 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), e i parapetti, di cui al successivo art. 24 (attuale art. 126 del D.Lgs. n. 81/2008: nda), vanno predisposti solo quando i lavori si eseguono ad altezza superiore ai due metri».
Il testo in vigore dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008 fa invece propendere per la tesi contraria: infatti, nel lavoro in quota, ciò che conta è la quota di appoggio del lavoratore (non quella di lavoro effettivo). Insomma, l’altezza di due metri non va calcolata dalla quota del piano di calpestio (fino) alla quota in cui si esegue il lavoro; bensì mettendo in relazione la quota del piano di calpestio «rispetto ad un piano stabile», evidentemente situato a una quota inferiore.
Il che rende assolutamente ininfluente, ai fini del calcolo dell’altezza alla quale il lavoro viene eseguito, l’altezza del lavoratore.

D’altro canto, appare evidente la diversità di ratio normativa: mentre l’art. 122 del D.Lgs. n. 81/2008 fissa la quota minima al di sopra della quale scatta l’obbligo, per il datore di lavoro, di far ricorso a opere provvisionali, l’art. 107 del D.Lgs. n. 626/1994 fissa la quota minima al di sopra della quale il datore di lavoro, all’esito della valutazione del rischio (parametrata sia alla natura e all’entità dello stesso, sia alla tipologia e alla durata dei lavori, sia alle caratteristiche del sito oggetto dell’intervento), deve esercitare la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di opere provvisionali (scale a pioli, ponteggi, sistemi a funi). Sotto questo profilo, l’obiettivo dell’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008 già citato, è di stabilire corrette relazioni gerarchiche d’uso tra le attrezzature di lavoro normalmente impiegate per l’esecuzione di lavori in quota, con rischio di caduta dall’alto dei lavoratori (in termini, di recente, Cass. pen. sez. IV, 23 luglio 2018, n. 34818).
Solo in qualche raro caso la Cassazione ha affrontato e risolto in maniera corretta la quaestio iuris legata all’interpretazione dell’art. 107 del D.Lgs. n. 81/2008: con riguardo alla caduta a terra di un lavoratore da un impalcato di altezza pari a 185 cm, che era stato allestito per l’esecuzione di lavori edili, i giudici di legittimità hanno confermato la pronuncia assolutoria del datore di lavoro, ritenendo l’inapplicabilità delle norme cautelari in tema di lavoro in quota, argomentando che trattasi di «disposizioni riguardanti lo svolgimento di attività lavorativa ad un quota posta ad altezza superiore a due metri, laddove l’impalcato misurava cm. 185 di altezza» (Cass. pen. sez. IV, 1° dicembre 2011, n. 44650).

Per il resto, la maggior parte delle pronunce di legittimità continuano ostinatamente a interpretare le nuove norme (artt. 107 e 122 del D.Lgs. n. 81/2008) secondo i vecchi parametri e l’ormai superata dizione che era contenuta nell’abrogato art. 16 del D.P.R.n. 164/1956 (ex aliis, Cass. pen. sez. IV, 11 febbraio 2019, n. 6408, secondo cui «l’altezza superiore a metri due dal suolo va calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore». Conformi Cass. pen. sez. IV, 15 aprile 2019, n. 16175; Cass. pen. sez. IV, 15 settembre 2017, n. 42261; Cass. pen. sez. IV, 5 luglio 2017, n. 32638; Cass. pen. sez. IV, 9 maggio 2017, n. 22599; Cass. pen. sez. IV, 20 settembre 2016, n. 39024).

Quanto ai requisiti di formazione professionale per i lavoratori addetti all’uso di attrezzature di lavoro per lo svolgimento di lavori temporanei in quota, esaurita la fase transitoria fissata ai sensi del D.Lgs. n. 235/2003 al 19 luglio 2007, dispongono ora gli articoli 116, comma 4 e 136, comma 8 e l’allegato XXI del D.Lgs. n. 81/2008.

Relativamente poi al meccanismo di ripartizione, nei cantieri edili, dei compiti e delle responsabilità tra coordinatori e datori di lavoro delle imprese esecutrici, va ribadito che i primi – fermo restando l’obbligo preliminare della valutazione di tutti i rischi professionali, e gli obblighi inerenti alla segnalazione delle inosservanze al committente e alla obbligatoria sospensione delle singole lavorazioni in caso di pericolo grave e imminente: lett. e) e f) dell’art. 92 del D.Lgs. n. 81/2008 – devono limitarsi a gestire anch’essi direttamente i rischi professionali derivanti dall’effettuazione di lavori temporanei in quota, solo qualora questi determinino “interferenze” tra le lavorazioni (ad esempio, derivanti dall’uso comune di un ponteggio); in caso contrario i suddetti obblighi gestionali faranno esclusivamente carico alle imprese esecutrici e ai lavoratori autonomi.

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Cancerogeni e mutageni nuovi compiti in arrivo

La recente direttiva (Ue) 2019/130 andrà recepita entro il 20 febbraio 2021

Datore di lavoro e medico competente, unitamente all’intero sistema prevenzionistico, saranno chiamati a rivedere il proprio ruolo per la gestione del rischio in azienda. Punto di partenza: inasprire i controlli del livello di esposizione

Le novità
La nuova direttiva (Ue) 2019/130 del parlamento europeo del 16 gennaio 2019, in vigore dal 20 febbraio 2019, modifica la direttiva 2004/37/Ce sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione
ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro. In Italia sarà recepita nel D.Lgs. n. 81/2008 e modificherà/integrerà il titolo 9, Capo II e gli allegati XLII e XLIII; termine ultimo per il recepimento negli ordinamenti nazionali, il 20 febbraio 2021.
Si tratta della seconda modifica della direttiva 2004/37/Ce (la prima è la direttiva Ue 2017/2398 del Parlamento europeo del 12 dicembre 2017). 

Le principali modifiche che la direttiva (Ue) 2019/130 apporta alla direttiva 2004/37/Ce riguardano:
• l’introduzione dell’articolo 13-bis;
• alcuni emendamenti a carico dell’allegatoI e dell’allegato III.

L’articolo 13-bis «Accordi delle parti sociali», orientato allo sviluppo di politiche di prevenzione, prevede che gli accordi delle parti sociali eventualmente conclusi nell’ambito della presente direttiva siano elencati nel sito web dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) con necessità di aggiornamento periodico. Ciò per ribadire l’importanza della definizione degli accordi delle parti sociali per l’attuazione efficace, oltre alle misure normative, degli obblighi a carico dei datori di lavoro di cui alla stessa direttiva 2004/37/Ce.

Le modifiche dell’allegato I e dell’allegato III coinvolgono, invece, aspetti più tecnici.

