La disciplina in vigore a partire dal D.Lgs. n. 235/2003

Risposta

Il lavoro in quota non può essere svolto senza il ricorso all’ausilio di attrezzature di lavoro che consentano l’accesso e la permanenza dei lavoratori alle postazioni di lavoro. La materia relativa alla tutela delle condizioni di lavoro in questo specifico settore ha ricevuto una disciplina iniziale nel D.Lgs. n. 235/2003, provvedimento con il quale, dal 19 luglio 2005, l’Italia recepì le indicazioni contenute nella direttiva 2001/45/Ce, nell’ottica di una riduzione al minimo dei rischi professionali in ambiente di lavoro. Invero, l’obiettivo della “eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico” costituisce una delle misure generali di tutela previste dall’art. 15, comma 1, lettera c) del D.Lgs. n. 81/2008 (già contenuta nella previsione del previgente art. 3, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 626/1994). Il testo unico della sicurezza sul lavoro ha confermato la disciplina precedente, dettando le prescrizioni minime specifiche per l’uso delle scale a pioli, dei ponteggi e dei sistemi a fune nei lavori temporanei in quota. In particolare, sono stati codificati parametri e criteri per la valutazione del rischio di caduta dall’alto, i quali operano come standard legali di riferimento per l’accertamento e la valutazione della colpa specifica dei soggetti obbligati. E’ questo uno dei pochi casi in cui il legislatore ha elaborato criteri utili per la valutazione del rischio prevenzionale, mediante la fissazione di norme cosiddette “programmatiche”. Se è corretto rimarcare, nella perdurante assenza di schemi legali di emanazione istituzionale, e a valenza cogente, l’eccessiva genericità dell’obbligo riferito all’(auto)valutazione dei rischi professionali, ciò non è a dirsi nel caso di specie, ove la normativa ha posto criteri sia assoluti sia comparatistico- relativi, per l’assolvimento degli obblighi di legge. Il quomodo agere debeatur trova così precisi riferimenti normativi, cui il datore di lavoro deve rigidamente attenersi, pena l’insufficienza qualitativa del documento di valutazione dei rischi (dvr).

La filosofia generale di tutela muove dall’affermazione di principio, contenuta nel quarto considerando della direttiva 2001/45/Ce, ove si legge che il rispetto delle prescrizioni minime volte a garantire un maggior livello di salute e di sicurezza in caso di uso di attrezzature di lavoro messe a disposizione per l’esecuzione di lavori temporanei in quota, è un elemento “essenziale per salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. In effetti, nei cantieri edili l’incidenza infortunistica causalmente riconducibile al rischio di caduta dall’alto è elevata, e ancor più elevata la percentuale di mortalità.

Il punto di partenza sul piano del metodo è e rimane, anche per i lavori temporanei in quota, l’individuazione e la valutazione dei rischi professionali: in questo ambito il datore di lavoro, in base a quanto dispone l’art. 111 del D.Lgs. n. 81/2008, ha l’obbligo di scegliere le attrezzature di lavoro “più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure”. Questo criterio principale riceve ulteriore irrobustimento dal criterio della “priorità” delle misure di protezione collettiva (contro le cadute) rispetto alle misure di protezione individuale (le prime offrono in genere una protezione migliore, come riconosce il dettato dell’art. 15, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 81/2008, il quale costituisce il recepimento dell’art. 6, par. 2, lett. d) della direttiva quadro 89/391/Cee, e del decimo considerando della direttiva 2001/45/Ce). Inoltre, le dimensioni delle attrezzature di lavoro devono essere “confacenti” alla “natura dei lavori da eseguire, alle sollecitazioni prevedibili e ad una circolazione priva di rischi”. L’idoneità del sistema di accesso ai posti di lavoro in quota deve essere valutata, al momento della scelta, in rapporto “alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego”, nonché alla possibilità di evacuazione in caso di pericolo imminente e all’assenza di rischi ulteriori di caduta. Al fine di esplicitare la ineludibile ratio legis involgente i criteri di scelta dell’attrezzatura di lavoro intrinsecamente più idonea (tra quelle di omologa species) a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, il citato art. 111 del testo unico detta i criteri per il concreto utilizzo delle singole attrezzature (scale a pioli e sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi) nell’effettuazione dei lavori temporanei in quota, rispetto ad altre attrezzature di lavoro considerate più sicure (alle quali, ciò nonostante, è consentito e lecito rinunciare): si tratta della fissazione di punti di “equilibrio” la cui finalità prioritaria è di conciliare una (limitata) riduzione del livello di tutela, compensata dalla minor durata di esposizione dei lavoratori al rischio derivante dallo svolgimento del lavoro in quota.