L’allegato I alla direttiva 2004/37/Ce, recepito dall’allegato XLII del D.Lgs. n. 81/2008, definisce cancerogena una sostanza, miscela o procedimento, nonchè una sostanza o miscela liberate nel corso di un processo di seguito menzionato:
• produzione di auramina con il metodo Michler;
• i lavori che espongono agli idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame o nella pece di carbone;
• i lavori che espongono alle polveri, fumi e nebbie prodotti durante il raffinamento del nichel a temperature elevate;
• il processo agli acidi forti nella fabbricazione di alcool isopropilico;
• il lavoro comportante l’esposizione a polvere di legno duro;
• i lavori comportanti esposizione a polvere di silice cristallina respirabile generata da un procedimento di lavorazione.

Con la nuova direttiva (Ue) 2019/130 a questi andranno ora aggiunti:
• i lavori comportanti penetrazione cutanea degli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore;
• i lavori comportanti esposizione alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel.

Con la direttiva (Ue) 2019/130 l’allegato III («Valori limite e altre disposizioni direttamente connesse») è sostituito dal testo che figura nell’allegato della direttiva stessa; di fatto, la nuova direttiva apporta all’allegato III l’aggiunta di cinque sostanze cancerogene:
• il tricoloretilene (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• la 4,4’ – metilendianilina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’epicloridrina (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dibromuro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008);
• l’etilene dicloruro (categoria 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008).

Queste sostanze vanno ad aggiungersi:
• alle emissioni di gas di scarico dei motori diesel;
• alle miscele di idrocarburi policiclici aromatici (categoria 1A o 1B a norma del regolamento Ce n. 1272/2008), in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene;
• agli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna per lubrificare e raffreddare le parti mobili all’interno del motore.

Per tutti questi composti, ad eccezione degli ultimi due, sono definiti i valori limite che non devono essere superati nel corso dell’esposizione lavorativa. Per le miscele di idrocarburi policiclici aromatici, in particolare quelle contenenti benzo[a]pirene, e per gli oli minerali precedentemente usati nei motori a combustione interna non vengono identificati valori limite, ma, essendo noto l’assorbimento anche per via cutanea, è proposta la “skin notation” a raccomandare, nella valutazione del rischio, di considerare anche la capacità di contribuire in modo significativo all’esposizione totale attraverso la via di assorbimento cutanea. Salgono, quindi, ora a ventidue gli agenti cancerogeni per i quali è fissato un limite espositivo (in questa direttiva non è contemplato l’amianto) e sono dodici le sostanze che assumono la “skin notation”.

Le conseguenze per il datore di lavoro…
Da tutto ciò ne deriva che sono importanti le novità che datore di lavoro e medico competente dovranno affrontare. Per il datore di lavoro vi sarà la necessità di ricomprendere nel processo di valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni nuovi composti e, quindi, nuovi ambiti occupazionali. Ne sono importanti esempi i gas di scarico dei motori diesel e gli oli precedentemente (facendo attenzione alle pregresse esposizioni) usati nei motori a combustione interna (maggior parte dei veicoli). Per i primi, classificati dal 2014 come cancerogeni per l’uomo dalla Iarc (categoria 1), andranno considerate le attività comportanti l’impiego di motori diesel on road e off road e alcuni ambiti del trasporto ferroviario e navale.
Per i secondi ne conseguirà la necessità di valutare l’esposizione ad agenti cancerogeni per settori comuni fin qui per questo non valutati (uno per tutti il settore delle autoriparazioni).
Sempre per il datore di lavoro si confermerà con maggior forza l’obbligo di misurare e contenere l’esposizione per via inalatoria degli agenti cancerogeni o mutageni entro i limiti stabiliti dall’allegato III alla direttiva (Ue) 2019/130. Questi limiti sono stabiliti in funzione di un periodo di riferimento di otto ore o, per alcuni agenti cancerogeni o mutageni, di periodi di riferimento per esposizione di breve durata (Stel), normalmente di 15 minuti. Il testo della direttiva (Ue) 2019/130 precisa che l’adozione di valori limite relativamente agli agenti cancerogeni o mutageni non azzera i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dall’esposizione durante il lavoro (rischio residuo). I valori limite di esposizione professionale rientrano, in ogni modo, a pieno titolo nelle misure di gestione del rischio di cui alla direttiva 2004/37/Ce e il rispetto contribuisce, comunque, a una riduzione significativa dei rischi derivanti da questa esposizione. L’osservanza dei limiti non deve, tuttavia, pregiudicare gli altri obblighi dei datori di lavoro ai sensi della direttiva quali, in primis:
• la sostituzione dell’agente cancerogeno o mutageno con una sostanza, una miscela o un procedimento che non sia o sia meno nocivo per la salute del lavoratore;
• il ricorso a un sistema chiuso o altre misure volte a ridurre l’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile;
• la riduzione dell’utilizzazione di agenti cancerogeni e mutageni sul luogo di lavoro, la prevenzione o la limitazione dell’esposizione dei lavoratori al livello più basso possibile.

Già nel 2002 le linee guida per l’applicazione del titolo VII del D.Lgs. n. 626/1994 «Protezione da agenti cancerogeni e/o mutageni», del coordinamento tecnico per la sicurezza nei luoghi di lavoro delle regioni e delle province autonome, ricordavano che il limite non può essere considerato uno spartiacque verso il basso, dato che il rispetto del limite non comporta di per sé rispetto della minimizzazione dell’esposizione, mentre deve essere considerato tale verso l’alto, nel senso che un’attività che comporti superamento del limite non può essere in nessun caso mantenuta in essere.

Nella direttiva (Ue) 2019/130 sono poi fissati alcuni valori limite ai quali l’adeguamento dovrà essere progressivo:
• per le polveri di legno duro il valore limite è fissato a 2 mg/m3 con livello transitorio di 3 mg/m3 fino al 17 gennaio 2023;
• per i composti di cromo VI definiti cancerogeni il valore limite diventa 0,005 mg/m3 (0,010 mg/m3 fino al 17 gennaio 2025; 0,025 mg/ m3 per i procedimenti di saldatura o taglio al plasma o analoghi procedimenti di lavorazione che producono fumi fino al 17 gennaio 2025).

Per questi due agenti, già la direttiva (Ue) 2017/2398 aveva stabilito questi limiti che sono stati quindi ripresi dalla attuale direttiva (Ue) 2019/130.
Per le emissioni di gas di scarico dei motori diesel (misurate sotto forma di carbonio elementare) il limite è per la prima volta posto a 0,05 mg/m3. Il valore limite si applicherà a decorrere dal 21 febbraio 2023. Per le attività minerarie sotterranee e la costruzione di gallerie, il valore limite sarà in vigore a decorrere dal 21 febbraio 2026.
Lo strumento di analisi, a disposizione del datore di lavoro, per la valutazione dell’esposizione e dell’efficacia delle misure preventive per il rispetto dei limiti è, quindi, ancora una volta l’indagine ambientale la cui metodica è indicata dalle norme tecniche.
La valutazione dell’esposizione deve essere eseguita periodicamente. Le indagini devono valutare sia la via inalatoria, che l’esposizione cutanea. Per quest’ultima, vigono, tuttavia, difficoltà maggiori; non esistono, infatti, diffusi metodi di campionamento e analisi, né sono disponibili valori limite di esposizione cutanea con i quali confrontare le valutazioni effettuate.
Per alcuni agenti, segnatamente le emissioni di gas di scarico dei motori diesel, le metodologie di analisi (la già citata misura del carbonio elementare) non sono ancora di pronta disponibilità.

…e il medico competente
Il medico competente:
• avrà, anzitutto, la necessità di esercitare un ruolo attivo nella fase della valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni provenienti da nuovi settori professionali e collaborare attivamente al processo di individuazione e ottimizzazione delle misure di prevenzione;
• ove disponibili, dovrà essere in grado di mettere a disposizione idonei indicatori che quantifichino il livello di esposizione dei lavoratori coinvolti in particolari attività, utilizzando il monitoraggio biologico;
• avrà l’esigenza di perfezionare i protocolli di sorveglianza sanitaria per nuovi gruppi di lavoratori collaborando alla loro informazione e formazione;
• infine, amplierà la compilazione e l’aggiornamento del registro degli esposti aziendale.

Possibili sviluppi e conclusioni
In conclusione, si tratta, quindi, di modifiche rilevanti per datore di lavoro e medico competente, in realtà più diffusamente per tutto il sistema prevenzionistico aziendale, che riguardano molte attività e mansioni che sino a oggi non erano state incluse fra quelle da valutare e sorvegliare.
Per queste, proprio perché esponenti ad agenti cancerogeni o mutageni, si imporrà un più rigido controllo del livello di esposizione. Una terza proposta di revisione della direttiva 37/2004 (documento COM 2018/0171), la cui prima lettura al Parlamento europeo è attesa per dicembre 2019, prevede l’introduzione di ulteriori valori limite di esposizione per cadmio e suoi composti inorganici, acido arsenico e suoi composti inorganici, formaldeide, 4,4’-metilen-bis (2-cloroanilina) (MOCA).
Gli agenti reprotossici non trovano, invece, ancora inclusione, benché auspicata, nella direttiva (ue) 2019/130.

 

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Formazione inadeguata nella Babele delle lingue

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la Cassazione ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti per quanto riguarda la presenza, sul posto di lavoro, di operatori stranieri che non parlano, o parlano male, l’italiano. Una presa di posizione che si ispira al testo unico della sicurezza e all’accordo Stato-Regioni

Con la sentenza 16 aprile 2019, n. 16498, la di Cassazione, sezione 3 pen. (pres. Rosi; rel. Andronio) ha fornito alcuni nuovi interessanti orientamenti sulla di formazione in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare, per quanto riguarda quella dei lavoratori stranieri.
Bisogna subito richiamare, in tal senso, l’art. 37, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento sia a una serie di nozioni fondamentali (concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza) che costituiscono la cosiddetta “formazione generale” sia ai rischi riferiti alle mansioni, ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione che costituiscono, invece, la cosiddetta “formazione specifica” che, com’è noto, trovano una puntuale regolamentazione nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011. Proprio grazie all’intensa attività giurisprudenziale degli ultimi anni, i concetti di “adeguatezza” e di “sufficienza” si stanno riempiendo di contenuti e sotto questo profilo, come vedremo, la sentenza in commento riveste una significativa importanza perché la Cassazione ha in questa occasione ancora meglio messo sotto la lente d’ingrandimento la delicata questione dell’efficacia e dell’adeguatezza dei corsi di formazione rivolti ai lavoratori stranieri.

Il fatto
La vicenda affrontata dalla Cassazione riguarda l’infortunio dell’operaio T.M. di un’impresa appaltatrice, inquadrato come preposto, che durante lo sbloccaggio del nastro trasportatore, dovuto ad anomalia, ha perso la vita.
Con la sentenza del 28 marzo 2018, la Corte d’Appello di Milano, a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2016, ha confermato la sentenza emessa nel 2014 dal tribunale di Milano che aveva condannato gli imputati, D.C. rappresentante legale dell’impresa D. committente, e P. rappresentante legale della P. soc.coop., appaltatore, per i reati di cui agli artt. 41, primo e terzo comma; 42 secondo comma; 43, primo comma e 589, secondo comma, del codice penale, perché, ciascuno mediante condotta colposa di negligenze e imperizia, nell’inosservanza dell’art. 2087 del codice civile, avevano cagionato la morte di T.M., lavoratore dipendente della «ditta appaltatrice addetta alla manovalanza», attraverso l’inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 3, art. 71, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2008, per quanto attiene agli obblighi dell’imputato D.C., e degli artt. 17, 26, comma 2, e 37, comma 7, del D.Lgs. n 81/2008, con riferimento agli obblighi a carico dell’imputato P. Va precisato che la Cassazione aveva annullato, però, la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello nel 2015, rilevando l’insufficienza della motivazione quanto al profilo dell’ampiezza e della serietà dell’obbligo informativo sui rischi lavorativi.
In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, la sentenza assolutoria non aveva chiarito quale fosse il livello di approfondimento del documento di valutazione e della formazione in concreto svolta, a fronte del rischio smontaggio dello scivolo cui era addetto il lavoratore, né aveva chiarito se lo smontaggio potesse dirsi come anomalia prevedibile o imprevedibile, anche considerata la circostanza della presenza di un tubo che avrebbe potuto costituire un ostacolo allo spostamento dello scivolo.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello del 2018 sia D.C. sia P. avevano proposto ricorso per Cassazione censurando l’operato dei giudici sotto vari profili; concentrando l’attenzione su quello della formazione, che qui interessa, i ricorrenti avevano lamentato l’omessa valutazione di controprove dichiarative ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, a loro avviso, i giudici del rinvio in contrasto con le indicazioni contenute nella sentenza di annullamento, avrebbero omesso di approfondire i dirimenti aspetti della violazione degli obblighi informativi cui erano tenuti gli imputati e dell’eventuale abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore, facendo rilevare che per quanto riguarda le prove testimoniali gli stessi giudici avrebbero considerato solo parzialmente le dichiarazioni rese dai testimoni M., B. C. e C.E., omettendo qualsivoglia valutazione su profili dirimenti. ritenute decisive, nonché il vizio di motivazione per il travisamento parziale e per le incoerenze delle conclusioni rispetto ai dati probatori acquisiti.
In particolare, secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il teste B.C., consulente esterno della sicurezza sul lavoro, aveva dichiarato che i corsi di formazione venivano eseguiti direttamente in azienda ogni tre o quattro mesi, che il lavoratore vittima dell’incidente partecipava ai corsi tenuti in italiano, ma compresi da tutti i lavoratori presenti, e che durante gli stessi veniva espressamente indicata la procedura da seguire in caso di guasto. Aveva precisato, altresì, che la predetta procedura impediva qualsivoglia partecipazione diretta da parte del lavoratore, tenuto a contattare il tecnico della manutenzione, unico incaricato della risoluzione dei guasti dei macchinari.
E ancora, sempre secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valorizzare le dichiarazioni rese dal teste B. (responsabile del reparto) che aveva confermato il regolare svolgimento dei corsi di formazione tenuti dal consulente B.C. e aveva ribadito che il T.M. non era autorizzato allo smontaggio del nastro trasportatore.
Identiche dichiarazioni sarebbero state rese dal teste M., dipendente della P. soc. coop. e unico testimone oculare presente al momento dell’incidente. Quindi, secondo i due imputati, queste dichiarazioni sarebbero idonee a dimostrare il corretto e abituale svolgimento di corsi di formazione rivolti ai dipendenti delle due società coinvolte, nonché l’abnormità della condotta tenuta dal lavoratore, cimentatosi, imprevedibilmente, in un’attività non rientrante nella loro competenza.