I criteri di utilizzo delle singole attrezzature di lavoro possono essere così riassunti:

  • per le scale a pioli, la sussistenza di condizioni di “limitato livello di rischio” e di “breve durata di impiego”, oppure caratteristiche esistenti dei siti, non modificabili da parte del datore di lavoro;
  • per i sistemi a funi alle quali il lavoratore è direttamente sostenuto, il conseguimento di un livello di sicurezza accettabile (quand’anche di entità non limitata) risultante dall’attività di valutazione dei rischi (il che implica appunto la facoltà di rinunciare all’impiego di un’attrezzatura di lavoro considerata più sicura); ciò sempre che si versi in condizioni di “breve durata di impiego”, nonchè di caratteristiche esistenti dei siti, che il datore di lavoro non può modificare.

In relazione alla durata dei lavori e ai vincoli di carattere ergonomico, il datore di lavoro deve prevedere l’impiego di un sedile munito degli appositi accessori. Esaurita la fase valutativa legata alla scelta preliminare dell’attrezzatura di lavoro, nonché la successiva fase decisionale legata al suo concreto utilizzo nel contesto lavorativo-ambientale prescelto, l’ulteriore criterio dettato dall’art. 111, comma 5 del D.Lgs. n. 81/2008, è quello della “minimizzazione” dei rischi specifici insiti nelle singole attrezzature di lavoro. Questa previsione è una declinazione specifica del principio enunciato nella misura generale di tutela, risolventesi nell’obbligo di riduzione al minimo dei rischi professionali (art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008). Tra le misure prevenzionistiche suppletivamente obbligatorie, ove necessario (il documento di valutazione dei rischi ne espliciterà le ragioni positive o negative), sono stati indicati i cosiddetti dispositivi anticaduta, i quali, per quanto possibile, devono prevenire lesioni ai lavoratori, in ogni caso di caduta (sia a terra sia in sospensione) da postazioni di lavoro in quota.

L’art. 111, comma 6 introduce poi il principio della sicurezza equivalente per l’esecuzione di lavori di natura particolare, i quali richiedono l’eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute (con obbligo di immediato ripristino anche nel caso di temporanee sospensioni del lavoro: ad esempio la pausa mensa, o la fine dell’orario di lavoro giornaliero). L’art. 111, comma 7, da riferirsi ai lavori in esterno (“Il datore di lavoro effettua i lavori temporanei in quota soltanto se le condizioni meteorologiche non mettono in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori”), è di non facile interpretazione, in assenza di ogni riferimento all’entità del pericolo per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e alla sua natura astratta o concreta (idest: “imminente”, in quanto rapportata ad un intervallo temporale). Vale la pena di osservare, al riguardo, che il punto 1 dell’Allegato XI del D.Lgs. n. 81/2008 consente l’esecuzione di lavori in quota, pur particolarmente aggravati dalle condizioni ambientali (tra le quali vanno sicuramente ricomprese le condizioni meteorologiche), laddove la citata previsione dell’art. 111, in situazioni di minor rischio (che possono verificarsi anche in cantiere), pone al contrario un esplicito divieto. L’art. 111, comma 8, obbliga il datore di lavoro a impartire disposizioni idonee affinché sia vietato (e rispettato il divieto di) assumere e somministrare bevande alcoliche e superalcoliche ai lavoratori “addetti ai cantieri temporanei e mobili e ai lavori in quota”. Circa poi la valenza delle disposizioni di legislazione regionale inerenti all’obbligo di installazione delle linee vita fin dalla fase di progettazione tecnica dell’opera, va detto che esse non esonerano in ogni caso nè il committente (tramite i coordinatori), né il datore di lavoro dall’attività di valutazione del rischio di caduta dall’alto, valutazione che deve essere effettuata avendo quale criterio la priorità nell’utilizzo delle misure di protezione collettive rispetto a quelle individuali, così come dispone l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008. Ciò significa che l’esistenza della linea vita non risolve di per sé la problematica inerente alla valutazione del rischio, ma ne è solo la precondizione fattuale. Occorre invero distinguere tra dimensione progettuale dell’obbligo e dimensione prevenzionistica di quest’ultimo (rivolta alla tutela delle condizioni di lavoro): la circostanza ell’esistenza della linea vita non indica di per sé che il rischio di caduta sia per ciò solo “minimizzato”, conformemente al combinato disposto degli artt. 15, 111 e 115 del D.Lgs. n. 81/2008. Tra l’altro la linea vita, quale dispositivo di ancoraggio installato permanentemente alla struttura dell’edificio, è solo un elemento del sistema di protezione anticaduta, il quale prevede sempre l’utilizzo associato, da parte del lavoratore, di un dpi (“cordino”). Ed essendo questi dpi, ai sensi dell’art. 4, comma 6, lett. h) del D.Lgs 475/1992, ascrivibili alla “terza” categoria (art. 77 commi 4, lett. h) e 5 lett. a) del D.Lgs. 81/2008), il datore di lavoro ha l’obbligo di informare, formare e addestrare i lavoratori che ne fanno uso. Dunque, l’obbligo di predisposizione/installazione delle linee vita vale sia quale requisito di ambito progettuale sia quale condizione di valenza prevenzionistica.