La legittimità
La Cassazione ha, tuttavia, respinto i ricorsi ritenendoli infondati. In particolare, per quanto riguarda la formazione, i giudici di legittimità hanno tenuto a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte d’Appello non ha omesso di valutare le dichiarazioni testimoniali richiamate nel ricorso, ma, pur valutandole, le ha ritenute immeritevoli di prevalere rispetto alle dichiarazioni di senso contrario, specifiche, complete e soprattutto reciprocamente riscontrate.
In particolare, per quanto riguarda i corsi di formazione, i giudici di merito non si sono limitati a riportare la testimonianza del consulente B. C., nella parte in cui lo stesso ha confermato il regolare svolgimento dei corsi all’interno dell’azienda, ma hanno, altresì, richiamato il prosieguo della testimonianza «(…) da cui è emerso con pacifica attendibilità che i corsi di formazione erano tenuti in lingua italiana nonostante i dipendenti impiegati nell’azienda appaltatrice fossero per la maggior parte stranieri».
Sottolineano ancora i giudici che, più precisamente, i corsi di formazione erano tenuti «(…) soltanto in lingua italiana anche se rivolti ad una compagine di lavoratori stranieri per buona parte incapaci di comprendere l’italiano»; di conseguenza sono stati ritenuti inidonei a garantire il necessario livello di preparazione in quanto appare evidente che, anche da un punto di vista metodologico, la formazione così erogata diventa “zoppa” in quanto solo formale e non sostanziale come, invece, richiede la norma.
Sotto questo profilo giova ricordare che il già citato art. 37, comma 13, del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga proprio il datore di lavoro a compiere preliminarmente una verifica finalizzata a stabilire il livello di conoscenza della lingua veicolare da utilizzare nei corsi e, quindi, un accertamento in concreto della conoscenza dell’italiano cosa che sembra non sia avvenuta nel caso de quo.

Una parola sui rischi
Secondo la Cassazione, quindi, i corsi di formazione predisposti dagli imputati, sebbene svolti con cadenza trimestrale, non potevano ritenersi sufficienti a garantire ai lavoratori un idoneo livello di competenze anche perché, come emerso dalle testimonianze, avevano «(…) carattere generale e poco approfondito, non prevedevano insegnamenti differenziati per le singole mansioni attribuite ai dipendenti».
Sotto questo profilo viene sottolineato che, in effetti, durante i corsi venivano fornite indicazioni generali sul complesso delle lavorazioni compiute negli stabilimenti, ma secondo i giudici « (…) non erano idonei a formare i lavoratori in ordine allo svolgimento delle specifiche mansioni cui erano preposti e ad informarli in merito al complesso dei rischi connessi non solo alla propria attività, ma anche alle ulteriori operazioni inevitabilmente interferenti con le lavorazioni di propria competenza».
Di conseguenza, per i giudici, la formazione è risultata carente del requisito della specificità, anche in ordine ai rischi da interferenze, e quindi ritenuta anche per questo motivo non adeguata.

Il comportamento abnorme
Per quanto riguarda, poi, l’accertamento dell’abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore T.M. nella sentenza viene precisato che era “non rara” la necessità di intervenire sulle frequenti anomalie del macchinario gestito dall’infortunato. Infatti, sarebbero stati dimostrati frequenti interventi di sbloccaggio del nastro trasportatore che avrebbero richiesto una specifica formazione dei lavoratori o, quanto meno, una concreta informativa in ordine ai rischi connessi allo svolgimento di quell’attività, a prescindere dalla tipologia di intervento da compiere per garantire la ripresa del funzionamento dei macchinari. Per altro si osservi che nella sentenza è anche sottolineato che la Corte d’Appello ha accertato che, in effetti, sussisteva un quadro operativo privo di un’effettiva distinzione di ruoli, di competenze e di mansioni «…tanto che il T.M. era solo formalmente considerato un “preposto”, ma in realtà svolgeva attività di operaio semplice al pari di tutti gli altri lavoratori».

La verifica
In definitiva, quindi, queste omissioni – unitamente ad alcune altre come, ad esempio, la genericità del Duvri – hanno radicato la responsabilità dei due imputati; ma ciò che qui preme di più sottolineare è che con la sentenza n. 16498/2019 la Cassazione ha focalizzato, quindi, forse meglio che in passato 2 una delle più importanti “patologie” della formazione che frequentemente si registrano nella prassi: l’attuazione di un intervento formativo in italiano rivolto a una platea di lavoratori stranieri non in grado, però, di comprendere l’italiano. Bisogna ricordare che, sotto questo profilo, proprio i dati sul fenomeno infortunistico e la massiccia apertura del mercato del lavoro ai lavoratori stranieri hanno indotto il legislatore nel 2008 a introdurre, con l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 81/2008, il già citato obbligo della verifica preventiva della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo. Secondo questa norma, infatti, il «(…) contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo».
Per altro, giova anche ricordare, infine, che la rilevanza di questa problematica emerge anche dalla disciplina regolamentare dell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, che prevede nei corsi rivolti a lavoratori stranieri anche le opzioni dell’ausilio di mediatori interculturali o di traduttori e il ricorso a programmi di formazione preliminare in modalità e-learning.

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PREVENZIONE INCENDI: DAL 21 OTTOBRE 2019 OBBLIGATORIO IL “NUOVO APPROCCIO”

Il decreto 12 aprile 2019, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019, apporta importanti modifiche al decreto 3 agosto 20151, noto come codice di prevenzione incendi. Con il nuovo decreto – che entrerà in vigore il 21 ottobre 2019 anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività soggette ma non normate (prive di regola tecnica verticale) – dovrà essere adottato il nuovo approccio prestazionale.

Prima di esaminare le novità introdotte con il decreto 12 aprile 2019, è opportuno ricordare che il D.M. 3 agosto 2015, oggetto delle modifiche, è un atto di notevole rilevanza in quanto, attraverso l’adozione di un unico testo organico e sistematico di disposizioni e l’introduzione di un nuovo approccio metodologico, si è potuto semplificare e razionalizzare l’impianto normativo in materia di prevenzione incendi.

Di fatto, il D.M. 3 agosto 2015 ha segnato il passaggio da un sistema rigido, caratterizzato da norme prescrittive, a uno che agevola l’approccio prestazionale, che permette di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Il D.M. 3 agosto 2015, entrato in vigore il 19 novembre 2015, è costituito da cinque articoli e un consistente allegato tecnico, 1), nel quale sono contenute le norme di prevenzione incendi. Attraverso l’articolato sono state individuate le attività ricadenti nel campo di applicazione del decreto e indicate le modalità di adozione della nuova metodologia di prevenzione incendi. In particolare, sono state approvate ai sensi dell’articolo 15 del D.Lgs. 8 marzo 2006 n. 139, le norme tecniche di cui all’allegato al decreto ed è stata prevista una introduzione graduale del nuovo approccio, che ha permesso, sino ad oggi, che le nuove norme potessero essere applicate in alternativa alle specifiche disposizioni dettate dalle vigenti regole di prevenzione incendi.

Per quanto concerne l’allegato al decreto, nel quale sono contenute le specifiche tecniche, si ricorda la suddivisone in quattro sezioni: generalità, strategia, regole tecniche verticali e metodi. Attraverso queste sezioni sono specificati puntualmente i principi fondamentali per la progettazione della sicurezza antincendio, gli elementi necessari per ideare la strategia antincendio, le regole tecniche di prevenzione incendi applicabili e le metodologie progettuali. In particolare, con la prima sezione dell’allegato 1 (sezione G), suddivisa in tre capitoli, sono descritti la terminologia e i simboli grafici, sono fissati i criteri di progettazione per la sicurezza antincendio e, infine, sono determinati i profili di rischio delle attività.

Con la sezione S della regola tecnica sono trattate le misure per comporre la strategia antincendio finalizzata alla riduzione del rischio di incendio. In questa sezione, composta di dieci capitoli, sono specificate le misure antincendio di prevenzione, protezione e gestionali applicabili alle diverse attività. Con la sezione V sono trattate le regole tecniche verticali che si applicano a specifiche attività (o ad ambiti di queste ultime). Le misure tecniche contenute in questa sezione sono complementari o integrative a quelle generali previste nella sezione S «Strategia antincendio». Al riguardo, va ricordato che la loro funzione è quella di fornire ulteriori indicazioni rispetto a quelle già previste dal codice. Di fatto, l’applicazione di queste regole consente di raggiungere alti livelli di sicurezza attraverso un panorama di soluzioni tecniche più flessibili e aderenti alle singole esigenze delle diverse attività. Le regole tecniche verticali, i cui contenuti di base sono quelli previsti dal codice, sono caratterizzate dalla stessa struttura: «Campo di applicazione», «Classificazioni», «Profili di rischio», «Strategia antincendio e altre specifiche tecniche». Con il «Campo di applicazione» e le «Classificazioni» sono individuate le attività per le quali è possibile applicare le norme contenute nella regola e la loro distinzione in funzione di alcuni parametri (come per esempio numero degli occupanti, massima quota dei piani, classificazione delle aree, ecc.). Nel punto concernente i «Profili di rischio» (indicatore speditivo del rischio incendio di un’attività) è richiamata la necessità di applicare la metodologia di cui al capitolo G3 del codice («Determinazionedei profili di rischio delle attività»). Con la sezione «Strategia antincendio» sono specificate le misure antincendio finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. In questo punto della regola sono indicate soluzioni aggiuntive, complementari o sostitutive a quelle conformi previste dal codice nella sezione S (S.1 «Reazione al fuoco», S.6 «Controllodell’incendio», S.2 «Resistenza al fuoco»,S.7 «Rivelazione ed allarme», S.3 «Compartimentazione», S.8 «Controllo di fumi e calore», S.4 «Esodo», S.9 «Operatività antincendio», S.5 «Gestione della sicurezza antincendio», S.10 «Sicurezza degli impianti tecnologici e di servizio»). La regola tecnica di prevenzione incendi allegata al decreto 3 agosto 2015 termina con la sezione M «Metodi», attraverso la quale sono definite le disposizioni concernenti l’applicazione dei principi dell’ingegneria della sicurezza antincendio, descritte le procedure di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto e, infine, delineata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita.

La metodologia per l’ingegneria della sicurezza antincendio (o progettazione antincendio prestazionale) è trattata nella sezione M del codice. Attraverso questa sezione è descritta dettagliatamente la metodologia di progettazione dell’ingegneria della sicurezza antincendio che, di fatto, è la metodologia che consente di definire soluzioni idonee al raggiungimento di obiettivi progettuali mediante analisi di tipo quantitativo. Il primo elemento trattato in questa sezione è quello concernente le fasi del metodo. Al riguardo ricordiamo che la metodologia di progettazione prestazionale si compone di due fasi: analisi preliminare e analisi quantitativa. In particolare, nella prima fase (analisi preliminare) sono formalizzati i passaggi che conducono a individuare le condizioni più rappresentative del rischio al quale l’attività è esposta e quali sono le soglie di prestazione cui riferirsi in relazione agli obiettivi di sicurezza da perseguire, mentre nella seconda fase (analisi quantitativa), impiegando modelli di calcolo specifici, si esegue l’analisi quali-quantitativa degli effetti dell’incendio in relazione agli obiettivi assunti sunti, confrontando i risultati ottenuti con le soglie di prestazione già individuate e definendo il progetto da sottoporre a definitiva approvazione. Nel capitolo M sono inoltre illustrati puntualmente i passaggi (sotto-fasi) necessari per definire i rischi da contrastare e i criteri oggettivi di quantificazione degli stessi, utili per la successiva analisi numerica, e quelli indispensabili per effettuare le verifiche di sicurezza degli scenari individuati. Il codice specifica che la documentazione di progetto deve essere integrata, per la prima fase (analisi preliminare), dal sommario tecnico – nel quale è sintetizzato il processo seguito per individuare gli scenari di incendio di progetto e le soglie di prestazione – e, per la seconda fase (analisi quantitativa), dalla specifica relazione tecnica in cui si presentano i risultati dell’analisi e il percorso progettuale seguito e il programma per la gestione della sicurezza antincendio.
Alla descrizione della metodologia di progettazione dell’ingegneria seguono le specifiche concernenti l’attuazione della gestione della sicurezza antincendio. Al riguardo si segnala che con l’applicazione della metodologia prestazionale devono essere previste specifiche misure di gestione della sicurezza antincendio (Gsa) affinché non possa verificarsi la riduzione del livello di sicurezza assicurato inizialmente.

La sezione M termina con i capitoli concernenti gli scenari di incendio per la progettazione prestazionale e la salvaguardia della vita con la progettazione prestazionale. Di fatto, attraverso questi capitoli sono specificati gli altri aspetti tecnici della progettazione antincendio prestazionale. In particolare, è descritta la procedura di identificazione, selezione e quantificazione degli scenari di incendio di progetto che sono impiegati nell’analisi quantitativa da parte del professionista che si avvale dell’ingegneria della sicurezza antincendio. Sono fornite, inoltre, le indicazioni per eseguire la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sicurezza antincendio per le attività. Infine, è specificata la progettazione prestazionale per la salvaguardia della vita, necessaria per assicurare la possibilità per tutti gli occupanti di un’attività di raggiungere o permanere in un luogo sicuro, senza che ciò sia impedito da un’eccessiva esposizione ai prodotti dell’incendio, unitamente alla possibilità per i soccorritori di operare in sicurezza.