Sul versante sanzionatorio, vi è poi una notazione singolare: mentre la violazione dell’obbligo di minimizzazione dei rischi professionali, stabilito in via generale, all’art. 15, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008 è priva di sanzione penale, qualora la medesima violazione investa la scelta e/o l’utilizzo delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota, essa è soggetta alla sanzione penale dell’arresto sino a due mesi o dell’ammenda da 548,00 a 2.192,00 euro (artt. 111, comma 5 e 159, comma 2, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2008). Analogamente, la violazione dell’obbligo di adottare, nella scelta delle attrezzature di lavoro, il criterio della priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, stabilito in via generale, all’art. 15, comma 1, lettera i) del D.Lgs. n. 81/2008 non è assoggettata ad alcuna sanzione, mentre lo è la medesima violazione riferita alla scelta delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota (artt. 111, comma 1, lett. a) e 159, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008: arresto fino a sei mesi o ammenda da 2.740,00 a 7.014,40 euro).

Nei casi ora indicati, si registra il fenomeno per il quale una norma avente natura “programmatica” (qual è l’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2008) si converte in norma “contravvenzionale”: il che non è senza conseguenze. Questa “conversione” infatti obbliga necessariamente l’organo di vigilanza a entrare nel merito dei contenuti di qualità del documento di valutazione dei rischi, intervenendo direttamente con la procedura di accertament odi cui al D.Lgs. n. 758/94, laddove, negli altri casi di insufficienza del dvr non costituenti autonoma fattispecie contravvenzionale, l’istituto applicabile quello della “disposizione” prevenzionistica di cui all’art. 11, comma 2 del D.P.R. n. 520/55. Questo “salto di qualità” nella struttura del sistema sanzionatorio rispetto ad altre tipologie di rischio professionale potrebbe giustificarsi con la natura e il grado elevati dei rischi per i lavori in quota (tant’è che nel sesto considerando della direttiva 2001/45/Ce è espressa la valutazione che: “I lavori in quota possono esporre i lavoratori a rischi particolarmente elevati per la loro salute e sicurezza”); tuttavia, non si capisce perché il legislatore non l’abbia esteso a tutte le lavorazioni previste dal D.P.C.M. 14 ottobre 1997, n. 412 (regolamento recante l’individuazione delle attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati), come ad esempio i lavori in sotterraneo e nelle gallerie, anche comportanti l’impiego di esplosivi, ai lavori mediante cassoni in aria compressa e ai lavori subacquei. Nel caso poi che, sotto il profilo della minimizzazione dei rischi professionali nella scelta e/o nell’utilizzo delle attrezzature di lavoro per l’effettuazione di lavori temporanei in quota, ovvero nell’adozione del criterio della priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale, il documento di valutazione dei rischi sia non soltanto insufficiente, ma addirittura carente di valutazione, si pone la questione se siano congiuntamente contestabili sia la violazione dell’art. 29, comma 1 del D.Lgs. n. 81/2008 (al solo datore di lavoro), sia la violazione del successivo art. 111 del decreto (contestabile anche ai dirigenti prevenzionistici), ovvero, in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 del codice penale e dell’art. 298 del testo unico, si debba fare riferimento solo alla seconda. Forse il legislatore meglio avrebbe fatto a prevedere, per la valutazione dei rischi relativi all’effettuazione di lavori temporanei in quota, uno statuto integrativo dell’obbligo generale di valutazione dei rischi di cui all’art. 29 del D.Lgs. n. 81/2008, non assoggettato ex se a sanzione in caso di inosservanza, ma ricadente nella sanzione generale prevista dall’art. 29 ora citato. Vi erano tra l’altro precedenti significativi, come l’art. 11 del D.Lgs. n. 151/2001 (lavoratrici madri), e l’art. 7, comma 1 della legge n. 977/67 (lavoro dei bambini e degli adolescenti).

La notazione finale di sintesi è che la disciplina di recepimento della direttiva europea 2001/45/Ce, attualmente riprodotta nel titolo IV, Capo II del D.Lgs. n. 81/2008, è in linea con la centralità del momento della scelta, da parte del datore di lavoro, dell’attrezzatura di lavoro più idonea; obbligo riconosciuto come originariamente “tipico” dell’attività di valutazione dei rischi professionali, nello stesso testo dell’art. 29, comma 1 del testo unico. L’auspicio è che il richiamo forte – da parte del legislatore – all’obbligo della minimizzazione del rischio, renda questa scelta massimamente funzionale alle esigenze di tutela delle condizioni di lavoro. Per quanto attiene, invece, al principio di continuità normativa tra le abrogate disposizioni del D.Lgs. n. 626/1994 e quelle del D.Lgs. n. 81/2008 che le hanno sostituite, con conseguente persistenza della sanzione penale (salva l’applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio più favorevole), la corte di Cassazione ha già avuto modo di esprimersi in senso positivo con la sentenza n. 26754 (Cass. pen. sez. III, 12 luglio 2010).