Il provvedimento
Il decreto 12 aprile 2019, costituito da cinque articoli, inizialmente sancisce l’abrogazione del comma 2 dell’articolo 1 del decreto del ministro all’Interno 3 agosto 2015 (articolo 1). Si tratta di una modifica di particolare rilevanza in quanto pone un termine all’introduzione graduale del nuovo approccio contenuta nella prima versione del codice di prevenzione. Il comma abrogato stabiliva, infatti, la possibilità di applicare sia le disposizioni contenute nel codice di prevenzione sia le specifiche disposizioni dettate dalle previgenti regole di prevenzione incendi.
Segue la sostituzione integrale dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 concernente il «Campo di applicazione e modalità applicative ». In particolare, con il nuovo articolo 2 è stabilito che le specifiche tecniche contenute nel codice di prevenzione incendi si applicano alla progettazione, alla realizzazione e all’esercizio delle attività di nuova realizzazione di cui all’allegato I del decreto del D.P.R. 1° agosto 2011, n. 1512, individuate con i numeri 9, 14; da 19 a 40; da 42 a 47; da 50 a 54; 56, 57; 63, 64, 66, a esclusione delle strutture turistico-ricettive all’aria aperta e dei rifugi alpini; 67, a esclusione degli asili nido; da 69 a 71; 73, 75, 76.
Di fatto, con il nuovo articolo 2, sono state comprese nel campo di applicazione la quasi totalità delle attività non normate (prive di regola tecnica verticale) per le quali l’unico riferimento normativo diventa ora il D.M. 3 agosto 2015.

Altra novità apportata dal decreto 12 aprile 2019 riguarda le disposizioni per gli interventi di modifica o di ampliamento alle attività esistenti. Per questi casi, attraverso la rivisitazione dell’articolo 2, è stabilito che le norme si applicano a condizione che le misure di sicurezza antincendio esistenti, nella parte dell’attività non interessata dall’intervento, siano compatibili con gli interventi da realizzare. Invece, per gli interventi di modifica o di ampliamento delle attività esistenti non rientranti in questi ultimi casi, è specificato che si devono applicare le specifiche norme tecniche definite nel nuovo comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto 3 agosto 2015 (di seguito descritto) e, per quanto non disciplinato dalle stesse, i criteri tecnici di prevenzione incendi di cui all’articolo 15 (comma 3) del D.Lgs n.139 del 8 marzo 2006.3. Si segnala che è comunque concessa al responsabile dell’attività, la possibilità di applicare le disposizioni del codice di prevenzione incendi all’intera attività.

Con la nuova versione dell’articolo 2 del decreto 3 agosto 2015 è ribadito che le norme tecniche contenute nel codice possono essere di riferimento anche per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio delle attività che non soggette ai controlli di prevenzione incendi. 

Il decreto 12 aprile 2019 prosegue con l’articolo 3 attraverso il quale è stato introdotto l’articolo 2-bis nel decreto del 3 agosto 2015.
In particolare, con questo nuovo articolo sono indicate le attività per le quali è concesso in alternativa all’approccio definito dal codice, l’uso di norme tecniche indicate del nuovo comma 1-bis dell’articolo articolo 5 introdotto dal decreto 12 aprile 2019 attraverso il quarto articolo. Al riguardo segnaliamo che con l’introduzione del comma 1-bis all’articolo 5 nel decreto del 3 agosto 2015 sono definiti tutti gli atti normativi le cui specifiche non possono più essere adottate per le attività per le quali è previsto solo l’utilizzo delle disposizioni del codice di prevenzione incendi.

Si evidenzia che attraverso l’art. 4 del decreto 12 aprile 2019 è stato introdotto nell’art. 5 del decreto 5 agosto 2015 anche il comma 2, necessario per specificare che per le attività in regola con gli adempimenti previsti per la valutazione dei progetti, per i controlli di prevenzione incendi e per quelle che hanno potuto usufruire dell’istituto della deroga, il decreto 03 agosto 2015 non comporta adempimenti.
Il decreto 12 aprile 2019 termina con l’art. 5 attraverso il quale sono definite le disposizioni transitorie e quelle finali. In particolare, è stabilito che le modifiche introdotte al decreto 5 agosto 2015 si applicano alle attività interessate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il provvedimento entra in vigore il 21 ottobre 2019 (centottantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2019).

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Consulenti responsabili? La parola alla Cassazione

Infortuni sul lavoro: il punto della sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018

 

Se i professionisti esterni, di regola, non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa prevenzionistica? Un’articolata e interessante pronuncia della suprema Corte chiarisce alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione

 

Il fatto
La sentenza in esame è stata emessa nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti di due consulenti esterni di una azienda in relazione all’infortunio sul lavoro occorso a tre operai. Per il medesimo infortunio era stata accertata, in un procedimento gemello, la responsabilità del datore di lavoro, nonché Rspp, in particolare, per non aver valutato in modo adeguato i rischi aziendali e aver realizzato empiricamente, quale progettista, una macchina centrifuga caratterizzata da anomalie e carenze strutturali quali il sottodimensionamento dei meccanismi di bloccaggio della flangia.
Nel corso della realizzazione di un getto di lega di acciaio inossidabile, tre dipendenti del reparto fonderia dell’azienda che produce acciai speciali centrifugati erano stati investiti in varie parti del corpo dalla massa di acciaio liquido fuoriuscito dalla conchiglia rotante nella quale quest’ultima era contenuta. Durante la fase di solidificazione del processo di colata, infatti, il coperchio della conchiglia, detto “flangia”, si era sollevato a causa del cedimento di due dei tre dei dispositivi meccanici di bloccaggio – cedimento dovuto alla pressione generata dal metallo fuso in essa contenuto che, sottoposto a una spinta verso l’alto a causadel movimento centrifugo della conchiglia – ed era fuoriuscito improvvisamente.
L’investimento degli operai aveva determinato la morte di due lavoratori e il ferimentograve di uno.

Il merito
Nell’ambito del giudizio di merito erano stati giudicati corresponsabili due consulenti, entrambi professionisti esterni all’azienda e legati al datore di lavoro da autonomi contratti d’opera intellettuali in virtù dei quali all’uno (tale F.) era stato assegnato l’incarico di collaborare alla valutazione dei rischi all’altro (tale S.), quello
di occuparsi dei profili di certificazione di qualità del macchinario. Ai consulenti era stato contestato di non aver in particolare valutato il rischio meccanico di proiezione a distanza del metallo fuso, di aver predisposto barriere balistiche laterali e dispositivi di protezione individuali tutti inidonei.
Il presupposto sul quale è stata ritenuta, secondo la Corte di Appello, la «corresponsabilità» di:
• F. deriva dal suo inserimento ex contractu, ancorché si tratti di “consulenza generalizzata” in relazione alla messa in sicurezza delle macchine, nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda. Ciò avrebbe comportato l’assunzione di una posizione di garanzia in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, giudicata nel caso di specie inadeguata (così ha argomentato il giudice di primo grado: se un soggetto, come il F, «si inserisce ex lege o ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale e questo è comunque avviato ed in atto (..) non è esente da (co) responsabilità»);
• S. deriva dalla sua investitura ex contractu in relazione agli adempimenti di certificazione del macchinario che sarebbero stati connessi con la sicurezza del macchinario e con la relativa materia prevenzionistica a tutela dei lavoratori.

La legittimità
La suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza di condanna agli e etti civili pronunciata nei confronti di S. ritenendo impossibile accertare al di là di ogni ragionevole dubbio un’eventuale responsabilità a suo carico per gli infortuni occorsi. La Corte ha cassato, invece, con rinvio la sentenza di condanna di F. rispetto alla posizione del quale dovrà essere celebrato un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale si uniformerà
ai principi di diritto affermati. Con la sentenza n. 57937 del 21 dicembre 2018, in sostanza, la suprema Corte nell’affrontare lo specifico tema della responsabilità in materia di sicurezza dei «consulenti» del
datore di lavoro statuisce che:
• i consulenti, in quanto soggetti estranei alla compagine aziendale e destinatari di un incarico di consulenza generale, non sono destinatari “in linea generale” della normativa prevenzionistica e, come tale, di posizioni di garanzia. E ciò a differenza del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ai quali la disciplina è formalmente e direttamente rivolta;
• ferma la sopracitata regola, i consulenti possono assumere la veste di «corresponsabili» a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale. A tal fine è necessario che, in relazione alle circostanze del caso concreto sia possibile, in alternativa, affermare che abbiano acquisito la veste di garante «di fatto» oppure abbiano realizzato una condotta cooperativa causalmente connessa all’evento e nella consapevolezza dell’altrui condotta.
Tra i destinatari della normativa prevenzionistica non vi sono (di regola) i consulenti.
Con riguardo al primo punto, la Corte è chiara nell’affermare come i consulenti esterni che non sono riconducibili all’organizzazione aziendale non sono tra i destinatari diretti della normativa sulla sicurezza. La disciplina prevenzionistica è, infatti, rivolta anzitutto nei confronti del datore di lavoro che è il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del codice civile e, quindi, dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e di assumere direttamente le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazionidi rischio. Al datore di lavoro si aggiungono, altresì, come destinatari il “dirigente” (art. 18, D.Lgs. cit.) «che è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso» e il “preposto” (art. 19, D.Lgs. cit.) «colui che attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione».
La suprema Corte, sotto questo profilo, afferma «il ragionamento della Corte di appello, che estende automaticamente tale posizione al consulente, è inaccettabile e contrario alle disposizioni legislative in materia antinfortunistica, che individuano nel datore di lavoro, nel Rspp ed eventualmente nei dirigenti e soggetti preposti interni all’azienda i garanti dei rischi dei lavoratori e gli unici destinatari della normativa prevenzionistica».
Ciò comporta che i consulenti anche qualora si inseriscano nel processo di valutazione dei rischi aziendali non sono perciò solo automaticamente «corresponsabili» unitamente alle figure istituzionali e questo perché l’avvalimento di soggetti tecnici esterni non implica necessariamente e automaticamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro. Ma se dunque i consulenti esterni, di regola,
non sono destinatari di obblighi in materia di sicurezza né, quindi, titolari delle relative posizioni di garanzia ex lege, perché e quando possono essere chiamati a rispondere per la violazione della normativa sulla sicurezza?
«Corresponsabilità» dei consulenti esterni: sì, se ricorre in concreto il cosiddetto intreccio cooperativo. La natura colposa dei delitti in materia di infortuni sul lavoro (omicidio colposo e lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro) impone di ricorrere – nel caso in cui gli illeciti siano riconducibili a una pluralità di soggetti – all’istituto della cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale che si caratterizza, a differenza del concorso di cui all’art. 110 del codice penale dal difetto della volontà di partecipare con altri alla realizzazione del delitto. Non a caso di parla di cooperazione in luogo di concorso.
A questo fine, oltre alla pluralità di soggetti, è necessario che ricorrano i seguenti elementi: la realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, il contributo causale alla realizzazione dell’evento e la consapevolezza
(e non la volontà) da parte ci ciascun partecipe di agire in concomitanza con l’azione di altri. Si tratta di un istituto cui è assegnato il compito di estendere la responsabilità penale colposa a condotte astrattamente atipiche (meramente agevolatrici o anche di modesta significatività) rispetto alla produzione dell’evento non voluto.
La Corte, per assegnare contenuto a questo istituto, richiama un precedente del 2013 (Cass. pen. sez. IV – ud. 3 ottobre 2013; 18 ottobre 2013, sent. n. 43083) nel quale si afferma che la rilevanza penale del contributo
anche atipico si coglie “in termini di colpevolezza e d’imputazione causale obiettiva dell’evento, attraverso il nesso d’indole psicologica che lega la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori del delitto colposo, sì da giustificare il riconoscimento di precisi doveri d’indole cautelare anche in relazione e alla sfera di soggetti rispetto ai quali non parrebbe in astratto predicabile alcuna specifica o formale posizione di garanzia».
In quella occasione, la Cassazione aveva confermato la sentenza di condanna per cooperazione in omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa sulla sicurezza nei confronti dell’amministratore
della società subaffittuaria di una stalla in relazione al decesso del soggetto incaricato dalla proprietà del fabbricato e committente dei lavori (quindi di un soggetto diverso) alla rimozione di alcune lastre di fibrocemento poste a copertura del tetto. Il giudizio aveva confermato che l’operazione, infatti, avvenne nella consapevolezza da parte dell’imputato, per quanto rileva, dell’omessa predisposizione da parte del committente di misure di protezione a tutela dell’operatore a fronte del rischio evidente di caduta dall’alto (consapevolezza
cooperazione) e addirittura fornendo il mezzo di elevazione delle lastre sostitutive al livello della copertura (condotta agevolatrice causalmente connessa).
In sostanza, la Corte ha ricostruito in capo all’agente/cooperante un “dovere giuridico di astensione” – pur in difetto di posizione di garanzia – allorché si trovi a operare in una situazione di rischio “immediatamente e distintamente percepibile”: in questo contesto, qualora la mancata astensione (condotta cooperativa) si traduca in un’agevolazione o aggravamento del rischio che poi si concretizza (l’infortunio) e il contributo causale alla realizzazione dell’evento sia giuridicamente apprezzabile (e provato) l’agente ne risponderà penalmente ex art. 113 del codice penale.
In sintesi, la condotta di “cooperazione”, di per sé penalmente a contenuto neutro, riceve la qualifica di condotta colposa, quindi penalmente rilevante, soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, a cui ci si limita volontariamente ad aderire. L’istituto della cooperazione colposa, pertanto, estende l’area del penalmente rilevante anche alle condotte dei cooperanti le quali di per sé non violino alcuna regola cautelare ma siano adesive all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta «assumendo così sulla sua azione (anche di sola agevolazione) il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento».
Afferma, infatti, la Corte che anche quando il coinvolgimento integrato di più soggetti non sia imposto dalla legge o da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, e sia contingenza oggettivamente definita
senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza «l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio, giustifica la penale rilevanza di condotte che, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano e si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte queste situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così
un legame e un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Questa pretesa “d’interazione prudente” individua il canone per definire il fondamento e i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa (v.Cass., sez. 4, n. 1428/2011, Rv. 252940)».

Questo principio è stato ribadito anche successivamente in un caso nel quale è stata confermata, a titolo di cooperazione colposa, la responsabilità dell’amministratore di una società gerente un complesso sciistico per l’infortunio mortale occorso a un bambino rimasto incastrato in un gonfiabile, allestito nell’area di proprietà del complesso, ma sradicatosi a seguito di vento di burrasca ampiamente previsto (Cass. pen. sez. feriale, ud. 25 agosto 2015 – 13 ottobre 2015 n. 41158). La suprema Corte, peraltro, ha ricondotto all’istituto previsto dall’art. 113 del codice penale la fonte di «corresponsabilità» anche del responsabile del serviziodi prevenzione e protezione di un’azienda sanitaria per l’infortunio occorso a seguito di una sovratensione dell’impianto elettrico a un paziente della struttura in terapia elettromedicale (Cass. pen. sez. IV – ud. 24 gennaio 2013 – 11 marzo 2013, n. 11492). Pur affermando che il Rspp «non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica» operando quale “consulente” del datore di lavoro «nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori» e, come tale, operando in mancanza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, egli può nondimeno “concorrere” con la responsabilità del datore di lavoro.
Nel dettaglio «anche il Rspp (…) può essere ritenuto (co)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione».
La mancata doverosa segnalazione di un rischio da parte del Rspp è stata dunque qualificata come concausa dell’evento dannoso consapevolmente connessa all’azione posta in essere dal garante. Quindi, se è vera la conclusione (rassicurante per i professionisti esterni coinvolti in materia di sicurezza aziendale) che questi non sono tra i destinatari diretti della normativa cautelare di settore è vero, altresì, che il rischio di un coinvolgimento a titolo di cooperazione colposa ex art. 113 del codice penale è ugualmente effettivo.
Ogni procedimento penale nel quale verranno chiamati a rispondere a questo titolo richiederà peraltro, la Corte lo ribadisce con forza, un accertamento probatorio mirato a verificare e ricostruire in concreto i termini della condotta cooperativa fornita. Tenuto conto che la «corresponsabilità» del consulente potrà trovare fondamento tanto nel caso dell’assunzione di “fatto” di una posizione di garanzia quanto nel caso, come visto, di una condotta cooperativa anche solo agevolatrice ma causalmente rilevante e consapevole all’azione altrui, l’accertamento probatorio potrà assumere complessità variabile. Ciò tenendo, peraltro, conto che i delitti in materia si caratterizzano per essere per lo più reati colposi omissivi impropri caratterizzati cioè dal punire non già il semplice mancato compimento di un’azione doverosa bensì l’evento cagionato dall’omissione del comportamento doveroso finalizzato a prevenirlo (la morte o le lesioni). Ne consegue che alla complessità dell’accertamento deriva a cascata il rischio di esposizione dell’imputato all’alea di una ricostruzione della “verità processuale” lontana da quella fattuale, ferma l’evidenza che già ordinariamente i due concetti non sono pienamente e necessariamente sovrapponibili. La Corte con la sentenza in commento cerca di offrire coordinate rassicuranti al fine di consentire agli operatori del diritto di navigare senza incognite e non perdersi nel mare dell’accertamento probatorio.

Un discrimine da considerare
Qualora il coinvolgimento del “consulente” avvenga sulla base dell’acquisizione di una posizione di garanzia riconducibile all’esercizio “di fatto” delle funzioni tipiche di una delle diverse figure di garante, la ricostruzione degli obblighi cautelari deve essere operata «accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro».
Nel caso di specie la suprema Corte ha scrutinato la sentenza impugnata per verificare se e come la Corte territoriale avesse in concreto ricostruito la posizione di garanzia ascritta di fatto agli imputati. L’esito negativo di questa verifica deriverebbe dal fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare in modo accurato «le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato» pur avendo accertato il difetto di delega (investitura formale) e dell’attribuzione specifica di compiti, non ricostruibile sulla base della “consulenza sia pure generalizzata”.

La cooperazione causalmente rilevante e consapevole
Come anticipato, qualora il coinvolgimento del “consulente” non derivi dall’assunzione anche di fatto di una posizione di garanzia, l’accertamento giuridico del contributo cooperativo fornito nei termini rigorosamente descritti assume profili di complessità probatori- giuridici non indifferenti.
In questo caso, del pari, occorre infatti – afferma la Corte – che «una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che di adeguato conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento».
Nel caso di specie questa complessità si è tradotta in un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per il consulente S., incaricato di collaborare con il datore di lavoro in ordine alla redazione di documentazione tecnica diretta a regolarizzare il macchinario al cui utilizzo erano intenti gli operai infortunati. Afferma la Corte che «i contrastanti esiti dei giudizi di primo e di secondo grado non consentono di pervenire ad una tranquillante e motivata sentenza di responsabilità».
Al contrario, quanto alla posizione di F., questa necessità di accertamento ha condotto, come anticipato, a una sentenza di annullamento con rinvio affinché la Corte territoriale verifichi, dandone conto, alla luce dei principi affermati dalla suprema Corte se il coinvolgimento di F. sia riconducibile a una condotta di cooperazione rilevante ai sensi dell’art. 113 del codice penale. Ciò significa che all’esito del giudizio ben potrebbe esserne affermata la penale responsabilità in relazione all’infortunio occorso ai tre dipendenti. Il rischio, non solo del coinvolgimento nel processo penale ma delle conseguenze da esso derivanti nel caso di condanna, inducono pertanto a ritenere necessario, nella fase prodromica del rapporto di collaborazione delineare con precisione e attenzione i contenuti della prestazione professionale richiesta.
Se una “consulenza generalizzata”, infatti, consente di escludere in linea generale in capo ai professionisti esterni all’azienda l’assunzione formale di garanti delle norme cautelari in materia di sicurezza non altrettanto consente di mettere al riparto gli interessati da rischi di una chiamata in causa a titolo di «corresponsabilità» in caso di infortuni. Di più. Una tale falsa partenza implicherebbe la necessità di valutare globalmente gli elementi fattuali della vicenda per come concretamente avvenuta i quali potrebbero condurre a una ricostruzione diversa (rispetto agli accordi contrattuali) e più gravosa a danno dell’interessato.

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